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Arancia Meccanica – Speciale Cineforum

Speciale Arancia Meccanica pubblicato dalla rivista Cineforum nel 1973
A Clockwork Orange (1971) Alex

DUE TIPI DI VIOLENZA

di Giacomo Gambetti

PREAMBOLO OVVIO

Un procedimento logico, per la conoscenza e l’approfondimento della conoscenza del film L’arancia meccanica di Stanley Kubrick (tratto dal romanzo A Clockwork Orange di Anthony Burgess, e la traduzione letterale del titolo — che è anche il titolo originale del film — significa «Un’arancia a orologeria»), deve seguire ovviamente alcune fasi obbligate: visione del film, ripensamento della trama e dei suoi significati, analisi stilistica e narrativa del film anche attraverso un rapido esame della personalità del suo autore (il regista), per arrivare a una sintesi: ragione d’essere del film e sua collocazione — occasionale e quanto, o non occasionale — nell’ambito dell’opera del regista. È altrettanto ovvio che una sola visione del film è insufficiente, per una comprensione e anche solo per uno studio appena approfonditi: la soluzione migliore sarà data dal poter assistere alla visione due volte di seguito (intendiamo di un qualsiasi film sul quale si voglia appena riflettere), perché poi il film sia rivisto, dopo le indispensabili indagini critiche, una terza volta, a qualche giorno di distanza. Si è detto più sopra di «soluzione migliore», ma è chiaro che questa è soltanto la soluzione «minima», per un rapporto appena dirozzato fra spettatore e film, perché — e non occorrono molte parole — l’immagine cinematografica scorre con grande velocità dinanzi all’occhio e quindi dinanzi alla mente (i dati di fisica e di psicologia confermano ad abundantiam questa ovvia osservazione), perché sulla pagina scritta si può rallentare e ritornare mentre quella ad immagini è inesorabilmente già superata nel momento stesso in cui la si vede, anche se ha a proprio vantaggio l’efficacia della penetrazione emotiva rispetto alla relativa oggettività di un testo: in quest’ultimo caso, infatti, il lettore deve sopperire di propria iniziativa, con la propria fantasia, a ciò che invece il film gli da già con qualche facilità e immediatezza.

I concetti esposti in questo preambolo sono cosi ovvii e sottintesi che spesso vengono dimenticati, da parte di chi deve o dovrebbe fornire allo spettatore-lettore gli strumenti per penetrare nel film, da chi deve collaborare col pubblico a tale ricerca, e a maggior ragione e più giustificatamente sono dimenticati dallo spettatore, che molto spesso — il più delle volte, purtroppo — non ha da sé l’immediata possibilità di avvicinarsi al film secondo fasi precise e con metodo. Così che le indicazioni più semplici e più naturali rimangono puramente teoriche, o restano dedicate a pochi privilegiati: con tutte le amare considerazioni che di qui derivano, con tutte le spinte per contribuire a modificare — almeno se e quando il cinema è anche conoscenza e quindi anche cultura — lo stato di soggezione e di sottosviluppo in cui lo spettatore è oggi ,di norma, costretto.

Ricordare tutto ciò è per altro doveroso anche e soprattutto nel caso di L’arancia meccanica, film che costituisce un fenomeno commerciale e di pubblico di ampie dimensioni: ha incassato infatti oltre venti milioni di dollari negli Stati Uniti, è da quasi un anno sugli schermi londinesi, ha avuto oltre cinquecentomila spettatori a Parigi, fino a oggi ha in Italia superato negli incassi i due miliardi di lire con oltre quattro mesi di cartellone.

LA TRAMA

Verso la fine del nostro secolo, in Inghilterra, in una proiezione fantascientifica ma non tanto del mondo attuale, Alex è il diciassettenne capo di una banda di teppisti ultraviolenti che offendono, rubano stuprano, uccidono picchiano il prossimo in una gioia sadica condita del non far niente quotidiano, vestiti di costumi quasi austronautici. Alex proviene da una famiglia normalmente piccolo borghese, in casa è pigro e assente, i rapporti coi genitori sono gli stessi dei genitori fra loro cioè di disamore, di sopportazione, di sostanziale estraneità. Una sola cosa ha il potere di sottrarre Alex dal livello animale in cui vive, ed è l’ascolto della musica di Beethoven, il grande Ludwig Van, come Alex dice. Alex e i suoi amici si esprimono in un linguaggio che è un misto di slang e di modi di dire da romanzo d’appendice e da fumetto, da borghesia viziata e da malavita organizzata, una sorta d’esperanto gergale che si alimenta con gli slogan che ogni lingua prende sempre da «un’altra» lingua. Le prodezze più recenti di Alex e dei suoi, quelle cui assistiamo, sono l’invasione — decisa quasi per gioco — di una casa in cui abita uno scrittore (il quale ha sul tavolo un manoscritto, frutto di un lungo lavoro, dal titolo «A Clockwork Orange») con la moglie: vandalismo totale, distruzione, violenza sulla donna sotto gli occhi del marito da parte di tutti i baldi giovani, coperti di maschere orrende: e il massacro di un’altra donna sotto i colpi di una scultura a forma fallica, massacro cui Alex si dedica personalmente con furia via via più accanita. In questa occasione, tuttavia, arriva la polizia e i compagni tradiscono Alex, il quale è catturato e condannato per omicidio. Alex viene rinchiuso in una prigione in cui il capo dei secondini è paradossalmente una grottesca caricatura di un classico capo di secondini, il direttore la caricatura di un direttore, il sacerdote la caricatura di un sacerdote. Per evitare una lunga prigionia e forse qualcosa di peggio, Alex si offre come cavia per un esperimento psicologico sostenuto da un ministro per dimostrare la possibilità di reprimere i sentimenti di violenza nei criminali. Base dell’esperimento è l’obbligare con ogni mezzo il soggetto a «vedere», ad assistere a scene di crudeltà e di violenza parossistica tanto da provocare nausea e repulsione. L’esperimento riesce, ma riesce all’eccesso. Non solo Alex rifugge dalla violenza, anche se provocato, così come dalle attrazioni del sesso: ciò viene dimostrato nel corso di una sorta di spettacolo allestito dai medici di fronte al ministro che, per sue mire politiche, ha patrocinato e voluto l’iniziativa. Ma addirittura perde qualsiasi volontà di reazione, la sua mitezza diviene remissione e sottomissione a qualsiasi violenza altrui, Alex è così in balìa di chiunque. È respinto dai genitori, picchiato e pestato da un gruppo di quei barboni che prima egli prendeva in giro e terrorizzava, malmenato da due dei suoi antichi compagni che, anziché salvarlo dai vecchi inferociti, quasi lo massacrano a furia di botte, ora che fanno parte della polizia. Solo e abbandonato Alex si trova in mezzo alla strada e vede, come nelle fiabe, come all’inizio della storia avevano visto lui e i suoi compari la luce di una villetta isolata nella campagna, vede una luce, chiede ospitalità e entra: ma è davvero la medesima casa nella quale i vandali erano entrati all’inizio, e quando Alex se ne rende conto è troppo tardi. Lì abita ancora lo scrittore, che psicologicamente non è uscito indenne da quella prova tremenda, mentre la moglie è morta.

Lo scrittore si è votato alla vendetta, e vede l’arrivo di Alex debole e malridotto come un segno della soddisfazione di piani di riscatto a lungo covati. Dapprima lo scrittore blandisce Alex, poi lo induce, lo costringe a gettarsi dalla finestra, anche perché ne venga danno al governo. Alex si butta, ma non muore. Viene assistito in ospedale e interviene a questo punto il ministro, che dal gesto di Alex teme uno scandalo, e che riesce e salvare Alex nell’unica maniera possibile: lo «ricondiziona», cioè in modo che ritrovi sì il piacere per la musica di Beethoven ma anche il gusto della violenza che aveva perduto. Di conseguenza Alex sarà usato dal governo al proprio servizio e per i propri fini, e la sua sarà una violenza controllata dall’alto.

IL ROMANZO

Diamo una notizia, intanto: il film è sostanzialmente fedele, negli sviluppi narrativi, al romanzo da cui è tratto, con una basilare differenza nel finale: nel libro ad Alex viene restituita la possibilità di scegliere e di ragionare ed Alex pare proprio si incammini sostanzialmente verso il bene. E ricordiamo un’altra notizia di «cronaca», e tremenda: a Londra, nel 1942, mentre imperversava un bombardamento aereo, tre disertori americani si introdussero nella casa di Burgess e violentarono la moglie, la quale perdette li figlio che attendeva (e morì, nel 1968, senza essersi ripresa dallo shock). Burgess ha scritto il libro vent’anni dopo, nel ’62. Non c’è in lui nessuna acrimonia personale, nessuna vendetta. Il suo arco psicologico e spirituale è cristiano, l’uomo può essere vittima del male, ma è male ancor più grande condizionarne la volontà; se è libero di scegliere l’uomo può scegliere il bene, anche se molti uomini scelgono il male.

Non istituiamo confronti fra romanzo e film, che secondo noi sarebbero superflui e improduttivi trattandosi, libro e film, di due entità autonome e autosufficienti, quale che sia l’origine ad essi comune o no. Consideriamo però la scelta che Kubrick ha effettuato nello sviluppo del racconto, come rivelatrice del significato che egli ha voluto dare alla sua storia. Kubrick nella sostanza presuppone due tipi di violenza, quella privata e quella di Stato, entrambe da condannare: in mezzo sta soltanto una forma ibrida di rimbecillimento. Arte (musica), sesso, la vita in tutte le sue manifestazioni restano subordinate a tale prospettiva, che del resto, secondo il regista, è giustificata anche dalle condizioni in cui l’uomo si trova oggi, sempre più oppresso da simboli autoritari di violenza psicologica ammantata di buone maniere e di consumismo efficientistico. Al di là delle buone maniere, ecco uscire dall’uomo soltanto l’aspetto negativo della sua psiche, l’aspetto sempre represso ma mai vinto del cinismo, della violenza, della distruzione, magari dell’auto-distruzione.

DA BURGESS A KUBRICK

Pessimismo totale, dunque, in Kubrick, il quale vedeva «forse» soltanto in modi diversi da quello terreno (ricordiamo il suo 2001:Odissea nello spazio), la «eventuale» possibilità di fondare nuovi e migliori principi di vita. Burgess è fedele al libero arbitrio santagostiniano. Egli ha dichiarato: «Alex è un individuo che agisce liberamente, che usa cioè il libero arbitrio, e che quindi compie il male liberamente anziché il bene coattivamente. Con il mio libro io cerco di dimostrare che è preferibile vivere in un mondo in cui la violenza è un atto volontario, e viene accettata in piena coscienza, piuttosto che in un mondo in cui la violenza è bandita per mezzo di meccanismi e trattamenti che privano l’individuo della sua libertà e dei suoi diritti. E’ una riabilitazione dell’uomo medioevale, che combatte contro un mondo in cui non è più possibile neanche farsi guerra. Privare un individuo della sua libertà e del suo diritto di essere malvagio equivale a privarlo del suo diritto di godere della visione divina». Nel discorso di Burgess c’è una parte di verità e una parte di paradosso, come è evidente anche senza approfondire di troppo concetti che porterebbero lontano e su cui altri con maggiore preparazione di me dovrebbero intervenire. Ma la sua tesi conduce, in fondo, a oggettivizzare il personaggio di Alex proprio mentre Kubrick, a quel personaggio è estremamente vicino.

Kubrick è «nel» mondo e nel mondo di oggi: è nel mondo anche con 2001, lo è tanto più oggi quando quello della violenza è un tema di fondo, a cui nulla sfugge. Kubrick tutto sommato preferisce il personaggio di Alex nella prima fase di violenza, anziché nella seconda, che non esita a condannare; e condivide — in questo senso pienamente — l’adesione di Burgess per la libertà individuale, l’indipendenza temperamentale, adesione che nel regista è rigorosamente laica. Inoltre è presente in Kubrick la polemica — che diviene condanna — con la meccanizzazione e i perfezionamenti terapeutici della civiltà contemporanea arrivata a un altissimo grado di condizionamento tecnico: in questo senso il suo discorso è il medesimo di 2001. E se in 2001 c’era una possibilità di ripiegare in altri modi, qui Kubrick conferma la sua disistima verso i «terrestri» e i contemporanei.

IL CINEMA DI KUBRICK

Abbiamo ormai ricordato più volte, inevitabilmente, 2001: Odissea nello spazio, ed è il momento di accennare un poco più per esteso agli altri film di questo regista che si avvicinò al cinema nel 1951 con due brevi cortometraggi, e con un film, nel ’53, su alcuni soldati dispersi, sulla linea del fronte, Fear and Desire, mai arrivato in Italia. Kubrick era un noto fotoreporter, affermato e ben retribuito, e abbastanza ricco anche di famiglia. Nel cinema cominciò con difficoltà e con lentezza, anche e soprattutto dal punto di vista del successo commerciale: ma anche la stima della critica l’ottenne soltanto col quinto film, il famoso Orizzonti di gloria (del ’57), quando la critica, appunto — salve rare eccezioni — rivalutò anche i film precedenti, Il bacio dell’assassino (’55), e Rapina a mano armata (’56). Si tratta di due film complementari, in un senso, l’uno all’altro: il primo — di cui Kubrick è anche soggettista, sceneggiatore, produttore, montatore, capo della fotografia — è soprattutto sulla strada di una accanita ricerca e sperimentazione della tecnica narrativa e stilistica, mentre il passato di fotoreporter dell’autore viene fuori con approfondimento in una New York vista con occhio assolutamente anticonformista e originale; il secondo ha meno cura dei mezzi esterni per badare di più al sodo dei significati: il ritmo scanditissimo secondo il quale la rapina all’ippodromo viene eseguita dagli uomini coperti nel viso da calze di seta, la fine negativa degli autori del colpo segnano i grandi temi del cinema adulto di Kubrick; i «manichini» de Il bacio dell’assassino sono ora gli uomini della Rapina, i robot di 2001, di Stranamore, fino a Alex e compagni del film di oggi, e sono gli ufficiali spietatamente e freddamente assassini — essi stessi — di Orizzonti di gloria. Se ne Il bacio dell’assassino una qualche frattura fra tecnica e racconto era constatabile, nessun film di Kubrick ha mai più sofferto di tale disarmonia.

Ma riandiamo a Orizzonti di gloria, il grande lancio internazionale di Stanley Kubrick con un film di spietata denuncia del militarismo e degli errori e delle colpe commessi in nome di valori malriposti e male interpretati, valori (il coraggio, l’amor di patria, la disciplina, ad esempio) che non di rado divengono disvalori. Orizzonti di gloria suscitò polemiche fin dal momento in cui fu girato, fu a lungo ostacolato in Francia, perché i protagonisti — negativi — erano alti ufficiali francesi sul fronte della prima guerra mondiale, generali che emanavano ordini cervellotici e fucilazioni in massa per nascondere le proprie incapacità. Il tema della violenza, presente fin dal primo film, è qui esasperato al massimo grado, e per la prima volta in Kubrick — e forse nella maniera più alta — il discorso è chiarissimo: si tratta infatti di violenza «apparentemente» legittima, perché violenza esercitata da parte di chi detiene il comando e in condizioni anomale ed estreme quali si presentano sulla linea del fronte in tempo di guerra. Ma il discorso, nell’autore, unitario, continuo, e il tema univoco, dai banditi e dai rapinatori dei due film del ’55 e del ’56, è quello della violenza: con mirabile stringatezza drammatica — oltre che con grande coraggio civile — in Orizzonti di gloria, un film senza difetti e con ottime qualità su tutti i piani; poi, tre anni dopo, con una intelligente capacità di «sforzatura», nel senso giusto, nel senso voluto dall’autore, in un film che «avrebbe potuto essere» uno dei tanti banalissimi film dedicati da Hollywood ai personaggi e alle vicende dell’antica Roma. Spartacus (’60), magari con un po’ più di cura nelle scenografie, nei costumi, nella trama, nella interpretazione avrebbe potuto essere un Quo Vadis? qualsiasi, ma diventa invece con Kubrick un discorso sulla libertà e sulla violenza, ancora una volta, col personaggio dello schiavo romano protagonista di una aspra rapida e sfortunata lotta contro Roma, dal ’73 al 71 a.C., lotta destinata a una conclusione sfavorevole fin dall’inizio, ma anche per questo più eroica e umana. Forse il film più di compromesso che Kubrick ha diretto è Lolita (’62), produzione Metro dal romanzo di grande successo di Vladimir Nabokov con qualche morbosa curiosità erotica. Ma raccontando la storia del professor Humbert Humbert e della dodicenne seduttrice-sedotta Kubrick mise in rilievo un altro aspetto importantissimo della sua personalità, cioè l’ironia, il grottesco, sui personaggi e sull’ambiente, non solo l’ambiente limitato in cui i personaggi vivono, ma l’ambiente in generale di cui sono frutto ed espressione nello stesso tempo.

Queste caratteristiche sono sviluppate e rapportate su una grandissima scala mondiale nel film successivo, Il dottor Stranamore, o come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba (’64), prima sintesi — prima di 2001 e dell’Arancia di oggi — fra i temi della violenza nel mondo contemporaneo, e la chiave — nuova — della satira amara. Stranamore manca di rispetto a quegli stessi generali che, presi sul serio, non facevano bella figura in Orizzonti di gloria, sottolinea il pericolo incombente sull’umanità di una distruzione atomica per le cause più esterne e più banali, anche per «non volontà»: è già, quella di Stranamore, la visione di una umanità senza speranza e senza prospettive, in mano a pochi congegni manovrati non di rado da individui che potrebbero essere pazzi o comunque deformati in una loro limitata visione del mondo. 2001:Odissea nello spazio (’68) va da un lato alle origini dell’uomo ma dall’altro ritorna alla fine, come Stranamore, dopo Stranamore. Il mondo, sulla Terra, è finito: l’uomo ricomincia a vivere altrove? La forza delle grandi potenze, quelle stesse che hanno fatto fallire la vita sulla Terra, si è collegata (anche la lingua parlata nel film è indicativa, poche parole e un certo gergo russo-inglese) si è collegata per aprire nuovi orizzonti negli spazi lontani.

Con quali prospettive? Forse lassù riprenderà un giuoco tragico, o forse tutto ricomincerà positivamente, da capo: ma quel che è chiaro è che da noi la storia — almeno quella che noi conosciamo — è finita.

IL FILM DI OGGI

La coerenza e la qualità del pensiero di Kubrick sono dunque evidenti, mi pare, nell’arco di tutta la sua opera. E ora i temi fondamentali cari a questo autore — uno dei più attenti e importanti del cinema di oggi, per il rigore con cui lega le proprie idee a una grande e originale capacità figurativa e stilistica — sono facilmente riconoscibili, alla luce degli elementi che qui si sono esposti, anche in L’arancia meccanica (1972). Anche nell’Arancia lo humour lacerante e tragico di Kubrick è agghiacciante e senza speranze, e varrà la pena sottolineare a questo punto la grande aderenza della scenografia e del colore a una effettistica non gratuita e non fine a se stessa. Ma è anche questo l’aspetto debole — l’unico, a mio parere — del film di Kubrick, che infatti soffre di un certo impaccio barocco, di una sovrabbondanza figurativa che in qualche occasione corre il rischio di distrarre lo spettatore e di rendere meno concreti obiettivi e sostanze. La lingua parlata nell’Arancia meccanica, d’altra parte, se nel viluppo espressivo fa un passo avanti rispetto a quella di 2001 e comunque è congeniale a Kubrick — è pur anche quella stessa del romanzo di Burgess, un misto di slang non privo di influssi russo-americani che da una dimensione molto ampia ai significati simbolici del film. Purtroppo il doppiaggio — per quanto accurato, ben più accurato del solito, nelle consuetudini della distribuzione italiana — fa perdere molti di questi sapori. Un’altra situazione un poco equivoca, in questa occasione — e per la prima volta in Kubrick — è nel personaggio di Alex, cui non mancano doti di «simpatia» spettacolare: finora nessuno dei personaggi negativamente violenti dei film di Kubrick aveva goduto di questo privilegio, da parte dell’autore. Infatti, anche nell’Arancia il personaggio del capo dei secondini, ad esempio, è sforzato da una satira implacabile. Forse non è inutile sottolineare, comunque, che Alex è dalla parte dei «più», gli Alex siamo noi; il capo delle guardie è dalla parte degli «altri», dalla parte del ministro e della équipe dei medici. Come sempre nei film di Kubrick, mirabilmente in ruolo sono gli attori, bravi e, più ancora che più bravi, perfettamente identificati nei personaggi.

* * *

LA DENUNCIA E L’ASSOLUZIONE

Non è mancato, anche per L’arancia meccanica, chi — trascurando l’imbecillimento che quotidianamente diffondono film stupidi e di quart’ordine — ha creduto di denunciare per oscenità il film all’autorità giudiziaria.

Ne è venuta, a Milano su richiesta del Pubblico Ministero De Liguori, una sentenza di assoluzione del Giudice Istruttore Mitelo che riteniamo utile pubblicare per esteso perché, al di là del linguaggio giuridico e di alcune opinioni di carattere critico-estetico che possono o no coincidere con quelle di ciascuno di noi, ci sembra trattarsi di una sentenza di estremo interesse proprio nel momento in cui si parla — sembra in modo più concreto del solito, finalmente, dopo undici anni — dell’abolizione della censura. In attesa di discutere a fondo del problema dell’abolizione della censura, censura che è — a mio parere — da sempre in vigore «malgrado» la Costituzione, che non la giustifica e non lo vuole; ma del problema del codice penale in rapporto non tanto e non solo all’opera d’arte, ma in rapporto alla libertà di pensiero e di espressione), una presa di posizione come quella del giudice milanese è un segno indubbiamente incoraggiante. Avessero avuto il coraggio anche gli autori a combattere veramente, coi fatti, la censura amministrativa, in questi anni.

LA SENTENZA

«Il PM, letti gli atti relativi all’esposto del Dott. Eugenio Benedetti inerenti il film L’arancia meccanica, presa diretta visione della pellicola in esame, osserva quanto segue:

«l’autore narra, nella sua opera, le disavventure di un giovane che passa il suo tempo, come capo di un terzetto di drogati, a commettere prepotenze, brutalità e violenze del tutto gratuite ed ingiustificate.

Durante la proiezione si assiste a scene di violenza, lesioni, percosse, sangue… tanto sangue; nudi di donne, stupri etc. etc., ma tutto ciò a parere dello scrivente non integra assolutamente l’ipotesi delittuosa di cui all’art.528 c.p. ne altra che si vorrebbe ipotizzare. La pellicola infatti è tutta percorsa e pervasa da un sottile velo satirico-grottesco che annebbia le scene più « crudeli » facendone sfumare i contorni e stimolando lo spettatore a ridere amaramente delle disavventure di questo ragazzo preso e stritolato da una società che è violenta in tutti i livelli. Le immagini che si susseguono, ora con un ritmo frenetico alla «ridolini», ora con un «rallenty» quasi esasperato, non indulgono né si compiacciono minimamente di mostrare allo spettatore alcunché possa offendere il comune senso del pudore.

In altri termini, com’è giurisprudenza costante della Cassazione, un’opera cinematografica di indiscutibile pregio artistico com’è quella in esame, nella quale vengono inserite manifestazioni di sensualità e di violenza in perfetta coerenza logica e narrativa con il tema svolto e per fini oserei dire moralizzatori, non può certamente essere considerata oscena.

In definitiva il film ipotizza una società (proiettata nel futuro a giudicare dalle strutture tecnologiche) nella quale la violenza è in definitiva coltivata ed accettata da tutti, anzi in taluni casi è strumentalizzata dai centri di potere (il governo) a fini di propaganda settoriale e personale (il ministro degli interni).

In un tale contesto sociale deve essere interpretata l’intera vicenda. Alla migliore comprensione dell’opera torna utile richiamare la teoria della dinamica della aggressività: in qualsiasi gruppo sociale, la condotta del singolo corrisponde, nella media, alle domande ed alle attese degli altri e l’adeguamento della condotta individuale alle attese collettive conferisce alla prima il carattere di condotta legittimata. Ne consegue quindi che in una società violenta è normale comportarsi con violenza. Infatti se il giovane protagonista è indubbiamente un violento, violenti sono i suoi genitori che lo cacciano di casa e violente in definitiva sono le sue vittime: i vagabondi,gli amici poliziotti, il vecchio paralitico, e violento è in definitiva lo stesso governo che attraverso una cura pseudo scientifica, coarta la personalità e la psiche stessa dei suoi cittadini quando vuole curare la delinquenza annullando la personalità dei « pazienti ».

Il regista non esprime palesemente dei giudizi, lascia allo spettatore di dire una parola conclusiva sulle conseguenze di un contesto sociale così strutturato. Lo spettatore quindi non esce certamente scandalizzato né offeso nel suo senso di pudore, ma si sente indotto a riflettere e perché no, anche a migliorare.

P.Q.M.

Chiede che il Giudice istruttore in sede, voglia pronunziare, per le ragione suddette, decreto di non doversi promuovere l’azione penale, non ravvisandosi nelle scene e nel contesto del film l’Arancia Meccanica, estremi di reato».

IL GIUDICE ISTRUTTORE

«Osserva: le accuse da più parti rivolte riguardano le scene di oscenità e di violenza. Quanto alle prime, non possono reputarsi oscene le nudità femminili e le congiunzioni carnali quando le une e le altre sono ottenute con la forza: l’istintiva umana avversione alla violenza impedisce nello spettatore il risvegliarsi della sensualità, cui può invece indurre solo una spontanea voluttuosa mostra o offerta del nudo. La ripugnanza per la violenza prevale in altri termini sulla sensualità annullandola.

Ricorrono invero nel film anche scene di consensuali congiungimenti carnali (fra il medico e l’infermiera, tra Alex e le due ragazze, tra Alex e la donna del sogno), ma nel primo caso non si assiste all’atto sessuale che è soltanto intuito e negli altri due casi le relative scene si svolgono rispettivamente alla «ridolini» ed al «rallenti», divenendo così irreali e quindi inidonee a suscitare lussuria o libertinaggio»

«Quanto alle scene di violenza il discorso è diverso. È vero che ne ricorrono, ma esclusivamente nella prima parte del film, quando cioè è necessario, anzi indispensabile mostrare la personalità del protagonista nella sua più spietata, brutale espressione al solo scopo però di meglio far risaltare nella seconda parte il suo diverso comportamento sociale, alieno da ogni forma di violenza, quale effetto di un trattamento terapeutico cui è stato sottoposto. Dette scene non sono pertanto fine a se stesse e tanto meno mirano ad una apologia della violenza: esse entrano invece con carattere di necessità nell’economia dell’opera, in perfetta coerenza logica e narrativa col tema svolto dal regista.

E’ ben vero che la trasformazione del protagonista non è determinata da una libera scelta, ma dalla applicazione del predetto trattamento terapeutico che gli fa venire la nausea appena avverte il ritorno dello stimolo della violenza, ma ciò, se impedisce di conferire dei meriti, non significa affatto che dalla violenza ci si può salvare solo per effetto di un metodo scientifico. Anzi, questo metodo, poiché solo « meccanicamente » (Arancia meccanica) doma nel protagonista l’istinto della violenza, si rivela in definitiva un fallimento sotto il profilo sociale e morale perché non gli impedisce di tornare a male operare, come quando non resiste alla tentazione di accettare la proposta fallagli da un Ministro di essere strumentalizzato a fini politici. Ciò sta sostanzialmente a significare che, ove il mutamento della condotta umana non è il risultato di una libera scelta, di una decisione presa con la profonda convinzione della sua rispondenza ad un più corretto sistema di vita, di un profondo discernimento insomma tra il male da ripudiare ed il bene da accettare, è sempre un mutamento effimero inesorabilmente destinato a naufragare ed a cedere alla prima tentazione del male.

In ciò il film rivela un insospettabile intento moralizzatore.

Né le scene, dunque, ne il tema svolto integrano l’ipotesi delittuosa di cui all’art. 528 C.P. è di altro reato.

P.Q.M.

Letto l’art. 74 C.P.P.; su conforme richiesta del P.M.

DECRETA

Di non doversi promuovere l’azione penale in ordine al sopracitato esposto non ravvisandosi nel film L’Arancia meccanica gli estremi di alcun reato ed ordina l’archiviazione degli atti».

* * *

RIPROPOSTA DELLA VITA

di Achille Prezzato

«Quando religione, scienza e morale vengono scosse ed i pilastri esterni minacciano di crollare, l’uomo distoglie lo sguardo dalle cose esterne e lo rivolge a se stesso»
—Vassilji Kandinski – «Lo spirituale nell’arte».

Come i suoi contemporanei, Stanley Kubrick vive in un’epoca di crisi, di sfiducia e di rifiuto dei valori tradizionali, celebrati dalla bimillenaria civiltà occidentale e pervicacemente ammanniti dai suoi cultori, dai suoi adepti, ma non aderisce a questa formulazione della conversione all’interiorità, anzi parte dalla constatazione del processo avanzato di dissacrazione di quei valori per una seria, infaticabile ricognizione non solo intorno alle origini della crisi, ma ponendo in questione la validità stessa di quei princìpi, di quelle credenze di cui è evidente e conclamato il decadimento, di cui si conduce una incessante, varia, disincantata denuncia.

Ormai la civiltà delle macchine, la tecnologia sempre più avanzante, il processo massificante ed omniassorbente in esse implicito, vanno proponendo un modello di realtà in cui il « vero » individuo non trova più posto: ognuno subisce un processo di reificazione, alla cui base stanno le contraddizioni di una socializzazione capitalistica e di una capitalizzazione socialista e di cui la cultura (come espressione dell’attività umana creativa), dato il suo carattere epigonale, il suo stile imitativo, sincretico, funzionale, asettico, è soltanto l’involucro museale di una sicurezza che già ha incominciato a vacillare. Difficilmente penetra in questo stato di cose (una qualsiasi apertura in tal senso è drasticamente condannata) la spinta salutare verso un’emancipazione dalle traduzioni, ma pur tuttavia si avverte latente e mostruosa l’angoscia del vuoto di fronte all’abisso di una realtà estraniata.

A questo mondo disgregato, rovinante, a questa sensazione panica di impotenza Stanley Kubrick oppone una « scelta », quella di tracciare i caratteri di questa «assenza» di vita e di ricostituire una nuova totalità vivente in cui l’uomo possa integrarsi e riconoscersi; quella di riproporre la Vita come grande divinità onniavvolgente, come sterminato tappeto di molteplici corrispondenze sul quale l’uomo possa adagiarsi, camminare, amare, vivere, sentendo pienamente se stesso come parte di un tutto contessuto di naturalità e di razionalità.

Per Stanley Kubrick la relazione uomo-società deve essere anticonformista e rivoluzionaria, in un rapporto non di disadattamento (il soggetto si allontana dalla società in un netto totale rifiuto della medesima), bensì adulto e realistico, non sentimentale, ma razionale, «poiché la forza della ragione sta proprio nel porre su basi concrete e materiali quanto la società vorrebbe posto su fondamenti superstiziosi e su ideologie». E l’atteggiamento razionale verso ciò che ci sta attorno è possibile solo a chi accetti di viverci continuamente dentro, l’accolga come l’unica realtà esistente, ma non come l’unica storicamente possibile: non quindi la ricerca di un mondo lontano ed innocente dove sia realizzabile la salvazione degli umani, ma la disamina feroce, ironica, sicura, delle tortuose angosce, delle sfibranti nevrosi, degli oscuri tormenti delle generazioni attuali, la considerazione attenta delle massime espressioni culturali e politiche di un’epoca, l’esplorazione audace, pacata, penetrante e ferma dell’artificiosa immagine medusea della realtà, carica di suggestioni inquietanti ed oscuramente distruttive, quale coacervo di irruenti forze primordiali.

Il film di Stanley Kubrick Arancia meccanica non è del tutto fedele al testo letterario di origine, firmato dallo scrittore Anthony Burgess: Kubrick si stacca dal romanzo, sia omettendo alcuni episodi (si veda ad esempio la parte dedicata alla vita di Alex in carcere), sia rifiutandone la conclusione pessimistica (evidente dalla edizione italiana dell’opera, essa non traspare da quella francese pubblicata a puntate da «Le nouvei observateur»), giungendo ad arricchirlo con il peso della propria cultura e del proprio stile, cogliendone ed esaltandone ciò che serviva al suo discorso ed escogitando situazioni, costruendo personaggi ed ambienti in maniera autonoma, del tutto personale, veramente creativa. Poco convincente e da respingere appare l’opinione di quanti condannano il film poiché vi vedono unicamente un’esaltazione della violenza: adottare questa posizione equivale a negare a Kubrick, aprioristicamente, il diritto di esprimere una propria opinione, una personale visione del mondo; è rifiutare, forse, di veder chiaro in se stessi ed attorno a se stessi; significa non voler prendere atto con Kubrick che il mondo è costruito, vive, si perpetua nella violenza, ad ogni livello, in ogni relazione. Pertanto è possibile immaginare all’origine di tutto il discorso di Arancia meccanica l’asserzione secondo la quale « ogni potere genera violenza » e Kubrick si impegna attraverso i momenti della vicenda della sua opera ad illustrare questo assunto.

La sua «favola filosofica» è ricca di riferimenti immediatamente evidenti (ad esempio, il ricorso alle manifestazioni della «pop» e della «op art», le quali nel contesto della pellicola non solo hanno valore come materiale plastico, ma implicano una considerazione intorno alle mete raggiunte dall’espressione artistica in una con la disumanizzazione dell’individuo) e di altri fruibili dopo ponderazione, per la quale prendono sostanza vantazioni intorno al ruolo dell’educazione, della religione, vengono alla superficie fermi giudizi intorno alla manipolazione delle più alte espressioni culturali: ne risulta un quadro tragico, apocalittico dell’esistenza dominata da una forza che utilizza, per mantenere il suo ordine e l’ingiustizia, dei mezzi legalizzati, legali, di coercizione, dei quali vanta il possesso una ristretta oligarchia.

Per Stanley Kubrick la società non appare spontaneamente per quello che è, ma da di sé un’immagine distorta: occorre sostituire alla ricezione spontanea del suo dato fenomenico la comprensione scientifica della sua sostanza.

Alex, il protagonista di Arancia meccanica, è una figura, che riscuote una sorvegliata simpatia in Kubrick, nella quale egli vede l’umanità e della quale egli traccia la vita, la «passione», la «morte» ed il «trionfo», scegliendo a tal fine eloquenti brani musicali e privilegiando fra i modi di ripresa e di racconto la carrellata che da piani più o meno ravvicinati muove rapidamente all’indietro in una con l’uso di obiettivi dalla focale corta: non è tanto questo un «distacco» terrorizzato o scandalizzato nei confronti della vicenda, della materia narrativa, quanto una scelta da cui emerge un senso di fascinazione e che nel movimento e nella scrittura ribadisce la prigionia di un essere sperduto, condizionato, in trappola e nel contempo ne presagisce e ne celebra la potenziale carica di liberazione.

Alex è un personaggio del nostro tempo, che vive in una società «permissiva», articolantesi attraverso varie espressioni di violenza, e costruita nei secoli sovvertendo gradualmente la natura umana, educandola attraverso il soffocamento dei suoi originali istinti vitali caratterizzati da una complessa polarità, votandola ad essere ad un’unica dimensione. Se «ogni potere genera violenza», tale potere vegeta nella violenza, nel crimine e si edifica una società criminale dove ogni essere vive in un clima di sopruso, è un’entità programmata in tal senso1, cui sono imposti e che impone rapporti di natura aggressiva. Ora, se i detentori del potere, per loro finalità egemoniche volendo rendere parte dell’umanità «buona» la sottopongono ad un trattamento terapeutico (nel film «trattamento Ludovico») che toglie al singolo qualsiasi stimolo aggressivo, anche se demandato alla propria difesa, essi fanno ulteriore violenza ai membri della compagine sociale su cui stendono il loro dominio, poiché, non mutando la struttura profonda della stessa, rendono l’individuo inadatto alla vita, lo pongono alla mercé della ferocia dei suoi simili.

Una «redenzione» così ottenuta condanna fatalmente il «rendente»: in un consorzio umano ove tutto gronda violenza, l’individuo non può, non deve essere mite: egli può essere portato ad impiegare tutta l’eredità culturale e a sua disposizione per una affermazione propria, individualistica, assoluta, ma giunge, grazie alla stessa, a piegare se stesso e ad essere un anonimo strumento del potere, poiché ai suoi fini deve applicarsi la «naturale» criminalità: chiunque tenda ad isolarsi come Alex, chiunque si opponga ai disegni dei despoti non è tollerato, deve essere recuperato (il cappellano della prigione cerca di portare Alex sulla buona strada, di convincerlo della bontà degli insegnamenti evangelici e spera che un giorno si pieghi ai suoi desideri) e strumentalizzato (come lo scienziato dottor Brodski, come i compagni di Alex, divenuti «naturalmente» dei poliziotti) o eliminato anche fisicamente (come l’intellettuale, vittima di Alex e poi suo carnefice, avulso dalla società). Ma può anche darsi il caso che il criminale solitario, — autentica personificazione dei caratteri di un organismo brutale — restio a mettere a disposizione della comunità la propria aggressività, venga perseguito dai despoti e, sottoposto a tecniche di condizionamento che lo liberano dai suoi istinti «naturali», venga costretto ad essere «buono» senza che ci siano obiettive possibilità in tal senso: non più provvisto della «naturale» prepotenza, egli non riesce e non può far più parte del tessuto sociale, è respinto dalla società, dalla famiglia, dai suoi simili, non possiede più alcuna delle principali qualità dei viventi, l’amore della vita, l’amore del linguaggio, di qualsiasi espressione umana (anche musicale), l’amore per la bellezza, per la donna (il serpente che custodiva gli è stato ucciso) e viene usato da frange dell’opposizione all’«establishment» e votato al suo destino, la morte.

Ma questo condizionamento, questa diuturna manipolazione, questo calvario si conclude in Arancia meccanica con la morte, ma non dell’uomo, ma di Alex come strumento, come entità unidimensionale, che la caduta dell’angelo dannato dalla compagine sociale, dalle tradizioni, dopo un angustioso esilio, si conclude con il regno. In Alex scatta un processo di chiarificazione, di presa di coscienza: sul letto, avvolto nelle bende, come una mummia, tisicamente costretto all’immobilità, lascia che le sue capacità mentali ripercorrano i momenti della sua esperienza.

Geneticamente l’uomo nasce programmato: per ereditarietà è un delinquente ed una volta privato con interventi di natura psicochimica di tale istinto, egli risulta vergine, non è più della società in cui è stato generato, è un uomo nuovo che ha la possibilità di scoprire che il mondo è diviso in due categorie, coloro che detengono il potere e lo amministrano e coloro che sono sottomessi a tale potere, fra padroni e servi, fra coloro che comandano e coloro che eseguono degli ordini. Alex, l’uomo nuovo, sceglie di essere fra quelli che militano nella prima schiera: egli ha scoperto il volto vero dell’autorità, la sua vera natura, una forza feroce che tutto soggioga per la propria perpetuazione: la sua violenza solitaria non gli ha portato che guai, la sua bontà artificiale lo ha reso maggiormente vittima. Egli ha compreso che le più alte conquiste ed espressioni della cultura sono permesse e valorizzate solo in funzione della continuità di un sistema (Ludwig Van Beethoven è l’antitesi polare di Adolf Hitler: i documentari nazisti muovono in lui alla repulsione, al disgusto, alla condanna quando ad essi sono accostate le note del Quarto Movimento della Nona Sinfonia che per Alex è distruzione, annientamento, prevaricazione, che scatena in lui «visioni» di violenza e di morte come in genere la musica che gli è congeniale e così la decisione di dare una lezione ai compagni, gli è suggerita dalle note di La gazza ladra di Gioachino Rossini); che l’educazione si impegna a far degli uomini delle vittime, dei servi contenti e soddisfatti della loro condizione; che la religione copre delle credenze che si rifanno a testi che esaltano il sacrificio cruento, la lotta accanita per il bene, che condannano spesso in maniera ambigua l’amore carnale (sintomatiche a questo proposito le immagini che la mente di Alex elabora durante la sua lettura dei testi sacri: egli è un centurione romano che infierisce sul Cristo sulla via del Calvario; egli è con i Maccabei e scanna i nemici con esaltata furia omicida; egli si concede alla appagante egoistica violenza degli ozi carnali. Sintomatico è anche il «balletto» della statuetta del Cristo, ottenuto con il montaggio di singole parti del corpo — braccia levate, gambe protese — ed indicanti un avanzamento ineluttabile, gioioso, radioso dell’umanità sulle note della «Corale» in una apoteosi del sacrificio e del sangue, in una voluttà di sofferenza. A tale «balletto» succedono poi le visioni di distruzione e di terrore di cui alla nota n.2.

Alex si è forgiato la convinzione che qualsiasi organismo sociale coltiva la violenza (egli durante la convalescenza afferma alla dottoressa, che gli sottopone dei «test» per controllare le sue reazioni emotive, che ha sognato a lungo di persone che lavorano nel suo cervello) e coglie l’occasione di entrare in questo organismo intessuto di prevaricazioni con la mente sgombra, con le idee chiare: l’eredità culturale della società non porta che alla morte, alla disperazione e di qui la necessità di assumerla criticamente, personalmente, nella convinzione che, se «homo est homini lupus», è necessario inserirsi coscientemente in tale universo di sopraffazione, servendosi del potere così com’è, con la possibilità, magari del tutto ipotetica, di cambiarlo.

Alex compie un lungo penoso viaggio verso la conoscenza di se stesso e del mondo: da essere schiavo di istinti ereditari, coltivati e potenziati dalla società, da ipotetico strumento egli si trasforma in soggetto d’azione optando lucidamente per un potere che ora lo serve, lo nutre, è ai suoi piedi (la sequenza con il ministro dell’Interno), dopo averlo cresciuto e dopo aver tentato di condizionarlo definitivamente utilizzando forze di diversi settori dell’apparato statale ed appoggiandosi sull’azione dei rappresentanti della sfera ecclesiastica: lo Stato e la Chiesa si contendono l’individuo in Arancia meccanica, ne vogliono la completa resa e sottomissione, ma, mentre il primo persegue i suoi fini senza troppi riguardi, la seconda mira allo stesso risultato con maggiore oculatezza e circospezione formalmente appellandosi alla integrità della persona umana, alla sua libertà, alla sua facoltà di scelta (si veda la sequenza, successiva a quella della dimostrazione del successo del «trattamento Ludovico», in cui Alex ha su una spalla la mano del ministro dell’Interno soddisfatto della riuscita dell’esperimento, mano che viene ritirata quando il cappellano della prigione, rivendicando che Alex non è ormai più libero, pone sulla spalla la sua mano e ve la lascia sino alla fine della sequenza e ci sembra che Kubrick voglia chiaramente significare che le manipolazioni della coscienza sono più durature, agiscono più in profondo).

Ancora una volta Stanley Kubrick si richiama all’intelligenza, al potere liberatorio insito nelle facoltà dell’individuo, che deve valorizzare se stesso e in se stesso ciò che appartiene alla sfera della coscienza e ciò che è dominio dell’inconscio, approntandosi per il futuro.

Kubrick asserisce che, se «ogni potere genera violenza», per cambiare il mondo è necessario conoscerlo sperimentandolo ed Arancia meccanica attraverso i tempi circolari e l’andamento a spirale della sua vicenda, si adopera acché si conosca la realtà, si prenda coscienza con Alex dei raggiri cui la mente umana è stata ed è sottoposta da conclamata «autorità», da vantati «testi sacri», dalla proposta di esemplari personalità e si possa alla fine scoprire la genuinità delle «presenze» culturali, avvicinarsi ad esse e farle proprie con animo sgombro da qualsiasi condizionamento, come elementi di emancipazione e di progresso («eh, amici, ero finalmente guarito», ma a queste parole cui si aggiungono le note della Nona Sinfonia dell’«amato» L. Van Beethoven non succedono visioni ed immagini di violenza, di distruzione, di incubo, poiché la musica, quella musica, è gioia, è pienezza dell’essere e di vita ed Alex gioisce del proprio corpo e di quello della donna in una trionfale comunione di sensi e di affetti, sotto gli occhi di altri viventi che ammirano compiaciuti la scena come se tutto — ed in effetti lo è — fosse naturale).

Per Stanley Kubrick, come per Michail Aleksandrovic Bakunin, «distruggere è creare»: l’incedere storico si attua lungo una precisa traiettoria che va verso il progresso e l’uomo conquista la vera esistenza attraverso il caos, si forgia la vera libertà aggiungendo la propria violenza a quella del mondo. «Ogni potere si manifesta come violenza sugli uomini, ma verrà il tempo in cui non vi sarà ne il potere di Cesare ne quello di qualsivoglia diversa origine. L’uomo giungerà al regno della verità e della giustizia dove non sarà affatto d’uopo violenza alcuna »3.

1 Anthony Burgess, linguista e buon conoscitore di musica, scrittore di romanzi di spionaggio e di «scienze-fiction», è anche l’autore di studi su Shakespeare e su Joyce. Indubbiamente il suo talento di linguista e la sua ammirazione per Joyce costituiscono delle chiavi preziose per la comprensione della lingua da lui impiegata per A Clockwork Orange (ci riferiamo alla versione originale e non certo a quella abominevole ed ambiziosa della traduzione italiana), un titolo di per se stesso indicativo, di capitale importanza. La sua traduzione letterale dice molto poco o nulla: «Un’arancia ad orologeria» può indicare il modo di conoscere i meccanismi di una realtà, rimuovendone la crosta superficiale, sbucciandola come un’arancia; può anche rifarsi ad una espressione «cockney» per cui uno stato di cose, una persona sono dette «bizzarre come un’arancia ad orologeria». Ma per Burgess e Kubrick «orange» non va tradotto come «arancia», poiché per la sua pronuncia è del tutto vicino alla parola malese (Burgess ha soggiornato alcuni anni come insegnante nella penisola di Malacca) «orang», che significa «essere umano».

2 Le immagini mostrano l’impiccagione di una donna nel momento in cui essa precipita dalla botola, Alex trasformatesi in Dracula, una gigantesca esplosione, ancora il volto di Alex/Dracula, alcuni uomini delle caverne che soccombono ad un cataclisma, fiamme e deflagrazioni, di nuovo il volto ghignante di Alex/Dracula.

3 Trattasi della traduzione letterale di una frase pronunciata da Jeshua Hanozri, un personaggio del romanzo di Michail Bulgakov, Il maestro e Margherita, nel secondo capitolo dal titolo «Ponzio Pilato».

* * *

LUDWIG VAN E GLI ALTRI

di Ermanno Comuzio

II ruolo della musica in Arancia meccanica: l’esaltazione, nella dimensione sonora, della carica aggressiva interna al personaggio del protagonista e di quella dell’autore del film. In questa visione apocalittica dell’esistenza, la musica è elemento costitutivo. Che la colonna sonora, nei film, debba fondersi, scomparire, subordinarsi alle immagini per diventare cinema, è confermato da Arancia meccanica, dove musiche delle origini più diverse sono piegate con naturalezza, e con effetti sorprendenti, al discorso che Kubrick vuoi fare.

Questo regista ricorre volentieri a musiche preesistenti: ciò gli sollecita, tra l’altro, la vena fantastica e sarcastica che gli è propria, in quanto gioca con intelligenza sulle possibilità dei contrappunti fra determinate musiche e le situazioni cui sono abbinate. È diventato famoso l’accoppiamento, in 2001 Odissea nello spazio, tra il roteare dell’astronave nel buio del firmamento e il «Danubio Blu»; ma fianco a fianco, in quel film, si trovavano, oltre allo Strauss dei valzer viennesi, quell’altro Strauss dei poemi sinfonici (Così parlò Zaratustra), Chacatur’jan e Ligeti. Kubrick non è certo il solo ad usare in maniera autonoma musiche preesistenti, immergendole in nuovi significati, ma è indubbio che è uno di quelli che compiono questa operazione con maggior creatività.

Lo vediamo, appunto, in Arancia meccanica, dove Beethoven, Elgar, Rossini e altri sono utilizzati con estrema libertà. Che c’entrano il Beethoven dell’«Inno alla Gioia» e la pariglia Arthur Freed-Nacio Herb Brown di Cantando sotto la pioggia con la super-violenza di Alex, il protagonista? E il Rossini della Gazza ladra e del Guglielmo Tell? Kubrick ha detto: «Ho cercato di trasformare la violenza in danza. In termini più propriamente cinematografici, direi che il contrappunto tra suono e immagine, tra colonna sonora e movimenti (interni all’inquadratura, o dati dal montaggio) deve per forza far pensare alla danza ». Dunque violenza ridicolizzata, alleggerita, derisa dalla musica? Forse in qualche momento, come nella sequenza del frettoloso amore a tre, girato con velocità accelerata, dove la sinfonia della «Gazza ladra» mette in burletta lo sciagurato passatempo erotico di Alex. Ma per il resto non direi: semmai, invece, la violenza ne esce più incarognita, più crudele, anche se allo stesso tempo conserva un fondo parodistico-buffonesco, imbarazzante agli occhi dello spettatore come tutte le sconsacrazioni. Vedi l’episodio dello stupro alla moglie dello scrittore e del sadico pestaggio di quest’ultimo, risolto sul ritmo di «Cantando sotto la pioggia», una specie di sconcio «transfert» del «numero» di Gene Kelli ad una realtà dove il sesso e la brutalità determinano tutte le azioni, ne costituiscono il necessario afrodisiaco. L’eleganza con cui Alex pratica l’ultra-violenza è puro «umorismo nero» e il sarcasmo è più «cattivo» proprio per la musica: in fondo è la vecchia regola dell’asincronismo, quella per cui Duvivier e Clair facevano suonare gli organetti e le pianole nei momenti più drammatici dei loro films.

Tutta la colonna sonora, del resto, accoglie suoni amplificati, riverberati, metallizzati (prodotti da uno strumento elettronico col quale il giovane compositore-arrangiatore Walter Carlos ha rifatto le pagine «classiche»), sottolineando così la volontà aggressiva di un mondo, diciamo pure di una civiltà tecnologica, che robotizza gli uomini e ne fa delle entità programmate.

Non per niente Alex non può ascoltare Beethoven, quando si ritira nella sua stanza-rifugio, che attraverso la riproduzione di una complessa apparecchiatura stereofonica, dotata di moltissimi altoparlanti usati al massimo volume.

Ma perché Alex ama tanto «Ludwig Van» (e perché lo utilizza tanto, per conto suo, Kubrick?) A parte quanto il regista ha ritenuto del romanzo di Anthony Burgess da cui il film è tratto, Alex risulta innamorato di Beethoven perché questo musicista è per definizione il più «ciclopico», il più «titanico» di tutti, ed Alex si sente eroico, violento, pletorico, e si riconosce nei ritmi possenti, nelle soluzioni grandiose, nelle perorazioni monumentali del musicista di Bonn. Insomma lo sente come un’anima gemella, anche se è un amore aberrante, che lo sprona ad operare il male e ad ignorare completamente le aspirazioni di bontà e di trascendenza del musicista. Certo, il punto della «Nona Sinfonia» che Alex preferisce — l’«Inno alla Gioia» — esalta: «Gioia, splendida scintilla divina… noi entriamo ebbri di fuoco nel tuo tempio» (citiamo le parole di Schiller non nella traduzione ritmica, che è di una goffaggine estrema), ma prosegue anche con altri concetti: «Tutti gli uomini diventano fratelli dove batte la tua luce soave» e «O mondo, senti la presenza del tuo Creatore?», concetti che non sono propriamente condivisi da Alex. Vedi l’intervento di Kubrick, a questo proposito, che nella sequenza del «balletto» composto di pezzi di montaggio sul Cristo crocifisso — sulla musica dello «Scherzo» della «Nona» — definisce non soltanto l’irreligiosità di Alex ma la considerazione di cui gode già oggi la religione in una società materialistica e alienata.

Non è soltanto Alex, d’altronde, a tirare Beethoven dalla sua parte, a fargli esprimere i suoi valori (o disvalori); lasciando stare i discorsi di Tolstoj sulla perfida suggestione della musica (proprio di Beethoven: «La sonata a Kreutzer»), acutamente Kubrick mette sotto le visioni dei cinegiornali sulle sfilate e le atrocità naziste, proiettati durante la terapia di Alex, proprio l’«Inno alla Gioia». Altri autori di cinema hanno utilizzato Beethoven al di fuori delle aiole celebrative, come il Ferreri beffardo di La marcia nuziale o il Godard di La femme mariée, che atomizza il suo Beethoven fino a straniarne completamente il messaggio, ma Kubrick osa andare più in là di tutti per sottolineare l’allucinante deviazione prodotta in Alex, e attraverso di lui nell’umanità di un domani che è già oggi. È tipico della nostra civiltà questo atteggiamento di calpestare i valori del passato, rovesciandoli come un guanto per scopi opposti a quelli che avevano assistito alla loro genesi, strumentalizzandoli quanto meno attraverso un uso grossolano, utilitaristico e ipocrita. Proprio come fa la società di Alex con lui. A questa rappresentazione si sovrappone, bisogna dire, l’ambiguità di Kubrick, che in certi momenti sembra satanicamente compiacersi, a livello di gusto personale, di quei fenomeni che pure a livello di raziocinio stigmatizza: vedi certo uso di Rossini. L’utilizzo delle marce di Elgar (eloquenti fin dal titolo della raccolta: «Pomp and Circumstance») — sull’entrata di Alex in prigione, sul suo trasferimento al centro di cura — è invece trasparentemente sardonico, implica un giudizio secco ed impietoso sulle strutture sociali che adempiono i loro «doveri» con la pomposità tronfia e farisea di chi cela sotto la forma che incute rispetto la difesa e l’accrescimento dei propri privilegi.

Nota. – La colonna sonora di Arancia meccanica (a cura di Walter Carlos, che ha utilizzato un «Synthesizer» creato da Robert Moog), comprende i seguenti brani musicali:

–  Ludwig van Beethoven – Sinfonia n. 9 in re min., op. 125 (Secondo e Quarto Tempo).

–  Gioacchino Rossini – Sinfonie da «La gazza ladra » e dal «Guglielmo Tell».

–  Edward W. Elgar – «Pomp and Circumstance» op. 39, Marce n.1 e n.4.

–  Arthur Freed e Nacio Herb Brown  – Singing in the Rain ».

–  Terry Tucker – «Ouverture to the Sun».

–  Erika Eigen – «I Want to Marry a Lighthouse Keeper».

–  Canzone popolare irlandese «Polly Malone».

Fonte: Cineforum 119 – Gennaio 1973

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