la Repubblica (18/3/2000)
Irene Bignardi
Tutto quello che avete letto o sentito in positivo o in negativo su Magnolia – Orso d’oro a Berlino, candidato a tre Oscar, grande successo americano – è vero. Che è un film barocco, lungo, ridondante. Che fa un uso violento della musica. Che è una specie di soap opera pantografata, dilatata, portata a dimensioni bibliche. Che si parla troppo, nelle sue storie intrecciate, di cancro e di televisione. Che subisce, a un’ora dalla fine, una brusca incrinatura e per un attimo sembra non saper più dove andare. Ed è vero, anche e di più, che è girato con grandissimo mestiere, che è interpretato da una squadra di attori tutti bravissimi – basti dire che perfino Tom Cruise è davvero notevole -, che è profondamente emozionante, spesso perfino divertente, a tratti sconvolgente, perché rivela una profonda pietà umana e va a scavare senza pudore nelle paure e nelle angosce del vivere contemporaneo. Ed è vero anche che nel calcolo algebrico tra le sue moltissime qualità e i suoi molti difetti vincono le prime, e che dallo scontro tra i suoi elementi positivi e negativi esce un tessuto di idee, di sentimenti, di stati d’animo, di invenzioni come raramente si incontra nel cinema americano di questi tempi. E se Magnolia non è un film perfetto, se la complessa struttura intrecciata di questa colossale commedia umana ogni tanto fa acqua e ha bisogno di qualche gruccia e di qualche didascalia, bisogna riconoscere comunque a Paul Thomas Anderson, il trentenne regista di Boogie Nights, che lo ha scritto e diretto benissimo e lo ha intessuto di qualche confusione, il diritto a un posto tra i grandi del cinema contemporaneo. Secondo il modello altmaniano di Nashville e di America oggi, anche Magnolia – il titolo non viene dal fiore, come farebbe pensare il brutto manifesto, ma dal nome di una strada della San Fernando Valley attorno a cui si incrociano e si sfiorano i personaggi del film – è una sorta di Ronde californiana, che intreccia nove storie, colte in una qualsiasi giornata destinata a finire in una catastrofe di violenza e originalità biblica: certo molto strana (piovono rane, a migliaia, a milioni), ma non così strana rispetto al mondo crudele e assurdo su cui piovono. E non è meno strano che a due terzi del film le storie si fermino per un attimo e tutti i personaggi (intonino, uno dopo l’altro, la stessa canzone, It’s not going to stop, non si fermerà: e si parla della difficoltà del vivere. Magnolia è un grande melodramma in cinema, e l’uso che Anderson fa della musica – sovrapponendola ai dialoghi, ripetendola insistentemente come un basso continuo, facendola irrompere nelle conversazioni come un terzo interlocutore – può risultare affascinante o irritante in egual misura, ma non è certo mai banale o prevedibile. E anche se il registro generale del film ondeggia tra la tragedia e l’assurdo – preannunciato da un prologo esilarante e terribile che mette in campo le idee del regista circa la precisione del Caso -, anche se tocca brutalmente e senza mezzi termini il senso della nostra fragilità, Anderson ha sufficiente umanità, intelligenza e humour da non cedere mai al tono oracolare. Se non bastasse, sa come esaltare il lavoro degli attori – da Tom Cruise, che nasconde sotto la brutalità del macho una fragilità edipica, a Jason Robards, il padre che lo ha abbandonato, da Philip Seymour Hoffman, l’infermiere che accudisce quest’ultimo con straordinaria tenerezza, a Julienne Moore, che si ritaglia una scena memorabile, in cui ci possiamo riconoscere tutti, quando aggredisce verbalmente i due indifferenti farmacisti che tardano a darle le medicine necessarie al marito morente: questa è cognizione del dolore.
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Corriere della Sera (18/3/2000)
Tullio Kezich
Inauguriamo l’albo dei futuri maestri del secondo secolo del cinema con il nome di un 29enne americano: Paul Thomas Anderson, scrittore e regista già apprezzato per Boogie Nights e vincitore dell’Orso d’oro a Berlino con Magnolia. Accolto con favore dalla stampa e poco apprezzato dal pubblico in Usa, il film è comunque candidato a tre statuette: Tom Cruise, sceneggiatura e canzone originali. Sono tre ore di spettacolo, che pur non annoiando lasciano l’impressione di un capolavoro imbastito sbagliando le misure. Magnolia assume il nome di un viale di San Fernando Valley intorno al quale si svolgono diverse vicende. Il modello è America oggi di Robert Altman in versione supergasata, fra uno svariare di immagini video e un ininterrotto rimbombo di musica varia. A reggere l’impianto narrativo sono due anziani moribondi, destinati a non uscire vivi dal film. Il magnate Jason Robards aspetta l’irreparabile nel suo letto, mentre il presentatore tv Philip Barker Hall va in diretta a rischio della vita. Intorno a questi due patriarchi si muovono numerosi personaggi più giovani: Julianne Moore è la moglie del capitalista attanagliata dai rimorsi per non averlo amato abbastanza; mentre Cruise, figlio di primo letto, l’ha addirittura odiato al punto da cambiare identità e riciclarsi come un profeta del machismo. Odia il rispettivo padre televisivo anche Melora Walters, figlia del divo tv che il buon poliziotto John C. Reilly farà di tutto per tirar fuori dalla droga. E poi ci sono un ex-bimbo prodigio dei telequiz, William H. Macy, che vorrebbe vendicarsi dell’oblio in cui è caduto dopo un momento di fama fatua, e un altro genietto del video, Jeremy Blackman, che sa ritirarsi in tempo. Si può tranquillamente affermare che ciascun componente di questa squadra olimpionica di recitanti meriterebbe un Oscar. L’autore sa giostrarli nei tempi giusti rendendoci complici dei loro casi tanto che alla fine ci accorgiamo (è la mossa vincente) di voler bene a tutti o, per lo meno, di riuscire a compatirli. Emerge il senso di un racconto mai lacrimoso o conciliante, che trova la catarsi nel momento in cui dal cielo si abbatte una biblica pioggia di ranocchi: metafora di quelle calamità (guerra, terremoto, alluvione) che ci insegnano a vivere insieme dimenticando orgoglio e pregiudizio.
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Il Resto del Carlino (19/3/2000)
Alfredo Boccioletti
Piovono rane. Per la serie Eppure è successo: titolo di un programma televisivo o, se preferite, trittico di tragedie ai confini dell’incredibilità accadute nella San Fernando Valley dal 1911 agli anni ’80, e che fungono da prologo a Magnolia. Con la biblica grandinata di anfibi, l’opera terza del trentenne Paul Thomas Anderson, Orso d’oro a Berlino e in lizza per quattro Oscar, sconfina all’improvviso nel surreale, dopo aver intrecciato una decina di drammi individuali in cui sesso, cancro e tivù si dividono la scena. Come nel precedente Boogie Nights, empatico affresco di quel mondo del porno che frustra ogni velleità autorale, Anderson offre un saggio di scrittura personalizzata, molto distante dai gelidi, caustici mosaici a cui ci hanno abituato Altman (America oggi) e i suoi epigoni (il Kasdan di Grand Canyon). Qui, se proprio vogliamo trovare punti di riferimento, i modelli – per la verità ormai metabolizzati – restano Demme e Scorsese, con le loro tensioni umanitarie e il loro dinamismo narrativo. Geniale in assoluto è il punto di osservazione di tradimenti, delitti, quiz-show, overdosi di morfina, sentimenti a fior di pelle, suicidi, padri-padroni, machismo delirante, balordaggini gay, traumi adolescenziali non rimossi, nevrosi assortite. Anderson, in pratica, inverte soggetto e oggetto dello zapping. La Televisione, la materia stessa di cui ormai è fatta la sua valle di lacrime, digita sul telecomado: e via via appaiono schegge di realtà contaminata che assumono, nei vari segmenti, la forma di thriller, esibizione rap, dramma grottesco, love-stry minimale, tragedia greca, persino di musical. Dalla Berlinale ai nostri schermi Magnolia ha perso per strada circa venti minuti di proiezione dei duecento originali. Non ne ha fatto certamente le spese la storia di Frank Mackey (Tom Cruise), il volgarissimo santone tv del nuovo maschilismo chiamato al capezzale del padre morente (Jason Robards), un ricco produttore che lo abbandonò ancora bambino insieme alla madre. Se Cruise merita la nomination né più né meno degli altri interpreti – in pratica tutti non protagonisti -, Julianne Moore, l’ultima moglie di suo padre, ha dalla sua almeno due sequenze di grande cinema: il dialogo con l’avvocato insensibile ai suoi pentimenti e lo sfogo davanti ai farmacisti che, di fronte a una prescrizione di morfina, insinuano e giudicano con atteggiamento manicheo. Paul Thomas Anderson non giudica, né fa la morale. La pioggia di rane é uno dei tanti fatti accidentali, non il preludio alla catarsi. E la sua “magnolia” (il titolo si riferisce alla forma della San Fernando Valley) diventa un fiore del male i cui petali profumano soltanto d’umana compassione.
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La Stampa (18/3/2000)
Lietta Tornabuoni
Antologia americana straziante e ridicola, mosaico di storie e personaggi, raccolta di «episodi grotteschi con aspetti di destino», film contenitore di dolori e speranze pluricandidato all’Oscar e Orso d’Oro a Berlino, Magnolia è intitolato al nome d’un Boulevard dalle parti di Burbank a North Hollywood e al bel fiore bianco carnoso facile a imputridire. Casi, stranezze, fatti che succedono, coincidenze, occasioni, solitudini, i rimorsi, i tradimenti reciproci nel passato, le cose perdute, l’evento assolutamente impensabile che è un diluvio di rane cadenti dal cielo, implacabili come un castigo divino, capaci di provocare incidenti, morti, riflessione: l’ambizione è quella di tracciare un ritratto del Paese e insieme della crudele bizzarria dell’esistenza, la struttura narrativa è quella di America oggi (Short Cuts) di Bob Altman, ma nel genere gli scrittori minimalisti americani, soprattutto Raymond Carver, sono molto più bravi. (…) La grande pioggia di rane vuol avere significati simbolici, i batraci gonfi e nauseanti si spiaccicano su strade, automobili, persone, avvenimenti, come un ammonimento morale: anche se il diluvio è tecnicamente troppo approssimativo per non risultare a volte ridicolo. Si capisce che gli episodi, il cui intersecarsi e coordinarsi è spesso imperfetto nella sceneggiatura nonostante le tre ore e più di narrazione, non aspirano ad apparire storie realistiche, ma storie spettacolari: ogni vicenda può essere un film del passato, melodrammatico o grottesco; ogni personaggio può essere uno stereotipo hollywoodiano (miliardario morente, bambino sapiente, moglie infedele, predicatore fanatico, ragazza perduta, padre indegno, poliziotto buono). Il regista trentenne Paul Thomas Anderson, pure sceneggiatore e coproduttore, già autore dell’ammirevole Boogie Nights, è insidiato dal moralismo e ha preteso molto da se stesso, ma difetti e debolezze del film sono riscattati dallo stile, dalla bellissima atmosfera disperata e ironica, struggente e comica, molto contemporanea. Tra gli attori eccellenti Tom Cruise è il più bravo: esaltato, violento, dolente, anche seminudo.
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il Giornale Nuovo (19/3/2000)
Maurizio Cabona
Prodotto, scritto e diretto da Paul Thomas Anderson, Magnolia ha vinto l’ultimo Festival di Berlino durando tanto quanto La sottile linea rossa di Terrence Malick, vincitore dello stesso Festival l’anno prima. Sono dunque tre ore e un quarto, che sembrano quattro, e se ciò giustifica il costo del biglietto, per alcuni, per altri significa la claustrofobia. Gli adepti del cinema quantitativo trovano comunque in Magnolia ottimi professionisti: dal veterano Jason Robards a Julianne Moore, da William H. Macy a Tom Cruise. La pubblicità presenta quest’ultimo come il protagonista, mentre questo finn corale un protagonista non l’ha. Cruise si vede – caso mai – meno degli altri, perché la sua è una «partecipazione amichevole», cioè gratis. «Il suo cachet sarebbe stato più alto di quello di tutti gli altri interpreti messi insieme», spiegava Anderson a Berlino. Epigono di Robert Altman, alfiere del cinema intellettuale americano, Anderson (Boogie Nights) sa raccontare le sue nove storie, che ruotano intorno a una rete tv e al Magnolia Boulevard (che si vede anche in Sbucato dal passato ed è paragonabile al milanese viale Sarca), zona nord di Hollywood. Il secondo difetto di Magnolia, connesso alla prolissità, è che potrebbe finire in ogni momento o non finisce mai. Le varie vicende che lo compongono non vanno cioè da nessuna parte. La pellicola smette di scorrere sullo schermo solo perché, a un certo punto, piovono rane dal cielo! Va bene che all’inizio abbiamo visto un bambino prodigio (Stanley Spector) davanti a un volume dedicato a eventi straordinari (Il libro dei dannati di Charles Ford), ma come giustificazione per l’arbitrio del soggettista è un po’ poco.
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l’Unità (18/3/2000)
Alberto Crespi
Siamo nella San Fernando Valley, una città nella città nel Nord di Los Angeles. Non ve lo diciamo per sfizio topografico, ma per spiegarvi il titolo: Magnolia Boulevard è una delle vie principali del quartiere. A Paul Thomas Anderson il nome piaceva, e l’ha scelto, senza altri motivi: è come se un regista italiano facesse un film corale su Roma e lo battezzasse «Tiburtina» (in realtà speriamo che a nessuno venga l’idea…). Anche Boogie Nights, il film sul porno precedente a Magnolia, si svolgeva nella San Fernando Valley, o semplicemente nella «Valley» come dicono i losangelini. E un quartiere recentissimo (85 anni fa, Griffith vi poté girare gli esterni della Nascita di una nazione, tanto la zona era deserta), epitome del postmodemo, dotato di uno stile di vita tutto suo. Vi si girano i film porno, vi nascono le mode più stupide (come quella delle unghie posticce, lunghissime e colorate) e più intrinsecamente americane. Paul Thomas Anderson, trentenne emergente, l’ha scelto come luogo di coltura della decadenza dell’Occidente: sia Boogie Nights sia Magnolia parlano di una società che sta marcendo, nell’attesa che una punizione divina la purifichi. Infatti Magnolia si conclude con una vera e propria piaga biblica, la clamorosa pioggia di rane (vengono giù a milioni, grosse come polli: ovviamente sono fatte al computer, gli animalisti non si agitino) che flagella la Valley negli ultimi venti minuti di film. E mentre fioccano i batraci, i conflitti si risolvono, i parenti serpenti si riconciliano, il senso di morte lascia il posto alla speranza. Fino a quel punto, Anderson ha incrociato 7-8 storie: in stile America oggi di Altman, ma con più moralismo e meno leggerezza. Quasi tutte girano attorno all’imminente morte di Earl Partridge, vecchio patriarca straricco con una moglie, Linda, che aspetta solo l’eredità. L’ultimo desiderio del moribondo è rivedere il figliol prodigo Frank: che con lo pseudonimo di Mackey è una specie di predicatore tv the spiega agli uomini come sedurre e distruggere le donne («Seduce and Destroy» è il suo motto). Altri personaggi inseguiti dalla cinepresa di Anderson sono l’agente di polizia Jim Kurring (strepitosa, anche se un po’ troppo «tarantiniana», la sua irruzione nella casa di una cicciona di colore), la cocainomane Claudia Gator, il padre di lei Jimmy Gator (conduttore tv di dubbia moralità), l’ex campione di telequiz Donnie Smith, oggi dimenticato e squattrinato. Non è sempre fluido il modo in cui Anderson intreccia le varie storie: e non è casuale che Magnolia sia più bello quando affida alla musica il ruolo di tirante narrativo (le gradevoli canzoni di Aimee Mann sono state scritte appositamente per il film). Una maggiore concentrazione avrebbe giovato: esattamente come Boogie Nights, Magnolia dura troppo (188 minuti) e conferma in Anderson un regista che ha molti doni, ma non quello della sintesi. Nel complesso, però, il film è un affresco discontinuo ma potente, un romanzone molto personale e con una spiccata cognizione del dolore, sorprendente in un regista così giovane, Fra gli attori, spicca ovviamente Tom Cruise nella parte del guru maschilista Frank Mackey: una caratterizzazione talmente «urlata» e volgare da rimanere indimenticabile. Ma anche Jason Robards, Julianne Moore, Melinda Dillon e il solito, strepitoso William H. Macy (quello di Fargo) non sono da meno.
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Film TV (28/3/2000)
Emanuela Martini
Ci sono casi e coincidenze e intersezioni che regolano e intrecciano le nostre vite. Nel 1958, un ragazzo si getta dall’ultimo piano di un grattacielo e, durante il volo, incrocia la fucilata che sua madre sta sparando a suo padre nell’appartamento due piani più sotto. È uno degli episodi che aprono, come una cornice ripresa da cinegiornali d’epoca, il labirinto in cui si articola la struttura narrativa di Magnolia: ventiquattr’ore, da parzialmente nuvoloso alle nuvole fitte alla pioggia alla schiarita, nella vita di una ventina di personaggi, a Los Angeles, oggi. Intorno a due patriarchi peccatori, arrivati al rendiconto di una malattia terminale, si dipana la narrazione più ambiziosa e dissennata degli ultimi anni: ambiziosa perché non si concentra, come Boogie Nights, su una rappresentazione lineare, ma mescola l’attimo, il qui e ora, di ognuno, tentando di estrarne il “cuore”, il nodo cruciale; dissennata perché non tiene conto delle regole, dei tempi e dei ritmi, delle abitudini e della coerenza, pur di rimandarci quest’immagine complessiva, disperatamente analitica, quotidiana eppure del tutto eccezionale, tremendamente intima eppure così condivisibile. Magnolia è un giorno nella vita di ciascuno di noi, con le sue debolezze e i suoi paradossi, le sue voragini dolorose, le sue cattiverie gratuite, le sue generosità involontarie, i suoi momenti, nel cuore della notte, di terrore rivelatore, di rimpianto per un’intera vita, per un’ingiustizia fatta o subita nel passato, per un sogno andato a male o per un’illusione che nasce. Cinema “psichico” quasi, un’immersione in un flusso ovattato, in un continuum che non dà tregua, dove uno zoom su un volto è più terribile di qualsiasi discorso, dove uno sguardo, un passaggio tra un ambiente reale e un’immagine trasmessa dal televisore, più incisivo di molti silenzi. Un film sterminato (dura più di tre ore), dove, almeno per le prime due ore, pare di stare in un unico piano sequenza: sopraffatti dalla musica di Aimée si è letteralmente trascinati in un gorgo ipnotico. Un film imperfetto, ma talmente generoso che ogni imperfezione, incongruenza, esitazione, insistenza, diventa un impagabile pregio, un tassello, un dolore, un dubbio, una speranza che vanno ad aggiungersi allo squallore disperato del mondo, del nostro mondo. Un mondo fatto di solitudini, di crudeltà, di lacrime che non si trattengono, di rane che piovono dal cielo, di gesti minimi che possono aiutarci a fare i conti con il passato, quello con il quale noi crediamo ma che spesso non ha chiuso con noi. Paul Thomas Anderson è il regista più coraggioso del decennio; la sua passione non ha prezzo.
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Sette (30/3/2000)
Claudio Carabba
Un vecchio signore ricco, consumato di un tumore, sta morendo assistito da un infermiere premuroso e una bella moglie attraversata dai rimorsi; uno stravagante predicatore tv incalzato da un’intervistatrice, mette a nudo la sua segreta fragilità; un poliziotto cortese perde la pistola ma forse troverà un non facile amore… Paul Thomas Anderson (Boogie Nights) è affascinato dal contrasto (apparente?) fra la casualità e la fatalità della vita umana; questo è il filo che lega le scene di agonia e di speranza del circolare Magnolia (Orso d’oro a Berlino). Il caldo umido e triste della San Fernando Valley è lo sfondo ideale del castello dai destini intrecciati. Anderson narra per dettagli e per accumulazione, sì come piace ai maestri americani contemporanei (Carver, Altman, DeLillo). Nel finalone allegorico e piovoso, il giovane regista si mette da solo alle corde. Ma per più di due ore la narrazione è martellante, la tensione alta, anche grazie agli ottimi attori (Tom Cruise e Co. ). Tutti pagheranno tutto; un uomo può chiudere col suo passato, ma è il passato che non chiude con lui.
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Ciak (1/4/2000)
Valerio Guslandi
Paul Thomas Anderson è il nuovo profeta del cinema americano. Una sorta di Robert Altman (dal quale mutua due dei suoi attori-feticcio, Henry Gibson e Michael Murphy) più attento al percorso morale dei suoi personaggi, ma ugualmente capace di osservare le mille sfaccettature, le mille contraddizioni della società americana contemporanea. Come già in Boogie Nights anche in Magnolia (il titolo si riferisce a una delle strade principali nella parte nord di Los Angeles) ci sono dolore, sofferenza, deviazione, amore, odio e quel destino che sa come trovarci e segnarci anche quando pensiamo di averlo cancellato e vinto. C’è soprattutto un’umanità alla deriva, con l’ombra della morte che aleggia intorno e il bisogno di qualcosa o qualcuno più grande di noi che ci aiuti a espiare le nostre colpe. Un deus ex machina biblico che nel film si traduce nella sequenza del diluvio di rane dal cielo, un momento fissato come in un’istantanea indelebile nelle vite dei personaggi del film: quasi sospesi mentre ciascuno di loro si ripete, cantando le parole di una canzone di Aimee Mann (uno dei momenti più emozionanti del film) che deve ancora imparare a cambiare. A soli trent’anni anni Paul Thomas Anderson si dimostra autore di grande sensibilità e di invidiabile padronanza tecnica. Sa colpire lo spettatore nel profondo, anche se in qualche passaggio è un po’ compiaciuto. Ma questo, più che un difetto, è forse un inevitabile tributo alla sua giovane età. Alla maniera del miglior Altman, Anderson sa mescolare storie, personaggi, musica e rumori di sottofondo, trasformandoli in un’unica, compatta materia viva e pulsante. Di sicuro questo film, che merita più di una sola visione, sa sedimentarsi come pochi tra cuore e sentimento. Straordinario poi il contributo di tutto il cast, con in testa l’umiliata e pentita Julianne Moore, il rabbioso Tom Cruise, il puro John C. Reilly, il candido Philip Seymour Hoffman e lo sconfitto Philip Baker Hall.