la Repubblica (1/5/1998)
Irene Bignardi
Il grande Lebowski non è un grande film – come ho avuto il dispiacere di dire da Berlino, dove è stato accolto con l’ammirata indifferenza che suscitano (quasi sempre) i film dei fratelli Coen. Non è un grande film anche se avrebbe potuto esserlo per budget e per qualità della confezione, anche se è divertente, anche se è pieno di invenzioni e di mirabilia tecniche: anche se insomma la storia del grande Lebowski, l’uomo più pigro di Los Angeles, trascinato per un errore di omonimia in una storia di rapimenti e riscatti che sembra un clone 1998 di Raymond Chandler in versione ironica, si lascia vedere con piacere, e alcuni episodi e personaggi – il frenetico Turturro dio del bowling, il reduce John Goodman, i balletti alla Busby Berkeley – sono da antologia, molto più che il mai del tutto convincente protagonista, Jeff Bridges. Il grande Lebowski non è un grande film perché da due personaggi brillanti e intelligenti come Joel (firma da regista) e Ethan Coen (produttore e cosceneggiatore, ma i ruoli sono molto più intrecciati di così) si ha il diritto di aspettarsi non una pura macchina di divertimento e di meraviglia cinematografica, ma un film con un po’ di anima. I due fratelli prodigio di Saint Louis Park, Minnesota, i due colti cinefili che non vogliono mai fare sul serio (quando li ho intervistati l’estate scorsa su chi fosse il loro maestro, hanno dichiarato in coro che si tratta di Sam Raimi, il loro amichetto di sempre, dieci anni più giovane di loro), i due eccentrici genietti dell’altra Hollywood, sembrava che l’anima l’avessero trovata con Fargo, il più anomalo dei loro otto film, il più umano: forse per merito anche dalla presenza di Frances McDormand, attrice naturale, compagna di Joel e – recentemente – madre del suo bambino, forse per il fatto che si trattava del primo film coeniano di cui non si riconoscessero immediati modelli, citazioni o strizzate d’occhio. Perché è questo il limite dei brillantissimi Coen, che ritorna in Il grande Lebowski: la loro estetica postmoderna, la bravura nell’accostare frammenti e ispirazioni di altri tempi e di altro cinema, reinventandoli e citandoli nelle forme che i mezzi tecnici più sofisticati e più “meravigliosi” del cinema contemporaneo mettono loro a disposizione. Ogni film dei Coen – eccezione fatta per Fargo – è un non dichiarato “remake”, un riciclaggio supremamente inventivo di altre voci, altri tempi, di Chandler (Sangue facile) e di Frank Capra (Mister Hula Hoop), di Hammett (Crocevia della morte) e di Nathanael West (Barton Fink), della screwball comedy (Arizona Junior) e ancora di Chandler, rivisto in chiave di computer graphic – appunto il caso di Il grande Lebowski. Niente di male. Si diceva un tempo (meglio, lo dicevano a Hollywood coloro che non lo amavano particolarmente) che il difetto di quel brillantissimo, eclettico divoratore di generi che è stato Billy Wilder fosse il suo cinismo. Non concordo, ma capisco. Dei Coen, che nella loro bravura trasversale e nell’attenzione alla macchina dello spettacolo hanno qualcosa in comune con il maestro di Viale del tramonto e di A qualcuno piace caldo, il limite è un eccesso di ironia che investe ogni momento e ogni personaggio, un filtro (di stile, di temperatura) che marca sempre la distanza emotiva (anzi, antiemotiva) dei due fratelli nei confronti dei loro materiali, un continuo gioco di citazioni in cui non si capisce mai bene dove si collochi lo sguardo vero degli autori, una sostanziale frigidità. Certo che ci si diverte, a vedere i loro film. Ma si ha sempre la sensazione che siano un trionfo dello stile sulla sostanza, del gioco sulla vita. Chissà se – ora che persino il loro rivale generazionale, Tarantino, ha rivelato in Jackie Brown che ci si può abbandonare al fattore umano – i due ragazzi irresistibili, i due “stilisti” eccellenti, troveranno il coraggio di buttare a mare, la prossim a volta, i filtri e la cineteca…
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La Stampa (1/5/1998)
Lietta Tornabuoni
Gran film americano, strepitoso e velenoso, ricco d’inventiva, d’intelligenza e divertimento, d’originalità e stile: «Il grande Lebowski» dei fratelli Coen (Joel regista, Ethan, produttore, tutt’e due sceneggiatori, tutt’e due quarantenni) è il ritratto d’un ex ragazzo degli Anni Settanta e della città di Los Angeles («dopo averla vista, puoi morire senza pensare che Dio t’abbia fregato») nel 1991 della guerra del Golfo; è introdotto e concluso da un narratore, vecchio cowboy dalla faccia di legno; si rifà a certi romanzi di Raymond Chandler, alle loro atmosfere sfasate, violente e confuse, al loro protagonista Philip Marlowe, antieroe quotidiano consapevole del marciume del mondo e tuttavia deciso a fare del suo meglio, fedele all’amicizia e alla propria idea del dovere. (…) Tra tutti l’unico uomo onesto è il protagonista: uno sempre in bermuda (quando non in vestaglia), sandali, camicie fiorite o maglie troppo grandi, con la barba e i capelli lunghi, sempre attaccato allo spinello, dolce ed educato, sensibile, rispettoso degli altri, mite ma non debole né inerme, scoraggiato. Uno che vorrebbe soltanto starsene al bowling con gli amici o con i rivali nel gioco: John Goodman (bravissimo) incapace di dimenticare la guerra del Vietnam, che come tanti dalla mentalità militare o violenta combina un guaio dopo l’altro; il laconico Steve Buscemi; il petulante aggressivo John Turturro, giocatore di bowling gay e latino di nome Jesus. Il miliardario insolentisce «la vostra rivoluzione è fallita, gli sbandati hanno perso», ma nel film Jeff Bridges é il solo vincitore, il solo a conservare decenza e umanità in una società sovreccitata e assassina. Fantastiche scene di sogno: il protagonista che nuota nel cielo sorvolando le mille luci di Los Angeles; il protagonista che si ritrova in un musical ambientato nel bowling, con ballerine incoronate di birilli e con Saddam Hussein addetto alla distribuzione delle speciali scarpe da gioco. Fantastiche scene di realtà: il protagonista investito dalle ceneri di Steve Buscemi, riportate indietro dal vento anziché disperse sul mare, e l’abbraccio desolato tra i due amici superstiti. È restituita e rielaborata benissimo l’atmosfera da romanzo poliziesco americano dei Trenta e dei Quaranta tanto amata dagli autori (Miller’s Crossing-Crocevia della morte si rifaceva a Raccolto rosso di Dashiell Hammett, Fargo ai romanzi di Charles Williams) ; il tentativo di sommare diversi generi (noir, surreale, sociale, musicale) porta, come sempre nei film dei Coen, a un certo sfilacciarsi e disperdersi della storia. Ma quanto sono migliori le sospensioni, le digressioni, le parentesi, al confronto con molti discorsetti compiuti, standardizzati e insignificanti: soprattutto quando ogni immagine é densa, mai vista prima, e così divertente.
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l’Unità (1/5/1998)
Alberto Crespi
Raymond Chandler, la cultura hippy, la nostalgia degli anni Settanta, la guerra del Golfo. Prendete questi ingredienti, aggiungete l’umorismo ebraico che é assicurato quando i registi si chiamano Coen, e scuotete per quasi due ore. Il risultato è Il grande Lebowski, nuovo film dei micidiali fratellini già responsabili di gioielli come Arizona Junior, Crocevia della morte, Barton Fink. Presentato al festival di Berlino, snobbato in patria rispetto all’inaspettato successo di Fargo, Il grande Lebowski è uno dei capolavori di questa geniale coppia di registi. Dove Ethan firma solo produzione e sceneggiatura mentre Joel (il maggiore) è responsabile della regia, ma si sa che l’apporto creativo è comune e condiviso al 50%. Come in Crocevia della morte, i Coen si confrontano con modelli classici della letteratura americana, riscrivendoli a modo loro, con robuste iniezioni di ironia. La trama è puro Chandler, ma la Los Angeles in cui si muovuno Jeff «Drugo» Lebowski e i suoi stralunati amici Walter e Donny è quella dei primi anni Novanta, in piena sindrome anti-Saddam. (…) All’intrico narrativo corrisponde una sfrenata inventiva. I Coen giocano con le regole del «noir» infilandoci citazioni di Busby Berkeley, della Bibbia, dei film western, della musica americana anni Settanta (c’è una gag sugli Eagles che i rockettari apprezzeranno) e naturalmente del loro nume tutelare, Kafka. Perché, sotto la crosta ridanciana, l’equivoco su cui si basa la storia riesce a trasformarsi in una grande, beffarda parabola sull’identità. Coen Brothers allo stato puro, insomma: un godimento per la mente. Con l’ausilio di attori strepitosi: Jeff Bridges e John Goodman sono rispettivamente il «drugo» e Walter, eccezionali, Steve Buscemi è una bravissima spalla e John Turturro si esibisce in un cammeo memorabile. Lo si vede per 5 minuti, ma si mangia il film. Al vostro piacere di spettatori scoprire come.
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Corriere della Sera (15/2/1998)
Tullio Kezich
BERLINO – Nell’uscire dallo Zoo Palast dopo l’applauditissima proiezione di The Big Lebowski mi sentivo mortificato: ora mi toccherà raccontare la trama del film, pensavo, e sulla faccenda ho molti dubbi. Ma poi mi sono consolato ricordando che durante le riprese di Il grande sonno (1946), dal romanzo di Chandler, scoppiò una discussione su chi aveva sparato un certo colpo di pistola. Non riuscendo a metterci d’accordo, il regista Hawks ed Humphrey Bogart decisero di chieder lumi allo sceneggiatore William Faulkner, il quale rispose per telegramma: «Non ne ho la minima idea». Insomma, considerato che il pasticciaccio brutto dei fratelli Coen si presenta come una parodia del «film noir», una certa indecifrabilità fa parte dell’assunto. E del resto con un «puzzle» ci si può divertire anche senza riuscire a collocare tutti i pezzi. S’incomincia sulle voci dei Sons of the Pioneers che cantano «Tumbling tumbleweeds», mentre uno dei cespuglioni così chiamati rotola dal deserto verso il mare attraverso Los Angeles. Da noi si direbbe «va come una foglia al vento»; ed è la condizione esistenziale di Dude alias Jeff Lebowsky (Jeff Bridges), che ammazza il tempo al bowling con l’esplosivo Walter (John Goodman), reduce dal Vietnam, e lo sfortunato Donny (Steve Buscemi). (…) Si ride, per carità, e s’assaporanno ancora una volta gli stimolanti aromi del cinema intelligente. Ma The Big Lebowski non ha la forza e il rigore del precedente Fargo, straripa un po’ nella chiacchiera e andando di qua e di là introduce (non senza la debita grazia) ironiche visioni da «musical» ispirate a Busby Berkeley. Vogliamo definirlo un bocconcino da intenditori?
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il Manifesto (17/2/1998)
Roberto Silvestri
BERLINO. The big Lebowski si svolge a Los Angeles, proprio come un romanzo di Chandler, e inizia con una voce fuori campo che ci terrà compagnia fino alla fine. È un noir polposo di Joel Coen, una commedia etica sulla mecca del cinema, sulla capitale dei miliardari. Jeff Lebowski (Jeff Bridges), soprannome non proprio edificante “the Dude” (un tipo che fa cilecca?), disoccupato, sessantottino, capelli lunghi, giocatore di bowling, fumatore di spinello e bevitore di White Russia, cocktail spacca fegato a base di vodka, latte e Kalhua, viene scambiato da tre gangster di origine tedesca (i “nichilisti”) per il vero Lebowski, il big del titolo, un miliardario in carrozzella che vive a Pasadena e deve loro un sacco di soldi. Scambio di persona, proprio come nei migliori Jerry Lewis, tipo Jerry 8 e 3/4 o I 7 magnifici Jerry. E come nei film di Lewis quello che viene davvero inquadrato e vivisezionato è il cuore della metropoli, i suoi miti effimeri, la sua grandezza segreta, la sua volgarità debordante. Tramite lo zoom, il blow up, dell’umorismo, del sarcasmo, dell’inversione della logica e dell’invettiva satirica. Incastrare l’Hawks della commedia dentro quello del thriller cupo è impresa impossibile. Per cui il film a un certo punto si affida alle sole performances di attori, ai corpi, tutti di qualità e quantità stupefacente: da John Goodman (l’amico di Dude), commerciante polacco cattolico, conoscitore di storia militare, che si spaccia per ebreo e conosce le opere complete di Lenin, a Julienne Moore (la figlia del “Big Lebowski”) che incarna con sottile perfidia l’artista losangelina; dall’ex surfer suonato Steve Buscemi al dio ispanico del bowling, Jesu Quintana, un irriconoscibile, eppure è sempre lui, John Turturro. La follia di questo mondo immaginario trova un’ancora narrativa nel 1991, quando Bush decise di “farglela vedere a Saddam Hussein”, utilizzando i metodi mafiosi di avvertimento, per la prima volta in modo così esplicito. E la nostra banda di sbandati, i quattro contro tutti che si muovono all’inizio solo perchè the Dude è storto perché i teppisti nichilisti gli hanno sporcato il tappeto, proprio come Marlowe, si muoveranno così bene da costituire un esempio e un precedente per tutti noi. Ci siamo, esistiamo, per quanto piccoli e fragili possiamo sembrare. Siamo più giganteschi dei “nichilisti feroci”.
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Sole 24 Ore (10/5/1998)
Roberto Escobar
Sospinta dal vento, una palla di rovi rotola per il deserto. Seguendola, la macchina da presa arriva sul bordo di un’altura: in basso, c’è Los Angeles illuminata. Guidati dai rovi e dal vento, ora i fratelli Joel ed Ethan Coen s’addentrano nella città, loro presi dal piacere di raccontare e noi da quello d’ascoltare e guardare. Intanto, ci introduce alla narrazione la voce di Sam Elliot (più avanti, lo vedremo nel ruolo d’uno straniero con un cappello da cow-boy). All’epoca della guerra del Golfo, racconta, c’era a Los Angeles Jeff Lebowski detto Drugo, il più pigro dei suoi abitanti. Altre cose aggiunge, e ancor più ne aggiungerebbe se, quando ormai la macchina da presa sta addosso a Drugo (Jeff Bridges), non s’accorgesse d’aver perso il filo. Ed è ora, quando il filo s’è imbrogliato a sufficienza, che il racconto vero e proprio dei Coen prende il via. Che cosa è Il grande Lebowski? Forse una trasposizione di The Big Sleep, la terza dopo Il grande sonno (Howard Hawks, 1946) e Marlowe indaga (Michael Winner, 1978)? Certo, la storia di Drugo rimanda al romanzo di Chandler e al suo stile narrativo, al confondersi dei fili (appunto) della sua trama. Eppure, Drugo non è Marlowe. Non ha il suo disincanto cinico e insieme addolorato, e non ne sente la mancanza. Insomma, Jeff Lebowski è quello che il suo soprannome suggerisce. Dude: così è e vuole essere chiamato nell’edizione originale. La traduzione italiana, Drugo, non ha senso. I drughi (droogs) erano Dim, Pete e George, violenti accoliti di Alex, lo stupratore di Arancia meccanica (Stanley Kubrick, 1971). Jeff Lebowski non è violento né stupratore. Pare piuttosto un buon diavolo senza pretese e senza (troppi) rimpianti, un tizio fuori dal gioco. Questo significa dude: tizio, ganzo. Nella parola c’è già il ritratto di Drugo/Dude, ragazzo invecchiato degli anni 70, indolente “atleta” da bowling, accomodante antieroe che nutre la sua soddisfatta abulia di spinelli e white russians e che solo la faccenda d’un tappeto inzuppato d’orina ha spinto per caso nel “giro grosso”. È tanto tizio, il povero Lebowski, che il suo film porta un titolo che non lo riguarda, e che invece riguarda il suo doppio, nel senso del suo contrario: Jeff “Big” Lebowski. Non a caso, i Coen glielo e ce lo presentano seduto su una sedia a rotelle e accanto al fuoco, in una grandezza tragica da patriarca e miliardario che contrasta con l’insignificanza ridicola di un dude qualunque. Che poi anche lui non sia in realtà che un dude, solo un po’ più furbo, fa parte della visione del mondo dei disincantati, sarcastici, geniali fratelli Coen. La sola storia per cui s’appassioni è quella, senza capo né coda, imbastita giorno per giorno con le bocce del bowling, in compagnia di Walter (John Goodman) e di Sonny (Steve Buscemi). Il secondo non riesce mai a terminare una frase, ogni volta zittito dai suoi due soci. Il primo, veterano del Vietnam, è un Rambo da farsa, un dude ancora più dude di Dude/Drugo, uno sciocco, un pasticcione convinto che la vita sia tutta un «segnare una linea sulla sabbia» e poi pretendere che nessuno la scavalchi. Se potesse, più d’una volta il “piccolo” Lebowski pianterebbe in asso la storia in cui s’è ritrovato, fuggirebbe via dal film e dal suo scomodissimo, dannatissimo filo narrativo, per andarsi a sprofondare in una vasca da bagno, beandosi di fumo e alcol, e di ricordi patetici degli arri 70. Ma, appunto, ogni volta la trama lo riprende, ora per mano d’un trio di tedeschi tonti e nichilisti (ma pronti all’indignazione, dimostrando così d’essere più tonti che nichilisti), ora per mano d’un lenone cinematografico con gusti e velleità da mafioso hollywoodiano (Ben Gazzara). Pare dunque che, in questo loro (bel) film “minore”, i Coen si divertano a raccontare uomini che non hanno alcuna storia che sia davvero raccontabile, e che al massimo reggono la dimensione dell’aneddoto, della piccola leggenda di quartiere (un capolavoro è, in questo senso, il Jesus Quintana di John Turturro). Persino l’epica per così dire oggettiva delle ceneri di Sonny disperse nel vento, in mano ai suoi due soci diventa una farsa, con Drugo che si prende in faccia quel po’ che resta dell’amico. E così siamo alla fine del film. I Coen ci hanno portato fin qui senza preoccuparsi di chiudere la trama relativa a Jeff “Big” Lebowski, alla figlia rapita, al milione di dollari. S’accontentano di qualche cenno, lasciandoli a noi da tirare, i fili. Sono molto più interessati a seguire il ritorno di Dude/Drugo al suo bowling, ai suoi spinelli, ai suoi withe russians. Ora, lo straniero con il cappello da cow-boy ce ne racconterà delle belle, sul suo conto. O lo farebbe se – c’era da sospettarlo – non riperdesse il filo. Il quale filo, chissà, forse se n’è andato di nuovo in giro tra Los Angeles e il deserto, inseguendo con gusto e piacere una palla di rovi sospinta dal vento.
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il Giornale Nuovo (1/5/1998)
Maurizio Cabona
I fratelli Ethan e Joel Coen avviluppano i loro film di parole e cinefilia. Fanno un cinema cerebrale e superfluo, perciò piacciono a certi cinefili e critici. Il grande Lebowski condensa tutti gli orpelli coeniani, li frulla e li sbatte in faccia allo spettatore a raffiche di parole, destinate a colmare le esistenze dei personaggi che li pronunciano. Nella realtà, colmano le tasche di due ricalcatori di un genere, il « nero », che è nato da ben più nobili lombi che non quelli dei Coen. Ogni volta che sullo schermo appaiono reduci americani pacifisti, come appunto il disoccupato detto «grande Lebowski» (Jeff Bridges), viene ancora oggi rabbia. Invece di essere morto in un acquitrino, ammazzato da un comunista asiatico, il drogato californiano Lebowski ha trascinato l’inutile esistenza per altri vent’anni fra birre e bowling. Un giorno dell’invemo 1991, mentre ne Golfo persico si combatte, il nostro reduce prende quattro schiaffi da un paio di malviventi in cerca di uno che si chiama Lebowski. La persona in questione è un miliardario, mentre l’appartamento frugato é evidentemente quello di un poveraccio, quindi gli energumeni se ne vanno senza fare troppi danni, ma uno di loro orina sul tappeto. Si potrebbe lavarlo o gettarlo. Invece quella macchia diventa il pretesto perché le vite del grande e povero Lebowski incroci quella del Lebowski non grande ma ricco. Ecco su quali liquidi si costruisce un film, oggi, ecco le idee « geniali» di Ethan Coen, lo sceneggiatore di famiglia. Dopo, comincia la parodia del Grande sonno, il romanzo di Chandler (Feltrinelli) e il film di Hawks (1946). Il Lebowski miliardario ha una figlia ninfomane, che viene rapita; il Lebowski poveraccio, che viene incaricato di pagare il riscatto, si fa aiutare da un amico (John Goodman), un reduce dal Vietnam anche lui. L’operazione subisce intoppi. Un dito di un piede viene recapitato al padre della ragazza (è suo ?), mentre nel film si affacciano un omosessuale bowlingomane (John Turturro) e un regista porno (Ben Gazzara)… E poiché il film era pensato per il Festival di Berlino, non mancano dei «nazisti nichilisti» a titillare il masochismo germanico. Bridges si aggira inebetito, come è logico per un fumatore di hashish e affini; Goodman imita Bud Spencer. Gazzara riesce a non ridere per i soldi che ha preso per avere accettato di finire in questa compagnia.
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Il Giorno (12/5/1998)
Silvio Danese
Si parte dal deserto intorno a Los Angeles e si finisce al bar in un bowling che assomiglia tanto al bancone di saloon di un westem, accompagnati dalla voce epico-parodistica di un cow-boy e da una leggera sterpaglia rotolante, che in città diventa una palla lanciata sul tavolato contro i birilli. In mezzo c’è un intrigo manieristico alla Chandler che s’avvoltola su se stesso, una palla di cinema che si rigira e si sollazza come un gattone che fa le fusa. Tutti agonisti del bowling, che sostituisce il bivacco del western e il night del gangster. In nessun altro film dei fratelli Coen, coppia di genialoidi cervelli della sceneggiatura, la retorica decide la visione e spinge le invenzioni. Che sono tante e tutte «audiovisioni» promosse dal testo. Nella metropoli che guarda al rischio iraniano dei primi anni Novanta, l’ex contestatore Lebowski (Jeff Bridges) vestito come Nick Nolte in Su e giù per Beverly Hills e scambiato per un omonimo miliardario, si trova costretto a indagare sul rapimento della figlia (la moglie, ndr) del magnate. Lo aiuta l’ex veterano John Goodman, irascibile e stonato attaccabrighe, la versione nevrotica del reduce (Rambo era quella paranoica). Buscemi fa il controcanto con la sua faccia da dolce perdente. Con perizia e raffinatezza i due fratelli del Minnesota giocano con i generi cinematografici, soprattutto con brandelli di tutti i loro precedenti film. Un gioco freddo e organizzato, lontano dalla bagarre citazionista di certi «pastiches» postmoderni. Il rapimento è ambiguo come in Fargo. Goodman viene estratto e reinventato dal personaggio dirompente di Barton Fink. Il misterioso maggiolino Wolkswagen che pedina Lebowski è recuperato (autista obeso compreso) da «Blood Simple». La detection fa due clamorose e motivate fughe. nell’animazione onirica e nella parodia del musical alla Busby Burkeley, recuperando effetti speciali da Hula Hoop: quando Lebowski viene colpito proditoriamente e sviene, lo vediamo viaggiare sopra la città in un sogno di perfette ed esilaranti associazioni (c’è perfino un’enorme e ossessiva palla da bowling che lo investe e se lo porta rotolando contro i birilli; c’è un Saddam che consegna scarpe da uno scaffale che arriva al cielo; c’è un passaggio comico tra le gambe di decine di ballerine). Queste sono espansioni narrative su un luogo comune del Marlowe che, nei romanzi, perde i sensi e quando si risveglia «non sapevo che cosa mi era successo, nè dov’ero: sentivo soltanto un gran mal di testa e un terribile impasto mandibolare». Se «Il grande Lebowski» è un titolo che suona anche come un gioco da tavolo, è un caso significativo.
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Film TV (20/5/1998)
Emanuela Martini
Nel 1973, l’ultimo uomo onesto rimasto a Los Angeles, Philip Marlowe, veniva risvegliato da un sonno ventennale dal genio cattivo di Robert Altman e percorreva sonnolento una città e un intrigo che non capiva. Oggi, il corrispettivo dell’occhio privato, un sopravvissuto dei movimenti degli anni ’70, non si risveglia neppure più, ma, come dice di se stesso, rispetta «un regime di droghe molto rigido per tenere la mente sgombra», e si aggira per una Los Angeles assolutamente vuota di senso senza tentare neppure di capirci qualcosa nell’intrigo di dollari, debiti, finti rapimenti, nichilisti tedeschi tanto violenti quanto scemi, nel quale viene letteralmente trascinato da un miliardario equivoco e frustrato. Grande il Lebowski dei fratelli Coen (e il titolo fa il verso a Il grande sonno chandleriano). Preannunciatoci dalla voce off del narratore come «l’uomo giusto per il suo tempo e la sua città», ci si presenta davanti un Jeff Bridges disfatto, in braghettoni, maglietta e sandali di gomma trasparente che, al massimo dell’eleganza, sostituisce i pantaloni corti con un braghe fantasia tenute su con l’elastico. L’ultima cosa che vuole è uscire dalla sua apatia, essere distratto dal bowling, dove passa la maggior parte del suo tempo insieme ai compagni Steve Buscemi (svanito) e John Goodman. Il grande Lebowski è uno straordinario racconto surreale, dove tutto finisce per apparire grottesco, dove non esistono traumi o storie passate per i quali valga la pena di agitarsi. Bellissimo rimescolamento visionario (dalla soggettiva rotolante di una palla da bowling a un sogno musicale tra Busby Berkeley e Ken Russell, al cameo di un mitico Turturro), non dimostra solo quanto siano bravi i Coen, ma anche quanto immersi nella realtà di oggi, dove in fondo campare in uno stupore tranquillo potrebbe essere la formula della sopravvivenza (almeno per i “sopravvissuti”).
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Ciak (1/6/1998)
Valerio Guslandi
Guardando Il grande Lebowski per un momento ci si sente come quando il protagonista Drudo, malmenato e completamente “out”, crede di volare sopra Los Angeles. È un volo leggero e sinuoso quello che ci fanno compiere i fratelli Coen. Un volo divertente intorno a un mondo un po’ sghembo e surreale, così tipico e così “Coen”, a dispetto di chi invece lo ha trovato – come in genero osservano i loro detrattori – un puro esercizio di stile, una sorta di meraviglioso baraccone da Luna-park Certo, spesso gli esercizi di stile mascherano il nulla, ma questa rivisitazione del noir alla Chandler é invece condotta con grande senso dell’ironia applicato alla citazione. Che va dal noir appunto, al musical alla Busby Berkeley, dal western (poteva mancare?) alle sapide graffiate sugli anni ’70 e la loro musica (la macchina rubata senza toccare le cassette dei Creedence Clearwater Revival, il tassista nero che idolatra gli Eagles). E questo concentrato di sfacendati e reduci dal Vietnam, nichilisti e pittrici vaginali, ricchi paralitici e molli pornostar dita mozzate e palle da bowling confermano la vena sempre feconda di questa splendida coppia di autori.