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Il cubo (Cube, 1997) | Recensioni

Cube (1997)

Il cubo
Titolo originale: Cube
Anno: 1997
Regista: Vincenzo Natali

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La Stampa (28/5/1999)
Lietta Tornabuoni

Horror geometrico, coreografie della paura: in «Cube» (cubo) di Vincenzo Natali (nato a Detroit, cresciuto, istruito e abitante in Canada) sei personaggi in cerca d’uscita, tra loro estranei, si ritrovano prigionieri d’un labirinto costituito da stanze cubiche identiche e simmetriche di quattro metri per quattro, intrappolati in una minacciosa monotonia simile alla vita d’ognigiorno. Non sanno dove sono, perché sono lì, come uscirne. Non riconoscono se stessi: un poliziotto, un architetto, una geniale studentessa di matematica, un malato di autismo… A volte si sente un rombo, e una stanza si mette a tremare. A volte si sospetta che una stanza quadrata, un cubo, possa diventare un assassino. Tutte le vie di fuga sembrano impraticabili. I sei personaggi, furenti ed esasperati per la detenzione, s’incanagliscono, di scagliano contro il più debole, litigano, lasciano affiorare i lati peggiori della personalità di ciascuno, diventano nemici uno all’altro; il cubo si trasforma in incubo, eppure se i sei non impareranno ad agire insieme moriranno nella trappola mortale tesa da chissà chi. Si capisce che il regista intende fornire una propria analisi della natura umana, dell’esplodere delle pulsioni peggiori nelle situazioni di tensione, della tendenza ad aggredirsi gli uni con gli altri quando più sarebbero necessarie la solidarietà e l’unione, della necessità della collaborazione per salvarsi e sopravvivere; si capisce che i nemici ignoti, la misteriosa forza che ha imprigionato i sei personaggi, rappresentano tutte le difficoltà a i pericoli che l’esistenza riserva. Girato con pochi soldi in meno di un mese, in un unico ambiente, con attori giovani poco noti, con effetti e immagini al computer molto efficaci, presentato a numerosi festival (Berlino, Sundance, Messico, Toronto), il film è forse troppo caricato di simboli e metafore, ma rispecchia bene il senso di soffocamento dell’angustia e del pericolo quotidiani ed è nel suo genere pure divertente.

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Corriere della Sera (29/5/1999)
Maurizio Porro

Originale, interessante film-puzzle non fantascientifico, anche se è stato premiato nei festival di questo settore, ma fantastico e pieno di una fin troppo rigogliosa e dichiarata metafora morale sulla vita che non vale un gran che e finisce con un messaggio senza molte speranze: l’unico che si avventura di nuovo nella «sconfinata stupidità umana» è l’autistico genio della matematica, un ritardato Archimede Pitagorico in grado di stabilire un contatto «diverso» con la realtà, che non passa attraverso il processo di conoscenza ufficiale. A lui si deve se sei uomini non scelti a caso da Chissà chi, tutti di mentalità scientifica, nessun poeta o letterato, sono imprigionati claustrofobicamente in un enorme cubo semovente dal quale tentano invano di uscire, con effetti, soprattutto iniziali, da cinema horror. Ma come in «10 piccoli indiani» i prescelti litigano di gusto e se ne vanno uno dopo l’altro, per malvagità o incidenti voluti da Qualcuno che sta in alto e su cui il regista è polemicamente in dubbio: un alieno, un governante, Pentagono o multinazionale? Niente paura, forse è solo la Dea Stupidità. Muovendosi alla maniera del Ronconi anni ’70 nei meandri delle varie stanze similari e angosciose del cubo terrificante dalla superficie nera, riflessa e levigata – sembra l’agghiacciante, magnifico nuovo museo dell’Olocausto di Berlino – i sei umani eletti, intrappolati nel labirinto, si portano dietro paure, vizi, razzismi, insulti in cui ricorrono la dittatura cilena e il nazismo. Ma soprattutto non riescono a vincere il mistero, nonostante sia stato proprio uno di loro a costruire il cubo, diciamolo pure, naturalmente kafkiano, naturalmente punitivo: se fosse un cocktail, cuba non libre. Il regista Vincenzo Natali che, nonostante il nome, è nato a Detroit e risiede oggi in Canada, ama da sempre le storie apocalittico-matematiche e lo dimostra con ampia facoltà simbolica. Se il gioco è fin troppo ridondante e contiene di tutto e di più, la conduzione della suspense è notevole e l’apparato grafico-scenografico di Jasna Stefanovic, da cui discende l’incubo, è seducente. Esso fa da protagonista del curioso film, recitato un po’ televisivamente ma pieno di giovanil pessimismo, in cui sono evidenti i cine-amori del regista, da Buñuel a Scott.

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Film TV (2/6/1999)
Aldo Fittante

I saldi di fine stagione ci regalano un piccolo gioiello che, da oltre un anno, raccoglie premi nei festival specializzati in fantascienza e fantastico. É l’esordio di un figlio di emigranti italiani nato a Detroit ma vissuto a Toronto, fin da piccolo appassionato/ossessionato dal Futuro, assieme all’amico di sempre Andre Bijelic (che cosceneggia). É il racconto dell’incubo vissuto da sei personaggi, estranei l’uno all’altro, che, improvvisamente e senza conoscerne i motivi, si trovano dentro a una sorta di prigione, un labirinto di camere cubiche disseminate di trappole mortali. Realtà o Finzione? Alla domanda, di gran moda al cinema negli ultimi mesi, il film risponde con acute invenzioni visive che riescono a vincere la modestia dei mezzi a disposizione (Il film è stato girato in meno di un mese in un singolo set costruito in una casa di Toronto; e in un solo cubo 14×14, anche se lo sfondo dell’azione cambia in continuazione): una straordinaria sfida centrata che ricorda il primo Lucas di “L’uomo che fuggì dal futuro” e rimanda al climax artistico canadese, che da anni partorisce sogni rivestiti di fertile angoscia, da Cronenberg fino a “X-Files”. Tutti atleticamente espressivi, e di funzionale provenienza teatrale, gli attori.

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la Repubblica (29/5/1999)
Roberto Nepoti

Malgrado il nome italiano, Vincenzo Natali è un cineasta canadese: un tipo dotato di parecchia fantasia, che per il suo primo lungometraggio ha deciso di trasformare un cubo in incubo. Premiato a diversi festival, accolto trionfalmente dal pubblico francese, Cube immette sei personaggi in un ambiente cubico: meglio, in un labirinto di cubi (ma Natali, in realtà, se n’è dovuto far bastare uno solo, cambiandone l’aspetto con le inquadrature e le gelatine colorate) pieni di pericolosissime trappole. Nessuna spiegazione, nessun prologo: un po’ come avveniva in certi episodi di “Ai confini della realtà”, lo spettatore viene sospinto in una dimensione estranea, ne resta spiazzato come i personaggi (uno dei quali è segretamente implicato nella creazione del cubo) e si identifica con loro. Per spostarsi da un cubo all’altro verso una ipotetica via di uscita, i prigionieri devono risolvere degli enigmi, mentre, ridotti a topi di laboratorio, cercano di evitare le trappole imprevedibili e mortali. I “caratteri” sono ambigui come le loro motivazioni: se per riuscire a scamparla è indispensabile collaborare, paura e claustrofobia, ira e frustrazione (da un cubo si esce solo per entrare in un nuovo cubo) li mettono in conflitto e li aizzano l’uno contro l’altro. La recitazione lascia un po’ a desiderare, invece la fattura è di prima qualità. Quasi a controbattere la linearità della scenografia unica, la macchina da presa si anima, ansima, diventa tramite emotivo ai sentimenti degli intrappolati. Che Cube sia più originale della grande maggioranza dei thriller futuristici circolanti è confermato, del resto, dall’epilogo. Così come, all’inizio, non sappiamo perché i sei personaggi in cerca di uscita siano capitati lì, analogamente – alla fine – il mistero dei cubi resta senza soluzione.

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Ciak (1/7/1999)
Stefano Lusardi

Dovrebbero andare tutti a farsi uno stage con Natali i grandi boss delle majors. Mentre infatti Hollywood affoga nel gigantismo, il canadese dimostra che si può girare una buona fantascienza anche con 350 mila dollari e investendo tutto in fantasia. Buttando lo spettatore in medias res, evitando accuratamente ogni morale e scegliendo, beffardamente, di non svelare neppure alla fine il mistero del suo cubo metafisico, il regista ha frullato insieme Kafka, Borges e Rubik ottenendo un oggetto filmico affascinante, che fa dell’orrore una cosa tutta mentale e straniante (la chiave di lettura è geometrica come quella di un puzzle infinito), ma provocando al contempo sensazioni soprattutto tattili e fisiche. Dotato indubbiamente di un buon talento, Natali ha forse un classico limite generazionale: poca cura nella direzione degli attori (tutti, da Nicole deBoer a Maurice Dean Wint, piattamente televisivi) e preminenza assoluta dell’immagine.

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Duel (30/6/1999)
Barbara Frigerio

«Solo chi governa può costruire una cosa tanto orrenda»: ecco una delle possibili spiegazioni al mistero in cui sono intrappolati i personaggi, «Ero davanti al frigorifero e improvvisamente mi sono ritrovato qui», «Dormivo e mi sono risvegliato qui»: alcuni dei ricordi, tra l’onirico e il quotidiano domestico, previa cubificazione della società con conseguente repressione della stessa in vista dell’annullamento dell’uomo, in quanto animale sociale. Dal nietzschiano «Dio é morto» al post-atomico e post-moderno: «L’uomo è morto». Ma chi l’ha ucciso? L’uomo stesso. Suicidio di massa? No, è la massa che uccide l’entità individuale su ordine di alcune altre misteriose identità individuali. Qualcuno ha rinchiuso i sei personaggi (forse il loro Autore?) nel Cubo, ma non é solo il Cubo che li vuole eliminare. Emerge l’estremista folle, il fascista violento, sadico e senza scrupoli, l’ex poliziotto, parte integrante con tanto di divisa e di stipendio, della società. Un homo sociologicus che, pur di sopravvivere, è disposto a eliminare qualsiasi fastidioso ostacolo alla salvezza (nel vagheggiamento della legge darwiniana, simbiotica con quella della giungla). Quale? Il ragazzo autistico, il medico, voce sedata della sua coscienza, o il traditore che ha partecipato al progetto della costruzione; e che, nel vasto disegno della distruzione, rappresenta il pentito pronto ad autoinfliggersi una pena. Il Cubo ruota sempre su stesso: il tempo passa, i luoghi e le persone apparentemente cambiano, ma in sostanza tutto rimane invariato. Allo stesso modo la società insegue falsi credi, falsi progressi, diventa più flessibile, ma solo per mordersi meglio la coda. É come il Cubo: «Esiste e deve essere usato»; al pari del male? (e al cinema il Male non conosce “il viale del tramonto”). Ma ci si può convivere con questa «sconfinata stupidità umana»? In Cube, la risposta risiede nell’escluso: si salverà solo l’esiliato dalla società, l’autistico, colui che, vivendo in un altro mondo, riesce a vivere in questo mondo? Al pari dell’attore, che vive e sopravvive, vivendo la vita di qualcun altro nella finzione del cinema? L’uomo, come afferma Dahrendorf (Homo sociologicus): «È, e al tempo stesso non è società», ossia esiste solo se accetta dei ruoli, ma in quanto uomo integrale e non esclusivamente sociologicus, sfugge con la sua libertà, al controllo e alla coercizione. Come? Attraverso il gioco. Citando Crozier (Attore sociale e sistemo) «È il gioco a conciliare libertà e costrizione», a integrare rigidità e flessibilità. E questo, inevitabilmente, provoca una zona di incertezza: non sapendo come l’uomo reagisce, grazie al margine di libertà, si crea una pericolosa imprevedibilità. E la società, o chi la gestisce, non può che temerla. Tutto deve essere sotto controllo, sotto osservazione: «Ho l’impressione che qualcuno ci stia osservando», dichiara uno dei personaggi in Cube. In che modo? Attraverso un gioco su misura, il Cubo-società, con cui poter vigilare, sorvegliare, censurare, governare, dominare l’essere umano.

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Il Giorno (29/5/1999)
Silvio Danese

Se un giorno ci svegliamo in un cubo di Rubik e il mondo è sparito? Sei persone in un incubo senza uscita: qualcuno ha costruito un’immensa trappola e ve le ha inserite. Una soluzione (matematica) c’è. Fuori, però, attende l’eterna stupidità umana. Dentro, invece, l’eterna lotta per la sopravvivenza. Un film claustrofobico che ha antecedenti in Hitchcock e Kafka, sostenuto da un’idea unica, visivamente potente, ma subito dichiarata: il nostro movimento illusorio nel tempo e nello spazio. Esordio ingenuo e radicale dell’italo-canadese Vincenzo Natali.

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