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IL CACCIATORE – Recensione di Morando Morandini

Morando Morandini recensisce "Il cacciatore" di Michael Cimino

di Morando Morandini, Il Giorno

Tre amici – Mike, Nick e Steven – lavorano nella stessa acciaieria di Clayton, in Pennsyl­vania. Sono anche appassionati cacciatori di cervi. I tre giovani vengono richiamati per il Vietnam. Alla vigilia della partenza, Steven sposa Angela. Partecipano alle nozze gli amici e tutta la comunità, che è di origine russa. In Indocina Mike, Nick e Steven cadono prigionieri dei vietcong. Durante la prigionia sono sottoposti a torture: la roulette russa forzata e l’immersione nelle acque di un fiume, rinchiusi in una gabbia. Riusciti a fuggire, gli amici si perdono di vista. Mentre Mike ritorna decorato a Clayton, Steven finisce in ospedale, paralitico. Nick, sotto trauma e quasi privo di memoria, fa la roulette russa a Saigon per gli scommettitori. Nella piccola città americana il reduce ha una relazione, melanconica, con la ragazza di Nick, Linda. Durante una partita di caccia, Mike risparmia il cervo che gli si offre come facile bersaglio. Egli persuade Steven a riprendere la vita come prima; quindi rag­giunge Nick, mentre Saigon è nel caos dopo il disimpegno americano. Non riesce tuttavia ad impedire che l’amico si esibisca ancora una volta nella roulette russa, rimanendo ucciso. Dopo il funerale di Nick, i superstiti si incontrano in una mesta riunione, a Clayton.

Michael, Nick e Steven, operai in un’acci­aieria di Clayton (Pennsylvania), partono per il Vietnam in un reparto di fanteria aviotra­sportata. Fatti prigionieri dei vietcong, che li costringono a giocare alla roulette russa, riescono a fuggire, ma quella sconvolgente esperienza li ha segnati per sempre. Michael (Robert De Niro), il più forte dei tre, torna carico di decorazioni, ma si sente un estraneo; Steven (John Savage) è un invalido senza gambe; Nick (Christopher Walken) diserta a Saigon e finisce in una casa da gioco clandestina dove ogni sera si cimenta, tra il vociare di una piccola folla di scommettitori, nel gioco della roulette russa finché una notte, mentre la città è immersa nel caos della capitolazione imminente, trova quella morte che aveva cercato con accanimento disperato. A Clayton, dopo le sue esequie, i due superstiti e i loro amici e parenti si mettono a tavola per una parca cena e intonano il canto “God Bless America”: Dio, benedici l’America, la terra che amo… guidala nella notte con la tua luce dal cielo.

All’inferno e ritorno. Il titolo di un vecchio e mediocre film bellico hollywoodiano, tratto dalle memorie di Audie Murphy, il soldato americano più decorato della seconda guerra mondiale, e da lui interpretato, sarebbe adatto anche a Il cacciatore (The Deer Hunter, 1978 – EMI-Titanus) che di colpo piazza lo sceneggiatore Michael Cimino, di 37 anni, in prima fila tra i registi americani dell’ultima leva: questo suo secondo film – che, a quattro anni di distanza, segue Una calibro venti per lo specialista con Clint Eastwood – è destinato a durare.

Il cacciatore dura tre ore. La guerra nel Vietnam v’occupa la parte centrale, la più breve, oltre a un capitolo verso la fine, nelle cadenze di un’apocalisse allucinata. Recente­mente soltanto il Peckinpah di La croce di ferro può sostenere il confronto con la visionaria potenza, l’orrore insostenibile, lo stralunato onirismo di queste sequenze sulla guerra come inferno e carnevale di morte. È un film, quello di Cimino, che si colloca su quella linea di espressionismo che, nel cine­ma americano, parte da Stemberg (e il riferimento al regista di The Saga of Anathan diventa inevitabile nelle scene di Saigon), passa per Welles – e, perché no?, per il Losey inglese – e arriva a un certo Peckinpah e al Coppola di Il padrino – parte seconda.

Anche la costruzione narrativa – in alter­nanza tra dilatazioni e compressioni dei tempi narrativi, tra esasperati indugi e scorci fulminei – è su questa linea. Così si spiega la trascinata insistenza sulla cerimonia e la festa nuziale, nel quadro di una comunità di origine russa, che occupa tanto spazio nella prima parte. È lo stesso approccio di Visconti nell’interminabile ballo di Il Gattopardo, e ha un’analoga funzione espressiva: un mondo di valori costituiti che sarà spazzato via, sconvolto, corrotto dalla guerra.

Chi accuserà Il cacciatore di essere un film politicamente reazionario perché mostra le atrocità commesse dai vietcong, non avrà capito nulla per cecità. Non avrà capito che Cimino e il suo sceneggiatore Deric Washbum si pongono nei confronti della guerra del Vietnam in un atteggiamento etico, non politico. Eppure l’ossessiva insistenza sul tema della roulette russa dovrebbe aprire gli occhi anche ai più ottusi: è un tema che acquista un valore di metafora sulla guerra – su quella guerra – che cancella la linea di separazione tra ragione e follia, coraggio e ferocia, amici e nemici.

È più difficile, invece, analizzare – e qui manca lo spazio – la caccia al cervo, nelle due sequenze parallele all’inizio e alla fine del film, anch’esse immerse in clima di stupenda resa figurativa (la fotografia in Panavision è di Vilmos Szigmond che è, con Laszlo Kovacs e Gordon C. Willis, uno dei grandi operatori dell’ultimo cinema america­no), in contrapposizione alle bolge infernali del Vietnam e allo spettrale caos di Saigon. Occorreva uno straordinario coraggio morale e artistico per chiudere questa saga tragica, ribollente di urlo e furore e follia, con quel coro di “God Bless America”. In una compagnia di attori – tra cui, nella parte di Stan, l’amico della rivoltella, John Cazale che mori tragicamente dopo le riprese – superbamente guidata da Cimino, c’è un De Niro al meglio della sua forma.

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