Trasparente ma opaco.
Gelido e incandescente.
Nudo/mascherato.
Buio e luminoso. Carnale e scarnificato.
Sognantesognato.
Rosso-blu-bianco-nero
Eyes Wide Shut
di Stanley Kubrick
di Ezio Alberone
Gli occhi aperti di Bill
Bill lavora sodo, forse persino troppo. Neanche durante una festa viene lasciato in pace. E nel cuore della notte il telefono di casa può squillare… Si capisce: è un medico giovane, in carriera. Certo non è abituato a riposarsi (e, nell’arco dei tre giorni in cui si sviluppa Eyes Wide Shut, praticamente non dorme mai). Insomma, Bill è costretto a tenere gli occhi aperti, ma finisce per avere lo sguardo imbambolato di chi attraversa la realtà in stato di trance, di reverie, di sonnambulismo (Tom Cruise, da questo punto di vista, appare perfettamente in parte). D’altra parte, tutto quello che si dispiega davanti a lui ha le caratteristiche di un sogno a occhi aperti, di un’allucinazione. Di un film.
Come ogni sognatore, a un tempo protagonista e spettatore del proprio sogno, Bill procede per forza di inerzia in un tragitto che contempla evoluzioni impreviste, collegamenti impensati, incontri casuali con persone conosciute e mai più riviste o con perfetti sconosciuti, che rappresentano ipotetiche minacce o improvvise vie di salvezza…
Bill, dunque, è l’uomo che guarda («I don’t play, I watch» come dice davanti al biliardo).
Guarda, ma senza toccare. Adocchia, ma senza gustare. Ammira, ma senza possedere.
La coazione a vedere lo lega all’Alex di Arancia meccanica anche se il suo vero ascendente è costituito dal Jack Torrance di Shining. Come lui, Bill sperimenta la frustrazione dell’incompiuto e la febbre dell’inappagato… Tant’è che le sue paure e i suoi desideri restano sempre in potenza (è questa la radice dell’impotenza?): la seduzione e il gioco delle due ragazze alla festa vengono interrotti dalla richiesta di aiuto per la donna in overdose, l’inaspettata dichiarazione d’amore al capezzale del paziente morto si scontra con l’arrivo del fidanzato della donna, la violenza e le insinuazioni sulla sua omosessualità del gruppo di teppisti incontrati per strada rimangono a un livello puramente verbale. Via di questo passo, anche le tentazioni della pedofilia, dell’orgia o della necrofilia vengono costantemente sublimate. (In questa dialettica tra perversione e sublimazione, per Kubrick, probabilmente, sta lo specifico umano, e tutto il film può essere letto anche come una lunga deriva prima di ritrovare un barlume di istintualità animale, come suggerisce l’ultima battuta del film, ironicamente ambientata in un negozio di giocattoli pieno di bestiole di peluche che richiamano “l’alba dell’uomo”).
Bill ha altre cose in comune con il protagonista di Shining. Come Jack – anche se in modo meno radicale – mette a repentaglio il proprio nucleo familiare costituito da una moglie e da un figlio (in questo caso una figlia). Come Jack vive un’avventura invernale e si perde nella notte. Come lui, percorre dei saloni, scende delle scale, entra in un bagno, ha a che fare con celle frigorifere (all’obitorio), con delle feste, con degli alberghi, con porte chiuse (che sarebbe meglio non aprire)… Insomma, in modo non molto diverso da Jack, ha a che fare con uno spazio chiuso, uno spazio-cervello, uno spazio-set. Eppure, mentre Jack si perde nel labirinto del reale (o del mentale, visto che è la mente che “crea” la realtà), Bill si affaccia sull’abisso ma non vi precipita. Perché?
Si potrebbero fare molte ipotesi a partire dal fatto che Jack è uno scrittore e Bill un medico, che uno ha un figlio maschio (dotato di poteri speciali) e l’altro una figlia femmina (che fin dall’inizio, non per nulla, è vestita da angelo), eccetera eccetera.
Gli occhi chiusi di Bill
Avanziamo un’altra ipotesi: Bill si salva perché non vede.
Meglio: vede, ma non esamina. Guarda, ma non considera. Osserva, ma non capisce.
La sua logica semplificatrice non gli consente di comprendere, ma gli permette di non impazzire di fronte alla complessa orditura del reale (del mentale). Quando discute con la moglie del fatto che gli uomini non possano fare a meno di desiderarla, Bill ammette che il suo schema di ragionamento è semplicistico. Nella versione originale di questo brano di dialogo, Bill dice testualmente che pensa «in bianco e nero» (e la sua fantasia sul tradimento non consumato della moglie, inevitabilmente, è in b/n). Bill ragiona così. Per questo non riesce a capire fino in fondo cosa stia accadendo. Bill ha gli occhi chiusi di chi non riesce a raccogliere i segnali, a decifrare i codici, a leggere i simboli. Ragionando «in bianco e nero» non riesce neppure a intuire la semaforicità del pantane di colori che gli si para dinnanzi. Dalle due ragazze alla festa che lo vogliono portare «alla fine dell’arcobaleno» si sottrae. Nel negozio di costumi «Rainbow» si veste di nero. Eppure il colore continua ad assediarlo. Dal rosso all’indaco, lo spettro – presenza già orrorifica – dei colori si dispiega ai suoi occhi ciechi. Valga come esempio l’insistenza del rosso che, nella lunga sequenza che precede il suo arrivo al festino orgiastico, non lo abbandona mai: dall’interno del «Sonata café» alle guide rosse della villa, non c’è inquadratura che non contenga una traccia di rosso (dagli stop della macchina alle cifre del tassametro, addirittura alla cravatta del tassista).
L’incapacità di vedere – l’assenza di shining – di Bill, ancora una volta, è speculare a quella di Jack Torrance: come lui preferisce affidarsi alle parole, al logos, nel tentativo di spiegare, di capire, di argomentare, di stabilire i collegamenti tra gli eventi… Eppure, il «sogno» di Bill è disseminato di indizi e di spie rivelatrici non solo sul piano visivo (come nel caso dei colori), ma da una sottolineatura costante dei «nomi delle cose» che a un logico (o presunto tale) come lui dovrebbero pure dire qualcosa.
In un mosaico come quello che attraversa incontra una donna che si chiama Domino e non coglie la rivelazione del collegamento-implicazione di tutte le cose. Così come non capisce che il riferimento di Victor al gioco enigmistico della sciarada è quanto mai opportuno per comprendere la funzione del montaggio (onirico o filmico) per cui singoli elementi di significato autonomo, una volta accostati, danno luogo a un senso diverso. Non gli dice nulla una parola d’ordine come Fidelio che fa riferimento a un’opera che ha come sottotitolo «L’amor coniugale» (ed è già una storia di minacce, travestimenti, condanne…). Lo stesso vale per il titolo del giornale: Lucky to Be Alive. Idem per il nome della moglie, Alice (come l’eroina di Carroll, anche lei sembra aver già attraversato lo specchio, conosciuto la duplicità e l’ambiguità del reale, comprendendo che la vita cosciente e quella onirica sono pagine dello stesso libro). Ma, come si è detto, Bill attraversa il suo sogno – il suo film – come inebetito. Non per nulla la sua prima e la sua ultima battuta sono domande. Non è un caso che sia Alice, in entrambi i casi, a dare la risposta.
Gli occhi aperti/chiusi di Bill
Arrivati a questo punto, si sarebbe tentati di coniare per Bill l’aforisma che il vero teorico non scopa mai, per smentirlo immediatamente con un corollario che gli si adatta ben di più: non è detto che chi non scopa sia necessariamente un teorico.
Eppure, sebbene sia sballottato di qua e di là e non gliene vada in porto neanche una, dalla sua (dis)avventura il povero Bill non viene schiacciato. E forse qualcosa impara. Perde la sicurezza borghese e la pretesa di avere il controllo sul mondo (ben espresse dalla frequenza con cui mette mano al portafogli ed esibisce la tessera professionale per tutto il corso del film). Ossessionato com’è dalle manie di potenza, è già un passo in avanti per lui scoprire che il vero potere è mascherato, occulto, dissimulato (di fronte al potere, come sempre, la riflessione di Kubrick è improntata al più nero pessimismo). Così, dalla presunzione della razionalità, positività e scientificità del medico rampante, non è poca cosa per Bill arrivare a riconoscere in sé una fin lì insospettata propensione alla vertigine (ben al di là di uno spinello fumato nell’intimità domestica).
Bill, nel mezzo del cammin di sua vita, si smarrisce. E torna a casa diverso da com’era uscito. Almeno in parte, ha avvertito il lato oscuro della vita per cui il profluvio di luci artificiali non potrà mai cancellare la natura notturna, buia, segreta, del reale. Il suo Natale alla fine assomiglia a un triduo di passione, morte, discesa agli inferi. La sua resurrezione è un ritorno alla vita che non potrà più essere quella di prima (da questo punto di vista, il riscatto per cui qualcuno si sacrifica al posto suo ha davvero qualcosa di pasquale e di redentivo).
Ecco allora che i suoi “occhi aperti/chiusi” non costituiscono solo una modalità passiva di registrazione di ciò che accade o una dichiarazione dell’inconoscibilità razionale delle cose ma lasciano intravedere (forse) un’altra modalità di conoscenza, più interiore e profonda. Gli occhi chiusi alla comprensione si socchiudono al mistero (una parola che viene dal greco myein: “chiudere”, “serrare” gli occhi o le labbra).
Anche l’invito a “scopare” che chiude il film, più che come invito a ripartire dalle cose concrete e possibili (per non fare passi più lunghi delle proprie gambe), o come tardiva rivalutazione kubrickiana delia famiglia (dopo tanti film in cui essa ha mostrato tutti i suoi limiti), potrebbe essere accostato alle considerazioni di Susan Sontag “contro l’interpretazione”, con il suo richiamo a un pensiero – a un esercizio critico – che la smetta di voler esser ermeneutico, e cerchi piuttosto di essere erotico. Che non pretenda, cioè, di aver capito e di poter spiegare tutto, ma riesca a sentire e a vedere – a farci sentire e vedere – di più.
D’altronde, questo è quello che Kubrick ha sempre fatto con i suoi film abbaglianti.
* * *
Lo sguardo ottuso
E se Eyes Wide Shut fosse anche, tra l’altro, una ghignante lezione su come non si possono più guardare i film?
di Gianni Canova
Tutta colpa del referente. Della convinzione, dura a morire, che il cinema debba avere il proprio referente (e non possa non averlo) nella realtà. Che sia (e debba essere) un’impronta del mondo, una traccia della vita. I referenzialisti sono dogmatici, intolleranti, imperativi. Di fronte a un film non sanno fare altro che elaborare un confronto fra quel che si vede stillo schermo e ciò che essi ritengono sia la realtà. Cosi, davanti a un film limpidamente astratto e definitivamente areferenziale come Eyes Wide Shut intonano – tutti assieme spassionatamente – il loro prevedibile e querulo coro: «Ma la vita non è così. Non si scopa così. Mai vista un’orgia simile!» (i referenzialisti sono notoriamente orgiastici e dionisiaci e praticano i prive più dei cinematografi…). C’è una perfida vocazione poliziottesca annidata nei meandri della loro psiche: convinti di possedere essi (ed essi soltanto) il canone (unico) della vita e della realtà, mettono le manette o invocano la gogna per tutti quei linguaggi che non si conformano agli schemini stampati nelle loro teste. Così, visto che Eyes Wide Shut non si conforma, hanno pensato bene – da perfetti gendarmi dello sguardo – di incarcerare anche Kubrick nell’angustia delle loro celle mentali. E di gettare via le chiavi.
Eyes Wide Shut non mette in scena la vita. Non ne parla, non la racconta. Non racconta né il senso né il tradimento coniugale. Caso mai racconta il cinema. Mete in scena se stesso in quanto macchina di produzione linguistica delle immagini. Lo fa programmaticamente, con una lucidità che mai in passato Kubrick aveva reso cosi esplicita. Tanto da volere – per la prima volta in tutta la sua filmografia – la parola «occhi» nel titolo. Tanto da inaugurare la mostrazione con la battuta rivelatoria di Nicole Kidman che rimprovera a Tom Cruise quel meccanismo della cecità di fronte all’evidenza (lui non trova il portafoglio abbandonato in bella mostra sul comodino) già magistralmente narrativizzato da Poe nella Lettera rubata e indagato analiticamente, a partire dallo stesso testo, da Jacques Lacan. Più chiaro di così. Ma per i referenzialisti (e per il loro peloso integralismo) non serve a nulla. Ha un bel dirci Kubrick che Eyes Wide Shut è un film su un doppio sogno incrociato (cioè sui meccanismi di produzione e rappresentazione iconica del linguaggio onirico): loro – o ignoranti o in malafede – confondono il sogno con i suoi contenuti manifesti e si scagliano contro Kubrick accusandolo di non essere onirico-verosimile. Non si sogna cosi. Beati loro. Beate le loro certezze. In realtà, la cecità di fronte all’evidenza li riguarda in misura analoga al personaggio di Tom Cruise. Che è la proiezione infradiegetica dello sguardo ottuso con cui un certo tipo di spettatore si ostina a illudersi di voler vedere il cinema e i film.
Lo scarto più vistoso che separa il personaggio di Cruise da quello della Kidman è uno scarto scopico. Riguarda il diverso modo in cui
usano gli occhi. Lei fa lavorare continuamente lo sguardo, lui no. Si prenda la celebre sequenza del bacio nudi davanti allo specchio. Cosa sta guardando lei? Dove va il suo sguardo? Cosa c’è nel fuoricampo verso cui dirige la sua pulsione scopica? Mentre gli occhi di Tom Cruise è come se non ci fossero, e il personaggio è solo una bocca che bacia, in Nicole Kidman sembra ci siano solo gli occhi. C’è il loro lavoro di raccordo e di focalizzazione sul non visibile. E c’è un processo di rappresentazione che ci induce a desiderare di poter vedere anche noi ciò che lei vede e che è negato alla nostra vista. Ciò in cui lei si perde. Anche Cruise si perde nella sua flanerie notturna alla ricerca di un eros sempre solo sfiorato-sognato-lambito-immaginato-spiato ma mai veramente vissuto. Ma il suo viaggio – la sua deriva, il suo ritorno – è non a caso un percorso obbligato dentro le forme della rappresentazione. Non manca nulla: la festa, la musica, il teatro, la maschera, il rito, il gioco, la sacra rappresentazione. Mosso dal desiderio e illuso di poter vedere il corpo, Bill in realtà passa in rassegna le forme nude dello spettacolo. Si inabissa nel gioco infinito delle maschere, e solo cosi riapprende a poco a poco a praticare lo sguardo. Ma solo dopo aver rischiato di perdersi a causa di una parola (Fidelio, e la seconda password sconosciuta perché inesistente). Ancora una volta in Kubrick chi si fida delle parole va incontro a catastrofi: come era già accaduto a Jack Torrance in Shining, o agli astronauti di 2001 di fronte all’occhio acceso di Hai che leggeva i loro movimenti labiali, anche Bill sperimenta per l’ennesima volta (per l’ultima volta?) la sconfitta di logos. Perde una parola, e si perde. Per poi ritrovarsi, forse, grazie a uno sguardo. Sguardo in maschera, sguardo senza volto. Occhio aperto-chiuso nel baluginio abissale che va oltre la nudità dei corpi e la mostrazione rituale del sesso come spettacolo per sprofondare nella più radicale interrogazione sul senso del vedere.
Perché Bill, nelle sue visioni immaginarie del tradimento della moglie, vede in bianco e nero? Forse perché l’immaginazione non può strutturarsi ormai che secondo i codici di un film? O perché alla fine del Novecento il cinema è penetrato così profondamente dentro di noi da obbligare anche il nostro inconscio (i nostri sogni) a funzionare come lui? O – ancora – perché è lo stesso cinema che è nato e si è formato mimando i nostri meccanismi di rappresentazione mentale? Nella risposta a queste domande c’è, forse, il senso dell’ultimo, bellissimo ed enigmatico lavoro con cui Kubrick si è congedato dal cinema e da noi. Lasciandoci tra le mani un oggetto che ha la purezza di un cristallo e il magnetismo di un mistero, e che brilla nei cieli del cinema quasi sorridendo cinico del nostro disorientamento, con un ghigno filosofico e per ciò stesso inevitabilmente silenzioso. Terminale, interminato.
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La ricerca della perfezione
L’intelligenza di Kubrick è superiore alla perfezione del suo cinema, e il suo ultimo film ne è la riprova.
di Mario Sesti
Un uomo che in barca, su un mare agitato, tenta in tutti i modi di evitare che su una scacchiera si rovescino i pezzi schierati: è la più bella e rivelatrice immagine di Kubrick che abbia mai letto ed è contenuta in John Baxter, Stanley Kubrick, Lindau, Torino, 1999. Ammettere che l’ossessiva ricerca di perfezione del regista possa essere considerata il sintomo di una coscienza terrorizzata dalla precarietà della vita, non sarebbe una lettura particolarmente eversiva se la letteratura critica su Kubrick non avesse nel tempo costruito un mito piuttosto ripetitivo e dogmatico di tale ricerca facendone una valore assoluto e incondizionato, il segno di una totale coincidenza con il cinema in quanto tale. Eyes Wide Shut non è in grado né di affermare una volta per tutte tale mitologia, né di destituirla di fondamento. Non aggiunge il tassello definitivo a tale monolite eretto dallo sguardo critico, semmai ne illustra ancora una volta la misteriosa e indistruttibile composizione (per inciso: quanto deve l’uso della parola “monolite” a 2001: Odissea nello spazio? Qualcuno lo aveva mai usato prima in un contesto non specialistico?).
Se si affronta il film, invece, con l’idea che esso avrebbe dovuto scolpire la definitiva verità cinematografica sull’eros così come Arancia meccanica aveva fatto sulla violenza, Orizzonti di gloria sulla guerra, Barry Lyndon sul Settecento, si rimane in forte imbarazzo: a essere fiscali, a fare una scrupolosa cronaca critica del film, sul taccuino possiamo annotare quasi due ore di un film interessante e misterioso, quaranta minuti che ti piacerebbe pensare incompiuti e non montati dal suo autore, due monologhi della Kidman a segnare i momenti dì
maggiore intensità, ma niente che lasci un segno profondo e indelebile. Né convincono coloro che hanno tentato una lettura tradizionalmente poetica, liricamente paternale, di un Kubrick, al crepuscolo della vita, che costruisce l’elegia della famiglia come unico vero spazio del desiderio. La verità è che il finale del film, per essere all’altezza del cinema di Kubrick, dovrebbe percuoterci con la stessa irredimibile ambiguità con la quale il finale di Arancia meccanica celebra la presunta commozione per la redenzione della violenza affermando invece la vittoria universale della violenza istituzionale, irreparabile e onnipotente. Eyes Wide Shut non ha di tali sommità, ma la più grave mancanza di rispetto nei confronti del suo autore che ha dato al cinema forse più di quanto il cinema abbia dato a lui, sarebbe proprio pretenderle per diritto, con la prepotenza infantile ed egoistica del cinefilo e del critico. Kubrick ha diritto a qualcos’altro di meno effimero del critico tifoso o fazioso che sanziona capolavori per eccesso non foss’altro per provocare il resto, interdetto, della critica. L’intelligenza di Kubrick è superiore alla perfezione del suo cinema e il suo ultimo film ne è la prova più solida.
Ricordo, per esempio, di aver letto una sua intervista su «Rolling Stones», all’indomani dell’uscita di Full Metal Jacket in cui parlava del problema, fondamentale, di “mantenere identiche le sensazioni” (cito a memoria, non ho mai più ritrovato quell’intervista e questo mi ha dato il privilegio di alterarne i contenuti a mio piacimento). Il regista si riferiva soprattutto al delicato passaggio dal libro al film, pratica che ha affrontato, come è noto, in quasi tutti i suoi lungometraggi. Ma ho sempre pensato che si trattasse di una metonimia inconscia, di una parte per il tutto, attraverso la quale Kubrick fornisse la chiave decisiva per aprire la prodigiosa macchina dei suoi film.
I corpi-automi di cui sono costellati i suoi film, la sensibilità esasperata per l’imprevedibilità in grado di compromettere le meccaniche e i dispositivi più raffinati e sofisticati (dal piano della rapina di Rapina a mano armata agli schieramenti contrapposti della deterrenza nucleare nel Dottor Stranamore al computer di 2001), la curiosità morbosa per tutti i sistemi che la cultura umana è in grado di approntare per manipolare una coscienza, dalla riconversione di Alex in Arancia meccanica alle tecniche di addestramento dei marines in Full Metal Jacket, non sono, da questo punto di vista, che differenti maschere della coazione a sperimentare senza tregua la stessa scena in cui un soggetto o un’istituzione, crudele e in preda al panico, cerca di sottrarre le sensazioni alla loro insorgenza anarcoide. Tra essere dominati dalla loro irrazionale libertà ed evanescenza e l’imprigionarle in un rudimentale schema d’azione soggetto alla pressione di un potere senza umanità (in questo senso, la disciplina militare in guerra, è il più canonico dei modelli di questa scena), non sembra esserci nulla nel mondo. Per quanto brutalmente semplificatoria, questa lettura, a mio avviso, getta una luce straordinaria sul suo lavoro, una luce abbagliante e potente, quale quella che Kubrick ha sempre amato nella fotografia dei suoi film.
Eyes Wide Shut gode della medesima luce. Esiste uno schema per sottrarre il desiderio alla sua imprevedibile irradiazione, alla sua precarietà endemica? I momenti più belli del film son quelli in cui Tom Cruise incontra le due prostitute. Sono quelli in cui il desiderio, stordito ed esaltato dalla confessione del presunto adulterio della moglie, vaga senza controllo alla ricerca di un appagamento. Tutte e due le volte in cui Tom Cruise si trova nell’appartamento in cui fa conoscenza di due corpi diversi che gli si offrono, Kubrick registra picchi e depressioni del suo desiderio con la fedeltà di un apparecchio per eseguire un elettrocardiogramma. Non c’è inquadratura dove un’espressione non possa eccitarlo o una semplice pausa bloccarlo. Basta la pressione di uno sguardo o l’imbarazzo di una domanda per liberare o uccidere la pulsione verso un abbraccio o un amplesso. L’unica dietrologia possibile, nel mondo degli adepti di Kubrick, è questa: nella casistica dell’imprevedibile, la pulsione sessuale occupa un posto di tale rilievo che l’ossessiva ricerca kubrickiana non poteva terminare prima di affrontarla. Esiste un codice per domarla, un rituale per soggiogarla, una macchina per sottomettere la sua natura a uno schema elementare e ridotto di prestazioni? Esiste un dispositivo per mantenere il desiderio sempre identico a sé?
Il film convince assai meno come esplorazione delle aree estreme della libido che come istruzione di un arcano sortilegio per irretirla e irregimentarla dopo averla irrazionalmente liberata. La bella sequenza di ballo iniziale, che sembra prelevata dalle allucinazioni di Shining, apre ufficialmente una partita i cui contendenti, i due coniugi, sono destinati a una contesa del tutto impari. Cruise sperimenterà l’erramento del desiderio e di tutte le sue possibili deviazioni- (l’inappagamento costante, la morte, l’Aids) prima di ritornare dalla moglie svuotato e disabilitato, pronto a indossare la divisa che gli consentirà di esercitare un ruolo e una prestazione sessuale (la penetrazione) senza dubbi o incertezze: ora le sue sensazioni saranno identiche a se stesse per tutta la vita. È come Palla di lardo alla fine dell’addestramento nei marines in Full Metal Jacket; come Alex dopo la cura in Arancia meccanica, come l’astronauta redivivo dopo il viaggio oltre Giove in 2001. La famiglia, invece di essere lo spazio di conforto e protezione che alcuni sembrano avervi visto, è l’alveo primordiale in cui è possibile mettere a punto un raffinatissimo sistema di allucinazioni e ritorsioni (una macchinazione la cui regia è interamente nelle mani di Nicole, come rivela la maschera sul cuscino alla fine), l’unico in grado di affrontare e avere la meglio sul più anarchico generatore di sensazioni, il desiderio. La famiglia è una macchina, la più potente, la più spietata, la più duratura che la specie umana abbia mai inventato. Prima della guerra o della tecnologia, della società o della storia – sembra questa l’ultima sentenza di Kubrick – l’uomo non è libero perché può nascere e raggiungere un equilibrio solo in una famiglia e in questa, perlopiù, tende a diventare adulto e a invecchiare. La sua scelta futura sarà tra l’essere dominato dalle pulsioni (magari pensando di goderne) o scegliere la famiglia che Kubrick ci presenta come un meccanismo, non di repressione, ma di liberazione dalle pressioni distruttive della batteria di sensazioni del desiderio sessuale, un dispositivo eccezionale, ammirevole, in grado di produrre finzioni e autoconvinzioni (le stesse prodotte da eserciti, ideologie, religioni), in grado di affrontare la mutevolezza del desiderio e mantenere le sensazioni identiche a se stesse, alimentare il desiderio e conservarne unico l’oggetto. Tra le due possibilità, non c’è nulla. Assolutamente nulla. Ma ciò che è straordinario, ancora una volta, non è la qualità ideologica di questo teorema, ma la fenomenale ambiguità dello sguardo che l’attrezza: dire che Eyes Wide Shut è un film che disarticola (o celebra) la famiglia è come dire che 2001 condanna o celebra la tecnologia o che Arancia meccanica condanna o celebra la violenza. Nessun film di Kubrick si merita la volgarità di tale opzione, anzi, il suo stesso cinema è la più convincente obiezione a questa opzione. Lo spettatore non sa mai se Kubrick è in preda a un raccapriccio muto per il caos della natura e della vita o se ne è patologicamente e crudelmente curioso, se il rigore delle sue geometrie, la ferocia delle sue costruzioni, esprime una divina imperturbabilità o uno sconcerto senza parole. Non sapremo mai, in altre parole, se quel signore che sulla barca, in silenzio, in pieno oceano, fissa le onde maestose e le pedine, si ritenga prigioniero del peggior incubo dell’universo o il più grande dei marinai.
Duel, n.74, Ottobre 1999