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Arancia Meccanica (1972) – Recensione di Pietro Bianchi

di Pietro Bianchi

È difficile dire quale fosse la precisa intenzione del regista Stanley Kubrick quando decise di fare un film, Arancia meccanica, dal romanzo di Anthony Burgess dallo stesso titolo. Per Burgess non ci sono dubbi. Cattolico, avendo sfiorato la morte per una grave malattia, desiderava mostrare i pericoli cui va incontro l’umanità dei robot e delle droghe. Linguista, finissimo letterato, Burgess voleva poi esprimere quest’ansia di futuro in un modulo espressivo di sottile ironia. Nel titolo adottò una tipica espressione cockney (il gergo londinese); negli avvenimenti del romanzo immaginò un giovane teppista, molto intelligente ma amorale, che adora la violenza, lo stupro, e Beethoven. Questo giovanotto, Alex, usa un suo linguaggio fiorito, che la versione italiana rende con molta approssimazione. Ludwig Van è Beethoven, di cui il protagonista adora la nona sinfonia; lo stupro della signora Alexander, moglie di uno scrittore, avviene al ritmo di Cantando sotto la pioggia; i momenti più violenti del racconto hanno, come contrappunto, La gazza ladra di Rossini.

Parlando con Stanley Kubrick durante una colazione cui mi invitò (interprete il gentile collega Riccardo Aragno), il regista, per natura assai parco di parole, mi disse che il libro di Burgess, uscito nel ’62 come romanzo utopistico, dieci anni dopo (la conversazione si svolgeva nel gennaio ’72), era prossimo ad avvicinarsi alla realtà. Nella finzione Alex compie infatti le sue esecrabili imprese nel 1980. Ricordiamo, per comodità espositiva, chi è Alex e cosa combinava. Di famiglia operaia ma lesto di corpo e di mente, studente, Alex è il capo di una piccola banda di mascalzoncelli. Usano assalire piccoli commercianti per procurarsi il denaro per spassi e bisbocce. Il loro divertimento più grande consiste però nell’assalto a giovani donne per ottenere con la forza ciò che dovrebbe essere graziosamente concesso. Il sodalizio si rompe perché i compari di Alex, stanchi della sua evidente superiorità, nel momento in cui, uccisa con un grosso fallo di ceramica una donna presa da complesso di superiorità, lo abbandonano, stordito da una bottigliata in testa, alla polizia. Condannato a quattordici anni di carcere, Alex accetta di fare da cavia per un lavaggio del cervello che gli tolga i cattivi istinti trasformandolo da lupo in pecora. «Guarito», il giovanotto deve provarne di cotte e di crude. Dopo lo esperimento bacia le scarpe a un prepotente, vede una splendida donna e se ne ritrae. È anche picchiato selvaggiamente dai suoi ex-amici trasformati in poliziotti. Cerca di uccidersi. Si salva perché, per merito di Ludwig Van, ha preservalo un cantoncino del cervello che gli permetterà di amare le ragazze come prima del condizionamento.

Mi sembra abbastanza ozioso, come han fatto alcuni, di confinare l’intenzione di Kubrick in una sola direzione. Per costoro il regista protesta accanitamente contro il futuro scientifico, che ci minaccia, in nome del libero arbitrio (bisognerebbe sentire il parere della «signora dei gatti» cui Alex spacca la testa…). Per altri si tratta di una satira al modo di precedenti scrittori inglesi quali Swift e George Orwell.

Probabilmente, siamo di fronte a un divertissement d’alta scuola in cui l’artista ha dato libero sfogo a un organico pessimismo come nel Dottor Stranamore. Vediamo un po’. A sentire il parere del grande storico inglese Gibbon, utopia è tutto ciò che non si trova nella storia romana. Se voi non siete utopisti, dovete essere d’accordo che, nella sfera delle grandi nazioni, l’Inghilterra è il paese più amabile che ci sia sulla terra. Scuole e ospedali funzionano, i ricchi pagano le tasse e la tolleranza è la più grande delle virtù nazionali. Hanno debellato perfino lo smog: c’è più nebbia a Milano che a Londra. La satira di Giovenale e di Marziale ci ha insegnato che bisogna esaltare i buoni per deprimere i malvagi. Che satira è mai questa di Kubrick in cui tutti sono messi, senza misericordia, nello stesso pentolone? I «radicali» detestano e combattono i conservatori ma sono pieni di soldi e di trucchi. Non rispettano le regole del gioco e disprezzano le masse di cui si servono. I leaders che si vedono nell’Arancia meccanica non assomigliano né all’attuale premier né a mister Wilson. I poliziotti sono violenti e sadici come i giovani teppisti che perseguono; del resto, tre dei seguaci di Alex finiscono nelle file degli uomini della legge. L’assistente sociale messo alle costole del protagonista è visibilmente soddisfatto di vederlo nelle peste. Per dire intiero il mio pensiero, ho l’impressione che Stanley Kubrick abbia voluto prima soddisfare e poi deprimere l’Alex nascosto in ciascuno di noi. In Orizzonti di gloria il mascalzone è il generale che ordina le fucilazioni per fare carriera. La guerra delle trincee non è altro per lui che un’occasione di promozioni. Come l’ammonimento di Gibbon a Maria Antonietta non servì a salvare la testa alla sfortunata regina, l’onestà e il coraggio di Kirk Douglas non nuocciono alle ambizioni di Adolphe Menjou.

Sarà appena necessario ricordare che anche Sterling Hayden, in quel Kubrick aurorale che è Rapina a mano armata, porta una maschera analoga a quella di Alex e che in Lolita la trasgressione della morale comune si attua con una coerenza e una forza che nulla ha da perdere nel confronto dell’Arancia meccanica. Quanto alla crudeltà, sappiamo che Kubrick assunse la direzione di Spartacus per la defezione del rimpianto Anthony Mann. Un lavoro non scelto, dunque, ma la scena crudelissima di Crasso che scanna il gladiatore ribelle porta con chiarezza l’impronta di un regista come Kubrick per cui la violenza appartiene alla vita come il figlio alla madre.

Stanley Kubrick è un pessimista dell’intelletto ma non può negare a se stesso una speranza. In un’intervista ha ricordato che al tempo del lancio della prima atomica sul Giappone, gli scienziati erano divisi in due gruppi. Chi temeva che la bomba sprigionasse una reazione a catena, e chi pensava che avrebbe nuociuto soltanto ai giapponesi. Ma se gli scienziati per così dire ottimisti si fossero sbagliati? Deriva, a mio gusto, da questa posizione di Kubrick se malgrado tutto Alex risulta simpatico. Nel subcosciente tutti noi violentiamo, compiamo stupri, ci compiacciamo della crudeltà e del male. La voga del «divin marchese», abbastanza noioso come scrittore, ha questo significato preciso. Ma Alex è appunto l’incosciente giovane vittima dell’inconscio, il «selvaggio» scevro di freni inibitori. Però in un film, si badi, d’anticipazione, egli è un essere intelligente che si ribella alle convenzioni, alle regole, all’autorità e allo stato. Dall’altra parte è pure un violento il medico che gli applica il metodo «Ludovico»: un sadico che, togliendogli il piacere della buona musica, lo priva della sua principale ragione di vivere. Kubrick ha detto: «Ogni opera d’arte deve rendere l’esistenza più sopportabile o più piacevole; deve sempre esaltare e non deprimere, mai». Ecco perché Alex, raffigurato con straordinaria evidenza dal bravissimo Malcom McDowell, ci è simpatico. La sua brutalità è naturale. Non per nulla, a un eventuale spettatore innocente, l’amplesso tra uomo e donna ha qualcosa di ferino e delinquenziale.

Certo, Arancia meccanica non ha la perfezione stilistica di Lolita o del Dottor Stranamore. È però probabile che certi salti del gomitolo romanzesco siano utili dal punto di vista espressivo.

Il Dramma, A. 48, n. 9-10 (settembre-ottobre 1972) – pp. 60-62

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