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Accattone (1961) – Recensione di Filippo Sacchi

Credo che ormai sarebbe ingenuo venire a raccontare Accattone al lettore. È da un anno che periodicamente l’Italia è costretta ad occuparsene. Il nostro è un Paese buffo. In nessun altro Paese normale un film come questo sarebbe diventato un affare di Stato.

di Filippo Sacchi

Non avevo visto né Morte di un amicoLa notte brava. Ossia, ero entrato, ma dopo un quarto d’ora, convintomi che più di metà del dialogo romanesco mi sfuggiva, me n’era venuto via. Mi rifiuto di parlare di un film di cui non capisco il linguaggio: a meno che non abbia sottotitoli. Ma con Accattone Pasolini mi ha giocato un brutto tiro: ha pubblicato in volume il copione col dialogo testuale. Allora ho fatto a questo modo: ho letto il libro, poi sono andato a vedere il film, poi ho rìletto il libro. Così ho capito tutto. È stata una piccola corvée che potevo scansarmi. Pazienza. Però avverto che è l’ultima volta che lo faccio.

Comunque non ne sono pentito. Il film mi è piaciuto e mi interessa. Come regista principiante – anche se per verità è un pezzo che bazzica nel cinema, e il tirocinio fatto accanto a Bolognini e a Rosi avrà pur contato per qualcosa – non c’è dubbio che Pasolini mostri doti serie. A me non importa niente se qualche volta tira in lungo le carrellate, o affastella il montaggio: se ci sono compiacimenti cerebrali o insistite crudezze. Mi basta che egli sia riuscito a concretare cinematograficamente dei personaggi e a mettere intorno ad essi aria, evidenza e tempo. Basta come titolo di abilitazione il modo con cui ha impiantato ed è riuscito a condurre lungo tutto il film il tipo dell’accattone, Franco Citti, che se non sbaglio non è mai stato attore; e come ne rende il complesso torbido e disperato, fatto di rivolta, di cinismo e di isteria; e come ne padroneggia e modella la maschera. Soltanto spiriti inaciditi e settari possono negare a molte immagini di questo film un’intima carica di asprezza, di angoscia e di umana simpatia.

Credo che ormai sarebbe ingenuo venire a raccontare Accattone al lettore. È da un anno che periodicamente l’Italia è costretta ad occuparsene. Il nostro è un Paese buffo. In nessun altro Paese normale un film come questo sarebbe diventato un affare di Stato. Cos’è, dopo tutto, Accattone? Un racconto di bassifondi di periferia. Chi non ama queste cose avrebbe detto tutt’al più alla moglie: “Ecco, avevo ragione io di andare a vedere Marilyn”. Gli altri spettatori, ormai abituati al genere, lo avrebbero pappato tranquillamente. Quanto ai bassifondi, bella novità, perfino Dante ha i suoi bassifondi, se vi ricordate Taide e l’umorista Barbariccia. E La Moscheta? Andate, se vi capita, a vedere La Moscheta: viene fuori che a paragone delle “borgate” padovane del Cinquecento non soltanto il Quarticciolo, ma Bronx e lo East End diventano quasi paraggi raccomandabili.

Com’è potuto montarsi allora tutto questo chiasso?

Ma perché si direbbe che, in Italia, precipuo oggetto dell’arte del governo sia dar la caccia a ogni film in cui è sospettato che possa esserci lo zampino di quel tipo pericolosissimo che ha sostituito, nel repertorio delle questure, l’anarchico di una volta, e che è detto intellettuale di sinistra. Appena si profila quel sospetto, immediatamente ministri, sottosegretari, dicasteri, polizia si mobilitano per fargli la vita dura. Guardate il caso di Accattone, sgradito quando ancora non se ne sapeva niente, sabotato in sede di progetto, contrastato perché non arrivasse a Venezia nemmeno alla sezione informativa, poi messo in quarantena in censura, infine licenziato sì, ma segnato a dito e con tutte quelle precauzioni di cui, uscendo di galera, è circondato il soggetto pericoloso.

Qual è l’effetto di queste persecuzioni censorie? Primo, di generalizzare a poco a poco nel pubblico il legittimo sospetto che non esistano intellettuali se non di sinistra. Secondo, di ingrandire pubblicitariamente l’opera colpita, talvolta molto al di là di suoi meriti reali. Terzo, di provocare per forza il malumore e la reazione di tutti gli intellettuali, non importa se di sinistra o no, seccati di questa burbanzosa sufficienza ufficiale ai loro riguardi, stufi di sentirsi sorvegliati a vista per il solo fatto che, essendo loro ufficio maneggiare idee, queste possono non combaciare con quelle del governo. Così tutto si inacerbisce e diventa polemica e ripicco. Tipico quel che si vide al Lido: grossi calibri letterari mobilitati in massa per venire a tenere al Palazzo della Mostra, il giorno della proiezione di Accattone, una conferenza stampa-comizio per manifestare a favore di Pasolini e magnificare il suo film. Sono forme di imbonimento demagogico che si accordano poco con l’aurea dignità delle lettere. Ma sinché durerà questa incomprensione, sinché si manterrà la pretesa che arti, romanzo, teatro, cinema debbano marciare come garba a qualche ministro di turno, continueremo sempre ad assistere a queste assurde diatribe che assurgono per mesi ad avvenimenti nazionali, quasi come le alluvioni del Polesine o l’elezione del Presidente della Repubblica.

Curiosamente, Accattone è stato sonorizzato con musiche di Bach. L’andante in re minore del Il Concerto Brandeburghese, messo a fare da sfondo ai colloqui tra Stella e Vitto, tra un’inquadratura del magnaccia al baretto e un campo lungo delle passeggiatrici in attesa, ha l’aria di un ticchio da discomani snob. E invece, pare impossibile, è perfetto. Perché Bach è eterno, come il sole, la luna, il mare, il vento. Va bene con tutto.

27 novembre 1961

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