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2001: ODISSEA NELLO SPAZIO – Recensione di Giovanni Grazzini

Non siamo soli nell'universo. Per convincercene, e umiliare il nostro orgoglio, Stanley Kubrick ha scritto e diretto il più clamoroso e agghiacciante film di fantascienza, o come lui dice, di "prescienza", che sinora sia apparso sugli schermi del sistema solare.
2001 A Space Odyssey

di Giovanni Grazzini

Non siamo soli nell’universo. Per convincercene, e umiliare il nostro orgoglio, Stanley Kubrick (Lolita, Il dottor Stranamore) ha scritto e diretto il più clamoroso e agghiacciante film di fantascienza, o come lui dice, di “prescienza”, che sinora, a quanto si sa, sia apparso sugli schermi del sistema solare.
Sviluppando il racconto La sentinella di Arthur C. Clarke al quale si è affiancato nella sceneggiatura, Kubrick immagina che all’alba dell’umanità, quando i nostri pelosi nonnini cessavano di spidocchiarsi soltanto per farsi le mossacce e azzannare brandelli di carne, sia giunto d’improvviso sulla Terra, chissà da dove, un lucido monolito, lavorato geometricamente da un intelletto superiore che emette segnali magnetici in direzione di Giove. Come i cavernicoli ne ricevettero i primi barlumi d’intelligenza (ma subito applicata a funesti massacri), così, milioni d’anni dopo, esattamente nel 2001, quando ormai i viaggi interspaziali sono entrati nell’uso e si è scoperta una simile lastra in un cratere della Luna, gli scienziati americani ne vengono stimolati al primo viaggio verso Giove, nella speranza di accertare da dove provenga, e perché, l’oggetto misterioso. Incaricati della missione sono cinque cosmonauti (tre dei quali ibernati) e un cervello elettronico, Hal 9000, di sviluppatissime qualità tecniche ed emotive.
Si parte, su una nave spaziale di proporzioni gigantesche, e tutto va bene finché Hal, che conversa e gioca agli scacchi coi compagni di viaggio, non comunica l’esistenza d’un guasto. Poiché, fatti i debiti controlli, l’informazione risulta falsa, i due uomini si chiedono se Hal non abbia sbagliato, e se dunque convenga continuare ad affidarsi ai suoi calcoli in un’impresa così rischiosa. Il robot, punto sul vivo, si ribella, sopprime gli ibernati e progetta di abbandonare i piloti nello spazio per portare a termine da solo il programma. Invece uno soltanto ruzzola fra le galassie; l’altro vuol vendicarsi: insensibile al grido di dolore di Hal, ora tutto impaurito, s’arma di cacciavite, ne smonta i circuiti pensanti con una specie d’operazione al cervello, e prosegue verso Giove. Giunto in periferia, vede flottare nel cosmo la lastra misteriosa, ma ormai privo del robot che forse avrebbe potuto guidarlo si perde, oltre lo spazio, nella quarta dimensione. Succhiato in un caleidoscopio di luci, fra grappoli di stelle e nuvole di gas, ritrova se stesso vecchierello e stanco, in una casa terrestre arredata in stile Luigi XVI, sempre soggetta alle leggi antiche (un bicchiere cade e si spezza), e poi si vede sul letto di morte, il braccio teso a indicare l’oggetto misterioso apparsogli in camera. Finalmente, il tempo generando il termine e il principio, non più l’uomo che conoscemmo, ma il seme stesso della vita continua a girare intorno alla Terra, ovulo dell’universo guidato da leggi inconoscibili. 2001: Odissea nello spazio è senza dubbio un film che fa epoca, con grandi meriti e qualche grosso difetto. Questi ultimi si riassumono in una certa lentezza e macchinosità d’impianto (il film dura quasi tre ore), derivata dall’ambizione di trarre i massimi effetti spettacolari dal rito liturgico delle macchine volanti, e nel sovrappiù moralistico rappresentato dal conflitto fra i cosmonauti e il cervello meccanico: un motivo sviluppato in modo da piegare verso il comico e il patetico (nonostante la scena lancinante dell’agonia del robot) quel tono ironico su cui Kubrick gioca da maestro di valzer nella prima metà, e trionfa nell’idea di commentare i solenni viaggi spaziali con la musica del Bel Danubio Blu.
Preoccupato di far buona figura anche come direttore di coscienza, Kubrick prende una cantonata. Il monito levato contro la civiltà delle macchine, in procinto di essere divorata dai perfettissimi aggeggi che ha costruito, appartiene a una polemica un po’ vecchiotta. Ben altra maturità Kubrick dimostra nell’impianto allegorico del film, lasciandoci incerti sulla natura e la provenienza di quel monolito enigmatico, in cui si può leggere indifferentemente la radice dell’Essere, Dio, il numero, la Coscienza, la Tavola della Legge e il Primo Mattone dell’universo. È da questa polivalenza di significati minacciosi che il film trae un’inquietudine, un senso arcano, nell’ostile silenzio della ragione, di cui sarebbe sprovvisto se tutto fosse meglio spiegato; e cui fanno da contrappunto, sempre nell’ordine di un’invenzione sinistra, sia la rappresentazione gelida della civiltà del Duemila, simbolizzata nelle implacabili apparecchiature elettroniche, sia gli astratti furori visivi della galassia di Giove, dove il delirio delle forme e del colore provoca una forte emozione negli spettatori non avvezzi alle ricerche espressive del cinema psichedelico. A suo modo 2001: Odissea nello spazio è dunque per molti versi un film del terrore, sul terrore dell’infinito, in cui ai castelli polverosi abitati dai fantasmi, al cigolio delle porte, ai maggiordomi tenebrosi, si sostituiscono stazioni cosmiche dai lugubri riflessi metallici, click di pulsanti e ronzii di valvole, stridori di sfere iperuranie e simulacri di uomini avviati senza sorrisi verso l’ignoto. C’è altrettanto incubo, ma nella cornice strepitosa del cinerama, e con missili, capsule, aerobus a spasso fra le stelle realizzati per mezzo d’una fantasia scenografica quale sinora il cinema d’anticipazione non aveva posseduto. Un film da vedere, e tuttavia a mente riposata, forse senza i bambini.

Corriere della Sera, 13/12/1968
Ripubblicato in Gli Anni Sessanta in Cento Film, Editori Laterza, 1977

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