Nell’editoriale di oggi, 16 novembre 2023, Marco Travaglio discute il presunto conflitto di interessi della senatrice e avvocata Giulia Bongiorno, che è anche presidente della commissione Giustizia. Bongiorno è accusata di continuare a praticare la professione di avvocato, rappresentando parti private, mentre legifera come rappresentante della Nazione. L’articolo critica le sue risposte a queste accuse, sostenendo che dovrebbe chiudere il suo studio legale durante il suo mandato parlamentare, come fanno altri professionisti quando entrano in Parlamento.
Beccata col sorcio in bocca per il conflitto d’interessi di senatrice-presidente della commissione Giustizia e avvocato (anche in un processo al figlio del fondatore di un partito di opposizione), la sen. avv. Giulia Bongiorno risponde piccata sul Corriere con l’arma che più le è propria: la supercazzola multipla.
1) “È stata proprio l’esperienza maturata nei processi con donne vittime di violenza a permettermi di dare un contributo decisivo alla scrittura di leggi in favore delle donne… quella sullo stalking e il Codice rosso… Avrei saputo scriverle se non avessi maturato questa esperienza sul campo?”.
Ah saperlo, ma qui nessuno ha detto che non doveva fare l’avvocato prima di entrare in Parlamento: il conflitto d’interessi (fra il suo potere politico e il diritto di tutti i cittadini a essere giudicati da giudici non condizionati dal potere politico) nasce dal fatto che continua a fare l’avvocato, cioè a rappresentare parti private, mentre legifera come rappresentante della Nazione. Anche i magistrati che entrano in Parlamento si giovano della pregressa esperienza sul campo: ma devono deporre la toga. Si suppone poi che le violenze sulle donne e gli stalking che la Bongiorno ha seguito in tribunale prima di entrare in Parlamento siano simili a quelli che continua a seguire fra le aule giudiziarie e quelle parlamentari. Quindi può serenamente chiudere lo studio legale, come ha fatto Conte anche da leader M5S non parlamentare, senza perdere memoria di cosa sia una violenza o uno stalking.
2) “La mia notorietà non dipende dalla carica parlamentare; piuttosto le mie competenze sono al servizio della collettività. Ho iniziato a lavorare a 28 anni nel processo Andreotti”.
Lì, per la verità, diede prova delle sue incompetenze, quando al verdetto d’appello (prescrizione per il “reato commesso fino alla primavera 1980”) sbraitò: “Assolto! Assolto! Assolto”. Il suo capo Franco Coppi, conoscendo la differenza fra assoluzione e prescrizione, non l’avrebbe mai fatto.
3) “Se si estremizzasse il concetto di conflitto d’interessi, si arriverebbe all’assurda e illiberale conseguenza di dover ammettere solo parlamentari di professione, perché chiunque svolga un’attività o una professione è un potenziale portatore di interessi della sua categoria”. A parte il fatto che la divisione dei poteri è l’essenza del liberalismo, non dell’illiberalismo, nessuno vuole vietare il Parlamento a chi ha un lavoro: ma di continuare a farlo durante il mandato. Perché un professore che entra in Parlamento deve mettersi in aspettativa e un avvocato – professione molto più “sensibile” dell’insegnamento – no? Bere alcolici è lecito e guidare l’auto pure: è vietato fare le due cose contemporaneamente. Lo capisce o serve un disegnino?
Il Fatto Quotidiano, 16 novembre 2023