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SACCHEGGI E CONFISCHE PER LE NOZZE DI CESARE BORGIA

Quando suo figlio decise di sposarsi, Papa Borgia, per dargli un corredo che fosse degno della donna chiesta in moglie, fece razzia nelle botteghe di Roma, sequestrò i beni d’un vescovo condannato per eresia, estorse danari ad alti e bassi prelati e «vendette» persino il perdono a 300 ebrei

Quando suo figlio decise di sposarsi, Papa Borgia, per dargli un corredo che fosse degno della donna chiesta in moglie, fece razzia nelle botteghe di Roma, sequestrò i beni d’un vescovo condannato per eresia, estorse danari ad alti e bassi prelati e «vendette» persino il perdono a 300 ebrei.

di Olga Ceretti

A Chinon, in una fredda giornata, sul finire dell’autunno 1498, cortigiani del re di Francia e domestici si affaccendano nel tetro castello arroccato sulla sponda della Vienne, per preparare degna accoglienza a un invitato di riguardo: chi giungeva, latore di una bolla pontificia e prossimo sposo — ma ancora non si sapeva bene di chi — era Cesare Borgia, giovane, fiero, orgoglioso, pericoloso di per sé, e ancor più in grazia della posizione occupata dall’uomo che con grande amore lo chiamava figlio. Ad Alessandro VI il re di Francia aveva dovuto rivolgersi onde ottenere che venisse dichiarato nullo il suo matrimonio con l’infelice Giovanna, sorella di Carlo VIII, suo predecessore sul trono; e che la Santa Sede gli accordasse la dispensa per le nuove nozze con la vedova di quello stesso sovrano, Anna di Bretagna. Non soltanto la giovane Anna era graziosa e proporzionata di forme, a differenza di Giovanna utrimque gibbosa, ma nel cofano nuziale portava, o meglio riportava, alla Corona di Francia il ducato di cui era signora. Considerate queste premesse, non v’è da stupirsi se Luigi XII aveva fatto ogni sforzo per compiacere il Papa, supremo arbitro della situazione; o se, di fronte ai giudici ecclesiastici, aveva giurato spudoratamente il falso, asserendo dopo ventidue anni di sia pur malinconica convivenza di non aver mai avuto rapporti intimi con Giovanna. Ora Cesare Borgia, finalmente liberato da quella porpora cardinalizia che gli pesava addosso soltanto per volere del Papa si era voluto assicurare a spese di Luigi XII un dominio che lo compensasse del reddito cui aveva rinunciato deponendo il galero: e, per una bizzarra coincidenza, il giorno medesimo in cui aveva smesso di essere «cardinale di Valencia» era divenuto «duca de Valence». Dalla Spagna alla Francia, dall’altissima dignità ecclesiastica all’elevato titolo nobiliare: tutto cambiava, tranne il nome, e colui che già era «il Valentino» avrebbe continuato a esserlo sino alla morte.

Ma c’era una seconda clausola nel trattato tra Parigi e Roma, una clausola di ben più delicata e difficile attuazione: Alessandro VI chiedeva per Cesare la mano della figlia maggiore di Federigo re d’Aragona, mentre questi si opponeva ostinatamente a quel progetto, arrivando a scrivere che avrebbe preferito «perder lo Regno, li figli e la propria vita» prima di acconsentirvi. Dopo lungo tergiversare, Luigi XII fu costretto a comunicare a Cesare che Carlotta d’Aragona respingeva fermamente la sua richiesta: la corte di Francia aveva assistito alle trattative con curiosità e ironico divertimento. Tutti sapevano che Carlotta aveva dichiarato di non aver nessuna voglia di diventare «cardinala» e che il re di Napoli — appoggiato dall’Imperatore — aveva più volte dichiarato: «Il figlio del Papa non è di tale condizione che io gli dia mia figlia in sposa, anche se è figlio del Papa». Tutti si eran divertiti a riportare quei discorsi, a commentarli e spesso ad approvarli. Così pure si erano divertiti i cortigiani di Luigi XII vedendo il duca arrivare a Chinon con un corteggio tanto sfarzoso da apparir pacchiano: un centinaio almeno di uomini: tra nobili di scorta, segretari, trombettieri, paggi, staffieri, domestici; una settantina di muletti coperti di velluto giallo, cremisi, blu; decine di cavalli dai sonagli di argento (si diceva che il Papa avesse desiderato farli ferrare in oro, idea assurda poiché l’oro non è adatto a simile impiego); e, infine, il protagonista dello spettacolo, orgogliosamente eretto sul suo «corsiero liardo» che aveva un carciofo d’oro grande al naturale come pomo della sella, nonché, al di sopra della coda, una treccia di fili d’oro zecchino piena di grossissime perle e di gemme scintillanti. A Papa Borgia non era costato molto saccheggiare le botteghe di Roma per rendere magnifico il corredo del figlio: aveva confiscato i beni di un suo ex-maggiordomo, il vescovo di Calahorra, condannato nel capo per eresia; aveva proposto a circa trecento ebrei prigionieri nelle carceri romane per reati più o meno gravi di comperarsi il perdono mediante il versamento di cospicue somme; e, ciò non bastando, aveva estorto danaro anche a numerosi preti nelle alte e basse gerarchie. Ma la sconfitta di Cesare, così inesorabilmente respinto, diveniva più amara e difficile a sopportarsi appunto in considerazione delle immense spese fatte per assicurargli un parentado di cui l’altra parte non aveva voluto neppure discutere la possibilità. Ora il Valentino, in quelle circostanze difficili, sentendosi addosso gli occhi e il riso di tutta la corte, doveva certo rammaricarsi di esser arrivato con «la più grande pompa», come dice lo storico Robert de la Mark, «e la più grande ricchezza del mondo, la più grande ricchezza che uomo mai abbia veduto».

Ma Luigi non aveva intenzione di offenderlo, inimicandosi il Papa, e già si preparava a offrirgli un’altra fanciulla della sua corte che — singolare gioco della sorte — si chiamava come la principessa d’Aragona. Anche se non era altrettanto conosciuta, Charlotte d’Albret era pur sempre sorella del re di Navarra e alcuni la consideravano la più bella figlia di Francia: nei primi approcci intercorsi fra le due corti, suo padre, Alain, si dimostrò incline a favorire le nozze e si poté credere che tutto andasse nel miglior dei modi. Cesare Borgia si acconciò senza troppa pena a quella sostituzione di donne: cercava non una moglie ma un vantaggio politico, come aveva già fatto capire quando si era detto pronto a sposare, invece di Carlotta d’Aragona, una qualsiasi delle sue sorelle; e la giovanissima Charlotte, cugina di Luigi XII, non era un partito da disprezzarsi. Sembra che, all’inizio, proprio la fanciulla creasse difficoltà: forse per orgoglio, forse per un segreto timore, si dimostrò riluttante e cedette, infine, soltanto alle pressioni della regina, la quale, senza dubbio, dovette farla riflettere sui continui pericoli cui il regno di Navarra era esposto, a causa soprattutto delle mire espansionistiche dei sovrani spagnoli. La protezione del Sommo Pontefice avrebbe avuto enorme importanza nel raffrenar l’ingordigia di Ferdinando e di Isabella. Alla fine, Charlotte si arrese. Ma era suo padre, adesso, a porre difficoltà: diffidente, astutissimo, spaventosamente avido di oro e di onori, il sire d’Albret intendeva sfruttare la situazione al massimo. Cominciò, dunque, col voler sapere per qual motivo la principessa napoletana avesse rifiutato il duca. Ma era poi vero, insisté, che Alessandro VI aveva autorizzato il figlio a deporre la dignità cardinalizia per sposarsi? E quali modalità eran contenute nel patto di nozze offerto dai Borgia agli Aragona? Era chiaro che lui, padre di un sovrano regnante, non intendeva considerarsi inferiore al re di Napoli. Come prima contropartita, dunque, chiedeva al Papa di far cardinale suo figlio, Amenieu d’Albret. In più, domandava che con il contratto nuziale si assicurasse a Charlotte, in caso di vedovanza, ogni bene mobile o immobile posseduto dal duca; pretendeva che la controdote (la quale doveva esser versata dal re di Francia) fosse di centomila ducati, anziché di centomila lire tornesi; esigeva che la figlia, all’atto del matrimonio, rinunciasse esplicitamente per sé e per gli eredi a qualsiasi diritto sulla Navarra. In cambio di tutto questo, l’altero sire d’Albret, discendente di una antica famiglia che dal natio orticello guascone era a poco a poco, attraverso i secoli, giunta ai fastigi di un sia pur traballante trono, si impegnava a dare a Charlotte come dote soltanto trentamila lire, riservandosi anche di pagarle a rate: le prime seimila a otto mesi di distanza dalla celebrazione delle nozze, le rimanenti ventiquattromila in versamenti annui di cinquecento lire, sino all’estinzione del debito. Al re di Francia non garbava in particolare la storia dei ducati da sborsare invece delle lire tornesi; eppure, nonostante tutte le proteste, dal castello di Nérac, ove risiedevano i d’Albret, continuavano a giungere messaggeri che recavano comunicazioni sempre meno incoraggianti, sempre più vessatorie. Alla fine di marzo, si aveva ampio motivo di temere che anche queste nozze dovessero andare in fumo, e il ventiquattrenne Valentino, ribollente di sdegno, si accingeva a ripartire per Roma: senza dubbio quel proposito sarebbe stato attuato senza l’intervento pacificatore del Papa, di Luigi XII, della regina Anna. Quanto a Charlotte, non occorreva più strapparle il consenso: aveva già donato al signore italo-spagnolo, bello, aitante, crudele e coraggioso, il suo cuore. Né glielo avrebbe ritolto mai più.

C’è un inventario accurato dei doni che Cesare aveva portato dall’Italia per la sposa, qualsiasi fosse: enormi quantità di collane, anelli, braccialetti, diademi, fermagli; vasellame d’argento e d’oro, chiuso nei grandi cofani di legno pregiato, intagliati da maestri abilissimi; ma erano specialmente degni di ammirazione i trenta pezzi d’oro massiccio comprendenti saliere, piatti, posate, e gli altri trenta di cristallo di rocca, fra i, quali si trovava una grossa anfora tutta ornata di zaffiri e perle,, per abbellir la tavola nelle grandi festività. Ognuno di questi oggetti venne minutamente osservato, valutato, ammirato dagli emissari dell’esoso sire d’Albret; in seguito, perciò, anche con la miglior volontà di questo mondo, sarebbe stato difficile escogitare nuove rèmore o pretese e, avendo il duca soddisfatto ogni richiesta di quel pretenziosissimo futuro suocero, si stabilì la data delle nozze per il 10 maggio 1499. Cause a noi ignote fecero sì che il padre e la sorella maggiore della sposa non assistessero alla cerimonia; ma sappiamo che la regina Anna la fece celebrare nei suoi privati appartamenti, dinanzi al suo splendido altare portatile, composto da una lastra di diaspro montata su sostegni di argento dorato, in quel castello di Blois che sarebbe poi divenuto la dimora prediletta di Luigi XII. Oltre a ciò, ignoriamo molte altre cose del rito: gli abiti della sposa, per esempio, non furono descritti da nessuno e la bizzarra segretezza, l’aura quasi di clandestinità che circondò quell’ora solenne venne notata da molti con stupore. Tuttavia, si ebbero grandi feste e tornei nei giorni successivi e il Valentino stesso giostrò con quella abilità della quale aveva dato tante prove in passato. C’è da credere che il suo bell’aspetto, così magnificato dagli adulatori, avesse in quel momento un’imponenza minore del solito, dato che era recentemente uscito da una crisi di «mal francioso», dopo essere stato obbligato a tenere il letto per un certo periodo durante il soggiorno ad Avignone. Certo, non erano le condizioni più adatte per sposarsi; ma a quei tempi non si guardava troppo per il sottile; e un inviato segreto di Ludovico il Moro, scrivendone con sarcastico compiacimento al suo signore, annunciava: «Di Cesare si dice pubblicamente che ha il male di San Lazzaro in viso…». Comunque, anche con le tracce visibili del male che avrebbe offerto a Fracastoro, circa sei lustri dopo, l’argomento per Syphilus seu de morbo gallico, il Valentino andò finalmente a nozze «con la Magnifica Donna» come annunciò un messo speciale giunto dalla Francia a Roma; e, oltre a gareggiare in destrezza e abilità di fronte alle folle nelle gare organizzate in suo onore, disarcionando cavalieri e trafiggendo numerosi bersagli, si comportò con notevole vigoria nei confronti della tenera sposa. La storia delle «octo vices successive», tramandataci dal Burcardo, fra gli altri non è né una grossolana millanteria adatta d’altronde a quei tempi poco schizzinosi, né una smargiassata volgare. È solo una confidenza da figlio a padre: un’impudica rivelazione dietro la quale dobbiamo intravedere l’idea fissa di entrambi, la necessità di dare alla famiglia Borgia numerosi discendenti. Di questo desiderio il destino avrebbe fatto sommaria giustizia.

Al seguito del re di Francia, il Valentino prese parte alla campagna del Milanese, lasciando per sempre Charlotte dopo due mesi soltanto di vita in comune. Poi passò di guerra in guerra, durante qualche anno, nell’ambiziosa speranza di poter costituire un regno italico all’ombra della cattedra di Pietro. Ma sopraggiunse la morte del padre, così improvvisa e misteriosa da essere attribuita a veleno, anche perché lui stesso, Cesare, dopo aver partecipato con il Papa a una cena in casa del cardinale Castellesi da Corneto, era stato colpito da vomito e febbre altissima. Nel disordine generale che ne conseguì, i cardinali dovettero provvedere a protegger le loro case — poiché la plebe aveva l’abitudine di saccheggiarle non appena morisse il pontefice in carica — abbandonando il Vaticano, dove subito arrivarono gli uomini di Cesare, con il famoso Michelotto in testa: le stanze vennero spogliate sistematicamente di tutta l’argenteria e il danaro e i gioielli. Orrendamente decomposto, il cadavere di Alessandro fu calato con precipitosa sollecitudine nelle Grotte Vaticane, presso la tomba del suo esemplare zio, Callisto III: in seguito, la nemesi storica doveva accanirsi ancora contro i due pontefici Borgia e, qualche decina di anni dopo, dovendosi procedere all’erezione dell’obelisco di piazza San Pietro, la cappella venne demolita su quel lato e i due sepolcri andarono distrutti. Solo nel 1610, i miseri resti furono traslati nella chiesa spagnola di Santa Maria del Monserrato, sempre a Roma, e per oltre due secoli e mezzo restarono nella sagrestia, entro una cassa di legno. Solo sul declinare dell’800 trovarono riposo in una tomba unica, di aspetto e proporzioni modeste. Da Roma — divenuto papa Giulio II che era sempre stato nemico della famiglia Borgia — Cesare andò a Napoli, accoltovi con tutti gli onori da un traditore che lo consegnò al suo acerrimo avversario Prospero Colonna; poi, venne tradotto prigioniero in Spagna, nel castello di Chinchilla dapprima, e, infine, a Medina del Campo, da dove riuscì a evadere calandosi dall’alto con una fune. Raggiunta Pamplona (la città che Alessandro VI gli aveva assegnata come sede vescovile quando era ancora un ragazzino quindicenne) si riunì al cognato Jean d’Albret, nella difesa di quel regno sempre più minacciato da ogni parte. E fu al servizio appunto della Navarra che Cesare morì, nel cuore di una notte di bufera, atterrato da nemici numerosissimi, dibattendosi come una splendida fiera azzannata dai cani, con l’eroismo disperato e protervo di un protagonista di Shakespeare. Charlotte, che invano lo aveva atteso nel breve squarcio luminoso delle vittorie e durante la sua prigionia aveva più volte implorato il re di Francia, affinché intercedesse per farlo liberare, ricevette quell’annuncio come ultima prova della sua Via Crucis. Fece ricoprire di velluto o di seta nera tutti i mobili e le pareti del maniero di La Motte-Feuilly e ancora per sette anni visse travagliata dallo strazio, sino a quando a trentadue anni morì, l’11 marzo 1514, nella stessa età e nello stesso mese in cui morì il marito, ucciso la notte fra l’11 e il 12 marzo 1507. Alla sua figliola, Louise de Valentinois, venne fatto sposare, quando aveva appena diciassette anni, un uomo leale e probo, che però avrebbe potuto esserle nonno, poiché era prossimo alla cinquantina. Vedova dopo otto anni, si risposò nel 1530 con Filippo di Borbone e morì di lì a venticinque anni, lasciandogli come pegno della serena unione ben sei figli. In Italia, il Valentino aveva avuto almeno due rampolli illegittimi, e questi mentre già era sposato con Charlotte. Camilla Lucrezia fu, come la sua sorellastra francese, una creatura di virtù grande e divenne badessa nel convento in cui era stata allevata, sotto la protezione della zia, duchessa di Ferrara; di Gerolamo, invece, conviene dire somigliasse al padre, se non nella grandezza dei propositi e nell’acutezza dell’ingegno, in qualcuna delle sue peggiori caratteristiche. Difatti, educato alla corte di Alberto Pio, signore di Carpi, e sposato a una di lui figlia in seconde nozze, lasciò di sé scarsa memoria, eccettuate quelle concernenti l’assassinio di tre membri dell’illustre casata bolognese dei Lambertini, nonché di un loro fido servo, certo Castron. Di questo assassinio, la voce pubblica indicò Gerolamo Borgia come mandatario: è l’ultima notizia sicura che di lui si abbia. Quanto al giovane prete che qualche anno dopo la morte di Cesare si presentò alla corte francese chiedendo un aiuto in denaro in nome del «padre che era morto combattendo in Navarra», tutto induce a farlo considerare un volgare mistificatore, deciso a carpir qualche scudo grazie a una facile menzogna. Così, veramente, di quell’uomo magnifico pur nella sua iniquità, che orgogliosamente aveva proclamato: «Aut Caesar aut nihil», niente doveva rimanere. Neppure le ceneri, strappate da un vescovo fanatico all’altare di Santa Maria di Viana, e disperse nel vento. Neppure l’eco del nome, tramandato attraverso i figli.

Historia, Maggio 1968 – N. 126, pp. 98-103

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