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Uomini contro | Recensioni

Raccolta di recensioni italiane sul film di Francesco Rosi "Uomini contro"

di Giovanni Grazzini

“Dulce et decorum est pro patria mori”. Così s’è detto per secoli, e così s’andrebbe ripetendo nelle aule, per forza d’abitudine, se da un po’ di tempo a questa parte, cresciuto il prezzo della vita, non salisse anche il numero di quanti dubitano che valga sempre la pena di morire per la patria. Giacché il modo più frequente di offrirsi in olocausto è cadendo in guerra, c’è già chi distingue: per quale patria, in che tipo di guerra? Non aspetterete risposta da una cronaca cinematografica. Occorre appena ricordare che, scansati i pacifisti integrali, i quali pur di non muovere un dito si farebbero tagliare la testa, sul versante di sinistra ci si sforza – con esiti in verità controversi – di distinguere fra guerra di difesa e guerra di conquista. Quest’ultima è sempre e ovunque esecrabile, né importa che un popolo l’abbia combattuta per realizzare un ideale o compiere un disegno dei padri. Vi diranno che quel popolo fu vittima d’un mito, prospettato come inerente alla logica della storia ma in realtà contrario al decoro dell’uomo, e dunque da contestare come un assurdo nefasto. Ecco: è partendo da umori come questi che, mentre Benedetto Croce si rivolta nella tomba, alla famiglia dei film di dibattito civile si aggiunge il pamphlet italiano Uomini contro di Francesco Rosi, presentato fra dissensi nella penultima giornata della Mostra di Venezia. Ed è da questa scabrosa interpretazione della guerra ’15-’18 (“La più feconda matrice di bellezza e di virtù apparsa sulla terra”, disse l’incauto D’Annunzio) che si sviluppa, prendendolo spunto da Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu, un viaggio nelle patrie memorie tutto nutrito di spiriti contestatori e percorso d’inviti a rivoltarsi contro il principio d’autorità. Per sostenere l’idea che la massa popolare, fatta in gran maggioranza di contadini e operai, fu portata al macello da una delittuosa classe dirigente scesa in guerra a difendere i propri interessi, Rosi e i suoi co-sceneggiatori Tonino Guerra e Raffaele La Capria realizzano un film in cui gli ufficiali superiori sono costantemente contrapposti ai soldati e ai tenenti. Portavoce d’un fanatismo militarista e nazionalista, i primi non esitano a spingere la truppa al massacro. Senza alcun rispetto per la vita, essi infieriscono crudelmente sui pavidi e sui pietosi: chi si ritira di fronte al nemico, tenta di disertare, disubbidisce agli ordini o semina lo scontento nelle trincee, viene passato per le armi. Dall’altra parte ci sono le vittime immolate come agnelli sull’altare della patria: umili fanti che non comprendono le ragioni del conflitto ma temono, per la secolare sudditanza, l’onnipotenza dei generali protetti dalla fortuna, e ufficialini freschi di studi che non sanno se scegliere di cadere in battaglia o sotto il piombo del plotone d’esecuzione. Chi si ribella, in ogni caso, morirà, perché l’assurdo della Storia continui. Il film svolge questo assunto in una serie di episodi che, seguendo da vicino il libro di Lussu (se ne discosta però nel finale, per premere vieppiù il pedale del tragico), vogliono indurci a riflettere sulla pazzia della guerra attraverso l’analisi del comportamento di personaggi tipici, presi tra i due fuochi dei cecchini e della retorica. Ecco alto su tutti, il generale Leone (Alain Cuny), dipinto come l’anima nera della divisione di fanteria mandata allo sbaraglio durante l’estenuante guerra di posizione. L’uomo è inflessibile, con sé e con gli altri. Sempre in prima linea, disposto a pagare di persona, è convinto che sul campo si conquisti la gloria, e non comprende come qualcuno possa tenere alla vita, se non per viltà. Gli ordini più feroci vengono da lui, un sacerdote del rischio che in nome della disciplina militare, “dolorosa ma necessaria”, comanda di fucilare gli insubordinati. Un suo maggiore (Franco Graziosi) non è da meno: ordinerà la decimazione d’un plotone che di fronte al nemico gli ha disobbedito. L’anarchico tenente Ottolenghi (Gian Maria Volonté), invece, ha scelto la strada della ribellione: nauseato d’una strage che giudica insensata, arriva a invitare i soldati a sparare sul generale, “il vero nemico”. Ovviamente cadrà sul campo, e a sua volta sarà passato per le armi il tenente Sassu (Mark Frechette), nel quale è adombrato lo stesso Lussu: anch’egli ha cominciato la guerra da ardente interventista, ma ora si è rifiutato di comandare il plotone d’esecuzione, né ha impedito ai soldati di sparare sul maggiore. Fra gli altri c’è anche il soldato Marrasi (Alberto Mastino), che più volte ha tentato disertare, e finalmente, quando stava per raggiungere le linee austriache, è stato falciato dai compagni. Sullo sfondo di questo gruppo di uomini, per un verso o per l’altro tutti alienati dalla guerra, formicola l’affresco della massa di manovra, composta di figure unite nel lamento per le ferite e nell’obbligo di lanciarsi all’assalto con animosa baldanza. È nella solidarietà umana sorta fra le vittime innocenti, dettata dalla paura e dalla protesta, che il film vuol raccogliere il suo monito: poiché questa consapevole fratellanza è la risposta dei martiri ai signori della guerra, su di essa potrà fondarsi il riscatto del popolo Uomini contro è un film di buon mestiere, con accenti di dolorosa verità, che aiuta ad acquistare coscienza, di fronte agli ordini ingiusti, del diritto a dire no. Tuttavia non è un film che lasci una traccia memorabile nel cinema di guerra o nella polemica sul primo conflitto mondiale. Impegnandosi nel riecheggiare con il realismo delle immagini il filone di studi (Silvestri, Forcella-Monticone, Melograni, Isnenghi) che da qualche tempo si adopera per dissacrare i valori consegnatici dalla più retorica tradizione patriottica, il film non sa bene risalire dal giudizio su quel particolare conflitto, riassunto nel totale disprezzo per le alte gerarchie militari, a una condanna dell’idea universale della guerra o a un grido di rivolta contro la Storia, divoratrice di uomini. Perché non vi riesca è comprensibile. Innanzi tutto il nostro Rosi non rifiuta per nulla la violenza: se viene dal basso la giudica sacra; se ai suoi occhi Leone è il prodotto di una cultura schizofrenica, probabilmente il generale Giap, nel contesto vietnamita, gli sembra un eroe. E poi la prima guerra mondiale fu un atto molto più complesso di quanto non appaia da un film che ne suggerisce una spiegazione piuttosto sommaria e parziale. Ebbe numerosi contestatori, ma fu guerra di popolo; fu, nella prospettiva della politica delle nazionalità maturata durante tutto l’Ottocento, guerra di liberazione, voluta anche dai socialisti e dai sindacalisti. Sorvolando sulle ragioni storico-politiche che la determinarono (dove collocare altrimenti l’opposizione di Giolitti?) e riversando tutte le colpe sui generali “la loro professione è di commettere corbellerie”, scriveva Lussu – Rosi compie un’operazione irrazionale la quale gli si rivolta contro quando vuole, recuperando la logica, e sposandola all’umanitarismo, indurci allo sdegno per l’assurdità di spingere gli uomini a uccidersi fra loro. Il film potrà suscitare proteste, e la équipe di Rosi avrà argomenti per reagire, ma all’osservatore spassionato non sfuggirà che il vero nodo del film sta nell’impossibilità del suo autore di scegliere fra un conte philosophique sugli orrori della Storia e l’analisi critica d’un momento della storia italiana. Un’impossibilità dettata dall’urgenza della passione, e che poi si risolve in dolore per l’accertata impotenza a cancellare il male dal mondo. Ora bisogna dire che questo equivoco si riflette sulla regia di Rosi, meno personale che altrove. Applicatosi a un racconto di natura rapsodica, nel quale i vari episodi sono intercalati da scene di battaglia che ripetono spesso i canoni del buon cinema di guerra, Rosi ha momenti severi e asciutti ma non sempre fonde le due anime del film con una fantasia figurativa pari alla crudezza della sua polemica. Il personaggio del generale Leone (malamente doppiato) ha un risalto eccezionale, anche eccessivo, nella sua forsennatezza, e resta fermo nella memoria, ma altri non escono dai binari d’una caratterizzazione un po’ convenzionale. S’aggiunga che il film ottiene dal pubblico minore partecipazione emotiva di quanto Rosi vorrebbe. Paragonato, non diciamo a La grande guerra di Monicelli, di cui è quasi l’atroce rovescio, ma a Orizzonti di gloria di Kubrick e forse anche a All’ovest niente di nuovo di Milestone, che sono i suoi precedenti internazionali più illustri, Uomini contro coinvolge meno lo spettatore. Ciò è senza dubbio dovuto al fatto che l’ottica patriottica non ha abituato il pubblico a vedere l’ultima guerra nazionale in una luce così sinistra, ma anche a una scelta stilistica che porta deboli innovazioni. In questi limiti, e avanzata qualche riserva su alcune suggestioni oratorie cui Rosi, aiutato dalla musica di Piccioni, non vuol sottrarsi, il film ripaga con la prestanza spettacolare, soprattutto con la concitazione di molte scene di massa, una certa inerzia lirica. L’ambientazione, ottenuta e girando in esterni in Jugoslavia, fra nude pietraie, è aspra e straziata come si conviene. La fotografia a colori di Pasqualino de Santis è livida e cupa, molto accurata è la ricostruzione del miserabile paesaggio, trincee di fango e bufere di neve, in cui si trascinano, quando non vanno alla carica, uomini affranti e disperati tra il fragore delle granate. Il ritmo è lucido, buona la prova degli attori (ai già citati si uniscono Pier Paolo Capponi, Giampiero Albertini, Brunetto Del Vita e Luigi Pignatelli), fra i quali l’unico indotto a gigioneggiare è Alain Cuny. Il film avrà larga eco polemica nel paese, e potrà essere un bene: per maturare il suo spirito critico, l’Italia ha bisogno di discutere in pubblico anche i libri di scuola.

Il Corriere della Sera, 1 settembre 1970

Ripubblicato in: Giovanni Grazzini, Gli anni settanta in cento film, Laterza, 1976

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La realtà storica della prima guerra mondiale rivista da una lucida prospettiva di classe. L’ultimo film di Rosi colma una lacuna del cinema italiano e si iscrive fra i più importanti film di guerra realizzati sino ad oggi nel mondo

di Calisto Cosulich

Ecco lo schieramento reale degli “uomini contro”: da un lato i “morti di fame” chiamati a fare la guerra che qualcuno ha deciso per loro: dall’altro gli ufficiali superiori. i generali, i “comandi”, braccio secolare dei potere borghese nato alla Rivoluzione francese. In mezzo alle due entità contrapposte una massa fluida e in continua trasformazione, costituita dai giovani ufficiali subalterni che, partiti fanaticamente interventisti, stanno a poco a poco cambiando opinione e mentalità man mano che la convivenza con i soldati semplici li aiuta a sbarazzarsi dei falsi valori ai quali avevano con tanto fervore creduto.

Poche volte nella storia del cinema il risvolto classista delle guerre più o meno totali, di cui siamo stati vittime nell’ultimo mezzo secolo, è stato messo lucidamente a fuoco come in questo film di Rosi: un film senza eroi, ma anche senza mostri: senza casi particolari, insomma. Il protagonista è il meccanismo che mette in moto il cataclisma; i vari personaggi sono soltanto delle figure sociali.

Ma per l’Italia Uomini contro non è soltanto un discorso sul fenomeno della guerra, è anche un film sulla prima guerra mondiale e contro i miti che l’hanno dipinta con colori eroici e romantici.
[…] Il giudizio globale sul film non può non essere favorevole. Anzi, sotto molti aspetti, può abbandonarsi tranquillamente all’entusiasmo.

ABC N. 39, 25 settembre 1970

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Una polemica non dichiarata ha fatto del film un’opera interessante e sincera, pur nella sua rimarcata faziosità

di Onorato Orsini

Quando si opera una falsificazione, primo requisito perché l’operazione abbia qualche probabilità di successo, consiste nell’applicare la propria solerzia e la propria abilità di falsificatori a qualcosa di totalmente estraneo alla propria passione e alla fede religiosa o politica del momento. Rosi, nel falsificare lo spirito del diario di guerra di Emilio Lussu, Un anno sull’altipiano, s’è invece comportato in un modo decisamente opposto. Così non s’è neanche accorto, probabilmente, di compiere un falso. Travolto dall’orgasmo ideologico non s’è reso conto che diventava un film fanatico al limite della comicità, con questo senza rendere un servizio onesto al libro di Lussu, ma ha trasformato il personaggio del generale Leone semplicemente in un burattino a carica continua, che spara le sue battute tutte prevedibilissime sul filo di una comicità da avanspettacolo, e l’altro, il tenente contestatore Ottolenghi in un esagitato precursore dei “cinesi” di oggi, ma la cosa fa poi ridere perché la sua morte è dipinta con la retorica dell’eroismo antieroe.

Anche il terzo, il tenente Sassu, muore in modo troppo plateale tanto da ricordare un personaggio di De Amicis. Ecco, tutto l’equivoco del film sta qui. Rosi cercava di dare alla guerra un senso tragico, come atto di infamia collettiva, però distinguendo nettamente tra chi la fa e chi la subisce. Queste distinzioni troppo nette hanno fatto sì che i personaggi più emblematici del film, cioè i più importanti, vengano degradati al rango di macchiette, e assumano importanza gli altri che nel diario di Lussu non ne hanno e non ne debbono avere, perché rimangono ai margini dei fatti narrati.

Questo è Il più grosso appunto che si può muovere al film di Rosi, ché per il resto, cioè fotografia, direzione di attori, scenografia e tecnica di ripresa, rimane eccellente.

Tuttavia è un film interessante e sincero nella sua faziosità. Attori allineati alle parti e con cornice ambientale di eccezionale realismo.

[…] Resta sempre il dilemma se sia stata una guerra voluta e condotta in modo risoluto e con animo virile oppure condotta con fiacchezza morale e disordine mentale. Saperlo è molto importante, perché è la sola guerra che abbiamo vinto.

La Notte, 1° settembre 1970

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La follia dei generali

di Ugo Casiraghi

Uomini contro è il primo film italiano sulla guerra, mondiale, quella “vera”, che dice tutte assieme molte delle cose che i nostri film precedenti avevano taciuto. Con una sola parziale eccezione di dieci anni fa: La grande guerra di Monicelli, dove significativamente gli episodi più forti (l’agguato al soldato austriaco inerme che si preparava Il caffè, per esempio) erano tratti appunto dal libro di Lussu, ma dove l’accento principale era posto sul pittoresco, sul dialettale, sull’abnormità dei due personaggi da commedia (sia pure da commedia con risvolto tragico).

Rosi e i suoi co-sceneggiatori Tonino Guerra e Raffaele La Capria sono stati invece molto attenti a togliere ai loro soldati ogni venatura estemporanea, ogni caratterizzazione provinciale, per descriverli come uomini (e uomini in gran parte contadini) mandati a combattere una guerra non sentita e non capita. Vivendo accanto a loro nelle stesse trincee, costretti come loro a obbedire agli stessi ordini demenziali, o a farli eseguire, soffrendo come loro la stessa inutile e miserabile strage, alcuni giovani ufficiali di complemento magari accorsi quali interventisti universitari (come lo stesso Lussu) e quindi prodotti di una ben diversa cultura borghese, prendono coscienza della realtà del campo di battaglia, e vi si ribellano, pagando di persona.

Anche il generale e il maggiore, naturalmente, escono dalla medesima cultura di classe: soltanto che l’accettano in pieno, la servono orgogliosamente e, pur essendo anch’essi (in ultima analisi) delle vittime, si trasformano in implacabili e folli carnefici.

Uomini contro mostra dunque una guerra di “morti di fame” (i soldati Italiani) condotta contro altri “morti di fame” (i soldati austriaci, che s’intravedono appena, e solo nella loro funzione di combattenti destinati anch’essi al sacrificio); una guerra che altro non è se non una sequela di carneficine senza senso comune, in un paesaggio assurdo, dove si cade a migliaia per conquistare una posizione che sarà abbandonata dopo qualche ora.

Solo in questi ultimissimi anni, dopo un silenzio quasi totale, cominciano a uscire nella saggistica storica italiana le cifre esatte e agghiaccianti degli autolesionismi volontari, delle decimazioni, delle denunce ai tribunali militari del tempo, dell’attività dei plotoni di esecuzione. Il mito della “grande guerra” comincia appena ora a sfaldarsi. E che un film come quello di Rosi, così energico a questo proposito, compaia appunto in questo momento, è già il segno della sua importanza civile, della sua estrema utilità per il nostro pubblico, avvezzo ad apprendere quella storia (anche se ricorda il numero dei morti e dei mutilati) in modo così lontano dalla sua tragica sostanza.

[…] Nelle retrovie, gli ospedali rigurgitano di ospiti maciullati; e c’è una commissione d’inchiesta, presieduta da un ufficiale superiore, che in modo spiccio giudica i sospetti autolesionisti e li spedisce sotto processo. Contemporaneamente, sul campo di battaglia, un maggiore scambia un ripiegamento per ammutinamento e impone la decimazione. Ma il plotone spara in aria e c’è invece chi spara sul maggiore.

Sarà quest’ultimo episodio a causare la punizione mortale del tenente Sassu. Il generale Leone, che ha appena finito di guardare con affetto le fotografie dei familiari, lo interroga a proposito della guerra e della pace. “Sono per una pace vittoriosa”, rispondeva il tenente Lussu nel libro e se la cavava. “Sono per una vera pace”, risponde l’ufficiale del film e viene fucilato.

Mark Frechette, la scoperta di Antonioni in Zabriskie Point, è Sassu, fin troppo bello nel finale che ricorda esteticamente, il finale di Senso. Gian Maria Volontè, che non si tira mai indietro quando c’è un personaggio serio da interpretare (sia la parte lunga o breve), è Ottolenghi. Con gli occhialetti dell’epoca, Franco Graziosi è il crudele maggiore, Pier Paolo Capponi una delle sue vittime. Su tutti spicca, com’era giusto, Alain Cuny, nel ruolo del generale fanatico. Rosi, che ha dovuto prodursi il film oltre che dirigerlo (quasi tutto in Jugoslavia), lo ha preferito ai grossi attori americani che gli offrivano, e che certamente gli avrebbero spalancato tante porte. Ma nessuno aveva la “faccia” giusta: la faccia di un uomo che è convinto di fare il proprio dovere di soldato mandando allo sterminio i suoi simili.

l’Unità, 1 settembre 1970

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