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Silence | Recensioni

Nel XVII secolo due giovani missionari portoghesi, padre Rodrigues e padre Garupe, vanno in Giappone alla ricerca del loro mentore padre Ferreira, di cui non si hanno più notizie.

la Repubblica (11/01/2017)
Roberto Nepoti

Silence, i tormenti della fede secondo l’ex seminarista Scorsese

Ci sono film che solo certi registi si possono permettere. Uno è senz’altro Martin Scorsese, che una carriera costellata di capolavori autorizza a fare un po’ quel che vuole. Così Martin ha potuto utilizzare un grande cast, un pluripremiato professionista come Dante Ferretti e un ricco budget per creare un film grave e intransigente, che non accarezza mai il pubblico nel senso del pelo. E comunque anche lui ha dovuto attendere molti anni, perché il progetto di adattare il romanzo dello scrittore cattolico giapponese Shusako Endo lo coltivava già dai tempi de L’ultima tentazione di Cristo. Se con quel film, da alcuni giudicato provocatorio, il regista indagava il dissidio tra fede e tentazioni della carne, con questo si piega invece su un argomento che da sempre ossessiona l’ex-seminarista Scorsese: il silenzio di Dio.

Nel XVII secolo due giovani missionari portoghesi, padre Rodrigues e padre Garupe, vanno in Giappone alla ricerca del loro mentore padre Ferreira, di cui non si hanno più notizie. Nella terra del Sol Levante è in corso una persecuzione dei cristiani, che sono costretti a rinnegare la fede o a subire il martirio. Anche per i missionari è l’inizio di una Via Crucis. Chi ritenesse il soggetto lontano dalla nostra epoca de-sacralizzata, pensi alle barriere che ancor oggi dividono il mondo. Allora le autorità giapponesi espellevano tutti gli stranieri e, in particolare, perseguitavano i missionari cristiani come rappresentanti di una religione estranea alla cultura nipponica, quindi pericolosa. La dinamica del dramma s’incentra (non senza ricordare la leggenda di Cristo e il Grande Inquisitore narrata da Dostoevskij nei Fratelli Karamazov) nel confronto tra padre Rodrigues e l’inquisitore Inoue, il quale tortura e uccide i cristiani giapponesi per indurlo all’apostasia. Con l’integralismo della fede Rodrigues gli resiste, ma intanto è tormentato dal mutismo di Dio.

Perché non ascolta le preghiere? È indifferente alla sorte degli umani? Non risponde perché non esiste? Le certezze del giovane padre, che si sente un po’ Cristo (in una scena si specchia in un laghetto e vede il volto del Salvatore), cominciano a vacillare: soprattutto quando gli fanno incontrare padre Ferreira, che ha abiurato calpestando un’immagine sacra. Silence è un film di una bellezza inquieta e insieme sommessa. Spesso le immagini sono avvolte nella nebbia; però acquistano una grande potenza drammatica nelle sequenze di martirio (con l’acqua, il fuoco, per dissanguamento) e, talvolta, sfumano nell’onirico, come nella scena del villaggio distrutto popolato solo di gatti. Certo non è un film per tutti i gusti, nella sua severità che sarebbe piaciuta a un maestro come Carl Theodor Dreyer. E alcuni momenti (soprattutto all’inizio della seconda parte) si dilungano troppo, tra discussioni teologiche ed episodi ripetuti, come quello del sosia giapponese di Giuda. Ma se chi predilige un cinema più dinamico non si convertirà, probabilmente, grazie a Scorsese, potrà almeno apprezzare l’ottima  interpretazione di Andrew Garfield e della sua “spalla” Adam Driver. O il cameo di Liam Neeson che, col codino e il kimono, sembra tornato a quando faceva il maestro jedi Qui-Gon Jinn in Star Wars.

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Corriere della Sera (12/01/2017)
Maurizio Porro

I martiri gesuiti di Scorsese: viaggio infernale e solitario

L’ ultima tentazione di Scorsese è anche la prima: già in Mean Streets diceva che a Little Italy si diventa preti o gangster. 44 anni dopo, l’equazione funziona anche in Silence sceneggiato con Jay Cocks dal libro di Shûsaku Endô. Pure nel Giappone buddista del 1633 si segue la fede cristiana o si tradisce: urge una voce da lassù.

Due increduli gesuiti inviati a Nagasaki per scoprire se padre Ferreira ha abiurato, scoprono la persecuzione. Un viaggio infernale con torture e tradimenti ed infine il ritrovamento del cuore di tenebra, il padre spirituale. Il nuovo martirio è fatto di solitudine. Il silenzio è quello che annunciò Bergman: nei film di Scorsese, rimbalzo di solitudini, è da sempre protagonista. A tu per tu col mistico, il regista ostenta una visionaria, oscura potenza scenografica fra paesaggi da Mizoguchi e pene dantesche: ma il contrappasso lo paga di persona scegliendo una materia scomoda.

La sincera sofferenza dell’autore che invita a 161 minuti di raccoglimento s’immola di fronte all’action di un cinema dove c’è sempre stata colpevole sofferenza, fra i bravi ragazzi del ragù e taxi driver. Film solenne e cinico proprio nel non sentire l’audio di Dio Silence pare il kolossal cult di un regista che, in astinenza di fede, fa un film sul non trovarla, tradirla, offenderla. Perché gli uomini, come ha dimostrato nel suo cinema, non la meritano. Paesaggi e volti meticolosamente perfetti con l’ex Spiderman Andrew Garfield, l’ex Paterson Adam Driver e Liam Neeson, apostata taglia L.

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il manifesto (24/02/2017)
Matteo Boscarol

«Silence», la nouvelle vague di Shinoda

L’adattamento per il grande schermo a opera di Scorsese, film che ha suscitato reazioni abbastanza diverse da parte di pubblico e critica, ha riacceso l’interesse per Silence, il romanzo Giapponese su cui la pellicola si basa e che fu pubblicato da Shusaku Endo nel 1966. Il libro è considerato una delle opere più importanti del dopoguerra letterario nipponico ed il suo autore una delle voci più uniche ed originali nel panorama culturale dell’arcipelago, soprattutto in virtù del suo essere un artista giapponese cattolico professante, parte cioè di una vera e propria minoranza nel Sol Levante. Il film nel corso degli anni si è declinato in diverse forme artistiche, oltre ad un adattamento teatrale realizzato dallo stesso Endo, l’opera più popolare, prima del lungometraggio di Scorsese, è stata sicuramente la pellicola diretta da Masahiro Shinoda nel ’71.

Si tratta di un lavoro, Silence, il titolo rimane invariato, che può vantare di una sceneggiatura scritta a quattro mani da Endo stesso e da Shinoda e che si colloca in un periodo centrale ed importante per il cinema giapponese del dopoguerra. Shinoda fa parte di quel gruppo di registi che durante gli anni sessanta e oltre furono raggruppati assieme ed etichettati come Nuberu Baagu giapponese, la nuova onda di autori che in modi e con stili diversi cercarono di staccarsi dal dominio delle grandi produzioni per lanciare un’idea nuova di cinema.

Benché, come si diceva, ognuno con la propria personalità, Nagisa Oshima, Imamura Shohei, Kiju Yoshida e Shinoda appunto, solo per nominare i più celebri, cercarono di portare un aria di rinnovamento e di sperimentazione nel cinema del Sol Levante realizzando una serie di opere che ancora oggi vengono viste, apprezzate e (ri)scoperte a livello internazionale. Silence di Shinoda si colloca in questo contesto e rivisto oggi mantiene molte delle caratteristiche del cinema giapponese d’avanguardia di allora, le differenze con il lavoro di Scorsese non sono così tante, anche se importanti, ed anzi i punti in comune, soprattutto riguardo la narrazione, sono moltissimi.

La storia, la stessa nel libro e nel libro di Endo, è quella di due padri portoghesi gesuiti in missione in terra giapponese per spargere il seme del cristianesimo ed avere notizie del loro mentore padre Ferrera e delle difficoltà che incontrano da parte degli ufficiali giapponesi decisi a debellare la religione straniera con la violenza. Torture, uccisioni e tormenti derivati dalla fede che svanisce, ma anche l’ambigua complessità dei kakure kirishitan, i cristiani giapponesi costretti a nascondersi dalle persecuzioni, sono tutti elementi presenti in entrambi gli adattamenti cinematografici, ma ci sembra di poter dire che il tono generale del lavoro di Shinoda sia molto più freddo, austero e simbolico di quello di Scorsese. Questo grazie alle tonalità scure impiegate per la maggior parte delle scene dal direttore della fotografia Kazuo Miyagawa, già collaboratore di Akira Kurosawa, Kenji Mizoguchi e Kon Ichikawa.

La fotografia trova un contrappunto nella magnifica musica di Toru Takemitsu, compositore che ha legato il suo nome a molti capolavori del cinema giapponese post bellico, un tappeto minimale e cacofonico che distorce arpeggi di chitarra classica che rimandano al periodo in cui si svolgono le vicende. Fotografia, musica ed un uso volutamente magnificato dei rumori di fondo della natura, cicale, vento e mare soprattutto, contribuiscono così a suggerire quel senso di vuoto e di silenzio del creato di fronte alle indicibili torture ed alle morti dei poveri cristiani giapponesi che è il vero punto presente/assente attorno a cui gira tutto il film e la sua narrazione.

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Cineforum (11/01/2017)
Roberto Manassero

Ogni discorso su Dio, al cinema, non ha senso se non riguarda prima di tutto il cinema stesso e la sua pretesa di replicare il reale, di interrogarne la vastità.

Silence è l’unico film che Scorsese poteva e doveva fare dopo Al di là della vita, l’ultimo suo lavoro veramente personale, l’ultima prova inconfutabile della tenuta del suo cinema (un cinema espressionista, estremo nei sentimenti e nella violenza, carico di religiosità, blasfemia, allucinazione, rigore, passione), prima che il ’900 finisse, prima che il digitale stravolgesse tutto, prima che Scorsese stesso  fosse canonizzato in  “maestro” ed entrasse nella fase meno fervida, meno spontanea, più compromessa e non sempre lucida della sua filmografia.

Silence è il film inseguito per trent’anni, figlio di riscritture, ripensamenti, difficoltà produttive, tentennamenti e, una volta girato, di ritardi nella distribuzione e cambi nella durata: per una volta, però, l’opera di una vita intera, il progetto inseguito, vezzeggiato, trovato e poi ritardato (una vera sottocategoria della storia del cinema, che conta grandi registi e grandi progetti molto spesso mai realizzati) non ha dato vita a un film “malato” o meravigliosamente sbagliato, ma a un film di pura precisione, di ragionato, inevitabile controllo. Non un esempio di ascetismo dell’immagine da opporre alla violenza ossessiva dell’Ultima tentazione di Cristo (quella crocefissione in apertura, con i chiodi che spaccavano le mani del Messia…), quanto, piuttosto, il risultato di un lungo lavoro di analisi e separazione della propria estetica; il precipitato che mostra l’essenza del cinema di Scorsese, ciò che ne resta dopo anni di riflessioni più o meno esplicite sulla fede, la predestinazione, il legame fra umano e divino, l’appartenenza a un mondo e il dubbio sulla propria sopravvivenza al suo interno.

A quanto pare, Silence è un film girato il più possibile in continuità, cioè facendo coincidere l’ordine delle riprese con l’ordine delle sequenze: questo potrebbe spiegarne la compattezza visiva e soprattutto emotiva, una voce uniforme che comprende senza soffocarli o annientarli anche i picchi drammatici del racconto. Almeno nella prima parte, è anche un film che nasce dalla parola scritta, in cui le immagini sono generate dalle lettere di padre Ferreira, il gesuita che forse ha abiurato la fede durante le persecuzioni ai cristiani nel Giappone del XVII secolo, e di Padre Rodrigues, che insieme al confratello padre Garupe viene inviato a scoprire la verità sul missionario scomparso. La voce over, che ancora in Wolf of Wall Street era l’origine del racconto, il primo passo di un assalto visivo e narrativo alla realtà e alla Storia, qui aiuta le immagini ad ancorarsi alla materia di cui è fatto il film, a cogliere il senso imperscrutabile e misterioso di una storia di fede e violazione, rinuncia e paura.

Il tono piano e sconsolato delle voci degli interpreti fa pensare alle invocazioni tipiche del cinema di Malick: ma in Silence la parola non è preghiera; è testimonianza, a volte semplice resoconto. Padre Rodrigues e padre Garupe, che approdano clandestinamente in Giappone nel 1637 e sbarcano in alcuni villaggi cristiani dell’arcipelago di Goto, sono sì accolti come guide e salvatori, ma in realtà sono i semplici testimoni di una fede che essi stessi faticano a comprendere. La morte, soprattutto per padre Rodrigues, costretto a un certo punto a osservare da lontano il martirio del compagno (figura monolitica di sacerdote sicuro della propria fede e del proprio destino), è vissuta come spettacolo che condanna all’impotenza, evento inevitabile che costringe il protagonista a realizzare il clamoroso ribaltamento messo in atto dal film: non la passione di una divinità che paga per i peccati degli uomini, ma il martirio mancato di un uomo che crede di vivere a immagine e somiglianza di Dio e così facendo fa scontare agli altri il proprio peccato di superbia.

Se il Cristo dell’Ultima tentazione era un uomo che cercava di sfuggire alla predestinazione, il sacerdote di Silence, come Frank Pierce, il paramedico di Al di là della vita, è un uomo che vive inconsapevolmente la propria passione cristologica, salvo essere abbandonato al silenzio del reale. L’esperienza di Frank era ricondotta a un universo iconografico e religioso comprensibile, a un’immagine finale ispirata alla Pietà di Michelangelo; Padre Rodrigues, invece, costretto per la sua figura ad affrontare di petto ciò che gli altri personaggi scorsesiani sublimavano con l’autodistruzione, è vittima di un doloroso ma inevitabile cammino di accettazione del mistero del reale. E il film non fa altro che accompagnarlo in tale cammino, assumendone in qualche modo l’enormità.

Come in altri film di Scorsese, anche in Silence due personaggi entrano in un mondo “straniero” e provano a modificarne la struttura (Rodrigues e Garupe non sono troppo diversi da Sam Rothstein e Nicki Santoro di Casinò; lo conferma indirettamente Padre Valignano, il loro superiore, quando prima di salutarli dice «Voi sarete gli ultimi due missionari ad andare. Un esercito di due persone», e ricorda le parole di Nicky sull’esperienza dei “bravi ragazzi” a Las Vegas: «Poteva essere una pacchia. Invece fu l’ultima volta che a dei criminali da strada come noi fu affidato qualcosa di tanto valore…»); di queste due figure, Rodrigues e Garupe, una dubita e l’altra no, una è incompleta (come i mafiosi mezzo o pienamente ebrei di Quei bravi ragazzi e ancora Casinò, o come la Madame Olenska, americana europeizzata, di L’età dell’innocenza) e l’altra è granitica, perde lo status di protagonista e viene vista morire da lontano per poi trasformarsi in semplice corpo annegato e muto. Ancora come in Al di là della vita e nell’Ultima tentazione, le immagini della colpa, della tentazione, della debolezza, in Silence assumono sembianze umane (e qui ci sarebbe da affrontare la questione della transustanziazione come figura chiave del cinema di Scorsese…), concentrate in una figura sfuggente e simbolica: il fantasma di Rose, la ragazza che Frank Pierce non aveva saputo salvare, o Noel, il tossico che chiede continuamente aiuto a Frank, o lo stesso diavolo che diventa bambina per ingannare Cristo, sono ripresi da Kichijiro, l’uomo che tradisce, abiura e si confessa di continuo, che a ogni apparizione mette Rodrigues di fronte alle proprie responsabilità, e poi finisce anch’egli per sfuggire alla logica del racconto e della comprensione del singolo.

Al di là di questi elementi tipicamente scorsesiani, però, in Silence c’è qualcosa che Scorsese non aveva mai affrontato in maniera così evidente e naturale: il rapporto fra il racconto, la sua origine e il suo andamento, e l’immagine di Cristo.

L’effige del figlio di Dio compare per la prima volta dopo alcuni minuti di film, quando Rodrigues è disteso e guarda in alto: a un primissimo piano di Andrew Garfield segue in modo netto il controcampo speculare dell’immagine pittorica di Gesù, che va a riempire lo schermo per diversi secondi; una soggettiva che mette a confronto l’uomo e la divinità e crea i termini speculari del confronto. La seconda apparizione, invece, coincide con la svolta narrativa e concettuale del film: al volto di Rodrigues riflessa nell’acqua si sovrappone quello di Gesù, unico momento in cui l’immagine di Scorsese perde la propria naturale, classica materialità e si fa trasparenza digitale. È il momento in cui il racconto si soggettivizza, in cui il destino umano di Rodrigues, che ripercorrerà le tappe già affrontate da Padre Ferreira, si separa dalla sua avventura spirituale, trasformando la voce over in un soliloquio camuffato da interrogazione a Dio.

Vedendo Cristo in sé stesso, Rodrigues ribalta il Cristo dell’Ultima tentazione, diventa l’uomo che vuole farsi Dio, che vive in una dimensione onirica, quasi isterica, ignorando la propria esistenza terrena. Scorsese non infierisce sul personaggio, non ne mette in scena l’umiliazione o il tormento: semplicemente, lo lascia solo di fronte al silenzio, non di Dio, ma del reale.

Alla terza apparizione, l’immagine di Cristo compare dipinta su delle assi di legno, ancora filtrata dalla soggettiva di Rodrigues, ma non più riflessa: è un’immagine immateriale diventata oggetto. E quando padre Ferreira cerca di convincere l’ex allievo dell’impossibilità di trapiantare il cristianesimo in Giappone, in quel momento l’immagine stessa di Gesù (non la sua natura imperscrutabile), viene annientata dal film stesso. Raccontando del missionario Padre Francis Xavier, Ferreira dice: «Xavier venne qui per parlare ai giapponesi del figlio di Dio. Prima, però, dovette chiedere come ci si riferiva a Dio. “Dainichi” gli risposero. Vuoi che ti mostri il loro Dainichi?». Ferreira allora punta il dito fuori campo e sullo schermo compare il primo piano gigantesco e frontale del sole. Esattamente come l’immagine di Cristo all’inizio del film. Campo e controcampo, due immagini semplice e purissime. Niente movimento, niente musica (non c’è quasi musica in Silence!), solo due immagini dal contenuto opposto a confronto. «Oltre… c’è il sole di Dio», dice ancora Ferreira. «Il sole creato da Dio. Ma Dio ha solamente generato il sole. Nelle scritture Gesù risorge nel terzo giorno. In Giappone, il solo sorge ogni giorno. I giapponesi non sanno pensare a un’esistenza oltre il regno della natura. Per loro nulla trascende l’umano».

Non c’è stile, non c’è immagine, oggi, che possa significare oltre sé stessa, oltre la natura, oltre l’umano (come invece potevano ancora fare, forse, le immagini di Kundun, che aprivano l’inquadratura alla vertigine desiderata della preghiera): questo è il precipitato del cinema di Scorsese, finalmente realizzato in Silence.

Non è una questione di credere ancora nell’immagine, o di realizzare un film personale con stile impersonale o classico inseguendo il trascendente. Non è nemmeno una questione di continui ribaltamenti di prospettiva, di elementi che contraddicono le convinzioni acquisite dai personaggi (come potrebbe sembrare dall’ultimo movimento di macchina del film, che in teoria va a sconfessare ogni cosa, dal momento che la macchina da presa “penetra” in una bara con un effetto speciale digitale, dopo che per tutto il film gli oggetti non hanno fatto altro che sovrapporsi ad altri oggetti o spaccarsi gli uni contro gli altri…). È una questione di far aderire il cinema, e i suoi elementi in contrapposizione e contraddizione, alla materialità del silenzio che ci circonda. E quindi trovare attraverso la naturalezza del cinema, di tutto il cinema non solo il proprio, la cifra per accoglierne il più possibile la vastità.

Forse il reale al suo interno contiene la verità, forse contiene Dio. Ma non potrà mai svelarla. Non sa di possederla. Se il cinema intende cercarla, quella verità, non può far altro che accettare il fatto che ogni immagine, come si sente ripetere infinite volte in Silence, è soltanto un’immagine, una formalità.

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Drammaturgia.it (17/01/2017)
Nicola Stefani

Un silenzio assordante

Sono passati quasi trent’anni da quando Martin Scorsese si è cimentato per la prima volta nella trasposizione del libro di Shūsaku Endō, Silence, pubblicato nel 1966. Nel 1987, dopo le polemiche scatenate all’indomani dell’uscita de L’ultima tentazione di Cristo, il regista italoamericano riceve una copia del libro di Endō da parte di un sacerdote colpito dalla forza iconoclasta del film. Scorsese ama a tal punto quel libro che diviene la sua ossessione. Un primo progetto di adattamento però non va in porto e falliscono anche i successivi tentativi di traduzione per il grande schermo. Quando finalmente la sceneggiatura prende corpo, comincia la battaglia per accaparrarsi i diritti. I produttori, inizialmente incuriositi, abbandonano l’impresa e molti attori accreditati nei ruoli principali vengono sostituiti nella turbolenta gestazione. Solo adesso, dopo anni di diatriba, vede la luce la storia dei due padri gesuiti portoghesi che nel Seicento partono per il Giappone alla ricerca del loro mentore che ha abiurato alla vista delle torture inflitte ai cristiani.

Silence si riallaccia idealmente alla citata Ultima tentazione di Cristo e, insieme a Kundun (1997), chiude un’ideale trilogia sulla religione. In realtà la dicotomia fede/violenza attraversa tutta la filmografia del regista italoamericano. Dagli inferni urbani dipinti in Mean Streets (1973) e in Taxi Driver (1976) fino alle parabole di ascesa e caduta dei gangsters ritratti in Quei Bravi Ragazzi (1990) e Casinò (1995), la visione tormentata della fede è una costante del suo cinema accompagnata dalla rappresentazione morale ambigua di un mondo dominato dalla violenza.

I protagonisti di Silence, Padre Rodrigues (Andrew Garfield) e Padre Garrupe (Adam Driver), compiono un viaggio che parte come un’indagine attraverso una cultura a loro sconosciuta fino a trasformarsi in una sfida alle proprie incrollabili certezze. Oltre alla ricerca del prete apostata (Liam Neeson), la missione dei padri gesuiti consiste nel portare la parola di Dio in un Giappone ostile e povero, riluttante ad abbracciare il credo occidentale. L’arroganza dei missionari è considerata pericolosa dagli inquisitori giapponesi, che all’azione di evangelizzazione rispondono con la forza, ricorrendo alle più efferate e ingegnose torture dell’epoca. Il proselitismo auspicato dai gesuiti non solo è destinato al fallimento, ma la loro opera è messa a dura prova quando dovranno scegliere di abiurare in favore della misericordia verso i cristiani torturati. Dapprima inseparabili, Rodrigues e Garrupe sono costretti a imboccare strade che porteranno a conclusioni divergenti: rinnegare o abbracciare il proprio credo.

I lunghi anni di gestazione, i continui ripensamenti e la frustrazione di non veder realizzato un progetto accarezzato da troppo tempo si riflettono nel film. Ne consegue un’opera che sicuramente va aldilà delle contingenze temporali, e apparentemente sembra evitare ogni richiamo all’attualità, puntando piuttosto a una ricerca personale che aspira a un sentimento universale. La preoccupazione di comunicare al meglio i numerosi interrogativi spirituali porta Scorsese e il suo collaboratore Jay Cocks a un uso fortemente marcato del monologo e della voce over, che determina una eccessiva verbosità a discapito dell’azione. Il film, dai ritmi dilatati, è ostico ma anche realizzato con precisione chirurgica dal punto di vista dalla messa in scena.

Benché la ricerca della perfezione formale possa essere scambiata per eccessivo distacco dalla materia narrata, Silence evita il rischio di rimanere una preghiera fine a sé stessa. I dilemmi morali che pone allo spettatore sono brucianti e universali. Fino a che punto difendere le proprie credenze, se queste portano sofferenza agli altri uomini? È eticamente giusto imporre una verità assoluta in un contesto culturale totalmente estraneo? Il regista non nega la via del martirio, anzi mette in scena con devozione e rispetto le sofferenze atroci per cui i cristiani furono disposti a morire in nome della Chiesa.

Tuttavia, come sembra suggerire il finale, rinnegare la propria fede è in alcuni casi necessario, soprattutto per amore dell’uomo. Sarebbe preferibile occultarla, rinunciando così anche alla pratica della condivisione e dell’indottrinamento, che sfociano nel proselitismo. La fede deve restare confinata in un contesto privato, meglio ancora se personale. In questo senso il silenzio evocato dal titolo acquista un significato ancora più ambiguo: si tratta della frustrante risposta che il credente è destinato a ricevere dal proprio Dio o indica il carattere di una fede che deve essere vissuta nell’intimità della propria solitudine? Scorsese evita risposte semplici e scorciatoie ideologiche, optando per soluzioni più estreme. I casi antitetici dell’abiura e del martirio esprimono pur sempre delle scelte strettamente individuali, che investono la dignità dell’essere umano in misura maggiore rispetto all’aderenza incondizionata ai principi della fede.

La scelta di relegare i concetti teologici sullo sfondo, sottolineando gli aspetti terreni della cristianità, è il valore aggiunto del film. Il carattere laico della preghiera di Scorsese emerge maggiormente ponendo l’accento sul primato dell’individuo rispetto alla religione. Silence, con il suo andamento ieratico pieno di omaggi al cinema giapponese, specialmente a quello di Akira Kurosawa, si delinea come il definitivo testamento spirituale del regista italoamericano. Ma forse non ancora quello cinematografico.

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