Guadalcanal (Isole Salomone – Sud del Pacifico), 1942: la compagnia di fucilieri Charlie di un reparto dell’esercito statunitense viene mandata alla conquista di un campo d’aviazione giapponese posto in cima a una collina dell’isola. Il gruppo di militari è guidato dal mite capitano Staros, agli ordini dell’ambizioso colonnello Tall.
Durante il lungo e sanguinoso assalto si consumeranno le vicende e i tormenti interiori di un gruppo di uomini costretti a confrontarsi con i propri doveri e soprattutto con la follia della guerra, mentre tutt’intorno la natura, lussureggiante e indifferente, sembra cullarli e contrapporsi alla loro logica. Il soldato Edward Train così descrive nel pensiero tutti i suoi interrogativi su questa follia:
«Chi ci sta uccidendo, derubandoci della vita e della luce, beffandoci con la visione di quello che avremmo potuto conoscere? La nostra rovina è di beneficio alla terra, aiuta l’erba a crescere, il sole a splendere?»
(Soldato Edward Train)
Fra le varie vicende ne emergono con forza tre: quella del soldato Witt, che prima diserta e si rifugia fra gli indigeni melanesiani per poi far ritorno alla compagnia e sacrificarsi per i propri compagni instillando più di un dubbio nel cinico sergente Welsh, suo diretto superiore; quella del soldato Bell, che non sopporta la forzata lontananza dalla moglie dalla quale alla fine verrà lasciato tramite una lettera che gli annuncia il divorzio; infine lo scontro fra il colonnello Tall e il capitano Staros, che rifiuta di mandare i suoi uomini in una missione suicida e che per questo verrà sollevato dall’incarico e sostituito dal tenente Band.
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la Repubblica (13/2/1999)
Irene Bignardi
BERLINO – L’atteso ritorno al cinema, venti anni dopo, del Salinger dello schermo, del recluso stravagante misterioso Terrence Malick che ci incantò negli anni ’70 con La rabbia giovane e con I giorni del cielo, si è risolto per metà nella conferma di un geniale talento e per metà in una delusione. La sottile linea rossa (quella che divide, secondo un modo di dire americano, la normalità dalla follia, e in questo caso dalla follia della guerra) è un grande film troppo grande, verboso, oracolare, poetico (nelle intenzioni più che nei risultati) che ne contiene uno più piccolo, più forte, più essenziale, più severo – la requisitoria antimilitarista e antibellicista che Salvate il soldato Ryan non ha potuto o voluto essere per trasformarsi invece nell’esaltazione dell’eroismo dei nostri padri. Ringraziamo il cielo che questo nucleo di La sottile linea rossa si disperde solo su tre ore di cinema e non di più – perché a quanto risulta Malick ha girato cinquecento chilometri di pellicola, e cioè circa cento ore di film. E si capisce quindi perché in questo kolossal sulla battaglia di Guadalcanal, interpretato da una serie di attori e di star degna di Il giorno più lungo – da Sean Penn a John Travolta, da Nick Nolte a James Cavaziel, da Ben Chaplin a Woody Harrelson, da George Clooney a John Savage – molti interpreti, e quindi molti personaggi, compaiono e scompaiono senza una vera ragione drammaturgica. Per raccontare la battaglia di Guadalcanal, l’isola delle Salomon, teatro nel 1942 dell’epico e feroce scontro tra Americani e Giapponesi che cambiò le sorti della guerra nel Pacifico, Terrence Malick si rifà alle reali esperienze e al romanzo (che era già diventato nel 1964 un film diretto da Andrew Marton) di uno scrittore di insospettabile animo antibellicista come James Jones, l’autore di “Da qui all’eternità” e di “Qualcuno verrà”. E non ha bisogno di ricorrere ai distinguo e ai sentimentalismi spielberghiani per descrivere, in una serie di sequenze di grande lirismo o di grande violenza, l’orrore e la follia assoluta della guerra – che, nella sua limpida visione etica e cinematografica, non ha giustificazioni di sorta, ma è solo un folle, antieroico macello, in cui si confondono le ragioni e le crudeltà dei “nostri” (come siamo abituati, fino al Vietnam, a considerare gli Americani) e degli altri. Se Spielberg collocava la storia del suo soldato Ryan dentro il contesto di una guerra “giusta”, Malick ne fa un orrore atemporale, che solo le divise e le armi attribuiscono al suo tempo. E non a caso il prologo del film si svolge in una sorta di Eden tropicale, liricamente fotografato da John Toll, che la guerra distruggerà. Ma quello che lascia perplessi del film di Malick è la melassa che lo lega: un trionfo di sofferenti voci off (che si alternano con qualche confusione), di cliché poetici, di cattiva letteratura – come diventa cattiva la letteratura quando si sovrappone al cinema. Così che, paradossalmente, questo ricorso artificioso alle emozioni le smorza, la parola uccide l’immagine, l’eccesso di cuore in mano toglie forza al cuore profondo di un potenzialmente grande film.
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Corriere della Sera (13/2/1999)
Tullio Kezich
Mi arriva il romanzo (Rizzoli) La sottile linea rossa di James Jones (l’autore di Da qui all’eternità), già portato sullo schermo nel ’64 da Andrew Marton. Irresistibile sarebbe la voglia di leggere il libro per confrontarlo con l’attuale “remake” di Terrence Malick, vincitore del Festival di Berlino: ma di fronte a 500 pagine come si fa? A proposito di grandi numeri, è noto che tornando al cinema dopo vent’anni (ultimo titolo I giorni del cielo), l’umbratile cineasta ha girato per il film cento ore di materiale usabile. Sicché se domani se ne volesse allestire l’edizione integrale, ne verrebbe fuori la pellicola più lunga della storia. A dire il vero l’attuale versione di quasi tre ore basta e avanza. È di scena la presa di Guadalcanal (1942) nella guerra del Pacifico: i fanti della compagnia Charlie sbarcano sull’isola senza colpo ferire e intraprendono la marcia verso la battaglia. I primi cadaveri orrendamente massacrati appaiono dopo 35 minuti. Ci vorrà più di un’ora per snidare le mitragliatrici giapponesi in cima alla montagna, anche se il frenetico colonnello Nick Nolte insiste a imporre un criminale attacco frontale a Elias Koteas, capitano che non intende mandare i suoi al macello. La brutalità degli scontri si scatena a contrasto con il fulgore della natura: nota di merito all’operatore John Toll, mentre il commento musicale di Hans Zimmer deborda un po’. L’occhio-guida nell’inferno bellico è un personaggio dostoevskiano, Jim Caviezel, strano soldato che abbiamo conosciuto all’inizio immerso nel paradiso terrestre dei Mari del Sud. Risucchiato nell’esercito, questa versione in divisa dell'”Idiota” si ritrova a fare i conti con il cinico sergente Sean Penn. Però il confronto tra i due non attinge a una reale dimensione drammatica, come superflue risultano altre vicende individuali. La sottile linea rossa resta un film corale, girato con bravura diabolica per le scene d’azione, meno accettabile quando arpeggia pensoso su tematiche metafisiche. Parlando di grandi film di guerra, Salvate il soldato Ryan di Spielberg scende in campo come competitore di Malick: 11 nomination agli Oscar contro 7. Chi vincerà? La cosa più sciocca sarebbe metterli a confronto, usare l’uno per dir male dell’altro.
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La Stampa (13/2/1999)
Lietta Tornabuoni
Colpo di scena: sul palco dello ZooPalast, con un’apparizione spettacolare inattesa e carismatica, Terrence Malick, avvolto in un gran cappotto nero, con la barba bianca corta e un bel sorriso, dice “sono felice di essere qui, spero che il film vi piaccia”, e se ne va. Erano vent’anni che il regista non compariva in pubbllico. John Travolta, George Clooney, Nick Nolte, Woody Harrelson, Sean Penn, John Savage: un piccolo esercito di divi combatte, a volte solo per pochi istanti, ne La sottile linea rossa di Terrence Malick sulla seconda guerra modiale, sull’attacco americano nel 1942 all’isola di Guadalcanal nell’Oceano Pacifico per espellerne i giapponesi: ma la vera star rimane il regista, grande clandestino, grande leggenda. Malick è americano, ha cinquantacinque anni. Ha studiato filosofia a Harvard, ha tradotto dal tedesco testi di Heidegger, ha fatto il giornalista, ha ricevuto le critiche più ammirate per i primi due bellissimi film, Badlands (La rabbia giovane, 1973) e Days of Heaven (I giorni del cielo, 1978). Da allora, per vent’anni non aveva fatto altri film, era sparito in una nuvola di misteri: si mormorava che andasse ai festival di cinema restando però un fantasma per i media; si dice che abbia girato nel 1989 un documentario di tema astronomico. Nick Nolte racconta che non fa il cinema per campare, e che per questo è un autore totalmente libero. Jim Caviezel, un altro degli attori del film, dice che Malick è un uomo incapace di indulgere alla superbia e all’egocetrismo, che possiede pochissime cose e le regala tutte. Si sa che per La sottile linea rossa, che è lungo quasi tre ore, aveva girato 100 ore di materiale, che nei tagli necessari sono stati mutilati Bill Pullmann e Mickey Rourke. Il film è molto bello, molto inconsueto, fotografato meravigliosamente da John Toll, tratto dal romanzo autobiografico di James Jones. I disastri della guerra, la ferocia e crudeltà degli scontri bellici, la violenza irresponsabile dei comandanti, l’orrore di morti sanguinose sono tutti presenti, ma non razionalizzati: compongono una sorta di nebbia confusa nella quale i combattenti americani si muovono con lo smarrimento di Pierre Besucov nella battaglia di Guerra e pace di Tolstoi; vengono messi a contrasto con la calma bellezza tropicale, con il paesaggio incontaminato, con l’indifferenza verde della Natura. Il film è nello stesso tempo quasi muto e molto parlato: le parole servono a riflettere sulla guerra (“In questo mondo un uomo solo non conta niente e questo è l’unico mondo che abbiamo, un mondo che si manda all’inferno”), servono a esprimere i pensieri dei soldati che dagli scontri e dal pericolo sono indotti a ripensare alla propria vita e a ricercare il proprio modo di essere. La sottile linea rossa è affollato di divi che compiono spesso appena delle apparizioni ornamentali e non hanno veri ruoli, mentre i personaggi più importanti seguiti con maggiore continuità sono giovani attori poco noti. Sono stupende certe immagini esemplari: le vigilie di battaglia colme di paura, le urla e le bestemmie dei morenti, i cani mangiacadaveri, la tristezza dopo la vittoria, le croci candide dei cimiteri militari, la lettera con cui un soldato apprende la decisione di divorziare della moglie al cui ricordo s’era aggrappato per sopravvivere. Il ritmo lento e contemplativo, l’esplorazione interiore che accompagna l’azione bellica arricchiscono un’opera ammirevole che è nello stesso tempo convenzionale e unica.
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il Manifesto (13/2/1999)
Roberto Silvestri
Un tema esclusivo, finora, alla Berlinale 49: il secondo conflitto mondiale, una “guerra civile” di cui i vincitori vanno ancora molto fieri. Un’epoca, comunque, di grande storia e di grande politica, visto che siamo nel pantano del dopo-storia e ci aggiriamo nella landa oscura dove impera una sola, grande forza bruta, l’Economia. Il film più interessante visto finora in gara, poetico-patriottico assai più dello Spielberg, e adorno di nomination agli Oscar quanto Benigni (miglior film, regia, sceneggiatura; Nick Nolte come star; fotografia, di John Toll; montaggio, di Weber, Jones e Klein; suono, di Paul Brincat) è un kolossal della Fox, The thin red line (La sottile linea rossa), ritorno alla regia di Terrence Malick dopo 20 anni. Quasi tre ore di paradiso dei mari del sud trafitto a sangue dal duello nel Pacifico tra Giappone e America. Dalle isole Salomone a Guadalcanal e alla più eroica pagina da epopea John Wayne, la conquista dell’isola, strappata ai “musi gialli”. Con alcuni segmenti obbligatori che hanno fatto la fortuna del best seller di James Jones: i giapponesi piatti, senza ombra, quasi fossero vietnamiti; le donne, a casa, infide, traditrici e nullafacenti; il colonnello Tall (Nolte, mai così sopra le righe e le rughe), l’ambizioso militare cinico che usa la truppa come carne da macello che gli procuri medaglie; il capitano Staros (un greco), capace di disobbedire agli ordini quando il “suicidio” dei suoi uomini sarebbe troppo spudorato; il sergente traffichino, ma capace di un gesto eroico (Sean Penn); il soldato semplice Witt (Jim Caviezel), l’idealista che come tutti gli idealisti finirà male… il cameratismo, lo spirito di sacrificio, la geometrica bellezza della conquista della collina 210… Un grosso coccodrillo che si inabissa apre il film, un grosso coccodrillo catturato lo chiude. E in mezzo pappagalli multicromatici che sembrano vestiti da carnevale, pipistrelli angosciati, serpenti distratti, fauna e flora rigogliosa e “nativi” da pubblicità turistica, più che da Levi-Strauss. Narratore ecologico, dai ritmi umani, estenuanti in un mondo concitato, che respira aria pura e adora i cromatismi all'”impressionista” là dove il digitale impera, dopo anni di silenzio (e un corto prima di Badlands, I giorni del cielo) riappare il cinema al ralenti, vibrante, caleidoscopico, in trance (affogato nella musica minimale di Zimmer e nella voce recitante fuori campo di Caviezel, una voce dall’al di là) di Terrence Malick, depliant promozionale di tanti divi Usa (anche Travolta, Savage, Harrelson, Cusack, Clooney…) senza meta e centro.
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Film TV (24/2/1999)
Enrico Magrelli
Un labirinto di fili d’erba, di pensieri fluttuanti, di pallottole, di sangue, di parole, di sudore, di nuvole e di paura. “La sottile linea rossa” diretto da Terrence Malick, il J. D. Salinger del cinema hollywoodiano, dopo un silenzio durato venti anni, è una magnifica sinfonia sull’orrore della guerra e sull’estasi arcaica e immutabile della natura. ll confine da difendere ha un nome carico di storia, di morti e di memorie dolorose: Guadalcanal. Su quelle colline, in quella giungla, tra gli alberi e i villaggi di quell’isola gli uomini di una compagnia dell’esercito vivono la loro battaglia mentre il regista cancella il ricordo, l’iconografia e soprattutto il tempo del cinema di guerra. Ci sono gli ordini secchi e perentori, la cima da conquistare, i colpi di cannone, le granate, le mutilazioni, le ferite, lo scontro con i nemici, il fuoco e il fumo delle armi. Malick conosce molto bene i materiali, le situazioni, gli archetipi e gli stereotipi dell’epica bellica e le cadenze omeriche con le quali descrivere atmosfere e gesta. Intorno e dentro queste atmosfere e queste gesta, spesso sospese e dilatate, si impongono allo sguardo i cieli infiniti, le piante, l’acqua, gli animali, la luce e gli spazi, inquadrati con la purezza estatica del cinema muto, con l’incanto sensuale di Murnau, il conflitto tra i giapponesi e gli americani introietta l’eterna contrapposizione tra cultura e natura, i dubbi filosofici ed esistenziali. Le voci fuori campo, tecnica narrativa che il regista riprende dai suoi due unici film precedenti, “La rabbia giovane” (1973) e “I giorni del cielo” (1978), diventano un coro frastagliato di voci interiori, una gamma di emozioni e conoscenze, di saggezze e di convinzioni. La guerra, ai tempi di Omero e di Joyce, è un evento collettivo e la macchina da presa scivola, lenta, rispettosa, pacificata sulle facce e sui pensieri. Il soldato Witt, il capitano Staros, il capitano Gaff, il tenente colonnello Tall, il sergente maggiore Welsh, il sergente Keck, il sergente McCron e tutti gli altri sono le solitarie e anomale flessioni di un mito battezzato con il sangue.
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Il Giorno (20/2/1999)
Silvio Danese
Non c’entra niente col Soldato Ryan. C’è una collina da conquistare, ci sono i buoni e i cattivi, ci sono i convenzionali tempi feroci del cinema di guerra, ma il film vero sta tra il guerriero e lo spazio (naturalistico e mistico) che lo circonda. Sarà che ha tradotto Heidegger negli Stati Uniti, sarà che non faceva film da vent’anni, ma Terrence Malick ha un’energia cinematografica d’umanissimi calore e freschezza. Cast delle grandi epopee, alla maniera di Fuller: Nick Nolte, John Cusack, Sean Penn, George Clooney. Analisi di nobili disumanità, alla maniera di Kubrick. Da vedere.
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il Giornale Nuovo (20/2/1999)
Maurizio Cabona
Terrence Malick è regista da festival e regista pigro. In un quarto di secolo, ha girato tre film, due presentati a Cannes nel 1973 (La rabbia giovane) e nel 1979 (I giorni del cielo) e uno a Berlino pochi giorni fa, La sottile linea rossa, che è tratto dal romanzo di James Jones (già portato sullo schermo da Andrew Marton nel 1964, con Keir Dullea e Jack Warden). Laureato in filosofia, Malick è uno che si prende sul serio. E invecchiando peggiora. Si pensi che in origine La sottile linea rossa durava quattro ore e mezza, «ridotte» poi alle attuali due ore e cinquanta con esiti goffi: un attore costoso come John Travolta fa il generale – bella carriera alla sua età – solo per scomparire dopo qualche dimenticabile battuta iniziale; un altro divo come George Clooney passa in rivista un drappello e fa lo spiritoso per pochi secondi, alla fine! C’è poi l’episodio incomprensibile del soldato che, nei primi minuti, ruba una pistola lasciata incustodita da un ufficiale: l’arma non apparirà più, quindi o lui é un collezionista o c’è un «taglio» malfatto. La trama. Durante lo sbarco americano a Guadalcanal nel 1942, il disertore Jim Caviezel viene aggregato alla compagnia di disciplina del sergente Sean Penn nel corpo d’invasione comandato dal colonnello Nick Nolte. (…) Intanto la voce fuori campo, che inizialmente lo spettatore è indotto a identificare coi pensieri di Caviezel, fa la morale; più avanti si capirà che quei pensieri riflettono la coscienza collettiva! Prolissa la voce, prolisso il resto. Linguaggio asciutto, uso dell’ellisse, capacità di raccontare senza necessariamente mostrare sono doti che Malick non ha. Ma un film di guerra è sobrietà. Nella Sottile linea rossa però di sobrio c’è solo l’impiego dei mezzi militari: si vede solo un aereo, sempre lo stesso; si vede una sola nave e una decina di anfibi. Non c’è un lanciafiamme: Malick avrà giudicato poco estetico mostrare giapponesi flambés. Restano i documentari dell’epoca a ricordarli.
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Ciak (1/3/1999)
Marco Balbi
Paradiso e inferno possono convivere? Secondo Terrence Malick si, e per dimostrarcelo ha portato sullo schermo la carneficina di Guadalcanal. Lontani dai fronti europei, dove i paladini della libertà fanno la santa e giusta guerra contro il nazismo, distanti anni luce dallo “spielberghiano” sbarco in Normandia: qui siamo dalle parti dell’apocalisse di Coppola, in un Vietnam ante litteram (l’inferno) dove il nemico si nasconde sotto terra. E la splendida Natura (il Paradiso), protagonista del film come i soldati (fra cui John Cusack e Jim Caviezel), è testimone involontaria e neutrale della tragedia. La sottile linea rossa è un film difficile, lento, lungo, che ha il coraggio dell’etica e della coerenza: e l’irrompere della guerra nel Paradiso, dopo oltre mezz’ora di film, rimarrà nella memoria.
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Sole 24 Ore (27/2/1999)
Luigi Paini
La sottile linea rossa, di Terrence Malick, è un film di guerra consigliato anche a chi non ama i film di guerra. Certo, vi gioca un ruolo centrale la cruentissima battaglia per il possesso dell’isola di Guadalcanal, uno degli episodi chiave dell’ultimo conflitto mondiale nel Pacifico. E non si contano le cannonate, gli assalti anche all’arma bianca, le azioni eroiche, i morti e i lamenti dei feriti. Ma tutto ciò è solo una parte, benché sostanziale, dell’opera che Malick ha tratto dal romanzo di James Jones (lo stesso di Da qui all’eternità). Perché l’altro centro del racconto, tanto importante da occupare la maggior parte di una pellicola lunga quasi tre ore, è rappresentato dai monologhi interiori e dalle tormentose riflessioni dei protagonisti. Che sono davvero tanti, come si conviene a un’opera corale, a partire dal soldato semplice Witt (Jim Caviezel). É lui il primo a chiedersi, e a chiederci, la ragione del trionfo del Male. Un trionfo tanto più doloroso in quanto si oppone alla bellezza di una natura simile a quella dell’Eden perduto, abitata da popolazioni che assistono quasi inebetite al passaggio della devastazione. Witt non trova risposte, ma le sue domande diventano inevitabilmente le nostre, portandoci a livelli insospettabili di partecipazione e commozione. Il regista, inventandosi un modo di procedere del tutto personale, non si affida solo ai pensieri del soldatino: quasi senza accorgercene “entriamo nella testa” anche di molti altri componenti della compagnia di fucilieri “C” come Charlie. Secondo i canoni del genere bellico, tutti i tipi sono rappresentati, dal sergente Welsh, burbero ma in fondo buono (Sean Penn), al comandante Tall, tanto frustrato quanto smanioso di fare carriera (Nick Nolte), fino al capitano Staros (Elias Koteas), amato e rispettato dai suoi uomini, e proprio per questo allontanato dalla prima linea. Eppure Malick, anche in questo caso, sfrutta e ribalta le convenzioni, consegnandoci ritratti dolorosi, profondi, sfaccettati.
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Sole 24 Ore (28/2/1999)
Roberto Escobar
Non nasce un nuovo, vero “movimento” dello spirito se non dallo stupore. Giunto in prossimità d’un limite estremo, ai bordi del mondo, un uomo resta attonito: spaesante, lo blocca una mancanza inaspettata di senso. Non c’è più ordine: non attorno a lui, non in lui. Tre diverse strade gli sono date. Una corre all’indietro, verso il senso e l’ordine perduti e ritrovati, e ora con fede ancor più cieca creduti. La seconda si rifugia nel silenzio e nel niente della follia, nell’indifferenza catatonica che avvolge e neutralizza l’angoscia. La terza procede in avanti, alla ricerca d’un ordine e d’un senso nuovi.
Da questo stupore aperto e curioso, dolorante e creativo è “mosso” il terzo film di Terrence Malick, a venticinque anni da La rabbia giovane (Badlands, 1963) e a venti da I giorni del cielo (Days of Heaven, 1978). Su un’isola perduta nell’oceano, nel pieno della Seconda guerra mondiale, lo sguardo del cinema giunge in prossimità d’un limite estremo, ai bordi del mondo. Gli si mostra qualcosa che non riesce più a comprendere e contenere: qualcosa che non sta più dentro una storia unitaria, dentro modelli narrativi e ruoli definiti. Stupefatto e spaesato è certo anche l’occhio del cinema nei primi venticinque minuti di Salvate il soldato Ryan (1998). Della guerra, appunto, Steven Spielberg mostra la mancanza di senso attraverso la soggettiva impossibile di chi si trovi a pagane il prezzo con la propria carne, il proprio sangue, la propria paura. Il suo dispendio di vita diventa così un dispendio di cinema, con immagini che “citano” i film di genere e che però si bruciano una dopo l’altra, negando qualunque coerenza narrativa. E tuttavia più radicali e definitivi sono lo spaesamento e lo stupore di La Sottile linea rossa (The Thin Red Line, Usa, 1998).
Non è solo la guerra in corso che eccede la coerenza della narrazione, e che chiede una comprensione nuova. Ripercorrendo il libro di James Jones, Malick incontra un vuoto, una “assenza” che gli appare come il male radicale. Il conflitto cruento che oppone gli americani ai giapponesi sembra, al soldato Witt (Jim Caviezel), non più che una manifestazione particolare d’un conflitto ben più generale, e anzi universale: lo stesso che oppone la morte alla vita, la realtà della sofferenza al desiderio della felicità, e addirittura l’impeto del mare all’immobilità della terra. A malapena riesce a dargli nome la metafora del peccato originale e della cacciata dal paradiso.
In tutto il film c’è, appunto, questo senso di privazione ed esilio, come se da una condizione originaria d’ingenuità la vita fosse poi precipitata nella colpa della Storia. E questo lo stupore ultimo, definitivo di Witt, e in fondo anche di Malick. Di continuo il cinema lo evoca contrapponendo l’angoscia degli uomini all’indifferenza della natura, la cecità delle loro storie frantumate e incoerenti allo splendore luminoso dei cieli, il rosso cupo del sangue, al verde trionfante dell’erba, il rumore lacerante degli spari al silenzio sospeso del tenore, la concitazione della morte alla calma estraniata dell’attesa.
Non conta che la metafora del peccato originale sia condivisa dallo spettatore o che non lo sia. Conta che nel film riesca a esprimere la tragicità dello spaesamento di Witt, e che rispetto a essa Malick riesca a misurare quello di tutti gli altri. Di ognuno vediamo e sentiamo lo stupore. A ognuno la sceneggiatura e la regia danno voce: americani e giapponesi, vivi e morti. Una di queste voci è, appunto, d’un cadavere, ossia di quanto ne emerge, tragicamente comico, nel marrone sporco della terra: una bocca, un profilo, un’assenza. Questa, suggerisce la voce, è la condizione cui si è chiamati, giusti o ingiusti, buoni o malvagi.
Non c’è un solo stupore in La sottile linea rossa, ma tanti quanti sono gli sguardi, i punti di vista sul mondo. E a ognuno corrisponde un tentativo diverso di elaborare l’angoscia, di domare la paura trasfigurandola. Qualcuno – i giapponesi vinti – si rifugia nel niente, nel silenzio catatonico. Altri – il colonnello Gordon Tall (Nick Nolte) – torna precipitoso e caparbio alla normalità rassicurante della carriera. Altri – il sergente Edward Welsh (Sean Penn) – elaborano lo spaesamento in un sistema di autodifesa: occorre costruirsi, conquistarsi una posizione che sia solo propria, e lì resistere alla morte, finché è possibile.
Altri ancora si fanno sordi e ciechi al dolore del “nemico”, per farsi sordi e ciechi al proprio. C’è poi chi, come Witt, non rinuncia a immaginare che da qualche parte stia la possibilità di ritrovare la porta del Paradiso, di rimediare alla caduta. Quanto a Malick, nell’inquadratura che chiude il film pare cercare nuovo senso e nuovo ordine in una visione pacificata e olimpica del mondo, come se davvero la morte non fosse che un momento necessario alla gloria della vita.
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Sette (4/3/1999)
Claudio Carabba
L’isola è stupenda il clima dolce e caldo; steso al sole ad asciugarsi il corpo e l’anima, il giovane soldato vive il suo giorno di quiete. Domani nella battaglia, quando avanzerà nel mare d’erba che copre la collina nella fatale Guadalcanal, nessuno penserà a lui. Non sono previste missioni impossibili, nessuno salverà il soldato Witt. Partito per uno dei luoghi più insanguinati della Seconda guerra mondiale, Terence Malick ha costruito La sottile linea rossa come una tragedia classica, affascinato dal canto triste del coro. Quando si muore, è inutile domandarsi se la causa era giusta o no. La guerra è solo la metafora estrema di quel lento perdersi che scandisce il tempo dell’esistenza, da qui all’eternità.
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Il Resto del Carlino (27/2/1999)
Alfredo Boccioletti
Ha vinto l’Orso d’oro al Festival di Berlino, è candidato a sette premi Oscar, occupa il terzo posto nella classifica degli incassi in Italia, nonostante i suoi 170 minuti di proiezione. Eppure sul film La sottile linea rossa del redivivo Terrence Malick grava una serie infinita di malintesi, che tiene a distanza il pubblico in grado di apprezzarlo e attira invece, generando sconcerto, chi crede di ritrovare sotto un’altra angolazione gli stessi temi di Salvate il soldato Ryan. Il fatto è che La sottile linea rossa, seppure ambientato a Guadalcanal nel novembre del ’42, non può essere definito un film sulla guerra, qui rappresentata come semplice aspetto fenomenologico del Grande Male. E’ fuor di dubbio che Malick, insegnante di filosofia diventato regista di culto negli anni ’70, abbia assimilato da Heidegger (di cui ha curato la traduzione in inglese delle opere fondamentali) l’idea che occorre superare il linguaggio metafisico e affidarsi alla poesia. Da qui il suo interesse per i filosofi presocratici e per i poemi omerici, dove gli eroi si dibattono nella ricerca di una loro identità che solo la morte, accettata oltre la tirannia del fato, potrà in qualche modo delineare. Nella Sottile linea rossa il soldato Witt, sorta di “idiota” dostoevskijano proiettato in un villaggio dei Mari del Sud, conduce questa ricerca partendo da una condizione di natura simile a quella ipotizzata da Rousseau per giungere al Contratto sociale. E si chiede subito perché la natura lotti contro se stessa. Poi, davanti allo scempio della guerra, e sempre con la voce fuori quadro, si porrà altre domande retoriche in un contesto epico che confonde il profilo degli uomini tra le alte felci della collina maledetta. Nemmeno il feroce colonnello assetato di gloria si ritaglia un ruolo definito e autonomo. Il controcanto della natura, esotiche presenze animali o foglie traforate dagli agenti atmosferici come ventri di fucilieri dal piombo nemico, completa un quadro allegorico sulla condizione umana che ha momenti di struggente lirismo. Anche la morte dell’Amore, rappresentato attraverso visioni oniriche e versi accorati («come si raggiunge l’altra sponda… quelle montagne blu?») e che si perfeziona nel tradimento della moglie di un soldato, ci riconduce a quella sottile linea rossa che in un proverbio del Midwest separa la ragione dalla follia, mentre, nel romanzo di guerra di James Jones, da cui il film è liberamente tratto, indica i rossi fucilieri scozzesi schierati a Balaklava come carne da cannone.