All’inizio degli anni ’80, la Sicilia è capitale mondiale del traffico di droga, divisa tra famiglie di Cosa Nostra palermitane e corleonesi (di cui è leader Totò Riina), che lottano fra loro pur mantenendo una facciata di amicizia. Durante una festa a casa di Stefano Bontate tra boss di entrambi gli schieramenti, Tommaso Buscetta, un boss affiliato alla mafia di Palermo, avverte il pericolo di una faida imminente e decide di emigrare in Brasile per seguire i suoi affari al sicuro.
Le tensioni non tardano a manifestarsi e si scatena una serie di omicidi a boss mafiosi e familiari; i due figli di Buscetta e suo fratello, rimasti in Sicilia, vengono fatti sparire e lui stesso si sente braccato in America Latina. Inoltre, la polizia brasiliana lo identifica e lo cattura, sottoponendolo a numerose torture fisiche e psicologiche, successivamente viene chiesta l’estradizione in Italia che Buscetta in un primo momento evita ingerendo della stricnina.
Ormai rimasto senza potere né denaro, Buscetta viene salvato e rimpatriato in Italia, finendo quindi nel mirino dei rivali corleonesi. Il giudice Giovanni Falcone gli offre un’alternativa: collaborare con la giustizia, che per il codice d’onore mafioso equivale a un tradimento punibile con la morte. In una serie di interrogatori, Buscetta rivela al giudice nomi, organizzazione e rituali di Cosa Nostra, diventando così il primo collaboratore di giustizia della storia, benché abbia sempre rifiutato di definirsi un pentito; anche il suo vecchio compagno Totuccio Contorno inizierà a collaborare con la giustizia.
Grazie alle deposizioni di Buscetta e Contorno la polizia riesce a eseguire centinaia di blitz ed arresti che destabilizzano Cosa Nostra: nel 1986 ha inizio il maxiprocesso nell’aula-bunker di Palermo, del quale Buscetta è testimone chiave. Il processo va avanti tra il totale diniego degli imputati e la loro ipocrita pretesa di innocenza; molti chiedono un confronto diretto con Buscetta, ma tutti desistono dopo quello con Giuseppe Calò, suo amico di infanzia, che nega di conoscerlo. I mafiosi vengono condannati e giurano vendetta su Buscetta, che viene posto sotto protezione negli Stati Uniti d’America, dove tuttavia continua a sentirsi braccato e spesso è costretto a cambiare città. In Italia, intanto, molti suoi parenti incensurati vengono uccisi per ritorsione: una sua sorella, rimasta vedova, lo rinnegherà come fratello.
Nel maggio del 1992 il giudice Falcone viene assassinato in un brutale attentato; Buscetta decide di tornare in Italia, in suo onore, come testimone chiave del processo del secolo. Qui, tuttavia, viene messo in difficoltà dall’avvocato di Giulio Andreotti, che mette in luce le sue contraddizioni e la sua morale dubbia. Intanto viene arrestato Totò Riina, e nel corso del processo a suo carico, Buscetta apprende che i suoi figli sono stati uccisi mediante strangolamento dai vecchi amici Giuseppe Calò e Salvatore Cancemi, reo confesso. Buscetta si sente in colpa per aver abbandonato i suoi figli anziché portarli con sé in Brasile.
Buscetta vive i suoi ultimi anni sotto copertura negli Stati Uniti, dove muore nel 2000, circondato dall’affetto dei figli avuti dalla sua ultima moglie. In flashback rivive la storia di un attentato che doveva compiere nei confronti di un uomo, il quale, messo alle strette, è riuscito a farsi sempre scudo di suo figlio, fino a quando, nel giorno del matrimonio di quest’ultimo, viene assassinato a sangue freddo dopo che il figlio non era più nella sua stessa dimora.
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La Stampa (30/10/2018)
Fulvia Caprara
Sul set di Buscetta
Favino è il boss pentito per Marco Bellocchio: “Un’esperienza totale”
Nell’aula bunker di Rebibbia le parole che hanno fatto la storia di Cosa Nostra risuonano dure e gravi, come se nella ricostruzione cinematografica acquistassero quell’aura shakespeariana che le cronache dell’epoca non potevano restituire: «Pensavo di ascoltare il ruggito dei leoni – tuona il super-pentito Tommaso Buscetta interpretato da Pierfrancesco Favino – e invece ho sentito lo squittio dei topi». Un fremito attraversa l’aula del processo, i banchi pieni di spettatori, gli imputati aggrappati alle sbarre delle gabbie, i magistrati che con tenacia paziente conducono i confronti: «Io non ti odio – prosegue Buscetta – se ti odiassi ti farei un favore».
I bersagli dei suoi strali si avvicendano nelle deposizioni, ci sono Totò Riina (Nicola Calì) e Salvatore Cangemi (Ludovico Caldarera) che rievoca l’uccisione dei figli del pentito, di Benedetto in particolare, «quello che più di tutti somigliava nella faccia a Buscetta».
Sul set blindato del nuovo film di Marco Bellocchio Il traditore va in scena il dramma, eterno e universale, che lacera gli ex compagni di strada divenuti acerrimi nemici, gli ex-complici trasformati in avversari: «Tradire – dice Bellocchio – è quasi auspicabile. Significa rifiutare il proprio passato, i temi e i valori della propria educazione. Non è obbligatorio, ma a me è successo, e quindi il tradimento è qualcosa che riguarda la mia vita».
“Le mie rivoluzioni”
In una pausa della lavorazione, davanti a un monitor e a un piatto di carta, Bellocchio svela il nodo di un film che ha che vedere con i suoi personali bilanci: «Sono passato attraverso almeno tre rivoluzioni, anzi quattro. Ho rifiutato la mia educazione cattolica, tradendo mia madre e un certo tipo di formazione. Ho lasciato una certa ideologia comunista. Ho scelto l’analisi collettiva e il pensiero di Massimo Fagioli, per poi tornare in un’altra forma di contesto, e infatti adesso i fagioliani mi considerano un traditore. E poi dovrei includere i tradimenti sentimentali». Al centro del Traditore, aggiunge Bellocchio, c’è «il percorso individuale di un personaggio, un uomo che vediamo giovane e che seguiamo fino alla morte, e in cui non riusciamo a capire bene, se non alla conclusione del percorso, che tipo di tracce abbia lasciato l’esercizio del tradimento».
Le trasformazioni fisiche
Per questo la ricostruzione minuziosa dell’epopea di Tommaso Buscetta, di una figura che ha segnato la storia del Paese trasformandone una fase in un faccia a faccia, teatrale e agghiacciante, tra Bene e Male, riguarda come è nella tradizione dell’autore le ragioni e non solo i fatti, le anime e non solo i personaggi: «Per me – dice Favino – questa è la storia di una persona che, proprio come fa un attore, ha voluto credere ogni volta di essere ciò che diventava».
Della vicenda di Buscetta sono parte integrante le trasformazioni fisiche, le plastiche facciali dettate dalla necessità di rendersi irriconoscibile per scampare alla vendetta dei killer mafiosi: «Ha cercato in tutti i modi di cambiare i suoi connotati, è mutato talmente tanto da arrivare a tradire anche il proprio aspetto fisico». Nei panni di Buscetta, con il blazer blu e gli occhiali scuri sempre a portata di mano, Favino acquista un’aria insolitamente minacciosa: «Ho studiato, mi sono preparato e documentato, ma su Buscetta non c’è molto e, soprattutto, c’è solo quello che lui ha voluto che noi vedessimo».
Le riprese del film, prodotto da Ibc Movie e Kavac Film con Rai Cinema, si sono svolte in Sicilia e proseguiranno in Gran Bretagna e in Brasile: «Sto vivendo un’esperienza totalizzante. Desideravo moltissimo lavorare con Marco Bellocchio, è un regista che non dà mai per scontato quello che un attore può portare al suo ruolo, una persona che ascolta, e io mi sento al suo servizio».
Un’Italia lontana
Sul set, nei panni del capo della scorta di Buscetta, recita Piergiorgio Bellocchio che, all’epoca dell’attentato di Capaci, aveva 18 anni: «Nel film c’è un’Italia che appare lontana, al confronto quella di oggi risulta deludente. Allora, magistrati come Giovanni Falcone erano saldi punti di riferimento. Le figure istituzionali del nostro presente generano, invece, un senso di confusione, dicono e poi si contraddicono. Così i piani si confondono, e diventa difficile spiegare la realtà ai più giovani».
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Drammaturgia.it (20/06/2019)
Matteo Citrini
Rivedere la storia
Dopo Vincere (2009) e Bella Addormentata (2012), Marco Bellocchio fissa un altro tassello della sua recente filmografia sul confronto tra cinema e storia italiani. Il soggetto questa volta è la biografia di Tommaso Buscetta, il primo grande pentito della mafia siciliana, l’uomo che ha rivelato al mondo l’organizzazione della Cupola. Nel raccontarne le vicende, il film abbraccia quasi un trentennio di vita del nostro Paese, dall’ascesa dei corleonesi sul finire degli anni Settanta fino alla morte di Buscetta nell’aprile del 2000, passando per eventi che hanno segnato la cronaca del tempo come il maxiprocesso dell’86, la strage di Capaci e la cattura di Riina.
Uno spaccato della nostra recente storia filtrato dallo sguardo del pentito per antonomasia, ma che “pentito” di per sé non è. Per lui infatti i “traditori” sarebbero altri: quei Totò Riina e Pippo Calò che avrebbero infangato e deturpato l’“onore” di Cosa nostra e che per questo meriterebbero la prigione. È solo per questo, afferma Buscetta, che avrebbe deciso di collaborare con Falcone. Una dichiarazione che lo spettatore impara presto a prendere con le pinze, come molte altre successive, in quanto immancabilmente si crea una scissione tra ciò che Buscetta è e ciò che afferma di essere. La camera di Bellocchio riesce proprio in questo intento: nel mandare in cortocircuito l’immagine che il protagonista ha di sé e quella che percepisce lo spettatore, senza per questo scendere mai in inutili psicologismi.
Stando a Buscetta, quindi, egli stesso sarebbe “uomo d’onore”. A suoi occhi lo Stato non è che un mero strumento risolutore di una faida tra clan: la vecchia guardia, sconfitta, si rifugia tra le braccia della giustizia e da lì indica e smaschera il nuovo potere. Poco importa se i magistrati capiscono o meno le testimonianze dei pentiti. Tra le scene di maggiore fascino c’è la confessione in siciliano stretto di Totuccio Contorno (Luigi Lo Cascio) al maxiprocesso: a fronte dell’incomprensibilità degli atti e della perplessità dei giudici, prevalgono le grida, gli strepiti e le maledizioni scagliate tra pentiti e incarcerati, in uno spettacolo grottesco che lascia attoniti e fa sorridere amaro. La scena è orchestrata come se fosse una pantomima, ma non travalica mai i limiti del surreale e riesce così a restituire in tutta la sua deformazione quella che è la loro realtà.
Come sempre nelle sue opere, Bellocchio rifiuta la drammatizzazione della violenza e rifugge da ogni sua possibile “estetizzazione”: questi uomini sono e restano malvagi, hanno compiuto atti terribili e reggono la loro vita su un sistema di valori deturpato. Ma non per questo cessano di essere uomini con le loro paure, desideri e speranze. Su questo sottile equilibrio tra empietà, “onore” e affetto dei personaggi si regge il film: cronaca di un mondo non ridotto mai a fatti, ma sempre attento alla dimensione umana. Ed è per questo che la prova recitativa del cast è centrale. A partire dal Buscetta di Pierfrancesco Favino, capace di rendere credibile uno spietato assassino che ama la sua famiglia e si strugge per l’esilio, un uomo che non esita a mentire né lesina sui soldi presi dallo Stato, ma che sa guadagnarsi il rispetto di Falcone. Tra gli altri, Fabrizio Ferracane e Nicola Calì brillano nel restituire al contempo l’efferatezza e la meschinità dei loro personaggi: le scene in cui si assiste al confronto-scontro tra loro e Buscetta sono quelle di maggiore pregnanza per recitazione e brillantezza dei dialoghi.
Salvo qualche rara eccezione, come la scena dell’attentato a Falcone, Bellocchio mantiene un registro stilistico molto classico, con una regia precisa e discreta sostenuta dal ricorso a materiale documentaristico (titoli di giornale, servizi del tg, ecc.), come da tradizione per il genere. Una scelta volta a sottolineare quello che è il cuore del film: la necessità per il cinema di confrontarsi senza fronzoli né abbellimenti con la recente storia italiana e di diramarne le contraddizioni concedendo allo spettatore fatti, tempi e spazi sufficienti. La lunghezza della pellicola (due ore e quindici minuti) e la prolissità di alcune scene non sono dunque difetti ma tratti essenziali di un film che scende nel profondo dell’identità di un uomo e di un Paese tra luci e ombre.
Oscillando tra politica, cronaca e biografia, Bellocchio si affida a canoni stilistici convenzionali per confezionare un film che si rivolge schiettamente alla coscienza storica italiana e interroga la forma cinema come strumento di memoria collettiva.
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Psicologia Contemporanea #275 (20/08/2019)
Roberto Escobar
La ricostruzione di Bellocchio della vita di Tommaso Buscetta, uno dei primi pentiti di mafia. Anche qui, per riprendere le parole di Enzo Biagi, «il boss è solo». Con i propri fantasmi.
È il capodanno del 2000. Tommaso “Masino” Buscetta, uno straordinario Pierfranco Favino, siede sul terrazzo della sua casa americana. Al suo fianco, accostato alla poltrona, c’è il fucile da guerra che ha comperato molto tempo prima. Da sedici anni teme la vendetta dei cento e cento criminali di Cosa Nostra che ha fatto arrestare e condannare. Sopra di lui brilla un cielo colmo di stelle. Così si apre l’ultima sequenza di Il traditore (Italia, Francia, Brasile e Germania, 2019, 142’).
La morte è il filo conduttore del film di Marco Bellocchio e dei suoi cosceneggiatori Valia Santella, Ludovica Rampoldi e Francesco Piccolo. E con la morte, il potere, la sua violenza e volgarità. Lungo questo filo corre la cronaca dei nostri anni Ottanta e Novanta, una cronaca che attende ancora di essere elaborata dall’opinione pubblica, oltre che dalle coscienze, per diventare finalmente storia. E alla storia, soprattutto alla sua elaborazione nelle coscienze, Bellocchio dà il contributo che ci si attende da un grande uomo di cinema, in coerenza con una poetica più che cinquantennale.
Non sono un pentito, credo negli ideali di Cosa Nostra, distrutti da Totò Riina (Nicola Calì), dichiara Buscetta a Giovanni Falcone (Fausto Russo Alesi) nel 1984. Intende dire che non è un traditore, che i traditori sono altri, i corleonesi. In ogni caso, parla, fa nomi, indica fatti. Le sue rivelazioni e la sua testimonianza al maxiprocesso palermitano del 1987 portano a 346 condanne, fra cui 19 ergastoli. Nel 1992, dopo l’uccisione di Falcone e Paolo Borsellino, torna dall’America e rivela le connessioni tra Cosa Nostra e la politica coinvolgendo Giulio Andreotti.
Il traditore inizia nel buio di una notte di Santa Rosalia. È il 1980 e i capi e i soldati di Cosa Nostra festeggiano la protettrice di Palermo. Fra loro c’è Buscetta, il soldato Buscetta, che non diventerà mai un capo. Il motivo, dirà a Falcone, è il suo amore per la vita, almeno per la propria e per quella delle sue donne e dei suoi figli. Per lui, preciserà, vale il contrario di quello che vale per Riina, convinto che «comandare sia meglio che fottere», come vuole il proverbio.