Attraverso un resoconto che mescola la narrazione del romanzo con documenti televisivi originali dell’epoca, il regista rievoca il dramma umano dello statista Aldo Moro e il dubbio che si era fatto strada in Chiara, una delle brigatiste. Il doppio livello narrativo ci presenta drammatici stralci degli “interrogatori” a cui lo statista fu sottoposto durante la sua detenzione, e proiezioni oniriche che culminano con la sua ipotetica liberazione.
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Il Corriere della Sera (05/09/2003)
Tullio Kezich
Moro, un film, un sogno (e una fine senza complotti)
VENEZIA – Aldo Moro scappava al cinema ogni volta che poteva. Al Quirinetta, non lontano da piazza Montecitorio, lo vedevo infilarsi furtivo e senza scorta nelle prime file sulla destra, con l’aria dello studente che ha marinato la scuola. Ma al riaccendersi delle luci, finito il film, già non c’era più, i doveri di Stato lo avevano risucchiato altrove. Ora che ho visto alla Mostra Buongiorno, notte di Marco Bellocchio, assimilabile a uno di quei «Grandi sogni» di cui parlava C. G. Jung, avrei voglia di sognare Moro come lo vedevo al cinema, quasi a ridosso dello schermo, mentre si proietta proprio questo film.
E avrei voglia di sapere da lui quanto vi ritrova l’atmosfera di via Montalcini, gli atteggiamenti dei carcerieri, le angosce di quei 55 giorni. L’assurda ipotesi è autorizzata da una strampalata fantasia che emerge dal film stesso, dove i sequestratori trovano nella famosa borsa dello statista un copione intitolato «Buongiorno, notte», del quale in seguito si dichiara autore un ambiguo collega di Chiara, la protagonista mezza bibliotecaria e mezza brigatista.
Anche se il regista si è ispirato al memoriale «Il prigioniero» di Anna Laura Braghetti, la pellicola non affronta la materia in chiave di docudramma (come Il caso Moro di Giuseppe Ferrara) o di dietrologia (come Piazza delle Cinque Lune di Martinelli). «Un sogno, che altro?»: la battuta che suggella «Il Principe di Honburg» di Kleist, da Bellocchio trasferito in immagini, potrebbe essere il motto di Buongiorno, notte. Chi si aspettava un altro film che gridasse a un complotto più o meno arbitrariamente ricostruito, sarà rimasto deluso.
Ciò che preme all’autore non sono la verità dei fatti, le motivazioni politiche, le spiegazioni logistiche. Sulle prime il film sembra voler essere la storia di un appartamento, che vediamo affittato da Chiara e dal suo finto marito in figura di giovani sposi; e infatti la macchina da presa non si sposterà granché da questa scena centrale, con la sua tana segreta dove il prigioniero viene trasferito prelevandolo da una cassa come fosse già cadavere.
Roberto Herlitzka, che presta a Moro un volto pallido e dolente, lo scopriamo poco a poco da fessure o spioncini: solo verso le ultime battute il rimorso fantasticante di Chiara lo farà circolare per le stanze e addirittura prendere la fuga per le vie della città sull’onda del «Momento musicale» di Schubert. Lungo tutto il film gli echi del mondo esterno, incluse le notizie di cronaca, arrivano attraverso la tv citata nei servizi e programmi d’epoca. L’evento è interiorizzato sotto l’incubo di un tormento che attanaglia quasi tutti i congiurati, dei quali il regista sottolinea la matrice cattolica (il segno della Croce prima dei pasti), non si capisce se in un misurato tentativo di nobilitazione o di denuncia di ogni integralismo. Ci sono anche l’incongrua benedizione della casa, con svenimento di Chiara, e un Paolo VI che sembra uscito da un film di Buñuel.
Congelando la fresca disponibilità di Maya Sansa, il regista non le concede di variare molto l’espressione sempre allarmata, preoccupata, lacerata. Chiara fa un pellegrinaggio sulla tomba del padre, seguito da una bicchierata campestre con gli ex partigiani al canto di «Fischia il vento» e da una commossa rievocazione delle lettere dei condannati a morte della Resistenza. Per assimilare al loro sacrificio quello di Moro, che scrive alla moglie, o per dirci che i brigatisti, pur considerandosi paladini della supersinistra, nel loro operare cieco e crudele sono omologabili agli sgherri del nazifascismo? Ogni tanto i significati di questo film dalla fattura impeccabile sembrano sfuggire un po’ alle mani dell’autore: ma si possono controllare i sogni?
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la Repubblica (06/09/2003)
Roberto Nepoti
Ci voleva una bella dose di coraggio per portare sullo schermo una volta di più la vicenda Moro. Se il film è – com’è – una grande riuscita, dipende da tutta una serie di scelte compiute da Bellocchio: giuste e, in più, coraggiose. Contrariamente alle versioni docu-drammatiche del Caso Moro o del recente Piazza delle Cinque Lune, che aspiravano a rivelare la verità nascosta, Bellocchio ha scelto la triplice via dell’infedeltà (ai fatti), della fabulazione e dello sguardo personale. La prima gli ha permesso di introdurre un personaggio femminile; ispirato, sì, ad Adriana Faranda, ma protagonista di una metamorfosi intima che dà il senso agli eventi, tutti filtrati attraverso i suoi occhi. Perché Buongiorno, notte è un film di linguaggio, interamente inquadrato attraverso lo sguardo, gli sguardi: l’osservazione di chi vede senza essere visto (i carcerieri di Moro), il divieto di guardare, l’occhio della nazione, e dei media, puntato sul rapimento e altri sguardi ancora. Bellocchio traduce rigorosamente tutto ciò in termini visivi, dai mascherini attraverso cui Chiara spia il prigioniero al variare delle luci di scena sul primo piano di Maya Sansa; fino a che il suo sguardo – appunto – cambia, si muta in uno sguardo diverso (che è lo sguardo condiviso dal regista). Altra scelta felice quella d’introdurre nel racconto la sceneggiatura del giovane amico di Chiara: che, da un certo punto in poi, fa interferire la realtà storica con l’immaginazione della donna, regalando al film il suo bel finale “sognato”.
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Il Giorno (13/09/2003)
Silvio Danese
In un appartamento di Roma quattro brigatisti detengono il presidente della Dc Aldo Moro. Il delitto Moro, che pesa sulla coscienza del Paese come il delitto di una figura paterna collettiva, avendo condizionato politica e utopia alla fine degli anni ’70, quale diritto avanza nella Storia? Il film risponde: la vita. Mentre si decide la sua eliminazione, il film prevede anche la sua liberazione (un grande Herlitzka che si allontana indisturbato per le strade di un altro futuro d’Italia), secondo un punto di vista che cerca la detonazione del mito, come fece Scorsese in L’ultima tentazione di Cristo, immaginando che fosse la tentazione di esistere. Croce e delizia di questo inizio di stagione cinematografica, è un film che “pensa” la morte di Moro invece di tentare una cronaca della strategia delle parti. È una croce per l’Italia che aspettava un rito di ricostruzione/emancipazione e invece ha trovato un film concettuale, con alcuni limiti di pertinenza. È una delizia (amara) per chi si è riconosciuto nell’insieme delle contraddizioni e degli errori che hanno determinato il mito (del politico come paternità).
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Drammaturgia.it (05/09/2003)
Marco Luceri
Poesia politica
Marco Bellocchio ha voluto dedicare a suo padre Buongiorno, notte, il film sul caso Moro che aveva in mente già da tempo e che costituisce per lui un ritorno alla tematica più strettamente storica rispetto al precedente L’ora di religione. L’analisi della fenomenologia sociale contemporanea anche questa volta parte da una pagina dolorosa della nostra storia per astrarsi in un discorso più generale ed attento sull’uomo e sulla sua capacità di relazionarsi con l’esterno e la società stessa.
Ispirato al memoriale “Il prigioniero” di Anna Laura Braghetti, il film narra i cinquantacinque giorni di prigionia dell’allora Presidente del Consiglio e leader della Democrazia Cristiana Aldo Moro, sequestrato a Roma dalle Brigate Rosse il 16 marzo 1978 e in seguito assassinato il 9 maggio dello stesso anno. Profondamente diverso dai precedenti film che avevano già messo in scena questo tragico evento (Il caso Moro di Giuseppe Ferrara ad esempio), Buongiorno, notte ripropone molti degli stilemi cinematografici del Bellocchio regista rivoluzionario, scorretto, corrosivo che fin qui abbiamo conosciuto.
Evitando molto intelligentemente di cadere nelle maglie della dietrologia, del facile complottismo, Bellocchio ci racconta sottilmente una storia tutto sommato logisticamente intima: una finta coppia di giovani sposi che affittano un appartamento: servirà da rifugio per i loro compagni terroristi, nonché da luogo di detenzione dell’illustre prigioniero. Da subito quindi il regista piacentino scopre le carte: un lungo insistente e lento piano sequenza ci presenta questo ambiente chiuso, oscuro, spesso claustrofobico, da cui la scena si sposterà pochissime volte. Gli interni domestici ritornano allora come ne I pugni in tasca o in Marcia trionfale a chiudere i protagonisti in una sorta di isolamento in cui si fanno esplodere le contraddizioni della loro stessa esistenza.
L’alternanza interno/esterno su cui è concepita tale chiusura riflette da una parte l’angoscia per la società così strutturata e dall’altro il desiderio irrefrenabile di rompere le mura ed uscirne fuori. Una sorta di scatola cinese in cui ogni esterno è un interno e viceversa, una gabbia che chiude ed allontana i personaggi nel loro solipsismo. Infatti in questo film il mondo esterno entra solamente attraverso i telegiornali televisivi o la lettura dei quotidiani, citati fedelmente nella ricostruzione, ed esso diventa, più che una voce della realtà, una semplice eco che risuona tetra e lontana. Anche questo produce nello spettatore quel senso di profonda interiorizzazione della vicenda che è propria soprattutto del personaggio di Chiara (Maya Sansa).
Chiara è Bellocchio stesso, cioè lo sguardo del regista sulla scena ed infatti essa si muove negli ambienti e nei meccanismi narrativi come un’altra macchina da presa; non è un caso che Bellocchio identifichi il suo approccio visivo con gli occhi di una donna (in questo caso l’unica): essa, come nei precedenti film, garantisce quella alterità necessaria che è presupposto irrinunciabile alla conoscenza dei meccanismi messi in scena e dunque della realtà stessa. Ecco perché anche Buongiorno, notte è un film sulla differenza. A tal proposito Chiara e Moro (Roberto Herlizka) sono da un’altra parte rispetto agli altri tre sequestratori. Ciò che i due guardano, cioè il loro rapporto con la realtà oggettuale avviene nell’ombra, nella precarietà: essi guardano negli spioncini delle porte, tra le fessure socchiuse, con i primi piani dei loro occhi tagliati spesso da una luce che infonde intensità emotiva. È il tipico sguardo rubato di Bellocchio, la forza primitiva che concerne al suo modo di essere un grande maestro nella resa, attraverso gli artifici propri del cinema, di tutte quelle pulsioni inconsce, sconosciute e prepotenti che premono per uscire fuori dall’interno oppressivo della struttura sociale della famiglia e dell’io.
Sebbene siano solo compagni di lotta, i cinque sequestratori, chiusi nell’isolamento dell’appartamento vivono e si comportano come una vera e propria famiglia con un padre-capo (Mario Moretti, interpretato da Luigi Lo Cascio), una donna, Chiara, e gli altri due, tra cui il “figlio” disobbediente Germano Maccari (Piergiorgio Bellocchio). La famiglia come primo, forzato inserimento nella struttura autoritaria della società: un corpo paramilitare come le BR ricalca la matrice familiare dei conflitti tra i personaggi. I rapporti reali tra i quattro sequestratori non minati nella facciata lo sono invece a livello interiore ed è in questo che il personaggio di Chiara acquista uno status drammaturgico particolare. La gravità della situazione non permette ai cinque di disunirsi, pur tra mille dubbi, sull’azione e sull’obiettivo finale che tale azione deve portare a conseguire. Una forma dunque di inconsapevole costrizione che altro non è se non un’ altra forma di struttura, di istituzione, di convenzione. Se questa non deve spezzarsi nella realtà può farsi nella dimensione inconscia del sogno; “Un sogno, che altro?” era già la battuta che suggellava Il principe di Homburg e imprime fortemente l’esperienza di qualcosa di differente per Chiara.
Bellocchio a tale proposito usa molto bene la tecnica del montaggio parallelo: inserisce all’inizio inserti di cinegiornali della propaganda staliniana e alla fine, quando il delitto sta per compiersi rievoca le commosse lettere dei partigiani fucilati dai nazifascisti. Ma soprattutto costruisce, con il proseguire della vicenda, un film nel film, cioè il film personale di Chiara, quello frutto delle sue pulsioni inconsce, che non potendosi concretizzare nella realtà, rifuggono nella dimensione onirica. Siamo dunque di fronte a due piani narrativi differenti e mai convergenti, molto più di un semplice montaggio parallelo, siamo al film dell’altra macchina da presa, quella più intima, personale, differente, appunto. Grazie a questo duplice registro della visione e della narrazione molte scene (il pellegrinaggio di Chiara sulla tomba paterna a cui segue un banchetto campestre con tanti ex partigiani che cantano Fischia il vento, Moro che circola tranquillamente per le stanze dell’appartamento e poi addirittura prende la fuga sotto le note del Momento musicale di Schubert) più o meno oniriche rappresentano la proiezione di quel desiderio di rottura, di rivolta, di impulso primordiale che Chiara nutre nei confronti della “sua” famiglia.
A questi due diversi piani visivo-narrativi se ne aggiunge un terzo: quello “esterno”, realizzato attraverso la TV citata nei servizi e nei programmi dell’epoca (incluso lo strepitoso finale con le immagini di repertorio del funerale di Stato, accompagnate dalla musica psichedelica dei Pink Floyd). Siamo dunque in presenza di tre film all’interno di Buongiorno, notte: il primo, quello degli avvenimenti storici; il secondo, quello degli avvenimenti reali filtrati dalla finzione della vicenda filmica; il terzo, quello onirico ed irreale di Chiara.
Si manifesta così il riuscito tentativo da parte di Bellocchio di aver portato in quest’ultimo film tutti i suoi quarant’anni di esperienza umana e cinematografica, realizzando un film che dal punto di vista sia tematico che tecnico riassume tutte le caratteristiche del suo cinema, un’opera in cui convergono sia il filone più strettamente storico-politico (La Cina è vicina, Il principe di Homburg) sia quello più “borghese” (I pugni in tasca, Nel nome del padre, Marcia trionfale). Un perfetto equilibrio formale e narrativo che evita ogni facile schematizzazione e chiarisce in modo inequivocabile la posizione dell’autore nei confronti della materia storica così delicatamente e intelligentemente affrontata. Bellocchio, a questo punto del suo cammino, non smette di apparire ancora come la voce critica più corrosiva e scorretta del nostro cinema: i temi della contestazione verso qualsiasi forma di potere oppressivo sia esso politico, storico, religioso, familiare ecc. restano forti, ma ora sono filtrati da una poeticità più intima che, incline al lirismo non compiaciuto, rende la sua prospettiva artistica ancora molto interessante e coinvolgente.
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la Repubblica (05/06/2006)
Paolo D’Agostini
Va in tv Buongiorno, notte sul sequestro Moro, il regista risponde alle accuse di Giuseppe Ferrara
Bellocchio: “Il mio film ha aperto gli occhi alla sinistra”
“I fatti sono quelli, c’è da capire la miscela tra fanatismo religioso e razionalità delirante”
“Tenero con i Br? Ma è vero che nacque un sentimento di umanità verso la vittima”
ROMA – Dopodomani Buongiorno, notte, il film dedicato tre anni fa da Marco Bellocchio al sequestro di Aldo Moro, viene trasmesso in televisione (RaiTre, ore 21). Neanche a farlo apposta in un’intervista uscita su Repubblica di venerdì il regista Giuseppe Ferrara, parlando del suo nuovo film sull’assassinio del sindacalista Guido Rossa da parte delle Br a Genova nel ’79, ed evocando quella stagione ma anche il racconto che il cinema ne ha fatto, polemizza di brutto e attacca violentemente il film di Bellocchio. Accusandolo di essere «reazionario, ingiusto, antistorico, falso, omertoso». Bello, sì, ma come erano belli anche i film di propaganda nazista di Leni Riefenstahl. In sostanza troppo tenero con i carcerieri, con le Brigate Rosse.
Buongiorno, notte traeva (libero) spunto dal libro “Il prigioniero” di Anna Laura Braghetti. La brigatista che condivise con Mario Moretti, Prospero Gallinari e Germano Maccari i 55 giorni di via Montalcini: era stata lei ad affittare la casa che sarebbe diventata la prigione del presidente della Dc e per metà giornata era una regolare impiegata. Bellocchio ci aspetta a casa sua, sul piede di guerra e con sul tavolo (accanto a una copia del libro di Aldo Grandi “La generazione degli anni perduti” sulla storia di Potere Operaio) un foglio fittamente appuntato, di risposte punto su punto al collega.
«Un intervento vecchio e sconclusionato», dice Bellocchio dell’intervista. E comincia con il cogliere in contraddizione l’accusatore. «Dice che le intenzioni di partenza dei brigatisti erano buone. Quali? Quelle di instaurare la dittatura del proletariato?». Poi si riferisce all’insofferenza di Ferrara verso chi vuole farla finita con la dietrologia, perché secondo Ferrara “dietro” continuano ad esserci verità scomode e non rivelate: «Invece io sono d’accordo con chi vuole chiudere con il dietrismo. I fatti sono quelli. Ma è l’interpretazione dei fatti che è ancora povera. Sul perché uomini normali uccidevano in nome di un’idea e di un principio. Sulla loro combinazione di fanatismo religioso e razionalità delirante».
Terza questione che a Bellocchio non va giù. Il suo detrattore si scandalizza perché davanti a Buongiorno, notte tutta la sinistra sarebbe scattata in piedi: «non è vero, sono stato apprezzato ma anche attaccato. Da chi ha visto i “miei” terroristi come troppo buoni, da chi viceversa ha visto il “mio” Moro troppo buono, da chi ha considerato il mio film dalla parte della trattativa». Quarto punto: «Ferrara mi rimprovera di aver ignorato la strage della scorta ed è falso perché vi è dedicata un’intera sequenza del film». L’indignazione di Ferrara si soffermava poi sul fatto che i brigatisti rappresentati da Bellocchio sembravano quasi pentiti di quello che avevano fatto, dice che nel film sembra quasi che si domandino “che cosa l’abbiamo rapito a fare?”. Bellocchio: «È la verità che in quelle settimane nacque tra di loro un sentimento di umanità verso la vittima. Mi riferisco al racconto di Germano Maccari riferito da Lanfranco Pace sulle reazioni e i comportamenti, in particolare finali cioè al momento della “esecuzione”».
E sul passaggio in cui Ferrara accusa il film di soffermarsi sull’episodio dei canarini fuggiti dalla gabbia, Bellocchio risponde: «Lo testimonia Anna Laura Braghetti che Prospero Gallinari era affezionato a quei canarini. Una semplice verità, un elemento del panorama umano che avevo scelto di raccontare decidendo di impostare il film sul punto di vista dei carcerieri nella loro chiusa quotidianità». Bellocchio liquida come pittoreschi sia il coinvolgerlo tra i colpevoli del tradimento del Neorealismo («è finito con Miracolo a Milano, Cronaca di un amore di Antonioni, La dolce vita»), sia il paragone con il “bello ma non buono” di Leni Riefenstahl: «concezione rozza e scolastica, lei faceva documentari io faccio il contrario, una libera e legittima interpretazione di un fatto storico. È il momento di interpretare, non solo documentare, le tragedie della sinistra». Dulcis in fundo quella sfilza di improperi. Dice solo: «Non mi pare che abbia le prove, ma rispetto la libertà di giudizio». Ferrara, chiude Bellocchio, «ricorda con Sciascia la “micidiale imbecillità” delle Br, io aggiungo con Lussu la loro “mediocrità senza scampo”. Forse non è un problema di imbecillità né di mediocrità. Ma di una tale miseria affettiva che li ha portati a perdere il più elementare senso della realtà».