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Perché invecchiando il tempo passa più veloce?

Perché, col passare degli anni, il tempo sembra trascorrere sempre più in fretta? Lo scrittore Vittorio G. Rossi risponde

ITALIA DOMANDA

Perché, col passare degli anni, il tempo sembra trascorrere sempre più in fretta?
(V. Pisapia – Catania)

di Vittorio G. Rossi

«Trascorre»; è esatto. Si potrebbe anche dire, «ci sembra che trascorra, che passi»; ma non sarebbe esatto; ci sembra, perché è. Il tempo assoluto, cioè indipendente dall’osservatore, non esiste; era una fantasia dei vecchi filosofi, che ne avevano tante; i nuovi di oggi ne hanno altre. Il tempo è relativo, dipende dall’osservatore; lo ha provato Einstein; e provando questo e altro, Einstein ha cambiato la nostra vecchia idea del mondo. Niente paura: non mi metto a spiegare la teoria della relatività, lo spazio-tempo e il resto. Quando quelle cose non le devo spiegare, io le so, so che le so; ma quando le devo spiegare, mi ingarbuglio, faccio la figura di stupido; non è una cosa piacevole.

E più facile dire a che cosa serve un orologio. Un orologio serve a misurare il tempo. Ma un orologio non misura il tempo in sé, il tempo assoluto, cosmico, che è un’astrazione; un orologio misura il «suo» tempo. Il tempo segnato dall’orologio che abbiamo al polso, o in tasca, o è incollato al campanile del nostro parroco, è il tempo di un osservatore che si trova su un certo meridiano, e osserva i passaggi del sole su di esso. Il meridiano scelto può essere un meridiano qualsiasi, è questione di comodità; può essere quello medio dell’Europa Centrale, come per i nostri orologi, o quello di Greenwich, come per gli orologi degli inglesi e dei naviganti, o un altro qualsiasi; non ha importanza.

Ma si possono fare altri orologi, con altri tempi, coi tempi di altri avvenimenti che succedono regolarmente nel cosmo; per esempio, con le onde-luce emesse da un atomo. Si può benissimo prendere il nostro corpo come orologio; misurare il tempo col nostro corpo; esso segna un’altra specie di tempo, è il nostro tempo privato. Allora il tempo segnato da quell’orologio, non va più d’accordo con quello segnato dall’orologio che abbiamo al polso e da nessun altro orologio meccanico. Allora i minuti primi e secondi, le ore, i giorni, i mesi, le stagioni, gli anni, i Natali, le Pasque e anniversari che devono venire, e poi vengono, hanno altre dimensioni. Allora, se abbiamo 18 anni, quel nostro tempo coetaneo e privato, paragonato a quello degli orologi meccanici, ci sembra straordinariamente lento, non passa mai; se ne abbiamo 30, esso è diventato veloce; se 50 o 60, esso è velocissimo, un lampo. Io sono già passato per tutte quelle esperienze del mio tempo privato; ne posso parlare come di un fatto verificato sperimentalmente: che è il solo modo di verificare qualcosa. L’uomo è un laboratorio chimico. Con tutte le definizioni dell’uomo, si potrebbe fare un libro; da quella così benevola e confortante di homo sapiens alle più recenti e degradanti d’uomo-massa e simili. Ma qualcosa resta sempre fuori di tutte le definizioni; l’uomo è sempre qualcosa d’altro e di più, l’uomo è sempre il «grande abisso» di cui parla Sant’Agostino.

Ma che l’uomo è un laboratorio chimico, possiamo vederlo con l’osservazione e l’esperienza; possiamo vederlo abbastanza bene anche coi nostri occhi, tutti i giorni. Le nostre cellule muoiono, altre ne nascono; le glandole di tutte le specie che sono dentro di noi, lavorano incessantemente, esse provvedono a farci crescere, a mettere in movimento le nostre emozioni e istinti, a dare a essi una certa velocità. Da bambini e da ragazzi per un niente si ride o si piange; certe glandole hanno lavorato rapidamente, si sono riempite, hanno bisogno di uno scarico rapido. E tutti sanno che rompersi un osso quando si hanno 15 anni, non è lo stesso che romperselo a 50 o 60; a 15 anni, riparare un osso, è come riparare una bicicletta.

Noi crediamo di essere sempre lo stesso oggetto, con un po’ più di polvere sopra e dentro; ma siamo diversi ogni giorno, come un albero. Noi vediamo che l’albero è diverso, ma l’albero non lo sa; come noi non sappiamo di essere diversi. I fenomeni chimici che avvengono dentro di noi, hanno una certa velocità; essa è molto grande quando siamo bambini, ragazzi e giovanissimi; poi essa rallenta. Quando la velocità dei nostri fenomeni chimici è molto grande, cioè quando siamo bambini o ragazzi o giovanissimi, siamo come uno che corre; poi con gli anni diventiamo come uno che cammina; poi come uno che sta seduto, allora siamo vecchi.

Possiamo immaginare che il tempo sia un treno in corsa; quando noi corriamo accanto al treno, il treno rispetto a noi va adagio; quando camminiamo accanto a esso, rispetto a noi il treno corre velocemente; quando siamo vecchi, e vediamo passare il treno stando seduti, il treno va velocissimo. Ma la velocità del treno, che è il tempo, non è cambiata affatto; è cambiata quella del nostro orologio corporale che la misura. Eravamo quell’orologio che correva; siamo diventati quell’orologio che cammina; se avremo fiato, diventeremo quell’orologio quasi fermo che è quel corpo che sta seduto, e guarda correre velocissimo il treno. Il treno corre corre sempre eguale, forse senza partenza, forse senza arrivo, forse senza principio, forse senza fine. L’età è una perdita di velocità; perciò la vita è una zuffa ininterrotta con l’orologio e il calendario.

Da ragazzi siamo come quando si aspetta la venuta della primavera; l’animo è pieno di quell’aspettazione; e la primavera non viene, non viene mai. Da grandi, siamo come quando si aspetta di andare dal dentista; sembra che l’orologio abbia perso la testa, i minuti e le ore spariscono come strappati da un vento. Da giovani pensiamo che tutte le cose si possono avere, tutte; è solo questione di tempo: il tempo passando ci porterà le cose che aspettiamo. E si ha fretta che il tempo passi, esso è terribilmente pigro e lento; se esso passasse più svelto, si potrebbe stendere la mano, avere subito quelle cose. Poi ci si accorge che il tempo passa, e le cose aspettate non vengono soltanto perché il tempo passa; o vengono solo in parte, e non sono mai quelle che si aspettavano; allora la nostra fretta del tempo è finita.

Allora si scopre che i giorni somigliano ai giorni; e «ogni uomo di ingegno normale che abbia raggiunto la quarantina, ha già sperimentato tutto quello che è stato, è, e sarà»; e questo lo dice Marc’Aurelio, che è stato uno dei pochi grandi saggi forniti all’umanità dal nostro industrioso ma scarsamente contemplativo Occidente. (Invece l’Oriente ne è pieno; non ha fabbricato le scarpe a macchina, ma ha prodotto grandi quantità di grandi saggi, non ha prodotto altro.)

Una volta, a bordo di una nave, il direttore di macchina mi disse che quello era il suo ultimo viaggio; aveva fatto i 60 anni, doveva sbarcare, andare in pensione. Mi disse che da giovane era stato uno di quelli che avevano battagliato per far mettere in pensione i direttori di macchina a 60 anni. «Che imbecille», mi disse. Non era un imbecille; aveva semplicemente misurato il tempo con un orologio, ora lo misurava con un altro orologio. E i giovani si innamorano facilmente di donne di età; gli uomini di età, delle ragazzine; e anche questo è l’effetto della diversa velocità che ha il tempo nei giovani e in quelli di età. Il giovane si sente indietro, vuole correre avanti; l’uomo di età cerca di frenare, di tornare indietro; tutt’e due si battono col tempo, è il combattimento che l’uomo fa tutti i giorni, e quando quel combattimento finisce, l’uomo è disteso fra quattro tavole. Da giovane il nostro tempo non ha limiti visibili; è una sconfinata estensione, più vasto degli oceani della geografia, finisce con un lontanissimo orizzonte, una linea indefinita, luminosa confusione di cielo e mare. Noi andiamo verso di essa; ci sembra che non arriveremo mai. Poi l’orizzonte si avvicina; ora prende consistenza, diventa fermo e solido; non è più vago orizzonte, è qualcosa che sta fermo, si potrebbe toccare; poi diventa un muro, poi una montagna, una brutta montagna.

Allora vediamo quello che c’è in fondo alla nostra strada; ne vediamo la fine; ci rendiamo conto che noi camminiamo irrimediabilmente verso di essa. La nostra chimica interna ha trasformato la nostra velocità, ha fatto quel trucco col nostro orologio; ha accorciato, accelerato, alleggerito il tempo che esso misura; intanto l’esperienza ha messo un po’ d’ordine nelle nostre speranze, desideri e sogni, li ha messi quasi d’accordo con le nuove velocità del tempio che continuano a venire, e sono sempre più celeri.

E un giorno abbiamo sentito un fastidio fino allora ignoto, il fastidio dei compleanni; abbiamo smesso di festeggiarlo. Ora festeggiamo preferibilmente gli onomastici; i santi non invecchiano, essi sono fermi nel tempo, invulnerabili da esso, perché sono nell’eternità. Ma ogni momento è l’onomastico; ogni momento è Natale; e la settimana non è neanche cominciata, ed è domenica.

FONTE: Epoca, 30 giugno 1963

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