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Il Rosso – di Jack London [Testo italiano completo]

Il Rosso

di Jack London

Eccola di nuovo! Quell’improvvisa esplosione di suono, mentre ne calcolava la durata sull’orologio, Bassett la paragonò alla tromba di un arcangelo. Delle mura di città, meditò, avrebbero certo potuto crollare dinanzi a una chiamata di così squassante imperiosità. Per la millesima volta cercò invano di analizzare la qualità tonale di quell’enorme concerto che dominava la regione fin entro le roccaforti delle tribù circostanti. La gola montuosa che ne era la fonte risuonava delle sue ondate crescenti sino a traboccare e ad inondare terra, cielo e aria. Con la frivolezza tipica delle fantasticherie di un malato, lo paragonò al grido possente di un qualche Titano del Mondo Antico tormentato dalla sofferenza o dall’ira. Si levò sempre più alto, autoritario e imponente in tali profondità di volume da sembrar destinato ad orecchie oltre gli angusti confini del sistema solare. In esso si avvertiva anche una risentita protesta per il fatto che non c’erano orecchie ad udire e comprendere il suo messaggio.

Così fantasticava il malato; e cercava ancora di analizzare il suono. Risonante come il tuono era questo, pastoso come una campana d’oro, dolce e sottile come una tesa corda d’argento fatta vibrare — no: non era niente di tutto ciò, e neppure queste cose assieme. Non esistevano parole o paragoni nel suo vocabolario e nella sua esperienza capaci di descrivere quel suono nella sua interezza.

Passò del tempo. I minuti divennero quarti d’ora, i quarti d’ora lassi di mezz’ora, e quel suono persisteva sempre, mutando continuamente dall’impulso vocale iniziale ma senza ricevere mai un nuovo impulso: spegnendosi, svanendo, smorendo con la stessa grandiosità con cui era sgorgato fuori. Divenne un miscuglio sconnesso di borbottii e balbettii e colossali mormorii. Lentamente si ritirò, un singulto dopo l’altro, nel grande grembo sconosciuto che l’aveva generato, sino a mugolare sussurri di un’ira infinita e altrettanto seducenti sussurri di piacere, sforzandosi ancora di farsi udire, di comunicare un qualche segreto cosmico, una qualche rivelazione di enorme valore e conseguenza. Si assottigliò sino a diventare un fantasma di suono che aveva perduto la sua minaccia e promessa, riducendosi a qualcosa che continuò a pulsare nella coscienza del malato per vari minuti dopo essere scomparso. Quando non lo sentì più, Bassett diede un’occhiata all’orologio. Era trascorsa un’ora prima che quella tromba d’arcangelo si dileguasse nel nulla tonale.

Era dunque questa la sua torre oscura?, meditò Bassett, ripensando al suo Browning e fissandosi le mani scheletriche devastate dalla febbre. E sorrise della fantasticheria — di Childe Roland che si portava alle labbra una tromba con un braccio debole come il suo1. Erano passati mesi o anni, si chiese, da quando aveva udito per la prima volta quel richiamo misterioso sulla spiaggia di Ringmanu? Non avrebbe saputo dirlo per nulla al mondo. La lunga malattia era stata davvero lunga, il calcolo cosciente del tempo gli parlava di mesi, molti; ma non aveva modo di valutare i lunghi intervalli di delirio e stordimento. E come se la passava il capitano Bateman della nave negriera Nani, si domandò; ed era morto di delirium tremens quell’ubriacone dell’uffìciale in seconda del capitano Bateman?

Lasciando questi vani interrogativi, Bassett si mise pigramente a passare in rassegna tutto ciò che era avvenuto a partire da quel giorno sulla spiaggia di Ringmanu quando aveva udito per la prima volta il suono e si era immerso nella giungla per cercarlo. Sagawa aveva protestato. Gli pareva ancora di vederlo, con la buffa faccetta scimmiesca piena di dichiarata paura, le spalle cariche di casse di campioni, e nelle mani la rete per farfalle e il fucile da naturalista di Bassett, mentre diceva con voce tremante in inglese bêche-de-mer: «Io individuo troppa paura lungo boscaglia. Cattivo individuo ragazzo troppo fermarsi lungo boscaglia».

Bassett sorrise con tristezza al ricordo. Quel ragazzetto del New Hanover si era spaventato, ma si era dimostrato fedele, seguendolo senza esitazione nella boscaglia alla ricerca della fonte del meraviglioso suono. Non era un tronco d’albero svuotato col fuoco, quello, pulsante di messaggi di guerra attraverso le profondità della giungla, aveva concluso Bassett. Erronea si era dimostrata la sua conclusione successiva, e cioè che la fonte o la causa non potesse essere a più di un’ora di cammino e che sarebbe stato facilmente di ritorno verso la metà del pomeriggio, per farsi raccogliere dalla lancia del Nari.

«Quel grosso individuo rumore non buono, tutto lo stesso diavolo-diavolo», aveva aggiunto Sagawa. E Sagawa aveva avuto ragione. Non gli avevano mozzato la testa quel giorno stesso? Bassett rabbrividì. Senza dubbio Sagawa era stato anche mangiato dai cattivi individui ragazzi che troppo si fermavano lungo la boscaglia. Ne aveva l’immagine davanti agli occhi così come l’aveva visto per l’ultima volta, spogliato del fucile e di tutto l’armamentario da naturalista del padrone, disteso sulla stretta pista dove era stato decapitato un attimo prima. Sì, la cosa era successa in meno d’un minuto. Meno di un minuto prima, voltandosi indietro, Bassett l’aveva visto arrancare pazientemente sotto i suoi carichi. Poi erano arrivati i guai per Bassett. Si guardò i moncherini, rimarginatisi dolorosamente, dell’indice e del medio della mano sinistra, e poi se li strofinò delicatamente contro un solco sulla parte posteriore del cranio. Per quanto rapido fosse stato il balenio del tomahawk dal lungo manico, egli era stato abbastanza svelto da abbassare la testa e deviare parzialmente il colpo tirando su la mano. Due dita e una brutta ferita al cuoio capelluto erano state il prezzo che aveva pagato in cambio della sua vita. Con una canna del suo fucile calibro dieci aveva spazzato via il boscimano che l’aveva quasi centrato; con l’altra canna aveva impallinato i boscimani curvi su Sagawa, e aveva avuto il piacere di osservare che la maggior parte della raffica aveva raggiunto quello che si stava allontanando a salti con la testa di Sagawa. Tutto era avvenuto in un lampo. Solo lui, il boscimano ucciso, e quel che restava di Sagawa, erano rimasti su quello stretto sentiero dei maiali selvatici. Dall’oscurità della giungla, da ambo i lati, non giungeva alcun fruscio né alcun altro segno di vita. Aveva subito uno shock spaventoso. Per la prima volta in vita sua aveva ucciso un essere umano, ed era stato assalito dalla nausea mentre contemplava lo scempio da lui compiuto.

Poi era iniziata la caccia. Aveva battuto in ritirata lungo la pista dei maiali dinanzi ai suoi cacciatori, che si trovavano fra lui e la spiaggia. Quanti ce ne fossero, non avrebbe saputo dirlo. Potevano essere uno o un centinaio, per quello che riusciva á scorgere. Che alcuni di loro stessero sugli alberi e si muovessero lungo questo tetto della giungla, ne era certo; ma più di un qualche tremolare di ombre non gli si era offerto mai allo sguardo. Nessun ronzare di arco gli era giunto alle orecchie; ma ogni tanto, scagliate da dove non sapeva, piccole frecce gli erano sibilate accanto o avevano colpito i tronchi degli alberi ed erano ricadute svolazzando al suolo intorno a lui. Avevano la punta d’osso e l’asta di piuma, e le piume, strappate dal petto dei colibrì, erano iridescenti come gioielli.

Una volta — e adesso, dopo tutto il tempo trascorso, ridacchiò allegramente al ricordo — aveva adocchiato un’ombra sopra di lui che si era immobilizzata di colpo quando egli aveva volto in su lo sguardo. Non riusciva a scorgere nulla ma, decidendo di fare un tentativo, gli aveva scaricato contro una pesante raffica di pallini numero cinque. Guaendo come un gatto infuriato, l’ombra era precipitata attraverso felci arboree e orchidee abbattendosi per terra ai suoi piedi, e, gemendo ancora di rabbia e dolore, aveva affondato i denti umani nel gambale di uno dei suoi robusti stivali da marcia. Egli, d’altra parte, non era rimasto a guardare, e col piede libero aveva fatto in modo da zittire quei guaiti. Da allora Bassett si era fatto talmente il callo alla ferocia, che il ricordo lo fece di nuovo ridacchiare d’allegria.

Che notte era stata quella! Non c’era da meravigliarsi che avesse accumulato una tal varietà di febbri virulente, pensò, ricordando quella notte insonne di tormento, quando il pulsare delle ferite non era nulla in confronto alla miriade di punture di zanzara. Non c’era stato modo di sfuggire a quel tormento, e non aveva osato accendere un fuoco. Gli avevano letteralmente infarcito il corpo di veleno, così che, sul far del giorno, gli occhi semichiusi per il gonfiore, si era rimesso in cammino incespicando alla cieca, senza preoccuparsi troppo all’idea che gli tagliassero la testa e la sua carcassa finisse in una pentola sulle orme di Sagawa. Ventiquattr’ore dopo era un rottame, nella mente come nel corpo; conservava a stento il lume della ragione, istupidito com’era dalle tremende iniezioni di veleno ricevute. Varie volte aveva scaricato il fucile con successo contro le ombre che lo incalzavano. Le punture di insetti e moscerini accrescevano il suo tormento durante il giorno, mentre il sangue delle ferite attraeva sciami di mosche ripugnanti che si fissavano torpidamente sulla sua carne e dovevano essere cacciate via e schiacciate.

Una volta, durante quella giornata, aveva sentito ancora quel suono meraviglioso, apparentemente più lontano, ma che si levava imperioso al di sopra dei tamburi di guerra della vicina boscaglia. Era stato allora che aveva commesso l’errore. Ritenendo di averlo oltrepassato e che, quindi, questo si trovasse tra lui e la spiaggia di Ringmanu, era tornato sui propri passi dirigendosi verso il suono, in realtà immergendosi sempre più profondamente nel cuore misterioso dell’isola inesplorata. Quella notte, dopo aver strisciato tra le radici contorte di un fico del Banyan, aveva dormito per la spossatezza mentre le zanzare disponevano di lui a loro piacimento.

Seguirono giorni e notti, confusi come incubi nella sua memoria. L’unica cosa che ricordava con chiarezza era di essersi ritrovato improvvisamente nel mezzo di un villaggio nella boscaglia e di avere osservato i vecchi e i bambini che fuggivano nella giungla. Erano fuggiti tutti meno uno. Da qualche parte sopra di lui, a breve distanza, un uggiolare come di un animale in preda al dolore e alla paura lo aveva fatto trasalire. E, alzando lo sguardo, l’aveva vista: una ragazza, o piuttosto una giovane donna, appesa per un braccio sotto il sole cocente. Erano forse giorni che penzolava così, a giudicare dalla lingua gonfia che le sporgeva dalla bocca. Ancora viva, lo fissava con occhi terrorizzati. Al di là di ogni aiuto, aveva pensato, osservando le gambe tumefatte che dicevano come le giunture fossero state schiacciate e le ossa più grandi spezzate. Aveva deciso di spararle, e qui la visione aveva termine. Non riusciva a ricordarsi se lo avesse fatto o no, così come non si ricordava come fosse finito in quel villaggio o come avesse fatto ad uscirne.

Molte immagini sconnesse andavano e venivano per la mente di Bassett mentre ripercorreva col pensiero le peregrinazioni di quello spaventoso periodo. Si ricordava di esser piombato in un altro villaggio di una dozzina di capanne e di aver sospinto col fucile tutti davanti a sé salvo un vecchio, troppo debole per fuggire, che gli aveva sputato addosso gemendo e ringhiando mentre lui scoperchiava un forno scavato nella terra ed estraeva dalle pietre roventi un maialino arrosto che, avvolto nelle foglie verdi, emanava deliziosi vapori. Era stato a questo punto che una ferocia senza scopo si era impadronita di lui. Dopo aver banchettato, in procinto di andarsene con un quarto di posteriore del maialino in mano, aveva deliberatamente dato fuoco al tetto di paglia di una capanna col suo specchio ustorio.

Ma quello che più profondamente di ogni altra cosa si era impresso come a fuoco nel cervello di Bassett, era la giungla fradicia e piena di rumori. Questa emanava un fetore maligno, e vi era sempre crepuscolo. Di rado un raggio di sole penetrava il suo tetto intrecciato alto trenta metri. E sotto quel tetto era tutto un trasudare aereo di vegetazione, uno sgocciolio mostruoso, parassitico, di forme di vita decadenti che avevano radici nella morte e traevano vita dalla morte. E attraverso tutto questo egli avanzava, sempre inseguito dalle ombre fluttuanti degli antropofagi, essi stessi spettri del male che non osavano affrontarlo in battaglia ma sapevano che, presto o tardi, lo avrebbero divorato. Bassett si ricordava di essersi paragonato, nei momenti di lucidità di quei giorni, ad un toro ferito inseguito dai coyote delle pianure troppo codardi per combattere con lui per la sua carne, ma certi della sua fine inevitabile dopo la quale si sarebbero ben rimpinzati. Come il toro teneva lontani i coyote a cornate e scalciando con gli zoccoli, così il suo fucile da caccia teneva a distanza questi isolani delle Salomone, queste ombre crepuscolari di boscimani dell’isola di Guadalcanal.

Venne il giorno delle terre erbose. Di colpo, come mozzata dalla spada di Dio impugnata dalla mano di Dio, la giungla terminò. Il suo bordo, perpendicolare e nero come la sua infamia, misurava trenta metri dall’alto in basso. E, partendo da questo bordo, cresceva l’erba: dolce, morbida, tenera erba da pascolo che sarebbe stata la delizia per gli occhi e gli animali di qualsiasi contadino, e che si stendeva a perdita d’occhio per chilometri e chilometri di verzura vellutata, fino alla spina dorsale della grande isola, la torreggiante catena montuosa scagliata su da qualche antico cataclisma tellurico, dentellata e scavata ma non ancora cancellata dall’erosione delle piogge tropicali. Ma l’erba! Aveva percorso una decina di metri strisciandovi sopra, immergendovi il viso, annusandola, ed era scoppiato a piangere senza volerlo.

E, mentre piangeva, era risuonato il meraviglioso scampanio — se con scampanio, aveva spesso pensato in seguito, si poteva descrivere adeguatamente l’emissione di un suono così formidabile e dalla dolcezza così struggente. Dolce lo era come nessun suono mai udito prima. E formidabile pure, con una risonanza così possente che avrebbe potuto provenire da un qualche mostro dalla gola d’ottone. E tuttavia gli inviava il suo richiamo attraverso quella savana larga chilometri, ed era come una benedizione per il suo spirito torturato, stremato dalle lunghe sofferenze.

Ricordava di essere rimasto disteso sull’erba, con le guance bagnate ma senza singhiozzare più, ascoltando il suono e domandandosi come gli fosse stato possibile sentirlo sulla spiaggia di Ringmanu. Qualche capriccio delle pressioni e correnti atmosferiche, concluse, aveva reso possibile al suono di percorrere una tale distanza. Quelle stesse condizioni forse non si sarebbero verificate un’altra volta in mille o diecimila giorni; ma il giorno in cui ciò era avvenuto era stato proprio quello in cui egli era sbarcato dal Nari per fare qualche ora di caccia. Era alla ricerca in particolare della famosa farfalla della giungla, larga trenta centimetri da un’estremità all’altra delle ali, di una vellutata opacità senza colore come la penombra del tetto arboreo, così assidua della vegetazione più alta che frequentava solo il tetto della giungla e poteva essere tirata giù soltanto da una scarica di pallini. Era per questo scopo che Sagawa aveva portato il fucile da caccia calibro venti.

Due giorni e due notti li aveva passati attraversando carponi quella fascia di terra erbosa. Aveva sofferto molto, ma l’inseguimento era cessato al termine della giungla. E sarebbe morto di sete se un violento temporale non lo avesse soccorso durante il secondo giorno.

E poi era comparsa Baiatta. Al riparo della prima ombra, dove la savana lasciava il posto alla fitta giungla delle montagne, era crollato prossimo a morire. Dapprima lei aveva emesso uno strillo di piacere vedendolo così indifeso, e stava per fracassargli il cranio con un robusto ramo della foresta. Forse proprio questo suo essere completamente indifeso l’aveva intenerita, e forse fu la sua umana curiosità a trattenerla. Ad ogni modo si era trattenuta, perché lui riaprì gli occhi mentre stava per sferrare il colpo e la vide intenta a esaminarlo. Ciò che di lui la colpì in particolare furono gli occhi azzurri e la pelle bianca. Accoccolata tranquillamente sulle cosce, gli sputò su un braccio, e con i polpastrelli raschiò via lo sporco dei giorni e delle notti di fango e di giungla che gli insozzavano l’originaria bianchezza della pelle.

E tutto di lei lo aveva colpito in maniera particolare, sebbene non vi fosse assolutamente nulla di convenzionale. Rise debolmente al ricordo della donna ignara di ogni vestiario come Èva prima della scoperta della foglia di fico. Tarchiata e magra allo stesso tempo, con le membra asimmetriche, i muscoli robusti come il cordame di una nave, incrostata di sporcizia sin dall’infanzia a parte i bagni saltuari sotto la pioggia, era un prototipo di bruttezza femminile come a lui, con il suo sguardo da scienziato, non era mai capitato di osservare. I seni rivelavano contemporaneamente maturità e giovinezza; e, a parte ogni altra cosa, il suo sesso era indicato dall’unico oggetto decorativo di cui era adorna, e cioè una coda di maiale, infilata attraverso un buco nel lobo dell’orecchio sinistro. Quella coda era stata tagliata così di recente che l’estremità recisa gocciolava ancora sangue che si seccava sulla sua spalla come cera di candela. E il viso! Un insieme contorto e raggrinzito di lineamenti scimmieschi attraversati da narici mongoliche spalancate e rivolte verso l’alto, da una bocca pendula sotto l’enorme labbro superiore e assorbita repentinamente da un mento sfuggente, e da occhi queruli e inquisitori che sbattevano le palpebre come fanno gli occhi degli abitatori delle gabbie di scimmie.

Neppure l’acqua che gli aveva portato dentro una foglia d’albero, e il pezzo di maiale arrosto vecchio e mezzo marcio, erano riusciti a redimere in qualche modo la sua ripugnante mostruosità. Dopo aver mangiato a fatica per alcuni minuti, aveva chiuso gli occhi per non vederla, sebbene di continuo lei glieli riaprisse a forza per ammirarne l’azzurro. Poi era giunto il suono. Più vicino, molto più vicino, ne era ben certo; e sapeva altrettanto bene, nonostante il massacrante cammino percorso, che distava ancora molte ore. L’effetto prodotto su di lei era stato impressionante. Si ripiegò su se stessa, col viso rivolto dall’altra parte, gemendo e battendo i denti dalla paura. Ma dopo che esso ebbe consumato la sua ora di vita, lui richiuse gli occhi e si addormentò con lei a proteggerlo dalle mosche.

Quando si risvegliò era notte, e lei se n’era andata. Ma lui si accorse di aver recuperato nuova energia e, ormai troppo impregnato del veleno delle zanzare per essere infastidito da ulteriori punture, richiuse gli occhi e dormì senza interruzione sino all’alba. Un po’ più tardi ritornò Baiatta, conducendo con sé una mezza dozzina di donne che, nella loro bruttezza, erano palesemente meno brutte di lei. Era evidente dal suo comportamento che lo considerava un oggetto trovato da lei, di sua proprietà, e l’orgoglio che metteva nell’esibirlo sarebbe stato comico se la sua situazione fosse stata meno disperata.

Più tardi, dopo quello che per lui era stato un viaggio terribile di varie miglia, quando si lasciò cadere davanti alla casa diavolo-diavolo all’ombra dell’albero del pane, ella aveva espresso con grande vivacità la propria intenzione di restare in possesso della sua persona. Ngurn, che Bassett avrebbe conosciuto in seguito come il medico diavolo-diavolo, sacerdote, o stregone del villaggio, aveva richiesto la sua testa. Altri di quegli esseri scimmieschi ghignanti e gracidanti, tutti parchi nel vestire e d’aspetto bestiale come Baiatta, avevano richiesto il suo corpo per il forno. In quell’occasione non aveva compreso la loro lingua, ammesso che si potessero onorare col nome di lingua i rozzi suoni che emettevano per rivestire le idee. Ma Bassett aveva compreso perfettamente l’argomento della discussione, specialmente quando gli uomini si misero a premergli e palpargli la carne, conficcandovi le dita, come se fosse stato una merce esposta sul bancone d’un macellaio.

Baiatta stava uscendo rapidamente sconfitta dalla discussione, quando avvenne il fatto. Uno degli uomini, esaminando pieno di curiosità il fucile di Bassett, riuscì ad alzare il cane e a premere il grilletto. Il rinculo del calcio nella bocca del suo stomaco non fu la conseguenza più sanguinosa, poiché la scarica di pallini, a un metro di distanza, ridusse in poltiglia la testa di uno degli astanti.

Anche Baiatta si unì agli altri nella fuga e, prima che tornassero, con la testa che già gli girava per il sopraggiungere dell’attacco malarico, Bassett tornò in possesso dell’arma. Dopo di che, sebbene gli battessero i denti per la febbre e i suoi occhi annebbiati non vedessero quasi nulla, si aggrappò all’ultimo barlume di coscienza fino a che riuscì ad intimidire i boscimani con le semplici magie del compasso, dell’orologio, dello specchio ustorio e dei fiammiferi. Alla fine, con la dovuta enfasi di solennità sacrale, aveva ucciso un maialino con il fucile, perdendo subito dopo i sensi.

Bassett flesse i muscoli delle braccia per cercare di estrarne tutta la forza possibile che ancora albergava tra tanta debolezza e, vacillando, si tirò in piedi lentamente. Era spaventosamente emaciato; tuttavia, durante le varie convalescenze dei numerosi mesi della sua lunga malattia, non aveva mai recuperato una tale quantità di forza come questa volta. Quel che temeva era un’altra ricaduta simile a quelle che aveva già spesso avuto. Senza medicinali, senza neppure chinino, era riuscito fino a quel momento a sopravvivere alle più violente e maligne febbri malariche ed emoglobinuriche mescolate insieme. Ma ce l’avrebbe fatta a reggere ancora? Questo era il suo eterno quesito. Perché, da quell’autentico scienziato che era, non si sarebbe rassegnato a morire prima di aver risolto il segreto del suono.

Appoggiandosi a un bastone, percorse barcollando i pochi passi sino alla casa diavolo-diavolo dove la morte e Ngurn regnavano nella penombra. Quasi altrettanto tristemente buia e maleodorante quanto la giungla era la casa diavolo-diavolo — a giudizio di Bassett. Tuttavia lì dentro si trovava di solito il suo amico più intimo nonché compagno di chiacchiere, Ngurn, sempre disponibile per una lunga storia o una discussione, mentre se ne stava seduto tra le ceneri della morte e un fumo lento fatto girare abilmente, occupato a essiccare teste umane appese alle travi. Infatti, durante i periodi di lucidità della sua lunga malattia, Bassett era arrivato a padroneggiare le semplicità psicologiche e le difficoltà linguistiche della lingua della tribù di Ngurn e Baiatta, e Vngngn: quest’ultimo era il giovane capo debole di cervello dominato da Ngurn e, a stare alle voci dei maligni, figlio dello stesso Ngurn.

«Parlerà oggi il Rosso?», chiese Bassett, ormai così abituato alla rivoltante attività del vecchio da seguire persino con un certo interesse il procedere dell’affumicamento.

Ngurn osservò con occhio da esperto la testa a cui stava lavorando.

«Ci vorranno dieci giorni prima che possa dire “finito”», esclamò. «Nessuno ha mai preparato teste come queste.»

Bassett sorrise tra sé e sé per la riluttanza del vecchio a parlare con lui del Rosso. Era sempre stato così. Mai, in alcun modo, né Ngurn né nessun altro membro della misteriosa tribù avevano fatto trapelare il più lieve accenno a qualche caratteristica fisica del Rosso. Una realtà fisica doveva averla il Rosso, per emettere quel suono meraviglioso, e sebbene venisse chiamato il Rosso, Bassett non era sicuro che il rosso rappresentasse il suo colore. Rossi, i suoi atti e poteri lo erano senz’altro, a giudicare dai vaghi indizi che aveva spigolato. Non solo, lo aveva informato Ngurn, era il Rosso più brutalmente potente degli dei tribali vicini, perennemente assetato del sangue rosso di sacrifici umani, ma gli stessi dèi vicini venivano sacrificati e tormentati dinanzi a lui. Era il dio di una dozzina di villaggi alleati simili a quello, che della federazione era il villaggio centrale con poteri di comando. Grazie al Rosso molti villaggi stranieri erano stati devastati e persino spazzati via, e i prigionieri sacrificati al Rosso. Questo era vero oggi, e risaliva indietro nel tempo sino all’antichità, secondo la tradizione trasmessa oralmente nel corso delle generazioni. Quando lui, Ngurn, era giovane, le tribù che stavano oltre le terre erbose avevano compiuto una scorreria di guerra. Durante la scorreria di risposta, Ngurn e i suoi guerrieri avevano fatto molti prigionieri. Di soli bambini vivi ne erano stati dissanguati più di cento davanti al Rosso, e molti, molti di più tra uomini e donne.

Il Tonante era un altro dei nomi dati da Ngurn alla divinità misteriosa. A volte veniva anche chiamato Il Grande Urlatore, Quello dalla Voce Divina, Quello dalla Gola di Uccello, Quello con la Gola Dolce come la Gola dell’Uccello del Miele, Il Cantante del Sole e Il Nato dalle Stelle.

Perché il Nato dalle Stelle? Invano Bassett interrogò Ngurn. Secondo quel vecchio medico diavolo-diavolo, il Rosso era sempre esistito, proprio là dove si trovava attualmente, perennemente intento a cantare e tuonare il suo volere sugli uomini. Ma il padre di Ngurn, avvolto in erba intrecciata mezza marcia e appeso proprio in quel momento sulle loro teste tra le travi fumose della casa diavolo-diavolo, l’aveva pensata diversamente.

Il defunto saggio aveva sostenuto che il Rosso era sbucato fuori dalla notte stellata, altrimenti perché — questo era stato il suo ragionamento — i vecchi nei tempi andati avevano tramandato questo nome di Nato dalle Stelle? Bassett non poteva fare a meno di riconoscere una certa logica in questa argomentazione. Ma Ngurn affermava che per i lunghi anni della sua lunga vita, per quanto avesse tenuto gli occhi bene aperti in tante notti stellate, tuttavia non aveva mai trovato una stella né sugli spiazzi erbosi né nel fitto della giungla: e le aveva cercate. Certo, aveva osservato le stelle cadenti (questo in risposta ad una obiezione di Bassett); ma allo stesso modo aveva osservato la fosforescenza delle fungosità e della carne imputridita e delle lucciole in notti scure, e le fiamme dei fuochi della foresta e delle scintillanti aleuriti; ma che cos’erano la fiamma e la vampa e il luccicore dopo aver fiammeggiato, avvampato e luccicato? Risposta: ricordi, solo ricordi, di cose che avevano cessato di esistere, come i ricordi degli accoppiamenti consumati, dei festini dimenticati, dei desideri che erano i fantasmi dei desideri, ardenti, fiammeggianti, brucianti, ma che non si sono mai realizzati raggiungendo l’appagamento e la soddisfazione. Dov’era l’appetito di ieri? la carne arrostita del maiale selvatico che la freccia del cacciatore non riuscì ad uccidere? la fanciulla morta senza nozze prima di essere conosciuta dall’uomo?

Un ricordo non era una stella, affermava Ngurn. Come faceva un ricordo ad essere una stella? Inoltre, dopo aver vissuto tanti anni continuava a non notare cambiamenti nella volta stellata. Non aveva mai osservato che una sola stella mancasse dal suo posto abituale. Per di più, le stelle erano di fuoco, e il Rosso non era di fuoco: ma questa involontaria rivelazione non disse nulla a Bassett.

«Parlerà domani il Rosso?», domandò.

Ngurn scrollò le spalle affettando ignoranza.

«E dopodomani? e il giorno dopo?», insisté Bassett.

«Mi piacerebbe occuparmi io della tua testa», disse Ngurn, cambiando argomento. «È diversa da qualsiasi altra testa. Nessun diavolo-diavolo ha una testa come questa. Fra l’altro, la tratterei con cura. Ci metterei mesi e mesi. Le lune verrebbero e le lune se ne andrebbero, e il fumo sarebbe molto lento, e raccoglierei personalmente i materiali per affumicarla. La pelle non si raggrinzirebbe: sarebbe liscia come quella che hai ora.»

Si levò in piedi e dalle scure travi annerite dall’affumicamento di infinite teste, dove il giorno non era più che penombra, tirò giù un pacco avvolto in fibre naturali e si mise ad aprirlo.

«È una testa simile alla tua», dichiarò, «ma lavorata malamente.»

Bassett aveva rizzato le orecchie all’ipotesi che si trattasse della testa di un bianco; era infatti convinto ormai da tempo che quegli abitatori della giungla, posti proprio nel cuore della grande isola, non avessero mai avuto rapporti con i bianchi. Di fatto non parlavano quell’inglese bêche-de-mer che era diffuso in quasi tutto il Sud Pacifico occidentale, e non conoscevano né il tabacco né la polvere da sparo. I loro scarsi e preziosi coltelli, ricavati da lunghi pezzi di moietta, e gli scarsi e ancor più preziosi tomahawk, ricavati da modeste asce da lavoro, aveva supposto che li avessero portati via in battaglia ai boscimani della giungla che si stendeva oltre le terre erbose, e che questi, a loro volta, li avessero sottratti al popolo marittimo sparso sulle spiagge coralline della costa che aveva contatti saltuari con i bianchi.

«La gente dall’altra parte non sa come lavorare le teste», spiegò il vecchio Ngurn, tirando fuori dal sudicio involucro e mettendo tra le mani di Bassett una testa indiscutibilmente d’un bianco.

Antica lo era senza alcun dubbio; che fosse d’un bianco, lo testimoniavano i capelli biondi. Avrebbe giurato che un tempo era appartenuta ad un inglese, e ad un inglese dei tempi andati, a giudicare dai massicci cerchietti d’oro tuttora infilati nei lobi delle orecchie avvizzite.

«Quanto alla tua testa…», il medico diavolo-diavolo riprese il suo argomento preferito.

«Ti faccio una proposta», lo interruppe Bassett, colpito da una nuova idea. «Quando morirò ti lascerò la mia testa da affumicare se, prima, mi porti a vedere il Rosso.»

«Avrò la tua testa comunque quando sarai morto», respinse la transazione Ngurn. E aggiunse, con la franchezza brutale del selvaggio: «Fra l’altro, non hai molto da vivere. Sei quasi un morto ormai. Diventerai meno forte. Tra non molti mesi ti avrò qui a girare e girare dentro al fumo. È piacevole, nei lunghi pomeriggi, far girare la testa di qualcuno che hai conosciuto così bene come io conosco te. E ti parlerò e ti rivelerò i numerosi segreti che vuoi conoscere. Non avrà più importanza, perché sarai morto».

«Ngurn», minacciò Bassett, in preda a collera improvvisa, «conosci il Piccolo Tuono nel Ferro che mi appartiene.» (Il riferimento era al suo onnipotente e terrificante fucile.) «Posso ucciderti in qualsiasi momento, e allora non avrai la mia testa.»

«La avrà ugualmente Vngngn o qualcun altro della mia gente», rispose Ngurn con aria di tranquilla sicurezza. «E girerà e girerà ugualmente qui nella casa diavolo-diavolo dentro il fumo. Prima mi uccidi col tuo Piccolo Tuono, e prima la tua testa finirà affumicata.»

E Bassett capì di avere avuto la peggio nella discussione.

Che cos’era il Rosso?, si chiese mille volte Bassett la settimana seguente, mentre pareva recuperare le forze. Qual era la fonte del suono meraviglioso? Che cos’era questo Cantante del Sole, questo Nato dalle Stelle, questa divinità misteriosa, dalla condotta bestiale come le bestie umane nere, scimmiesche e dai capelli crespi che la adoravano, il cui canto di comando dal muggito argentino aveva udito tante volte, ma a distanza, in ossequio al tabù?

Ngurn non si era fatto corrompere dall’inutile offerta della sua testa dopo morto. Vngngn, il capo semi-idiota, era troppo stupido e troppo sottomesso a Ngurn per essere preso in considerazione. Restava Baiatta, la quale, dal giorno che lo aveva trovato e gli aveva aperto a forza gli occhi azzurri per ferirli con la vista della sua mostruosa, ripugnante femminilità, aveva continuato ad adorarlo. Era una donna ed egli aveva ormai capito che l’unica via per farle tradire la sua tribù passava attraverso il suo cuore di donna.

Bassett era un tipo schifiltoso; non aveva mai superato lo shock iniziale provocato dalla femminile bruttezza di Baiatta. In Inghilterra, anche nei momenti migliori, il fascino femminile non lo aveva mai colpito eccessivamente. Ma ora, risolutamente, come sa farlo solo un uomo capace di sacrificarsi per la causa della scienza, decise di far violenza alla delicata sensibilità della sua natura corteggiando quest’indigena incredibilmente disgustosa.

Rabbrividì, ma, col volto girato a nascondere le smorfie e deglutendo, le passò un braccio intorno alle spalle incrostate di sporcizia e sentì con il collo e il mento il contatto dei capelli crespi di lei, impregnati di olio rancido. Ma si mise quasi a gridare quando, proprio all’inizio del corteggiamento, lei fece la svenevole di fronte alle sue carezze con smorfiette, farfuglii e buffi gridolini di piacere simili a grugniti maialeschi. E come mossa successiva di questo singolare corteggiamento, la portò giù al torrente a darle una vigorosa ripulita.

Da allora in avanti si dedicò a lei da vero spasimante quanto più poté, compatibilmente con la sua capacità di vincere la ripugnanza grazie alla forza di volontà. Ma quando Baiatta propose con ardore il matrimonio, nella debita osservanza del costume tribale, egli temporeggiò. Per fortuna, in quel villaggio i tabù venivano osservati scrupolosamente. Per esempio, Ngurn non poteva toccare le ossa, la carne o la pelle del coccodrillo: ciò era stato deciso alla sua nascita. A Vngngn era negato per sempre il contatto delle donne; una tale contaminazione, se mai fosse avvenuta, poteva essere espiata soltanto con la morte della femmina colpevole. Era capitato una volta, dopo l’arrivo di Bassett, che una ragazzina di nove anni, correndo mentre giocava, incespicasse andando a finire contro il sacro capo. E la ragazzina non fu più rivista. Sottovoce, Baiatta rivelò a Bassett che era stata lasciata a morire per tre giorni e tre notti dinanzi al Rosso. Quanto a Baiatta, per lei era tabù l’albero del pane, del che Bassett si rallegrò, visto che il tabù avrebbe potuto riguardare l’acqua.

Per sé, ideò un tabù particolare. Poteva sposarsi soltanto, le spiegò, quando la Croce del Sud raggiungeva il suo punto più alto nel cielo. Forte delle sue conoscenze di astronomia, si procurava così una tregua di quasi nove mesi; e aveva la certezza che, in questo periodo, o sarebbe morto o sarebbe riuscito a raggiungere la costa sapendo tutto sul Rosso e sulla fonte della sua voce meravigliosa. All’inizio aveva immaginato che il Rosso fosse una qualche statua gigantesca, come quella di Mennone, resa sonora da particolari condizioni termiche della luce solare. Ma quando, dopo una scorribanda guerresca, un gruppo di prigionieri venne condotto là e sacrificato durante la notte, sotto la pioggia, mentre il sole non poteva entrare in gioco, e il Rosso fu più canoro che mai, Bassett accantonò quell’ipotesi.

In compagnia di Baiatta, talvolta con alcuni uomini e gruppi di donne, spaziava liberamente per la giungla per tre quadranti della bussola. Ma il quarto quadrante, contenente il luogo dove risiedeva il Rosso, era tabù. Si mise a corteggiare Baiatta con più decisione — badando anche a che si lavasse più spesso. Era l’eterna donna, capace, per amore, di ogni tradimento. E, per quanto il solo vederla gli desse la nausea e il toccarla l’angoscia, e lo perseguitasse con la sua sgradevolezza persino nei sogni trasformandoli in incubi, tuttavia era conscio dell’impulso cosmico proprio del suo sesso che la animava e rendeva la sua vita meno preziosa della felicità dell’amante con cui sperava di accoppiarsi. Giulietta o Baiatta? Dov’era la differenza sostanziale? Il prodotto morbido e delicato di una civiltà avanzata, o il suo prototipo bestiale di centomila anni prima? Non vi era alcuna differenza.

Bassett era in primo luogo uno scienziato, e solo dopo un umanista. Nel cuore della giungla di Guadalcanal sottopose ad esame questa relazione, come in laboratorio avrebbe sottoposto ad esame una qualsiasi reazione chimica. Finse sempre maggiore passione per l’indigena, esprimendole contemporaneamente in maniera più imperiosa il suo desiderio di farsi condurre a incontrare faccia a faccia il Rosso. Era la vecchia storia, ammise, per cui era la donna a dover pagare, e successe un giorno che loro due pescavano i pesciolini neri anonimi e inclassificati, lunghi due centimetri e mezzo, metà anguille e metà a scaglie, gonfi di uova rosa-salmone, che popolavano i corsi d’acqua e venivano considerati, crudi e interi, freschi o marci, un’assoluta squisitezza. Riversa nel fango della vegetazione putrescente, Baiatta invocò la sua pietà, afferrandogli le caviglie con le mani, baciandogli i piedi ed emettendo suoni smancerosi che gli diedero i brividi alla spina dorsale. Lo scongiurò di ucciderla piuttosto che farle pagare l’amore a un prezzo così alto. Gli disse della pena per chi violava il tabù del Rosso: una settimana di torture, prima di morire, di cui fornì i particolari gemendo col viso nella melma finché egli capì di essere ancora un novizio nella conoscenza delle atrocità che l’uomo è capace di perpetrare sull’uomo.

Ma Bassett insistette a voler soddisfare, a rischio della donna, il suo desiderio di uomo di risolvere il mistero del canto del Rosso, anche se lei avesse dovuto morire urlando tra lunghi tormenti. E Baiatta, non essendo altro che una donna, cedette, e lo condusse nel settore proibito. Una montagna, che si faceva largo improvvisamente da nord per unirsi ad una irruzione simile da sud, annientava il torrente in cui avevano pescato riducendolo ad una gola profonda e oscura. Dopo un miglio lungo questa gola, il sentiero puntò bruscamente verso l’alto finché non attraversarono una sella di calcare puro che attrasse il suo occhio di geologo. Continuando ad arrampicarsi, anche se si fermava spesso a causa della debolezza fisica, scalarono vette ricoperte da foreste fino ad emergere su un brullo altopiano. Bassett osservò che il suolo era costituito da sabbia nera vulcanica e capi che una calamita tascabile avrebbe attratto un bel mucchio di quei granelli tagliati ad angoli che calpestava.

E infine, conducendo Baiatta per mano, giunse ad un immenso pozzo, evidentemente artificiale, nel cuore del pianoro. La storia antica, le Istruzioni per la Navigazione nei Mari del Sud, il ricordo di un gran numero di dati, gli invasero il cervello insieme ad un rapido torrente di associazioni. Era stato Mendana a scoprire quelle isole e a chiamarle Salomone, credendo di aver trovato le favolose miniere di quel re. L’infantile credulità del vecchio navigatore era stata derisa; eppure ecco, proprio li ai suoi piedi, una fossa simile in tutto e per tutto ai pozzi di diamanti del Sud Africa.

Ma non su un diamante fissò lo sguardo. Era piuttosto una perla, con la profonda iridescenza di una perla; ma di una grandezza che tutte le perle della terra dall’inizio del mondo fuse insieme non avrebbero raggiunto; e di un colore ignoto a qualsiasi perla, e a qualunque altra cosa, quanto a questo, giacché era il colore del Rosso. E che si trattasse proprio del Rosso, Bassett lo capì all’istante. Una sfera perfetta, più di sessanta metri di diametro, la cui cima si trovava una trentina di metri al di sotto del livello del bordo. Il suo tono cromatico gli ricordava la lacca: anzi, era convinto che si trattasse di un tipo di lacca applicato dall’uomo, ma una lacca di una fattura così prodigiosa da non poter essere stata fabbricata dai boscimani. Più brillante di un rosso-ciliegia brillante, aveva una ricchezza di colore che suggeriva un rosso sovrapposto ad altro rosso. Sfavillava iridescente al sole come se i suoi bagliori sgorgassero da strati di rosso uno sopra l’altro.

Invano Baiatta cercò di dissuaderlo dal discendere. Si buttò per terra; ma, quando lo vide proseguire per il sentiero che scendeva a spirali lungo la parete del pozzo, lo seguì tutta rannicchiata su se stessa e gemente di terrore. Era evidente che la sfera rossa era stata dissotterrata in quanto stimata una cosa preziosa. Considerato il numero esiguo degli abitanti dei dodici villaggi confederati ed i loro attrezzi e metodi primitivi, Bassett calcolò che il lavoro di infinite generazioni sarebbe bastato appena a fare quell’enorme scavo.

Sul fondo del pozzo trovò mucchi di ossa umane, in mezzo alle quali, consunti e sfigurati, giacevano degli dèi di legno e di pietra dei villaggi. Alcuni, coperti da oscene figure e forme totemiche, erano ricavati da solidi tronchi d’albero alti da dodici a quindici metri. Notò, tra questi dèi, l’assenza del pescecane e della tartaruga, così comuni tra i villaggi della costa, e si stupì del continuo ricorrere del motivo dell’elmo. Che cosa ne sapevano degli elmi questi selvaggi abitanti del cuore tenebroso della giungla di Guadalcanal? Erano stati forse i guerrieri di Mendana a portare elmi e a penetrare sin qui tre secoli prima? E se no, allora da dove avevano tratto questo motivo i boscimani?

Calpestando quei rimasugli di divinità e di ossa, con Baiatta gemente alle sue calcagna, Bassett giunse all’ombra del Rosso e proseguì sotto la sua mole colossale sino a toccarlo con i polpastrelli. Quella non era lacca; e la superficie non aveva la levigatezza della lacca. Era, al contrario, corrugata e grinzosa, con chiazze qua e là che mostravano il segno del calore e della fusione. Inoltre, aveva una consistenza metallica, per quanto diversa da qualsiasi metallo o amalgama di metalli che avesse mai conosciuto. Quanto al colore stesso, concluse che non era stato applicato, ma era il colore proprio del metallo.

Mosse i polpastrelli, che aveva solo appoggiato sino a quel punto, lungo la superficie, e sentì l’intera sfera gigantesca palpitare di vita in risposta. Incredibile! Un tocco così leggero su una massa così vasta! Eppure pulsava sotto le carezze dei polpastrelli in vibrazioni ritmiche che divennero sussurri, fruscii, aliti di suono — ma di un suono così diverso, così elusivo e sottile nel suo tremulo sibilare, così pastoso nella sua dolcezza ammaliante, acuta come il corno di un elfo, che Bassett avvicinò al rintocco di una campana degli dèi moventesi verso la terra attraverso lo spazio.

Si volse verso Baiatta con delle domande sulle labbra; ma la voce del Rosso da lui evocata l’aveva scagliata faccia a terra a gemere tra le ossa. Si rimise a contemplare quel prodigio: era vuoto, e fatto con un metallo sconosciuto sulla terra, concluse. La gente dei tempi andati l’aveva chiamato a ragione il Nato dalle Stelle. Solo dalle stelle poteva essere provenuto, e non aveva alcunché di casuale, ma era stato creato dall’ingegno di una qualche mente. Una tale perfezione di forma, e la cavità che di certo possedeva, non potevano essere il prodotto della pura accidentalità. Era indubbiamente figlio di intelligenze remote e imperscrutabili, ma che lavoravano fisicamente i metalli. Lo fissò sbalordito, mulinando nel cervello una sarabanda di ipotesi che spiegassero questo gran viaggiatore che aveva sfidato la notte dello spazio, piroettando fra le stelle, e ora si levava davanti a lui e sopra di lui, esumato da pazienti antropofagi, solcato e smaltato da un bagno fiammeggiante entro due atmosfere.

Ma era stato forse il calore a rivestire qualche metallo familiare di quel colore? O questo dipendeva dalla natura del metallo stesso? Usò la punta del suo coltellino per saggiare la costituzione del materiale, e all’istante l’intera sfera proruppe in un sussurro possente di aspra protesta simile al risuonare maestoso di una corda pizzicata — se si può dir così di un sussurro — che ora saliva ai registri più alti, ora scendeva a quelli più profondi, e queste due sonorità estreme minacciavano di completare il cerchio rapprendendosi nel tuono dalla voce taurina che aveva udito così spesso a distanza.

Dimentico della salvezza e della sua stessa vita, ammaliato dalla meraviglia di quella cosa impensabile e imperscrutabile, sollevò il coltello in modo da sferrare un colpo violento, ma ne fu impedito da Baiatta. Sollevatasi in ginocchio in preda ad un’agonia di terrore, gli abbracciò le ginocchia supplicandolo di rinunciare. Nell’intensità del suo desiderio di impressionarlo, si azzannò l’avambraccio affondando i denti sino all’osso.

Egli notò appena il suo gesto, tuttavia obbedì automaticamente ai propri istinti più miti riabbassando l’arma. Per lui la vita umana si era ridotta a dimensioni microscopiche dinanzi a questo gigantesco prodigio di vita superiore giunto da un qualche punto dell’universo siderale. Come se fosse stata un cane, diede un calcio alla brutta piccola indigena perché si tirasse su in piedi, e la obbligò a rimettersi in cammino con lui per fare un giro intorno alla base. A un certo punto del percorso, si imbattè in una serie di orrori. Tra gli altri, riconobbe pure i resti disseccati al sole della bambina di nove anni che aveva violato senza volerlo il tabù personale del capo Vngngn. E, in mezzo a ciò che era rimasto di quelli ormai morti, incontrò quel che era rimasto di una persona non ancora morta. A ragione quei boscimani avevano legato il proprio nome a quello del Rosso, vedendo in lui la loro propria immagine che essi cercavano di placare e soddisfare con queste offerte cruente.

Più avanti, sempre calpestando ossa e immagini di esseri umani e di dèi, di cui era composto il suolo di questo antico scannatoio per sacrifici, si imbattè nel congegno grazie al quale il Rosso inviava il suo tonante canto di richiamo attraverso la giungla e le praterie sino alla lontana spiaggia di Ringmanu. Era semplice e primitivo quanto il Rosso era di una fattura raffinata. Un grosso palo, lungo una quindicina di metri, stagionato da secoli di cure superstiziose, in cui erano incise dinastie di dèi, uno sopra l’altro, tutti con l’elmo e seduti nella bocca aperta di un coccodrillo, era appeso con alcune corde di parassiti rampicanti attorcigliati alla cima di un treppiedi fatto con tre grandi tronchi della foresta, incisi a loro volta in forme ghignanti e stralunate presagenti le moderne concezioni dell’arte e della divinità. Da questo palo-battente pendevano altre corde fatte con rampicanti grazie alle quali lo si poteva spingere e guidare. Come un ariete, il palo poteva essere spinto orizzontalmente contro l’enorme sfera rosso-iridescente.

Ecco come Ngurn officiava nella sua veste sacerdotale per se stesso e per le dodici tribù a lui subordinate. Bassett rise sonoramente, quasi da pazzo, al pensiero di questo meraviglioso messaggero, volato attraverso lo spazio carico delle sue conoscenze, e caduto in una cittadella di boscimani per essere adorato da selvaggi scimmieschi, cannibali e cacciatori di teste. Era come se la parola di Dio fosse caduta nella palude melmosa degli abissi sul fondo dell’inferno; come se i Comandamenti di Geova fossero stati offerti incisi su pietra alle scimmie in gabbia di uno zoo; come se il Discorso della Montagna fosse stato pronunciato tra un pandemonio di folli deliranti.

Le settimane passarono lentamente. Le notti, per sua scelta, Bassett le trascorse sul terreno coperto di ceneri della casa dello stregone, sotto le teste dondolanti in mezzo al fumo. La ragione stava nel fatto che l’ingresso era tabù per le donne, sesso inferiore, e pertanto qui si trovava al riparo da Baiatta, che si faceva sempre più persecutoria e pericolosa nella sua amorosità man mano che la Croce del Sud saliva nel cielo annunciando l’approssimarsi delle nozze. Le giornate le passò su un’amaca appesa all’ombra del grande albero del pane, davanti alla casa diavolo-diavolo. Ci furono variazioni in questo programma quando, reso incosciente dai micidiali attacchi febbrili, giaceva giorno e notte nella casa delle teste. Cercò incessantemente di combattere la febbre, di vivere, di continuare a vivere, di recuperare sempre più forze in vista del giorno in cui sarebbe stato abbastanza forte da sfidare le praterie e poi la striscia di giungla, per raggiungere la spiaggia, e qualche tartana o goletta negriera in cerca di mano d’opera, e infine la civiltà e la gente civile, a cui avrebbe dato notizia del messaggio inviato da altri mondi che giaceva, adorato con riti occulti da esseri bestiali, nel cuore tenebroso del centro più riposto di Guadalcanal.

Altre notti, disteso sino ad ore tarde sotto l’albero del pane, Bassett trascorse lunghe ore osservando il lento tramontare delle stelle a occidente dietro la nera parete di giungla, là dove questa era stata ricacciata indietro per dare spazio al villaggio. Fornito di conoscenze astronomiche non superficiali, da malato qual era, amava far congetture sugli abitatori dei mondi invisibili di quei soli incredibilmente lontani, nelle cui case di luce si insinuò la vita, timida visitatrice, emergendo dalle cripte tenebrose della materia. Non poneva in egual maniera, né limiti al tempo né confini allo spazio. Le teorie sovversive sul radio non avevano scosso la sua incrollabile fede scientifica nella conservazione dell’energia e nell’indistruttibilità della materia. Le stelle dovevano essere sempre esistite, fin dall’inizio. E certo, in quel fermento cosmico, tutto doveva essere relativamente simile, relativamente composto della stessa sostanza, o delle stesse sostanze, a parte le accidentali bizzarrie del fermento. Ogni cosa doveva obbedire, o dare il suo contributo, alle stesse leggi che percorrevano l’intera esperienza dell’uomo senza essere mai state violate. Pertanto, concludeva in base a questi ragionamenti, i mondi e la vita dovevano essere appannaggio di tutti i soli così com’erano appannaggio di quel sole particolare del suo sistema solare.

Così come lui, essere pensante, se ne stava lì disteso sotto l’albero del pane a scrutare attraverso gli abissi stellari, ugualmente tutto l’universo doveva essere esposto all’esame incessante di innumerevoli occhi come i suoi, anche se ovviamente diversi, dietro ai quali, in maniera analoga, vi erano delle intelligenze che ponevano interrogativi, ricercando il significato e la configurazione della totalità delle cose. Ragionando a questo modo, sentiva la sua anima rovesciarsi fuori e legarsi a quell’augusta compagnia, a quella moltitudine il cui sguardo era fisso in eterno sull’arazzo dell’infinito.

Chi erano, che cos’erano, quegli esseri superiori così lontani che avevano attraversato il cielo col loro gigantesco messaggio rosso-iridescente, dal canto celestiale? Sicuramente, e molto tempo prima, avevano anch’essi percorso il sentiero su cui l’uomo solo di recente, secondo il calendario del cosmo, si era incamminato. E, per poter inviare un tale messaggio attraverso l’immensità dello spazio, avevano certo raggiunto quelle vette verso cui l’uomo, con lacrime e sangue e sudata fatica, nell’oscurità e confusione di molteplici idee, stava ancora annaspando con lentezza. E che cosa avevano raggiunto su quelle vette? Avevano conquistato la Fratellanza? O avevano imparato che la legge dell’amore imponeva il prezzo della debolezza e della decadenza? Era lotta, la vita? La norma spietata della selezione naturale governava tutto l’universo? E, punto di interesse ancor più immediato, le loro scoperte, la loro sapienza lentamente conquistata, erano racchiuse in quello stesso momento nell’immenso cuore metallico del Rosso, in attesa di essere decifrate dal primo abitante della terra? Una cosa era certa: quella sfera risonante non era una goccia di rossa rugiada caduta dalla criniera di un qualche sole tormentato. Era il prodotto di un deliberato disegno, non del caso, e conteneva le parole e la saggezza delle stelle.

Quali congegni e componenti e concentrazioni d’energia, quali conoscenze e misteri e capacità di controllare destini erano forse lì contenuti! Senza dubbio, dato che tante cose potevano essere racchiuse in un oggetto così piccolo come la pietra delle fondamenta di un edificio pubblico, quell’enorme sfera doveva contenere grandiose storie, tesori di sapere oltrepassanti le più audaci speculazioni umane, leggi e formule che, una volta padroneggiate, avrebbero innalzato la vita dell’uomo sulla terra, individuale e collettiva, dalla palude attuale a vette incommensurabili di purezza e di potere. Era il più grande dono del Tempo all’impetuosa e insaziabile umanità, protesa verso il cielo. E a lui, Bassett, era stato concesso il grandioso privilegio di essere il primo a ricevere questo messaggio inviato all’uomo dai suoi fratelli infrastellari!

Nessun bianco, e tanto meno nessun forestiero delle altre tribù boschive, aveva vissuto dopo aver posato lo sguardo sul Rosso. Bassett, in risposta, aveva spesso sostenuto, in passato, che esisteva anche una fratellanza di sangue. Ma Ngurn aveva dichiarato solennemente che no, persino la fratellanza di sangue non godeva i favori del Rosso. Solo un uomo nato all’interno della tribù poteva fissare gli occhi sul Rosso e continuare a vivere. Ma ora, con il suo colpevole segreto noto a Baiatta, le cui labbra erano sigillate dalla paura di venire immolata dinanzi al Rosso, la situazione era diversa. Aveva solo bisogno di riprendersi dalle orrende febbri che lo indebolivano e raggiungere il mondo civile; quindi sarebbe tornato alla testa di una spedizione e, anche a costo di distruggere l’intera popolazione di Guadalcanal, avrebbe estratto dal cuore del Rosso il messaggio inviato da un altro mondo.

Ma le ricadute di Bassett si fecero più frequenti, le sue brevi convalescenze sempre meno vigorose, i suoi periodi di incoscienza più lunghi, finché giunse a capire, a parte le ultime ventate di ottimismo suggerite dalla sua straordinaria costituzione, che non avrebbe vissuto abbastanza per attraversare le praterie, affrontare i pericoli della giungla lungo la costa e giungere al mare. Mentre la Croce del Sud saliva sempre più alta nel cielo egli si spegneva, e anche a Baiatta fu chiaro che sarebbe morto prima del giorno delle nozze fissato dal suo tabù. Ngurn andò personalmente in pellegrinaggio a raccogliere il materiale necessario ad affumicare la testa di Bassett, ed a questi descrisse minutamente, pieno d’orgoglio, la perfezione artistica del suo progetto, una volta che fosse morto. Quanto a lui, Bassett non batté ciglio. Per troppo tempo la vita era stata risucchiata sempre più giù, dentro di lui, perché ora, di fronte alla fine imminente, avvertisse il morso della paura. Continuò a tirare avanti, alternando periodi di incoscienza con altri di semi-coscienza aventi l’irrealtà del sogno, nei quali si chiedeva pigramente se avesse davvero mai contemplato il Rosso o se fosse la visione di un incubo delirante.

Venne il giorno in cui tutte le nebbie e le ragnatele si dissolsero, si ritrovò col cervello perfettamente lucido e poté valutare esattamente la propria debolezza fisica. Non riusciva a sollevare né mani né piedi; aveva un così scarso controllo sul suo corpo da essere appena conscio di possederne uno. La carne riposava davvero leggera sull’anima, e la sua anima, in quello sprazzo di lucidità, sapeva grazie a quella stessa lucidità che le tenebre della fine erano vicine. Si rese conto d’avere i giorni contati; si rese conto d’avere posato gli occhi veramente sul Rosso, il messaggero da altri mondi; si rese conto che non sarebbe sopravvissuto per recare quel messaggio al mondo — quel messaggio che, per quanto incredibile fosse, aveva forse atteso diecimila anni nel cuore di Guadalcanal di essere udito dall’uomo. E, presa la sua risoluzione, Bassett mandò a chiamare Ngurn che lo raggiunse all’ombra dell’albero del pane, e col vecchio stregone discusse i termini e le modalità dei suo ultimo sforzo vitale, della sua estrema avventura nello spasimo della carne.

«Conosco la legge, o Ngurn», concluse. «Chiunque non sia della tribù non può fissare lo sguardo sul Rosso e vivere. Non vivrò comunque. I tuoi giovani mi condurranno a cospetto del Rosso, ed io poserò lo sguardo su di lui, e udirò la sua voce, e quindi morirò, per mano tua, o Ngurn. Così soddisferemo insieme la legge e il mio desiderio, e tu entrerai prima in possesso della mia testa per cui hai già compiuto preparativi.»

Ngurn acconsentì, aggiungendo:

«È meglio così. Per un uomo malato che non riesce a guarire è sciocco continuare a vivere per così poco tempo. È anche meglio per gli altri che se ne vada. Sei stato molto d’impaccio di recente. Era piacevole per me parlare a un uomo così saggio, ma sono ormai lune di giorni che discorriamo poco. Ti sei invece insediato nella casa delle teste, facendo rumori come un maiale morente, o dicendo molte cose a voce alta nella tua lingua che io non comprendo. Ciò mi ha creato disagio, perché mi piace pensare alla grandi cose della luce e dell’oscurità mentre faccio girare le teste nel fumo. Il tuo rumore ha così ostacolato il lento formarsi e il dischiudersi dell’estrema sapienza che sarà mia prima che io muoia. Quanto a te, su cui incombe ormai l’oscurità, è bene che muoia ora. E ti prometto che, nei lunghi giorni avvenire quando farò girare la tua testa nel fumo, nessun uomo della tribù entrerà a disturbarci. Ed io ti rivelerò molti segreti, perché sono un uomo vecchio e molto saggio, e aggiungerò sapienza alla sapienza mentre farò girare la tua testa nel fumo».

Fu fatta dunque una barella e, condotto in spalla da una mezza dozzina di uomini, Bassett partì per l’ultima piccola avventura che doveva coronare, per lui, l’avventura complessiva della vita. Con un corpo di cui non era quasi consapevole, essendo stato svuotato anche del dolore, e un cervello brillantemente lucido che gli forniva la tranquilla estasi di una perfetta chiarezza di pensiero, se ne stava disteso sulla barella dondolante osservando il dissolversi del mondo che gli passava accanto, contemplando per l’ultima volta l’albero del pane di fronte alla casa diavolo-diavolo, la penombra sotto il tetto aggrovigliato della giungla, la gola oscura tra le montagne irrompenti, la sella di calcare puro e l’altopiano di nera sabbia vulcanica.

Lo portarono giù per il sentiero a spirale del pozzo, girando intorno allo sfolgorio e luccichio del Rosso la cui iridescenza sembrava dover trapassare, da un momento all’altro, dalla luminosità del colore nella dolcezza del canto e nel tuono. E lo portarono sopra ossa e tronchi di uomini immolati e di dei, oltre l’orrore di altri esseri immolati ancora viventi, sino al treppiede con l’enorme battente.

Qui Bassett, aiutato da Ngurn e Baiatta, si tirò debolmente su a sedere, oscillando altrettanto debolmente sulle anche, e fissò il Rosso con sguardo lucido, fermo, a cui nulla sfuggiva.

«Una volta, o Ngurn», disse, senza distogliere gli occhi dallo sfolgorio della superficie vibrante sulla quale e nella quale danzavano in gioco incessante tutte le sfumature di rosso ciliegia, pronte a trasformarsi in suono, a divenire serici fruscii, argentei sussurri, dorati fremiti d’arpa, vellutate voci di elfi, morbidi mormorii di tuoni lontani.

«Aspetto», commentò Ngurn dopo una lunga pausa tenendo pronta in mano senza metterla in mostra l’ascia dal lungo manico.

«Che una volta, o Ngurn», ripeté Bassett, «parli il Rosso così che io lo veda parlare oltre che sentirlo. Poi colpisci, così, quando sollevo la mano; perché, quando solleverò la mano, inclinerò la testa in avanti per offrire la base del collo al colpo. Ma, o Ngurn, io, che sto per uscire per sempre dalla luce del giorno, vorrei uscirne con la voce meravigliosa del Rosso che mi canta possente nelle orecchie.»

«Ed io ti prometto che nessuna testa sarà mai accudita bene come la tua», assicurò Ngurn, facendo segno nel frattempo agli uomini di disporsi alle corde appese al palo battente. «La tua testa sarà il mio capolavoro.»

Bassett sorrise silenziosamente di fronte all’aria tronfia del vecchio, mentre il grosso tronco intagliato, tirato indietro di una decina di metri, veniva lasciato andare. Un attimo dopo venne rapito nell’estasi dalla sonorità tonante subitaneamente sprigionatasi. Ma che tuono! Di una fulgida pienezza in cui risuonavano insieme tutti i metalli. Parlava con la voce degli arcangeli; la sua sontuosa bellezza non aveva pari fra tutti gli altri suoni; era carico dell’intelligenza di superuomini abitanti pianeti di altri soli; era la voce di Dio, seducente e imperiosa nell’esigere di essere ascoltata. E… l’eterno miracolo di quel metallo infrastellare! Bassett vide con i propri occhi il colore e i colori trasformarsi in suono finché l’intera superficie visibile dell’enorme sfera fu tutta palpiti e fremiti nell’emanare non sapeva più se suono o colore. In quell’istante divenne padrone degli interstizi della materia, e del confondersi e accoppiarsi di forza e materia.

Passò del tempo. Alla fine Bassett venne riportato indietro dalla sua estasi da un movimento impaziente di Ngurn. Si era dimenticato completamente del vecchio stregone. Un’idea gli balenò in mente facendogli uscire di gola una rauca risatina. Aveva accanto a sé, sulla lettiga, il fucile da caccia; non aveva che da puntargli la canna alla testa e premere il grilletto riducendogliela in poltiglia.

Ma perché truffarlo?, si chiese Bassett subito dopo. Un animalesco cannibale cacciatore di teste mezzo scimmia e mezzo uomo, certo, tuttavia il vecchio Ngurn aveva, per quanto lo concerneva, giocato con lealtà. In lui era un precursore dell’etica e del contratto, del rispetto e della comprensione presenti nell’uomo. No, decise Bassett: sarebbe stata una colpa imperdonabile e un atto disonorevole defraudare il vecchio all’ultimo momento. La sua testa spettava a Ngurn perché l’affumicasse, e a Ngurn sarebbe andata.

E Bassett, dando il segnale con la mano alzata, piegando in avanti la testa come convenuto in modo da offrire bene alla vista l’articolazione della spina dorsale, si dimenticò di Baiatta, che era semplicemente una donna, solo e semplicemente una donna e non desiderata. Avvertì, senza vedere, il levarsi in aria dietro di lui dell’accetta affilata come un rasoio. E in quell’istante, prima della fine, cadde su di lui l’ombra dell’ignoto, e sentì incombere lo squarciarsi vertiginoso delle mura dinanzi al mistero.

Gli parve quasi, quando seppe che il colpo era partito e proprio mentre la lama d’acciaio stava per mordergli la carne e i nervi, di fissare lo sguardo sul volto placido della Medusa, la Verità. E, contemporaneamente al morso dell’acciaio e all’irrompere dell’oscurità, gli balenò in mente la fugace visione della sua testa che girava lentamente, incessantemente girava, nella casa diavolo-diavolo accanto all’albero del pane.

FINE

Waikiki, Honolulu,
22 maggio 1916

1. Il riferimento di queste righe è al poemetto del 1855 di Robert Browning, Childe Roland to the Dark Tower Carne (N.d, 71).

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