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Doctor Zhivago (1965) – Recensione di G. B. Cavallaro [Bianco e Nero]

Il Dottor Zi­vago è stato tradito da un film senza poesia e guastato dal gusto materialistico delle grandi sensazioni, degli scontri propagandistici senza retroterra spirituale

di G. B. Cavallaro

Per il colossale Doctor Zhivago di David Lean, dal celebre romanzo di Boris Pasternak, Carlo Ponti, che ha prodotto il film assieme alla Metro, non ha guardato a spese: sono tre ore e diciannove minuti di proiezione, tutto in scope e metroscope e metrocolor e con un cast prestigiosissimo. Il lungo romanzo russo, che secondo Eugenio Montale «ha compiuto l’impresa di restituire un’anima alla letteratura del suo Paese», per la sua stessa struttura, ricca di digressioni e meditazioni, la sua andatura quasi saggistica (è stato chiamato il «senso dell’onda lunga») è tutt’altro che un testo facilmente domabile dal cinema. Non porta infatti i personaggi al centro dell’azione, ma al contrario, «lascia che uomini e cose, fatti ed episodi siano quasi livellati ed eguagliati da una inesorabile marea».

È dunque comprensibile la difficoltà di David Lean, il troppo poco conosciuto regista di Brief Encounter, il troppo noto autore di Il ponte sul fiume Kwai e di Lawrence d’Arabia, a muoversi tenendo presenti da una parte le regole ferree del film di proporzione macroscopica, e al tempo stesso l’esigenza-di non tradire ciò che è stato definito giustamente il libro di uno spirito illuminato, «di un grande russo che guarda all’avvenire senza mai rinnegare la sua terra e il suo popolo, e tuttavia senza lasciarsi invischiare dalle miserie del tempo presente». Soprattutto, il senso tolstoiano del libro non è semplicemente riducibile al film inteso come romanzo fiume, Via col vento o cose simili. Citiamo ancora Montale, autore di una bella prefazione alla traduzione curata nel 1957 per Feltrinelli da Pietro Zveteremich (riveduta da Mario Socrate), e pubblicata da Einaudi nel 1964: «Un poema nel quale i personaggi rifiutano il rilievo del grande romanzo naturalista per mostrarsi quali sono: foglie secche trascinate in vortice dal soffio di una grande tempesta. Non più carattere dunque, non più situazioni sfruttabili ai fini di una rappresentazione che voglia graduare e dosare gli effetti; ma la grande atonia e la quasi indifferenza di chi vive la sua storia annullandosi in essa, testimone e vittima di un naufragio che è forse l’ultima volontà di un Dio sconosciuto e terribile».

David Lean interpretando il Dottor Zivago soprattutto come grande storia d’amore ha affidato la riduzione ad uno stimato autore teatrale inglese, Robert Bolt, lo stesso del Lawrence d’Arabia.

Lean, abbiamo detto, ha rovesciato i termini originali, e ne sono testimoni le sue dichiarazioni. Lo hanno interessato «gli esseri affascinanti dal drammatico destino», più che la rivoluzione russa, considerata una specie di tela di fondo, su cui si iscrive una straziante e bella storia d’amore. Del resto, nel suo meglio, il Lean attuale si difende dal fumetto a largo schermo attraverso una residua preoccupazione verso i caratteri, i comportamenti umani, i destini individuali; e poi attraverso i grandi sfondi della natura o foreste giapponesi, o deserti accecanti d’Africa, e ora immense pianure, cupe foreste e inverni selvaggi, disgeli crepitanti in cui Pasternak ode rivivere il misterioso e pacato ritmo dell’esistenza. Il Dottor Zivago (facciamo anche noi una rapida riduzione) copre un arco di tempo che va dall’inizio del nostro secolo al 1930. Prima e dopo la rivoluzione.

Il protagonista, il giovane dottor Jurij Zivago, senza genitori, di famiglia ricca, dalle idee confuse (siamo in tempi di positivismo e di fermenti spiritualistici), dopo la laurea scrive versi, partecipa senza passione alla prima guerra mondiale, e non si lascia coinvolgere dagli avvenimenti del 1917 a Mosca. Più tardi si trasferisce lontano dalla capitale, assieme alla famiglia, facendo un viaggio snervante e incredibile fino al confine, gli Urali. Poi è costretto dai partigiani rivoluzionari a stare con loro come medico, e solo tre anni dopo riesce ad approdare a Mosca. Ma non vi trova più i parenti, e poco dopo muore.

Ma il grande romanzo è anche la storia di un gruppo di altri personaggi, la dolce Tanya, moglie di Zivago, l’infelice, sventurata e forte Lara, che sarà di Zivago l’amore più forte, Pasa, inquieto e distrutto da un matrimonio sbagliato, il seduttore Moravosky, e tanti altri. Lean si vanta di aver scelto gli attori pensando ai personaggi, e non viceversa. Geraldine Chaplin è Tanya, Julie Christie, la protagonista di Darling, è giustamente Lara. Tom Courtenay, già partner di Julie Christie in Billy Liar, è Pasa, e anche qui niente da dire, Omar Shariff è Zivago, Rod Steiger Koravosky, Alec Guinness è Yevograf. Ci sono poi Rita Tushingham, e tutti gli altri che sapete, Ralph Richardson, Siobhan McKenna.

A un certo punto, verso la fine del suo libro, Pasternak ha scritto: «Mosca sembrava loro non il luogo di quegli avvenimenti, ma la principale eroina di un lungo romanzo…». Il film, pur cosi articolato ed esteriormente fedele, per una grave incomprensione umana prima che ideologica, non ha saputo rendere questa priorità appassionante dei temi universali, in Pasternak, su quelli individualistici. La storia, Mosca, il senso della rivoluzione, l’equilibrio tra azione pubblica e storia privata, il colore, le stagioni, il fluire del tempo, le distanze, l’anima della grande Russia, e soprattutto quel senso meditativo, quella religiosità diffusa che filtra dalle pagine. Ecco quello che manca. Il ritmo nel film è concitato fino alla brutalità verso lo spettatore, bombardato di sequenza in sequenza da attacchi violentemente sonorizzati, preso di mira da porte che sbattono, treni sferraglianti, grida, vorticare della macchina da presa in grandi primi piani. Lean cerca l’effetto, e non il rispetto. La rivoluzione russa è restituita da un anticomunismo grottesco, il dottor Zivago, sia colpa del regista o di Omar Shariff, non riesce a farsi catalizzatore, riflesso profondo, malinconico ed equilibrato degli avvenimenti. Si è puntato sui sentimenti accesi, mi sembra, sui contrasti diretti, sui bolscevichi antipatici, ed è scomparso l’amore straziante che fa tremare le più belle pagine di Pasternak, più importante della storia e degli amori di Lara, di Zivago, di Pasa. «Vivere una vita non è attraversare un campo», ha scritto Pasternak in calce a una bella poesia, dove è detto anche: «Se solo è possibile, padre, allontana questo calice da me. Amo il tuo ostinato disegno, e reciterò, d’accordo, questa parte».

Al film di Lean manca un personaggio fatto così, di un cristianesimo così teso e segreto. C’è invece lo spettacolo di grande rilievo, scenico e cromatico, un gusto figurativo che ogni tanto si mostra baldanzoso e squillante nei preziosi interni, nel disegno di una umanità grigia e popolare, già massa, in azzurre distese di terre ghiacciate sotto la luna. Degli interpreti, Julie Christie è l’unica, mi pare, a dare credibilità e autenticità al personaggio affidatole; la concitazione dei fatti e il preponderante dei mezzi tecnici, l’arruffio della storia, la scelta infelice (Geraldine Chaplin) fanno degli altri personaggi una galleria piuttosto sbiadita. E questo è grave, per un film che voleva soprattutto esaltare le individualità, e così carico di Oscar. Non si è fatta la fatica di seguire Pasternak, la sua via faticosa alla verità. Ne è un esempio l’episodio del ritorno a Mosca dopo la guerra; nel romanzo Zivago è colto soprattutto da un senso di solitudine, nel film deve litigare coi comunisti per la divisione della casa in superfici abitabili, e si trova precipitato in una folla urlante, costretto a una serie di atteggiamenti pratici ripugnanti al vero personaggio. E poi, perché alterare le cose? Pasternak fa dire a Tonja, a questo proposito: «abbiamo ceduto una parte del pianterreno all’accademia agraria. Se no, d’inverno non ce la facevamo a scaldare. E anche il piano di sopra è troppo grande. Glielo abbiamo offerto, ma per ora non lo prendono …». È tutto il contrario, insomma, di queste frettolose e banali semplificazioni. In conclusione, il Dottor Zi­vago è stato tradito da un film senza poesia e guastato dal gusto materialistico delle grandi sensazioni, degli scontri propagandistici senza retroterra spirituale.

Bianco e Nero, Luglio-Agosto 1966

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