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Jack London – Martin Eden [Testo Italiano]

Martin Eden è un romanzo dello scrittore statunitense Jack London che racconta la difficile vita di un ragazzo del popolo che lotta disperatamente per diventare uno scrittore, ispirato e sostenuto in questo dal suo amore per la bellezza e per Ruth, una giovane figlia dell'alta borghesia di San Francisco.

1

Uno dei due aprì la porta con una chiave ed entrò, seguito da un giovanotto che si tolse il berretto con gesto imbarazzato. Aveva rozzi vestiti che odoravano di mare ed era chiaramente fuori posto nell’ampio atrio in cui si trovò. Non sapeva che fare del berretto e stava cercando di ficcarselo nella tasca del giaccone quando l’altro glielo prese. Ciò fu fatto con tranquillità e naturalezza e il giovanotto imbarazzato gliene fu grato. «Lui mi capisce», pensava. «E mi darà una mano».

Camminava alle calcagna dell’altro facendo oscillare le spalle e tenendo le gambe involontariamente divaricate, come se il pavimento si alzasse e si abbassasse seguendo le fluttuazioni e gli sbalzi del mare. Le ampie sale parevano troppo strette per la sua andatura dondolante e fra sé e sé egli era terrorizzato al pensiero che le sue larghe spalle potessero urtare contro gli stipiti delle porte o far cadere i minuscoli soprammobili posati sugli scaffali più bassi. Si ritraeva ora dall’uno ora dall’altro dei diversi oggetti, moltiplicando timori che in realtà erano soltanto una creazione della sua mente. Fra un pianoforte a coda e un tavolo centrale con alte pile di libri c’era spazio sufficiente per il passaggio di sei persone affiancate, e tuttavia vi si avvicinò con trepidazione. Le robuste braccia gli cadevano lungo i fianchi in modo sgraziato. Non sapeva che farne, di quelle sue braccia e delle mani, e quando nella sua visione alterata un braccio parve pericolosamente sul punto di sfiorare i libri sul tavolo, se ne allontanò traballando come un cavallo impaurito e per poco non finì contro lo sgabello del pianoforte. Osservò l’armoniosa andatura dell’altro davanti a lui e per la prima volta si rese conto che il suo passo era diverso da quello degli altri uomini. Per un istante il fatto di camminare in modo così impacciato gli diede un acuto senso di vergogna. Il sudore gli usciva dalla pelle della fronte in minuscole perline e si arrestò per asciugarsi con un fazzoletto la faccia abbronzata.

«Fermati un po’, Arthur, ragazzo mio», disse, cercando di mascherare l’ansietà con il tono scherzoso. «Tutto in una volta è un po’ troppo per il sottoscritto. Sai che io non volevo venire, e neanche la tua famiglia muore dalla voglia di vedermi, penso».

«Non ti preoccupare», fu la rassicurante risposta. «Non devi avere paura di noi. Siamo gente alla buona. Guarda, c’è una lettera per me».

Fece un passo indietro verso il tavolo, strappò il margine della busta e cominciò a leggere, dando all’estraneo la possibilità di riprendersi. Questi lo capì e gliene fu grato. Aveva il dono di sapersi immedesimare negli altri, di capirli, e sotto al suo aspetto allarmato esso già si manifestava in lui. Si asciugò la fronte e si guardò intorno con un’espressione controllata, benché nei suoi occhi comparisse un balenio come quello che si scorge negli animali selvatici quando temono di essere presi in trappola. Si trovava in mezzo a un mondo ignoto, preoccupato di ciò che poteva accadere, ignaro di ciò che doveva fare, consapevole che la sua andatura e il suo portamento erano goffi, timoroso che ogni suo tratto e ogni sua dote ne fossero inevitabilmente segnati. Ne aveva l’acuta consapevolezza, la frustrante sensazione, e lo sguardo divertito che l’altro gli lanciò furtivamente al di sopra del bordo della lettera lo trapassò, bruciante come una pugnalata. Vide quello sguardo ma non ebbe alcuna reazione perché la disciplina era una delle cose che aveva imparato. Inoltre quel colpo di pugnale lo aveva ferito nell’orgoglio. Si maledì per essere venuto e contemporaneamente decise che, dal momento che era venuto, ce l’avrebbe fatta, in un modo o nell’altro. Gli si indurirono i lineamenti e negli occhi gli affiorò una luce aggressiva. Si guardò intorno in modo più noncurante soffermandosi con attenzione su ciò che vedeva e registrando nel cervello ogni particolare di quel grazioso ambiente. I suoi occhi erano spalancati: nulla sfuggiva alla loro percezione e a mano a mano che bevevano avidamente quella visione di bellezza, svaniva dal suo sguardo la luce aggressiva e subentrava un’espressione di calda simpatia. Egli era sensibile alla bellezza e lì la sua sensibilità aveva trovato di che risvegliarsi.

La sua attenzione fu richiamata da un quadro a olio, in cui un’onda possente si infrangeva su uno scoglio sporgente, mentre il cielo era coperto da nuvoloni minacciosi; al di là della linea dei frangenti una pilotina, che andava di bolina stretta e sbandando rivelava ogni particolare del ponte, stava beccheggiando sullo sfondo del tempestoso cielo al tramonto. Era una visione di bellezza che lo attrasse irresistibilmente. Dimenticando la sua andatura goffa egli si accostò al dipinto, finché gli fu vicinissimo. La tela perse tutta la sua bellezza e il suo viso assunse un’espressione perplessa. Guardò fissamente quello che gli parve un trascurabile scarabocchio e indietreggiò di un passo. Subito l’impressione di bellezza sembrò tornare nella tela. «Un quadro basato su un trucco», pensò rimuovendolo dalla mente, anche se tra tutte le numerose impressioni che percepiva trovò il modo di avvertire una punta di indignazione che tanta bellezza dovesse essere sacrificata a un trucco. Non si intendeva di pittura. Aveva dimestichezza solo con oleografie e litografie che erano sempre definite e nette, da vicino o da lontano. A dire il vero aveva visto quadri a olio esposti nelle vetrine di negozi, ma lo schermo del vetro aveva impedito al suo sguardo ansioso di andar loro troppo vicino.

Si girò a dare un’occhiata all’amico che leggeva la lettera e vide i libri sul tavolo. Subito nei suoi occhi balenò un lampo di acuto desiderio simile a quello che affiora nello sguardo di un affamato alla vista del cibo. Un irrefrenabile impulso lo portò, con un dondolio delle spalle prima a destra e poi a sinistra, al tavolo, dove cominciò a toccare i libri con dolcezza. Guardava i titoli e i nomi degli autori, leggeva brani dei testi accarezzando i volumi con gli occhi e con le mani e, in un caso, riconobbe un libro che aveva letto. Per il resto si trattava di libri e di autori a lui ignoti. Si imbatté in un volume di Swinburne che cominciò a leggere metodicamente, dimentico del posto in cui si trovava, con il viso rosso. Due volte chiuse il libro tenendo il segno con l’indice per guardare il nome dell’autore. Swinburne! Avrebbe ricordato questo nome. Aveva occhi acutissimi costui, e sapeva cogliere i colori e i balenii di luce. Ma chi era questo Swinburne? Era morto da cent’anni o pressappoco, come la maggior parte dei poeti? O era ancora vivo, impegnato a scrivere? Girò il frontespizio… sì, aveva scritto anche altri libri; bene, come prima cosa la mattina dopo sarebbe andato alla biblioteca con prestito gratuito e avrebbe cercato di prendere delle altre cose di Swinburne. Tornò al testo e si immerse nella lettura. Non notò che nella stanza era entrata una giovane donna. Se ne accorse solo quando sentì la voce di Arthur che diceva:

«Ruth, ti presento il signor Eden».

Chiuse il libro tenendo il segno con l’indice e prima di girarsi vibrava già a una sensazione del tutto nuova, che non era dovuta alla ragazza ma alle parole di suo fratello. Sotto quel suo corpo muscoloso palpitava una sensibilità acuta e nervosa. Al minimo impatto del mondo esterno sulla sua coscienza, i pensieri, le simpatie e le emozioni divampavano e guizzavano come fiamme. Era straordinariamente sensibile e reattivo, mentre la sua immaginazione, fortemente stimolata, lavorava incessantemente a stabilire relazioni di somiglianza e differenza. «Signor Eden» era ciò che lo aveva fatto vibrare – lui che per tutta la sua vita era stato chiamato «Eden» o «Martin Eden» o semplicemente «Martin». «Signore!». Era certo un bel progresso, disse fra sé. La sua mente parve trasformarsi, in un attimo, in una vasta camera oscura, in cui vide vorticare innumerevoli immagini della sua vita, di sale delle caldaie e di castelli di prua, di accampamenti e di spiagge, di prigioni e di taverne, di lazzaretti e di strade dei bassifondi, il cui filo conduttore era costituito dal modo in cui le persone si erano rivolte a lui in quelle varie situazioni.

E poi si girò e vide la ragazza. La fantasmagoria del suo cervello svanì alla vista di lei. Era una creatura pallida ed eterea, con occhi azzurri grandi e spirituali e una messe di capelli d’oro. Non capì come fosse vestita, se non che l’abito era meraviglioso come lei. La paragonò a un fiore di un colore oro tenuesu un esile stelo. No, era uno spirito, una divinità, una dea; una bellezza così sublime non era di questa terra. O forse i libri avevano ragione e ce n’erano molte come lei nelle alte sfere della vita. Avrebbe potuto essere cantata da quel Swinburne. Forse aveva avuto in mente qualcuno come lei quando aveva descritto quella ragazza, Isotta, nel libro che era lì sul tavolo. Tutte queste immagini, sensazioni e pensieri si intrecciarono in un attimo senza alcuna intromissione della realtà nella quale si muoveva. Vide la mano di lei tendersi verso la sua e lei guardarlo diritto negli occhi mentre si stringevano la mano con franchezza, come fra uomini. Le donne che aveva conosciuto non stringevano la mano in quel modo. Anzi, la maggior parte di loro non stringeva affatto la mano. Una miriade di associazioni mentali, di visioni dei vari modi in cui aveva fatto la conoscenza di donne, gli inondò la mente minacciando di sommergerla. Ma egli le allontanò e la guardò. Non aveva mai visto una fanciulla del genere. Le donne che aveva conosciuto! E subito pose accanto a lei le donne che aveva conosciuto. Per un attimo eterno si trovò nel mezzo di una galleria di ritratti di cui ella occupava il posto centrale, mentre intorno a lei erano le figure di molte donne, tutte soppesate e misurate con un rapido sguardo con riferimento a lei, unità di peso e di misura. Vide le facce smunte e malaticce delle ragazze di fabbrica e le ragazze smorfiose e sguaiate a sud di Market Street. C’erano le donne dei piccoli accampamenti e le donne olivastre del Vecchio Messico che fumavano sigarette. Queste a loro volta sparirono davanti all’avanzata delle donne giapponesi, che incedevano come bamboline leziose nei loro zoccoli di legno; delle eurasiatiche con i loro lineamenti delicati segnati dalla corruzione; delle prosperose donne delle isole dei Mari del Sud, con pelle scura e ghirlande in testa. Tutte queste furono cancellate da una razza grottesca uscita da un orribile incubo – creature sciatte che si trascinavano lungo i marciapiedi di Whitechapel, megere dei bordelli gonfie di gin, e tutto il seguito di arpie luride e oscene di quel vasto inferno, che presentandosi in mostruose forme femminili depredano i marinai, relitti dei porti, feccia e fango dell’umanità.

«Non vuole sedersi, signor Eden?», stava dicendo la ragazza. «Ero ansiosa di conoscerla fin da quando Arthur ci ha raccontato. È stato molto coraggioso…».

Egli fece con la mano un gesto noncurante e borbottò che non aveva fatto proprio niente e che chiunque lo avrebbe fatto al suo posto. Ella notò che la mano che aveva agitato era coperta di abrasioni recenti in via di guarigione, e un’occhiata all’altra mano che gli pendeva al fianco le rivelò che doveva essere nelle stesse condizioni. Inoltre con uno guardo rapido e acuto notò una cicatrice sulla guancia di lui, un’altra che faceva capolino da sotto i capelli sulla fronte e una terza che scendeva verso il basso scomparendo sotto il colletto inamidato. Frenò un sorriso alla vista della riga rossa che segnava lo strofinio del colletto contro il collo abbronzato. Evidentemente non era abituato a portarlo. Analogamente il suo occhio femminile osservò gli abiti che indossava, il loro taglio dozzinale e privo di eleganza, le pieghe del giaccone sulle spalle e le arricciature delle maniche che denunciavano l’esistenza di braccia gonfie di muscoli.

Mentre agitava la mano e borbottava che non aveva fatto proprio niente, cercò di obbedire al suo invito e di prendere posto sulla sedia. Trovò il tempo di ammirare il modo armonioso con cui ella si sedette prima di precipitarsi verso la sedia di fronte a quella di lei, sopraffatto dalla consapevolezza della sua goffaggine. Questa era un’esperienza nuova per lui. Per tutta la vita fino ad allora non aveva avuto coscienza di essere aggraziato o goffo: pensieri di questo genere non gli avevano mai attraversato il cervello. Si sedette con circospezione sul bordo della sedia, preoccupatissimo di dove mettere quelle sue mani, così ingombranti dovunque le mettesse. Arthur stava uscendo dalla stanza e Martin Eden ne seguì l’uscita con uno sguardo voglioso. Si sentiva perduto, solo in quella stanza con quella donna pallida e spirituale. Non c’era alcun bettoliere da chiamare perché portasse da bere, nessun garzone da mandare al locale dietro l’angolo a prendere un boccale di birra con cui inaugurare un rapporto di cordiale amicizia.

«Che cicatrice ha sul collo, signor Eden», stava dicendo la ragazza. «Com’è successo? Sono sicura che deve essere stata una qualche avventura».

«Un messicano col coltello, signorina», rispose inumidendosi le labbra riarse e schiarendosi la gola. «È stata solo una rissa. Dopo che gli ho portato via il coltello ha cercato di staccarmi il naso con un morso».

Per quanto l’avesse liquidata in quel modo, nei suoi occhi erano rimasti i ricchi particolari di quella calda notte stellata a Salina Cruz, la bianca striscia della spiaggia, le luci delle navi cariche di zucchero nel porto, le voci dei marinai ubriachi in lontananza, gli stivatori che si spingevano, la fiammeggiante rabbia sulla faccia del messicano, il brillio animalesco dei suoi occhi alla luce delle stelle, la puntura dell’acciaio sul collo e il fiotto di sangue, la folla e le grida, i due corpi, il suo e quello del messicano, avvinghiati, che si rotolavano più volte lasciando segni sulla sabbia, e in una vaga lontananza i dolci accordi di una chitarra. Questa era l’immagine, e lui rabbrividiva ancora a ricordarla, e si chiedeva se quello che aveva dipinto la pilotina nel quadro sul muro sarebbe stato in grado di raffigurarla. La spiaggia bianca, le stelle e le luci delle navi cariche di zucchero sarebbero state splendide, pensava, come sfondo per il gruppo di opache figure che sulla sabbia, nel mezzo del quadro, circondavano i due contendenti. Decise che il coltello avrebbe dovuto avere un posto preciso nel dipinto e che sarebbe stato ben visibile, con una specie di bagliore, alla luce delle stelle. Ma di tutto ciò nulla era entrato nelle sue parole. «Ha cercato di staccarmi il naso con un morso», concluse.

«Oh», disse la ragazza con una voce tenue e lontana, ed egli notò dal suo viso sensibile che ne era rimasta colpita.

Provò anch’egli una forte impressione e un rossore imbarazzato gli coprì leggermente le guance bruciate dal sole, benché il calore che sentiva fosse fortissimo, come quando il viso veniva esposto alle vampate che uscivano dal portello aperto della fornace nella sala macchine. Argomenti sordidi come le risse di coltello evidentemente non erano adatti per una conversazione con una signora. Negli ambienti che frequentava, nei libri che leggeva, la gente non parlava di quelle cose, forse non sapeva neppure che esistessero.

Ci fu una breve pausa nella conversazione che cercavano di avviare. Poi lei fece una cauta domanda sulla cicatrice della guancia. Mentre la formulava, egli si rese conto che la fanciulla stava facendo uno sforzo per parlare il linguaggio di lui, e decise di non seguirla e di parlare invece il linguaggio di lei.

«È stato solo un incidente», rispose portandosi la mano alla guancia. «Una notte durante una bonaccia ma col mare grosso si spezzò il mantiglio del boma, e poi il paranco. Era di filo metallico e guizzava come una serpe. Tutti quelli di guardia cercavano di afferrarlo e mi sono buttato anch’io e sono stato beccato».

«Oh», esclamò lei, questa volta con un accento di comprensione, benché tutto quel discorso fosse stato greco per lei, che si chiedeva che cosa fosse un mantiglio e che cosa volesse dire beccato.

«Quest’uomo, Swineburne», cominciò, cercando di mettere in esecuzione il suo piano e pronunciando la i come ai.

«Chi?».

«Swineburne», ripeté, sempre con la stessa pronuncia. «Il poeta».

«Swinburne», corresse lei.

«Sì, quello lì», balbettò lui con le guance di nuovo infuocate. «Quanto tempo fa è morto?».

«Ma non mi risulta che sia morto». Lei lo guardò con curiosità. «Dove lo ha conosciuto?».

«Non l’ho mai visto in faccia», fu la risposta. «Ma ho letto qualcosa della sua poesia da quel libro lì sul tavolo proprio prima che lei venisse. Le piace la sua poesia?».

A quel punto la fanciulla cominciò a parlare rapidamente e fluentemente sull’argomento da lui suggerito. Egli si sentiva più a suo agio e si accomodò un po’ meglio sulla poltrona tenendosi stretto ai braccioli con le mani, come se essa gli potesse essere sottratta facendolo cadere sul pavimento. Era riuscito a farla parlare con il proprio linguaggio, e mentre ella continuava si sforzò di seguirla, meravigliandosi di tutta la cultura immagazzinata in quella graziosa testolina e contemplando la pallida bellezza del viso di lei. Riusciva a seguirla, per quanto perplesso per le parole inconsuete che le uscivano scioltamente dalle labbra e per espressioni critiche e processi mentali che erano estranei alla sua mente, ma che ciò nonostante la stimolavano e la facevano fremere. Qui c’era vita intellettuale, pensò, e c’era anche bellezza, calda e splendida come non aveva mai pensato potesse esistere. Dimenticò se stesso e la fissò con occhi avidi. Ecco qualcosa per cui vivere, da cercare di conquistare, per cui combattere – sì, per cui si poteva persino morire. I libri erano veri. Al mondo c’erano donne così e lei era una di loro. Ella diede ali alla sua immaginazione, e tele grandi e luminose apparvero davanti a lui, nelle quali emergevano figure vaghe e gigantesche di amore e di avventura, e di imprese eroiche compiute per la donna – per una donna pallida, per un fiore d’oro. E attraverso la visione ondeggiante e palpitante fissava, come attraverso un miraggio incantato, la donna reale che era seduta lì e parlava di letteratura e di arte. Ascoltava anche, ma soprattutto guardava, inconsapevole della fissità del suo sguardo o del fatto che nei suoi occhi brillava tutto quello che nella sua natura era tipicamente mascolino. Ma lei, che poco conosceva il mondo degli uomini, essendo una donna, avvertiva chiaramente la presenza di quegli occhi ardenti. Non era mai stata vicino a uomini che la guardassero in quel modo, e ne era imbarazzata. Incespicò e tentennò nel suo discorso e perse il filo del ragionamento. Era intimorita, ma contemporaneamente avvertiva uno strano piacere nell’essere guardata in quel modo. La sua educazione l’avvertì della presenza del pericolo e di un allettamento insano, sottile e misterioso; mentre i suoi istinti urlavano a gran voce in tutto il suo essere, spingendola a superare d’un balzo casta e posizione per raggiungere questo viaggiatore di un altro mondo, questo rozzo giovanotto con le mani lacerate e una riga rossa causata dalla presenza intorno al collo di un indumento insolito, il quale, presumibilmente, era contaminato e segnato da un’esistenza ingrata. Lei era incontaminata, e la sua purezza si ritraeva; ma era anche donna e proprio allora cominciava a prendere coscienza delle contraddizioni dell’animo femminile.

«Come stavo dicendo… che cosa stavo dicendo?». Si interruppe di colpo e rise allegramente di ciò che le era capitato.

«Lei stava dicendo che questo qui, questo Swinburne, non è riuscito a essere un grande poeta perché… e poi lì si è bloccata, signorina», le rammentò lui, mentre gli parve all’improvviso di sentire fame e deliziosi brividi gli correvano su e giù per la spina dorsale al suono della risata di lei. Come argento, pensò, come il tintinnio di campane argentine e immediatamente, per un istante, fu trasportato a una terra lontana, dove sotto rosei fiori di ciliegio fumava una sigaretta e ascoltava i rintocchi della pagoda con il tetto aguzzo che invitavano alla preghiera devoti con calzari di paglia.

«Sì, grazie», ella disse. «Swinburne fallisce, alla fin fine, perché è, beh… indelicato. Molte delle sue poesie non dovrebbero mai essere lette. Ogni verso dei poeti veramente grandi è pieno di verità e bellezza ed evoca tutto ciò che è elevato e nobile nell’uomo. Nessun verso dei grandi poeti potrebbe essere eliminato senza con ciò provocare un impoverimento nel mondo».

«Io pensavo che era grande», disse egli esitante, «quel poco che ho letto, non avevo idea che era un… mascalzone così. Immagino che questo venga fuori dai suoi altri libri».

«Ci sono molti versi che potrebbero essere eliminati nel libro che lei stava leggendo», ella disse con voce misuratamente ferma e dogmatica.

«Mi devono essere sfuggiti», annunciò lui. «Quello che ho letto era roba buona. Era tutto pieno di luce e scintillava, e splendeva dentro di me e mi illuminava tutto, come il sole o come la luce di un faro. È così che l’ho sentito, ma immagino di non essere un grande intenditore di poesia, signorina».

Si interruppe frustrato. Era confuso e dolorosamente consapevole della sua incapacità espressiva. Aveva avvertito la grandezza e il calore della vita in ciò che aveva letto, ma le sue parole erano inadeguate. Non riusciva a comunicare ciò che sentiva e fra sé si paragonò a un marinaio su una nave sconosciuta in una notte buia, che brancolava toccando attrezzature il cui funzionamento gli era ignoto. Bene, decise, stava a lui farsi conoscere in questo mondo nuovo. Non aveva mai visto nulla di cui non fosse riuscito a cogliere il senso se lo avesse voluto ed era giunto il momento in cui voleva parlare delle cose che sentiva dentro di sé in modo che ella capisse. Lei diventava sempre più grande al suo orizzonte.

«Ora Longfellow…», stava dicendo la ragazza.

«Sì, l’ho letto», interloquì impulsivamente, desideroso di mettersi in mostra e di sfoggiare quel po’ di cultura letteraria che aveva, voglioso di farle vedere che non era proprio un bietolone. «Il Salmo della Vita, l’Excelsior e… be’, ho letto solo questi».

Ella annuì e sorrise, ed egli sentì confusamente che era un sorriso di tolleranza e di pietà. Era stato uno stupido a tentare di bleffare a quel modo. Probabilmente quel Longfellow aveva scritto una grande quantità di libri di poesia.

«Mi scusi, signorina, di averla interrotta così; il fatto è che so proprio poco di queste cose. Non sono del mio giro; ma le farò entrare nel mio giro».

Pronunciò queste parole come una minaccia, con voce decisa, occhi fiammeggianti e un’espressione determinata sul viso. Alla ragazza parve che la linea della mascella si fosse modificata, assumendo un taglio sgradevolmente aggressivo. Contemporaneamente un’intensa vampata di virilità sembrò emanare da lui e investirla.

«Penso che lei abbia le capacità di… farle entrare nel suo giro», concluse con una risata. «È un uomo forte».

Lo sguardo di lei si soffermò per un istante su quel collo muscoloso, nerboruto, quasi taurino, abbronzato dal sole, traboccante di sana rudezza e di possanza. E benché egli rimanesse seduto con il viso rosso e l’espressione umile, ella si sentì di nuovo attratta da lui. Fu sorpresa da un pensiero malizioso che le sorse nella mente. Le sembrava che se avesse potuto posare le mani su quel collo, tutta quella forza e tutto quel vigore sarebbero entrati in lei. Rimase traumatizzata da questo pensiero che pareva rivelare un’inattesa depravazione della sua natura. Inoltre per lei la forza era una cosa grossolana e volgare: il suo ideale maschile era l’uomo esile e aggraziato. Tuttavia quel pensiero persisteva. Quel desiderio di posare le mani sul collo bruciato dal sole la sbigottiva. In realtà lei era tutt’altro che robusta e aveva bisogno della forza altrui, per il corpo e per la mente. Ma non lo sapeva: sapeva solo che nessun uomo l’aveva mai colpita come questo, che la sconvolgeva continuamente con la sua orribile grammatica.

«Sì, ho una salute di ferro», diceva lui. «Se devo dire la verità digerisco anche i sassi. Ma proprio adesso mi è venuto un attacco di dispepsia. Buona parte di quello che lei ha detto non riesco a digerirlo. Non ho avuto una preparazione adatta, capisce. Mi piacciono i libri e la poesia, e il tempo libero che ho lo passo a leggere, ma non ci ho mai pensato come lei. Ecco perché non riesco a parlarne. Sono come un navigatore alla deriva senza carta e bussola in un mare sconosciuto. Ma ora voglio trovare l’orientamento e forse lei può aiutarmi. Come ha fatto a imparare tutte le cose che ha detto?».

«Andando a scuola, penso, e studiando», rispose.

«Io sono andato a scuola da bambino», protestò lui.

«Sì, ma io parlo del liceo, dei corsi superiori, dell’università».

«È andata all’università?» chiese, francamente sorpreso. Ebbe l’impressione che ella si fosse allontanata da lui di milioni di miglia.

«Ci sto andando adesso. Seguo corsi speciali di inglese».

Egli non sapeva che cosa intendesse con quella denominazione, ma fece un’altra domanda dopo avere preso atto mentalmente di questa lacuna.

«Quanto dovrei studiare prima di poter andare all’università?».

La fanciulla accolse con un sorriso di incoraggiamento questo desiderio di cultura e disse: «Dipende da quanti anni ha già fatto. Lei non ha mai frequentato le superiori, vero? Ma ha finito la scuola media?».

«Quando ho lasciato perdere mi mancavano due anni», rispose. «Però a scuola sono sempre stato promosso con buoni voti».

Non appena ebbe pronunciato queste parole, si pentì di essersi fatto trascinare dalla vanità; fu invaso da una grande rabbia e strinse i braccioli della poltrona con tale forza che le punte delle dita gli fecero male. Contemporaneamente si accorse che una donna stava entrando nella stanza. Vide la ragazza alzarsi dalla sedia e dirigersi rapidamente verso la nuova venuta. Si baciarono e avanzarono verso di lui tenendosi allacciate per la vita. Martin pensò che la donna, alta, bionda, bella, maestosa pur nella sua snellezza, doveva essere la madre. Il vestito di lei era adeguato allo stile e all’eleganza di quella casa, ed egli ne contemplava con ammirazione le linee aggraziate. La donna e il vestito gli facevano venire in mente le attrici sul palcoscenico. Quindi ricordò di aver visto grandi dame e abbigliamenti eleganti anche all’entrata dei teatri di Londra, e di essere stato costretto dai poliziotti a uscire sotto la pioggia fine e insistente, abbandonando la tettoia sotto la quale aspettava insieme con altri curiosi. Poi la mente gli tornò al Grand Hotel di Yokohama dove, sempre stando fuori sul marciapiede, aveva visto altre grandi dame. E allora, come in un lampo, la città e il porto tornarono a passargli davanti agli occhi in miriadi di immagini. Tuttavia si affrettò a soffocare il caleidoscopio della memoria sotto la tormentosa ossessione dei problemi del presente. Capiva che doveva superare la prova della presentazione e con grande difficoltà si alzò, restando in piedi con i pantaloni che gli facevano le borse alle ginocchia, le braccia pendule e ridicole e la faccia tesa per l’imminente cimento.

II

Visse come un incubo l’ingresso nella sala da pranzo. Fra le fermate e gli ostacoli, i balzi e gli scatti, il movimento gli era a volte parso impossibile, ma alla fine ce l’aveva fatta e si era trovato seduto accanto a Lei. Lo schieramento delle posate lo sgomentò. Le fissava affascinato temendone gli ignoti pericoli, finché quel luccichio divenne uno sfondo luminoso per una successione di visioni del castello di prua in cui era seduto con i compagni a mangiare carne salata infilzandola con il coltello e aiutandosi con le dita, o raccogliendo da una ciotola di latta una densa zuppa di piselli con ammaccati cucchiai di ferro. Sentiva ancora alle narici l’odore sgradevole della carne andata a male, mentre alle orecchie riecheggiava lo strepito della bocca e delle labbra dei marinai che masticavano, accompagnato dagli scricchiolii del legno e dai gemiti delle paratie. Osservando gli altri aveva deciso che mangiavano da maiali. Qui sarebbe stato attento: non avrebbe fatto alcun rumore. Doveva fare in modo di non dimenticarsene mai.

Con lo sguardo fece il giro della tavola. Di fronte a lui si trovavano Arthur e il fratello Norman. Gli venne in mente che erano i fratelli della ragazza e provò per loro un grande affetto. Come si volevano bene, i membri di quella famiglia! Gli balenò nel ricordo l’immagine della madre di lei, del bacio di saluto e delle due donne che venivano verso di lui allacciate. Non aveva mai visto tali manifestazioni di affetto fra genitori e figli. Ebbe la rivelazione della grandezza dei sentimenti che poteva esserci nell’alta società. Era la cosa più bella che avesse visto nella sua breve esperienza di questo mondo. Ne rimase profondamente commosso e si sentì struggere il cuore per la tenerezza. Per tutta la vita aveva sognato l’amore. Aveva fame d’amore. Era per lui un’esigenza organica. Tuttavia aveva dovuto farne a meno, e questo l’aveva reso duro. Non aveva mai saputo di avere bisogno di amore, e neppure ora ne aveva la consapevolezza, ma lo sentiva in sé, ne era esaltato e pensava che fosse una cosa bella, elevata e meravigliosa.

Fu lieto che non fosse presente il sgnor Morse, perché era già abbastanza difficile fare la conoscenza di lei, della madre e del fratello Norman, mentre conosceva già abbastanza Arthur. Ma il padre sarebbe stato troppo per lui, ne era certo. Gli sembrava di non aver mai faticato tanto in vita sua. Lo sforzo più duro era cosa da ragazzi al confronto. Aveva la fronte imperlata di sudore e la camicia bagnata per lo sforzo di dover fare tante cose insolite contemporaneamente. Doveva mangiare come non aveva mai mangiato prima, guardarsi intorno furtivamente per imparare come si eseguissero tutti quei nuovi compiti, ricevere il flusso delle impressioni che lo investivano, imprimersele nella mente e classificarle; riconoscere il desiderio che provava per la ragazza, un desiderio che gli provocava una sorda e dolorosa irrequietezza; sentire l’impulso di muoversi nell’ambiente in cui lei viveva e rincorrere fantasie e vaghi progetti sul modo di arrivare fino a lei. Inoltre, quando il suo sguardo furtivo si posava su Norman che sedeva di fronte a lui, o su qualcun’altro, per capire quale coltello o quale forchetta dovessero essere usati in una certa occasione, cercava di imprimere quelle fattezze nella mente, la quale automaticamente si sforzava di valutarle e di capire che rapporti avessero con lei. Doveva poi parlare, sentire ciò che gli veniva detto e che cosa dicevano gli altri parlando fra loro, e rispondere, quando era necessario, cercando di tenere a freno la propria loquacità. E per aggiungere confusione a confusione c’era la continua minaccia del domestico che gli compariva silenzioso alle spalle, una Sfinge sinistra che presentava enigmi e rompicapo e ne esigeva l’immediata soluzione. Per tutto il pasto fu tormentato dal pensiero delle coppette dell’acqua. Incessantemente, e senza motivo, si chiedeva quando sarebbero arrivate e che aspetto avessero. Aveva sentito parlare di simili oggetti e adesso, prima o poi, nel giro di pochi minuti li avrebbe visti, sedendo allo stesso tavolo che ospitava individui superiori abituati ad usarli e, – sì, li avrebbe usati egli stesso. Ma soprattutto, al fondo del suo pensiero ma ad esso sempre presente, era il problema di come si sarebbe dovuto comportare verso queste persone. Quale doveva essere il suo atteggiamento? Era una questione che dibatteva continuamente dentro di sé con grande ansia. A volte una voce gli suggeriva che avrebbe dovuto codardamente fingere ciò che non era e recitare una parte, altre volte ne sentiva un’altra che ancor più vigliaccamente lo ammoniva a non farlo; questa scelta lo avrebbe certamente condotto al disastro, perché tale condotta non era nella sua natura e si sarebbe coperto di ridicolo.

Durante la prima parte del pranzo, mentre si arrovellava per decidere su come si sarebbe dovuto comportare, rimase molto tranquillo. Non sapeva che questa calma smentiva ciò che Arthur aveva detto il giorno prima, quando aveva annunciato che avrebbe portato a pranzo un uomo turbolento, ma di non allarmarsi perché lo avrebbero trovato interessante. Martin Eden non avrebbe mai creduto, in quel momento, che il fratello di lei avesse potuto commettere verso di lui un tale tradimento – specialmente dopo che, grazie a lui, questo stesso fratello era uscito indenne da una sgradevole rissa. Rimase dunque seduto a tavola preoccupato della propria inadeguatezza e nel contempo affascinato da tutto ciò che avveniva intorno a lui. Per la prima volta capì che mangiare non era soltanto una funzione vitale. Non si accorgeva di ciò che ingeriva, non era consapevole della qualità del cibo. Poteva indulgere al suo amore per la bellezza a quella tavola, in cui il mangiare aveva una funzione estetica. Ma esso aveva anche una funzione intellettuale: la sua mente ne era stimolata. Sentì pronunciare parole che per lui non avevano alcun senso, e altre che aveva visto solo nei libri e che nessuno di sua conoscenza poteva legittimamente usare in virtù della propria statura intellettuale. Quando udiva queste parole uscire con noncuranza dalle labbra dei membri di questa meravigliosa famiglia, la famiglia di lei, era colto da un brivido di piacere. Il fascino romanzesco, la bellezza, il nobile vigore dei libri si stavano avverando. Era in quel raro stato di beatitudine in cui l’uomo vede i propri sogni uscire dalle nebbie della fantasia e diventare concreti.

Non si era mai trovato a tali altezze dell’esistenza e si teneva in disparte: ascoltava, osservava e si beava, limitandosi a rispondere con reticenti monosillabi «Sì, signorina», e «No, signorina», a lei e «Sì, signora» e «No, signora» alla madre. Frenò l’impulso suscitato dalla sua esperienza in marina a dire «Signorsì», e «Signornò» ai fratelli. Sentiva che sarebbe stato fuori luogo e che sarebbe stata una ammissione di inferiorità da parte sua, assolutamente da evitare se voleva aspirare a lei. Ne era anche frenato dal proprio orgoglio. «Per Dio», disse fra sé a un certo punto. «Valgo quanto loro, e se sanno un mucchio di cose che io non conosco, potrei impararne anch’io un bel po’!». Ma subito dopo, quando la ragazza o la madre si rivolgevano a lui chiamandolo «Signor Eden», la sua aggressiva fierezza spariva e si sentiva avvolgere da una calda felicità. Era un uomo civile, proprio così, e si trovava a pranzo accanto a persone delle quali aveva letto nei libri. Anche lui era nei libri, nelle avventure narrate sulle pagine stampate di libri rilegati.

Ma mentre smentendo la descrizione di Arthur si rivelava più come un agnello mansueto che come un uomo turbolento, Martin si lambiccava il cervello per decidere che linea dovesse seguire. Non era proprio una creatura mite e la parte di comprimario mal si adattava alla sua indole imperiosa. Parlava solo quando non poteva farne a meno e allora il suo eloquio assomigliava al modo in cui si era avvicinato alla tavola, punteggiato da scatti e arresti mentre cercava le parole nel suo lessico poliglotta, indeciso se usare parole che sapeva essere appropriate ma temeva di non saper pronunciare e scartandone altre che capiva non sarebbero state comprese oppure sarebbero risuonate aspre e sgradevoli. Per tutto il tempo fu comunque schiacciato dalla consapevolezza che la sua ricerca di una buona dizione lo esponeva al ridicolo, impedendogli di esprimere ciò che sentiva in sé. Inoltre il suo amore per la libertà pativa le restrizioni proprio come il collo mal sopportava l’inamidata prigionia del colletto. Si aggiunga che sentiva di non poter resistere a lungo. La natura gli aveva dato grande sensibilità e intelligenza, e l’esigenza di esprimere ciò che urgeva dentro di sé. Presto fu sopraffatto dal desiderio di dare forma alle sensazioni che gli ribollivano dentro, e allora dimenticava chi era e dove si trovava, e le vecchie parole – gli strumenti del linguaggio che conosceva – gli uscivano inavvertitamente dalla bocca.

Una volta rifiutò una cosa offertagli da un domestico, il quale lo aveva interrotto toccandolo insistentemente sulla spalla, con un brusco «Beh?».

A questa reazione tutti i commensali fissarono gli occhi su di lui mentre il domestico guardava compiaciuto per la sua mortificazione. Ma si riprese subito.

«È un termine in lingua kanaka che significa “basta”», disse, «e mi è venuto spontaneamente. Si scrive B – E – H». Vide che lei gli fissava le mani con uno sguardo interrogativo e curioso e continuò nelle spiegazioni:

«Sono appena venuto giù lungo la Costa con un battello postale del Pacifico. Era in ritardo e nei dintorni dei porti del Puget Sound abbiamo lavorato come negri a caricare – un carico misto, non so se ha idea di che cosa vuol dire. Ecco perché ho la pelle sbucciata».

«Oh, non era per questo», si affrettò a spiegare a sua volta la ragazza. «È che ho l’impressione che lei abbia mani troppo piccole rispetto al corpo».

Martin si sentiva il viso in fiamme: quell’osservazione gli era sembrata un’altra denuncia delle sue lacune.

«Sì», disse in tono umile. «Non sono abbastanza grandi da sopportare gli sforzi. Sono capace di pestare come un fabbro con la forza che ho nelle spalle e nelle braccia. Sono così possenti che se picchio uno sul mento mi faccio male alla mano».

Si pentì subito di quelle parole e sentì una grande rabbia contro se stesso. Non era riuscito a tenere a bada la lingua e aveva finito per dire cose di cui non stava bene parlare.

«È stato molto coraggioso ad aiutare Arthur in quel modo, tanto più che per lei era un estraneo», disse lei con tatto, consapevole che si era sentito umiliato pur senza averne capito il motivo.

«Non è stato proprio niente», rispose. «L’avrebbe fatto chiunque al mio posto. Quel branco di teppisti era in cerca di guai, e Arthur non gli aveva fatto niente. Si sono buttati su di lui, e allora io mi sono buttato su di loro e ne ho stesi un po’. È lì che mi è venuta via un po’ di pelle dalle mani, è rimasta a terra insieme coi denti di quelli della banda. Ne valeva la pena. Quando ho visto…».

Si fermò con la bocca aperta sul baratro della propria depravazione: proprio non meritava di respirare la stessa aria di lei. E mentre Arthur ricominciava per la ventesima volta il racconto della sua avventura con i teppisti ubriachi sul traghetto e di come Martin Eden si fosse precipitato in suo soccorso, questi meditava con la fronte aggrottata sulla figuraccia che aveva fatto, affrontando per l’ennesima volta il problema di come dovesse comportarsi con quelle persone. Fino ad allora non era certamente stato un successo. Non apparteneva a quella tribù e non ne sapeva il dialetto, disse fra sé. Non poteva farsi passare per uno di loro. L’inganno sarebbe stato scoperto, anche perché era estraneo alla sua natura. In lui non c’era posto per finzioni o artifici. Doveva rimanere se stesso a qualunque costo. Al momento non era in grado di esprimersi come loro, ma con il tempo ci sarebbe riuscito. Di questo aveva la certezza. Nel frattempo doveva pur parlare, e avrebbe parlato come sapeva, cercando di moderarsi un po’, naturalmente, in modo da riuscir loro comprensibile e non scandalizzarli troppo. E inoltre non avrebbe mai lasciato intendere, neppure con un tacito assenso, di conoscere cose di cui non aveva la più pallida idea. Avendo deciso di seguire questa linea di condotta, quando ebbe sentito che i due fratelli, parlando dell’università, usavano diverse volte il termine «trigo», chiese loro:

«Che cosa vuol dire trigo?».

«Trigonometria», disse Norman, «una forma superiore di mate».

«E mate che cosa vuol dire?», fu la nuova domanda che, per qualche motivo, fece ridere Norman.

«Matematica, aritmetica», fu la risposta.

Martin Eden annuì. Per un attimo gli erano balenate davanti agli occhi le sconfinate distese della cultura, e quella visione assunse concretezza. La sua eccezionale potenza visiva dava forma concreta all’astratto. Nell’alchimia del suo cervello la trigonometria, la matematica e tutto l’intero campo del sapere adombrato nei discorsi dei fratelli si tramutava in distese di paesaggio. I panorami che vedeva erano panorami di verde fogliame e di radure di foreste, tutti soavemente luminosi, o macchiati da sprazzi di luce. In lontananza, i particolari erano velati o smussati da una bruma violacea, ma, al di là della bruma violacea c’era, e lui lo sapeva, lo splendore dell’ignoto, il richiamo del romanzesco, inebriante come un vino. Ecco l’avventura, ecco qualcosa da fare con la testa e con la mano, un mondo da conquistare; e subito, dal fondo della sua coscienza, balzò il pensiero: Vincere, conquistarla, conquistare quello spirito del bianco del giglio che gli stava accanto.

La scintillante visione fu squarciata e dissolta da Arthur, che per tutta la sera aveva cercato di far emergere la turbolenza del suo uomo. Martin Eden si ricordò della propria decisione e per la prima volta fu se stesso, dapprima consciamente e deliberatamente, ma presto con pieno abbandono alla gioia della creazione e allo sforzo di far apparire agli occhi degli ascoltatori la vita quale egli la conosceva. Era membro dell’equipaggio della goletta contrabbandiera Halcyon quando questa fu sequestrata da un cutter della guardia di finanza. Rivedeva tutto a occhi aperti e riusciva a raccontarlo, portando davanti al loro sguardo il palpito del mare, e gli uomini e le navi che sul mare si muovevano. Esercitò le sue doti di veggente, finché videro con i suoi occhi ciò che egli aveva visto. Sceglieva dalla grande massa di particolari con il tocco dell’artista, tracciando immagini di vita che si accendevano di luci e di colori e conferendo loro un tale movimento che gli ascoltatori venivano lanciati verso l’alto sull’onda di quella rozza eloquenza, di quell’entusiasmo, di quella forza. A volte li scandalizzava con la vivezza della narrazione e la crudezza del linguaggio, ma la violenza era sempre accompagnata dalla bellezza, e la tragedia attenuata dal senso dell’umorismo, dalle interpretazioni che dava delle strane distorsioni e delle bizzarrie della mente dei marinai.

E mentre parlava, la ragazza lo guardava con occhi sbigottiti, scaldata da quella fiammata. Si chiedeva se fino ad allora la sua esistenza non fosse stata avvolta da un grande freddo e voleva avvicinarsi a quell’uomo di fuoco, ardente come un vulcano che emette forza, vigore e salute. Si sentiva spinta verso di lui e resisteva a quell’impulso. Avvertiva anche un istinto opposto, che l’induceva ad allontanarsene. Provava avversione per quelle mani escoriate, annerite dalla fatica al punto tale che le lordure della vita erano penetrate nella carne stessa, per quella rossa irritazione del colletto e per quei muscoli gonfi. La sua rozzezza la spaventava; ogni espressione rude era un insulto per le orecchie, ogni episodio di violenza un insulto per l’anima. E sempre tornava quell’attrazione verso di lui, finché cominciò a pensare che doveva essere una creatura malvagia per esercitare tanto potere su di lei. Tutto ciò che nella sua mente era saldo cominciava a vacillare. Le sue avventure romanzesche facevano crollare le convenzioni. Davanti a quella tranquillità nello sfidare i pericoli, davanti a quella schietta risata, la vita non era più una questione da affrontare con serietà e rigore, ma un balocco da maneggiare e rovesciare, da vivere e godere con noncuranza e da gettare da una parte con altrettanta noncuranza. «Gioca allora!», era il grido che sentiva risuonare in sé. «Accostati a lui, se ne hai voglia, e posagli le mani sul collo!». Avrebbe voluto urlare per l’audacia di quel pensiero, e invano esaltò la propria pulizia e la propria cultura, pensando a tutto ciò che vedeva in se stessa e non in lui. Si guardò intorno e notò che gli altri lo fissavano rapiti; sarebbe caduta nella disperazione se non avesse visto l’orrore negli occhi della madre – orrore affascinato, ma pur sempre orrore. Quest’uomo che veniva dall’oscurità circostante era il male. La mamma l’aveva capito, aveva ragione. Si sarebbe affidata al suo giudizio, come aveva sempre fatto per tutto. Il fuoco che emanava da lui non dava più calore, la paura che incuteva non era più così intensa.

Più tardi, al pianoforte, lei suonò per lui e contro di lui, in modo aggressivo, con la vaga intenzione di far rimarcare l’incolmabile baratro da cui erano separati. La musica era come una clava picchiata brutalmente contro la testa di lui che, pur stordito e a terra, si rialzava pronto alla lotta. Egli la guardava con timore; nella sua mente, come in quella di lei, la divisione fra loro si allargava sempre più, ma ancor più forte egli sentiva in sé l’ambizione di raggiungerla. E tuttavia il viluppo delle sue sensazioni era troppo complesso perché si accontentasse di passare la sera a contemplare quell’abisso che li teneva lontani, soprattutto se c’era musica. Era molto sensibile a quei suoni, che gli accendevano i sensi come un forte liquore, – come una droga che dominando la sua immaginazione la sollevava fino alle nuvole e ne seguiva il volo nel cielo. Faceva svanire le brutture della realtà, lo immergeva in un’aura di bellezza, liberava le sue fantasie romantiche e dava loro ali. Non capiva la musica che ella suonava, diversa da quella del pianoforte martellato nelle sale da ballo e dal fracasso degli strumenti a fiato delle bande. Di questa musica aveva trovato cenni nei libri, e accettava sulla fiducia ciò che la ragazza suonava, dapprima in paziente attesa delle cadenze di ritmi semplici e pronunciati, e in preda alla perplessità perché questi non duravano a lungo. Dopo che era riuscito a percepirli e si era preparato a seguirne il movimento con il volo dell’immaginazione, eccoli sparire in una caotica confusione di suoni privi di significato che riportava a terra la fantasia come un corpo inerte.

A un certo punto gli venne in mente che in tutto ciò vi fosse un esplicito rifiuto. Avvertito del suo atteggiamento antagonistico si sforzò di decifrare il messaggio che le mani di lei gli lanciavano attraverso la tastiera. Tuttavia liquidò quel pensiero come indegno e impossibile e si abbandonò alla musica con un trasporto ancora maggiore, ritrovando il precedente stato di felicità. I piedi non erano più di argilla, la carne si era trasformata in spirito; davanti agli occhi gli balenò una gloriosa visione: poi la scena sparì e Martin fu trasportato lontano, e si sentì fluttuare su quel mondo che gli era molto caro. Il noto e l’ignoto si mescolavano nella fantasmagoria che gli splendeva davanti. Entrava in strani porti di paesi inondati dal sole e percorreva piazze di mercati in mezzo a popolazioni barbariche che nessuno aveva visto mai. Aveva nelle narici il profumo delle isole delle spezie come lo aveva percepito nelle calde e soffocanti notti sul mare, o mentre faceva rotta contra gli alisei nelle lunghe giornate tropicali fra isolette coralline sormontate da ciuffi di palme che sparivano, e altre che spuntavano nel turchese del mare. Rapide come il pensiero andavano e venivano quelle visioni: ora volava a cavallo di un «bronco» sul variopinto paesaggio del Painted Desert; ora guardava dall’alto nel tremolante filtro della calura il bianco sepolcro della Valle della Morte, o immergeva con forza il remo nel gelido oceano in cui grandi isole di ghiaccio torreggiavano lucenti nel brillio del sole. Era sdraiato su una spiaggia di corallo dove gli alberi di cocco arrivavano fino a dove il mare si infrangeva nel dolce suono della risacca. La mole di una vecchia nave naufragata era illuminata dalle fiamme azzurre di falò, alla cui luce danzatori di hula ballavano seguendo primitivi richiami d’amore, intonati dai cantori sullo strimpellare dell’ukulele e sul rullo del tam-tam. Era una sensuale notte tropicale, con un pallido spicchio di luna sospeso nel cielo e la Croce del Sud che bruciava bassa all’orizzonte.

Martin era come un’arpa, le cui corde erano formate dalla vita che aveva vissuto e dalla coscienza che ne era nata; e il flusso della musica era come un vento che soffiando contro di loro le faceva vibrare di ricordi e di sogni. Non provava solo sensazioni: queste si rivestivano di forme, di colori e di luminosità che conferivano una magica e sublimata concretezza alle audaci creazioni della sua immaginazione. Passato, presente e futuro si fondevano mentre attraversava oscillando il vasto e caldo mondo per giungere, fra grandi avventure e nobili imprese, fino a Lei – sì, per rimanere con lei, conquistarla, circondarla con le proprie braccia e portarla in volo nell’empireo della mente.

Volgendo il capo per guardarlo al di sopra della spalla lei gli lesse sul viso qualcosa di tutto ciò. Era un volto trasfigurato con grandi occhi luminosi che tentavano di superare il velo dei suoni, cercando di cogliere oltre quella cortina i palpiti e le pulsazioni della vita e i giganteschi fantasmi dello spirito. Ne fu sbigottita. Il tanghero rozzo e impacciato era scomparso. Restavano gli abiti mal tagliati, le mani escoriate e il viso bruciato dal sole; ma questi parevano le sbarre dell’inferriata alla finestra di una prigione attraverso la quale ella vedeva spuntare un animo grande, muto e inespresso perché quelle deboli labbra non erano in grado di farlo parlare. Tutto ciò durò pochissimo; in seguito vide tornare lo zotico e rise di quello scherzo della fantasia. Ma l’impressione di quell’attimo fuggevole rimase e quando venne l’ora in cui egli dovette andarsene con la sua goffa andatura gli prestò lo Swinburne e un altro volume di Browning, che usava in uno dei suoi corsi di inglese. Le parve così infantile, mentre in piedi davanti a lei arrossiva e balbettava la sua gratitudine, che sentì sorgere in sé uno slancio di compassione materna. Non vide più il tanghero, né l’animo nobile dietro le sbarre della prigione e neppure l’uomo che l’aveva fissata in tutta la sua mascolinità facendola fremere di gioia e di paura. Davanti a sé scorse solo un ragazzo, il quale le stringeva la mano con una palma così callosa che le sembrò di toccare una grattugia per noce moscata, e le diceva parlando a scatti:

«La più bella sera della mia vita. Vede, non sono abituato alle cose…». Si guardò intorno smarrito. «Alla gente e alle case come questa. È tutto nuovo per me, e mi piace».

«Spero che lei torni», rispose, mentre egli salutava i suoi fratelli.

Si ficcò in testa il berretto, varcò goffamente la soglia e sparì.

«Bene, che ne pensi di lui?», chiese Arthur.

«Interessantissimo, una boccata di ossigeno», rispose la sorella. «Quanti anni ha?».

«Venti – quasi ventuno. Gliel’ho chiesto nel pomeriggio. Non pensavo che fosse così giovane».

E io ho tre anni più di lui, pensò lei dando ai fratelli il bacio della buona notte.

III

Scendendo la scalinata Martin Eden infilò la mano nella tasca del giaccone, tirandone fuori un rettangolino di carta di riso marrone e un pizzico di tabacco messicano, che arrotolò con destrezza fino a farne una sigaretta. Aspirò profondamente nei polmoni la prima boccata di fumo, che fece poi uscire in un lungo soffio. «Dio!», disse forte con voce piena di rispetto e meraviglia. «Dio!», ripeté. E mormorò per la terza volta «Dio!». Portò quindi la mano al colletto che strappò dalla camicia e cacciò in tasca. Benché cadesse una pioggia fredda e sottile, si scoprì il capo e si sbottonò il panciotto, continuando con passo dondolante e un’aria di grande indifferenza. Si accorgeva appena dell’acqua che veniva dal cielo. Era in estasi, inseguendo visioni di sogno e ricostruendo ciò che aveva appena vissuto.

Aveva finalmente trovato la donna – la donna cui raramente aveva pensato perché era poco portato a tali pensieri, ma che aveva sperato vagamente di potere un giorno incontrare. Si era seduto a tavola accanto a lei, ne aveva toccato la mano con la propria, l’aveva guardata negli occhi e aveva avuto la visione di un’anima bella, anche se di una bellezza non più grande degli occhi attraverso i quali si rivelava e del corpo che le dava forma ed espressione. Non pensava al suo corpo come a cosa materiale, il che era per lui una novità perché solo così aveva guardato tutte le donne che aveva conosciuto. La carne di lei era in qualche modo diversa. Non concepiva il suo corpo come corpo, soggetto alle malattie e alle debolezze della carne. Esso era qualcosa di più dell’involucro di quell’anima: era un’emanazione, una felice e pura cristallizzazione della sua essenza divina. Questo senso del sacro lo fece trasalire, riportandolo dai sogni a pensieri concreti. Mai prima di allora era stato colpito da parole, segni o percezioni del divino, cui non credeva. Non si era mai curato della religione: dei nocchieri del cielo e dei loro discorsi sull’immortalità dell’anima si era sempre fatto beffe, sia pure in tono bonario. Sosteneva che nell’al di là non vi fosse vita alcuna; solo il presente esisteva, e oltre esso il buio eterno. Ma ciò che aveva scorto negli occhi di lei era l’anima – l’anima immortale che non poteva morire. Nessun uomo che avesse conosciuto, nessuna donna, gli aveva dato questo senso di immortalità. Lei sì. Glielo aveva sussurrato il primo momento in cui lo aveva guardato. Il suo viso gli splendeva davanti agli occhi mentre camminava, – pallido e serio, dolce e sensibile, aperto a un sorriso di pietà e tenerezza che solo uno spirito poteva avere, di una purezza quale non aveva mai immaginato potesse esistere, che lo investì con la forza di un colpo facendolo sobbalzare. Aveva conosciuto il bene e il male, ma non gli era mai venuto in mente che la purezza potesse essere un attributo della realtà. Ora invece, in lei, concepì la purezza come il massimo della bontà e della limpidezza, la somma delle quali costituiva la vita eterna.

Sentì sorgere in sé l’ambizione di afferrare questa vita eterna. Non era degno di portarle l’acqua, – lo sapeva; era stato un miracolo della sorte e uno straordinario colpo del destino che gli aveva permesso di vederla, essere con lei e parlarle quella sera. Era stato un caso, non ne aveva avuto alcun merito. Non era all’altezza di tanta fortuna. Il suo stato d’animo era essenzialmente religioso. Era umile e mite, pieno di mortificazione e di disprezzo verso se stesso. Aveva la stessa disposizione di spirito dei peccatori nel banco dei penitenti. Era stato riconosciuto colpevole di peccato. Ma allo stesso modo in cui sul banco dei penitenti gli umili e i miti riescono ad avere la rapida ma splendida visione della loro futura esistenza nella grazia, così egli scorgeva fuggevolmente lo stato di beatitudine cui sarebbe approdato se fosse riuscito ad averla. Ma questo possesso di lei era vago e nebuloso, completamente diverso da come aveva concepito il possesso in passato. L’ambizione si librava in un folle volo ed egli si vedeva mentre saliva con lei a grandi altezze, condividendone i pensieri e godendo con lei delle cose belle e nobili. Era un possesso dell’anima quello che vagheggiava, purificato di ogni grossolanità, un libero connubio dello spirito che non sapeva formulare in modo preciso nella mente, che non riusciva a pensare. A dir la verità non pensava a nulla: i sensi sopraffacevano la ragione, ed egli vibrava e palpitava fra emozioni fino ad allora ignote, galleggiando felice in un mare di sensazioni in cui il sentimento stesso era esaltato, spiritualizzato e trasportato al di sopra delle vette della vita.

Barcollava come un ubriaco, mormorando con fervore mentre avanzava: «Dio! Dio!».

Un poliziotto all’angolo della strada lo fissò con aria sospettosa; poi notò il suo dondolio di marinaio.

«Perché cammini così?», gli chiese.

Martin Eden tornò sulla terra. Aveva un organismo vigile, rapidamente adattabile, capace di trasformarsi e di riversarsi in ogni sorta di angoli e fessure. Alla voce dell’altro rientrò immediatamente in se stesso e capì con chiarezza la situazione.

«Bello, eh?», rispose con una risata. «Non mi ero accorto che parlavo forte».

«Ancora un po’ e canterai», fu la diagnosi dell’agente.

«No. Mi dia un fiammifero che prendo il prossimo tram».

Accese la sigaretta, diede la buona notte e proseguì. «Ci sei rimasto di sasso, eh?», borbottò fra sé. «Quello sbirro ha pensato che avevo bevuto». Sorrise e rifletté. «Forse ero partito davvero», aggiunse. «Non credevo che era possibile per la faccia di una donna».

In Telegraph Avenue prese un tram per Berkeley affollato di ragazzi e giovanotti che cantavano e di tanto in tanto urlavano slogan studenteschi. Li osservò incuriosito. Erano universitari che andavano alla stessa università di lei, erano della sua stessa classe sociale, forse la conoscevano e potevano vederla ogni giorno se avessero voluto. Si meravigliò che non avessero desiderato farlo quella sera, preferendo andare a divertirsi al rimanere tutto il tempo con lei, parlarle e disporsi intorno a lei a contemplarla e adorarla. Fu distolto da altri pensieri. Notò un giovinastro che aveva occhi socchiusi e labbra pendule. Decise che doveva essere un tipo malevolo. A bordo di una nave sarebbe stato vile, lagnoso e pettegolo. Lui, Martin Eden, era migliore di quello, e il pensiero lo rallegrò perché gli parve che lo avvicinasse a Lei. Cominciò a fare un paragone fra sé e gli studenti. Era conscio della splendida muscolatura del proprio corpo ed ebbe la certezza di essere molto superiore a loro fisicamente. Ma la testa di quei giovani era colma di nozioni che consentivano loro di parlare lo stesso linguaggio di lei, – e questo pensiero lo rattristò. Ma a che cosa serviva il cervello? si chiese appassionatamente. Anche lui avrebbe potuto fare quello che avevano fatto loro. Avevano studiato la vita sui libri, loro, mentre lui l’aveva vissuta, la vita. Il suo cervello era pieno di nozioni come il loro, anche se erano nozioni di altro tipo. Quanti di quelli erano capaci di annodare lo spezzone di una cima, prendere la ruota del timone o stare di vedetta? Rivide davanti agli occhi la propria vita in una serie di immagini di pericoli, audacie, sforzi e fatiche. Ricordò gli errori e le sconfitte mentre imparava. Tutto ciò gli aveva fatto bene. Più tardi avrebbero dovuto anch’essi entrare nella vita e tirare la carretta come lui. Bene. Quando loro fossero stati impegnati in questo egli avrebbe potuto imparare dai libri l’altro aspetto della vita.

Quando la vettura attraversò la zona di sparse abitazioni che separava Oakland da Berkeley guardò fuori cercando con gli occhi un familiare fabbricato a due piani lungo la cui facciata correva l’insegna MAGAZZINI HIGGINBOTHAM. Martin Eden scese all’angolo. Per un istante fissò la scritta, il cui significato andava per lui al di là delle parole che la componevano. Le lettere stesse comunicavano il senso di una personalità meschina ed egoista, gretta e mediocre. Bernard Higginbotham aveva sposato sua sorella, lo conosceva bene. Aprì con la chiave e salì al secondo piano, dove viveva il cognato, proprio sopra il negozio. Nell’aria ristagnava un odore di verdura bollita. Attraversando a tentoni la sala incespicò su un giocattolo lasciato sul pavimento da uno dei suoi numerosi nipoti, che andò a sbattere contro una porta con un forte rumore. «Spilorcio», pensò; «troppo avaro per spendere due cent di luce ed evitare che i pensionanti si rompano l’osso del collo».

A tastoni cercò la maniglia della porta ed entrò in una stanza illuminata, dove si trovavano seduti Bernard Higginbotham e sua sorella. Lei stava rammendando un paio di pantaloni, mentre il magro corpo di lui era ripartito su due sedie, con i calcagni appoggiati sul bordo della seconda sedia e le malandate pantofole che dondolavano infilate sui piedi. Alzò lo sguardo dal giornale che leggeva mettendo in luce un paio di occhi scuri, falsi e penetranti. Ogni volta che lo vedeva Martin Eden provava un senso di repulsione. Non riusciva a capire che cosa la sorella avesse trovato in lui. Lo considerava alla stregua di un verme schifoso, e sentiva forte l’impulso di schiacciarlo col piede. «Un giorno o l’altro gli spacco la faccia», si diceva spesso, e quel pensiero lo aiutava a sopportarlo. Gli occhi, crudeli come quelli di una donnola, lo seguivano con aria di rimprovero.

«E adesso che c’è ancora?», chiese Martin.

«Ho fatto verniciare quella porta la settimana scorsa», rispose Higginbotham con un tono fra il lamentoso e l’aggressivo; «e sai quanto siano alte le paghe sindacali. Dovresti fare più attenzione».

Martin avrebbe voluto ribattere, ma capì che era inutile. Distolse gli occhi da quell’essere spregevole e li fissò su una stampa a colori sul muro, che lo sorprese. Gli era sempre piaciuta, ma ora gli sembrava di scorgerla per la prima volta. Era dozzinale, proprio così, come tutto il resto della casa, e con la mente tornò alla dimora da cui era appena uscito. E rivide i quadri, e poi Lei, che lo guardava con struggente dolcezza mentre gli stringeva la mano al momento del saluto. Dimenticò dove si trovava e l’esistenza di Bernard Higginbotham, finché questi gli domandò:

«Hai visto un fantasma?».

Martin tornò in sé, osservò quegli occhi piccini, beffardi, truculenti, vili, ed ebbe rapida la visione, come su uno schermo, di come fossero quando era invece impegnato con i clienti nel negozio di sotto: servili, melliflui, untuosi e adulatori.

«Sì», rispose Martin. «Ho visto un fantasma. Buona notte. Buona notte, Gertrude».

Si mosse per lasciare la stanza, incespicando su un filo rotto del tappeto lacerato.

«Non sbattere la porta», lo ammonì Higginbotham.

Sentì il sangue ribollirgli nelle vene, ma si controllò e chiuse la porta piano dietro di sé.

Higginbotham guardò la moglie con aria esultante.

«Ha bevuto», dichiarò con voce bassa e rauca. «Come ti avevo detto».

La moglie annuì rassegnata. «Aveva gli occhi lucidi», ammise, «e non aveva il colletto mentre l’indossava quando è uscito. Ma forse non ha preso più di un paio di bicchieri».

«Non riusciva a stare in piedi», disse il marito in tono che non ammetteva discussioni. «L’ho guardato. Non era capace di attraversare la stanza senza traballare. L’hai sentito anche tu che quasi cadeva in anticamera».

«Penso che abbia picchiato contro il carrettino di Alice», disse lei. «Al buio non l’ha visto».

Higginbotham in preda alla rabbia cominciò ad alzare la voce. Per tutto il giorno si controllava in negozio, riservando alla sera, quand’era con la famiglia, il privilegio di tornare ad essere se stesso.

«Ti dico che il tuo caro fratello era ubriaco».

Aveva una voce fredda, tagliente e perentoria e scandiva le parole con un suono metallico come quello di una macchina. La moglie sospirò e tacque. Era una donna grande e tarchiata, vestita sempre in modo trasandato ed eternamente stanca per il peso della pinguedine, del lavoro e del marito.

«Ha preso dal padre, te lo dico io», continuò Higginbotham in tono accusatorio. «E tirerà le cuoia nel fango nello stesso modo. E tu lo sai».

La moglie annuì, sospirò e continuò a cucire. Erano d’accordo che Martin fosse tornato a casa ubriaco. Se avessero avuto nell’animo loro una minima possibilità di sapere che cosa fosse la bellezza avrebbero compreso che quegli occhi lucidi e quel viso acceso erano il segno che nel giovane era nato l’amore.

«Proprio un bell’esempio per i bambini», sbottò Higginbotham all’improvviso rompendo il silenzio della moglie, che lo irritava. Desiderava quasi che lei lo contraddicesse di più. «Deve andarsene se lo fa un’altra volta. Capito? Non posso tollerare i suoi eccessi – pervertire bambini innocenti con le sue sbronze». Higginbotham amava quella parola, che era una novità nel suo repertorio, avendola recentemente scoperta in un articolo di giornale. «Questo è quello che fa – pervertire – non c’è altra parola».

La moglie continuò a sospirare e a scuotere la testa con aria addolorata senza cessare di rammendare. Higginbotham riprese il giornale.

«Ha pagato la pigione della settimana scorsa?», tuonò al di sopra del foglio.

Lei annuì e aggiunse: «Ha ancora un po’ di soldi».

«Quando si imbarca di nuovo?».

«Quando ha finito la paga, immagino», rispose la donna. «Ieri è andato a San Francisco a cercare una nave. Ma ha ancora denaro e non vuole imbarcarsi sulla prima nave che gli capita».

«Un lavaponti come lui non può darsi delle arie», sbottò Higginbotham. Cosa vuoi che scelga quello!».

«Ha detto qualcosa di una goletta che si prepara a salpare per un posto molto lontano alla ricerca di un tesoro sepolto, e lui ci va se finisce i soldi».

«Se solo volesse sistemarsi, gli darei da portare il carro», disse il marito, ma senza un briciolo di benevolenza nella voce. «Tom se n’è andato».

La moglie lo guardò con aria interrogativa e preoccupata.

«Se n’è andato stasera. Va a lavorare per Carruthers. Gli danno più di quello che potevo pagarlo io».

«Te l’ho detto che l’avresti perso», esclamò lei. «Valeva di più di quello che guadagnava con te».

«Senti un po’, bionda», rispose Higginbotham in tono minaccioso, «te l’ho detto mille volte di non metter naso negli affari miei. Non fartelo più ripetere».

«Che m’importa», disse la donna tirando su col naso. «Tom era un bravo ragazzo».

Il marito la fulminò con lo sguardo. Quella era un’esplicita sfida.

«Se questo tuo fratello avesse un briciolo di sale in zucca accetterebbe di portare il carro», ringhiò l’uomo.

«Paga regolarmente la pensione», fu la risposta. «È mio fratello, e finché non ti deve dei soldi non hai il diritto di continuare a rompergli l’anima. Pure se siamo sposati da sette anni ho anch’io la mia sensibilità».

«Gli hai detto che gli farai pagare il costo del gas se continua a leggere a letto?», domandò lui.

La signora Higginbotham non rispose. Sentì che lo spirito di ribellione si spegneva nella stanchezza. Il marito aveva trionfato e ora l’aveva in pugno. Gli occhi gli brillavano di una luce vendicativa e le orecchie ascoltavano con gioia i sospiri di lei. Provava una grande felicità nell’umiliarla, ed ella si umiliava spesso ormai, anche se non era stato così nei primi tempi della loro vita coniugale, prima che una nidiata di bambini e le continue punzecchiature di lui l’avessero svuotata di ogni energia.

«Glielo dirai domani, chiaro?», disse. «Ah, e devo dirti, prima di dimenticarmi, di chiamare Marian domani per badare ai bambini. Con Tom che se n’è andato io dovrò star fuori col carro, e tu devi fare in modo di scendere per servire al banco».

«Ma domani è giorno di bucato», obiettò lei debolmente.

«Alzati prima a farlo. Io non parto prima delle dieci».

E spiegando il giornale con gesto brusco riprese a leggere.

IV

Ancora in subbuglio per l’incontro con il cognato, Martin Eden si fece strada a tentoni nel buio corridoio fino alla sua stanza, un minuscolo vano con spazio sufficiente appena per un letto, una sedia e un catino su un trespolo. Higginbotham era troppo parsimonioso per tenere una domestica quando il lavoro di casa poteva essere fatto dalla moglie. Inoltre il fatto che la cameretta per la persona di servizio fosse libera gli consentiva di avere due pensionanti invece di uno. Martin posò sulla sedia il Swinburne e il Browning, si tolse il giaccone e si sedette sul letto. Il peso del suo corpo fu accolto da un cigolio di molle arrugginite cui non prestò attenzione. Cominciò a sfilarsi le scarpe, ma gli occhi gli caddero sul muro intonacato davanti a lui, il cui biancore era interrotto da lunghe strisce scure provocate da infiltrazioni di pioggia attraverso il tetto. Su questo sudicio sfondo scorrevano esaltanti visioni. Dimenticò le scarpe e rimase a lungo con lo sguardo fisso, finché le labbra cominciarono a muoversi e a mormorare: «Ruth».

«Ruth». Non aveva mai pensato che in un semplice suono potesse essere tanta bellezza. Lo ascoltava inebriato mentre lo ripeteva. «Ruth». Era un talismano, una parola magica con cui evocare un incantesimo. Ogni volta che la sussurrava, gli appariva il viso di lei diffondendo sulla sudicia parete un riflesso dorato. Questa luminosità non si arrestava al muro: si estendeva all’infinito e penetrando nelle profondità di quella luce l’anima sua cercava quella di lei. Quanto di meglio era in lui usciva in un flusso meraviglioso. Il solo pensiero di lei lo purificava, lo rendeva migliore, lo induceva a voler essere migliore. Era per lui una sensazione nuova. Non aveva mai conosciuto donne che avessero avuto simili effetti su di lui. Avevano anzi provocato in Martin conseguenze opposte, risvegliandone gli istinti animaleschi. Non sapeva che molte avevano fatto del loro meglio, per quanto modesti fossero stati i risultati. Non avendo mai avuto coscienza di se stesso non sapeva di avere qualcosa che suscitava amore nelle donne spingendole verso la sua fresca giovinezza. Benché spesso fossero state attratte da lui, egli non si era mai curato di loro: e non avrebbe mai immaginato che alcune erano diventate migliori grazie a lui. Vissuto fino ad allora in una beata noncuranza, gli sembrava adesso che avessero sempre cercato di afferrarlo e stringerlo con mani spregevoli. Ciò non era giusto, né per loro né per lui. E Martin, che per la prima volta acquistava consapevolezza di sé, non era in grado di giudicare e si sentiva bruciare di vergogna nel rivedere episodi della propria infamia.

Si alzò di scatto cercando di guardarsi nel sozzo specchio che si trovava sopra il catino. Dopo aver passato un asciugamano sulla superficie rimase a contemplarla a lungo e con attenzione. Era la prima volta che osservava veramente se stesso. I suoi occhi erano fatti per vedere, ma fino a quel momento erano stati occupati dal sempre mutevole panorama del mondo, che aveva fissato con tanta attenzione da dimenticarsi di guardare la propria figura. Vide il viso e la testa di un giovane di vent’anni, ma, non abituato a questo genere di valutazioni, non sapeva come giudicarlo. Sopra una fronte quadrata vide una massa di capelli castano scuro mossi da ondulazioni e cenni di ricci che facevano la felicità delle donne, le quali morivano dalla voglia di accarezzarli e di infilarvi le dita. Ma egli li trascurò, convinto che non avessero alcun pregio agli occhi di lei, soffermandosi invece a lungo e pensosamente sulla fronte alta e quadrata – tentando di penetrarvi dentro per scoprire che cosa contenesse. Com’era il cervello che si trovava al suo interno? Se lo chiedeva con insistenza. Di che cosa era capace? A che altezza lo avrebbe elevato? Lo avrebbe portato fino a lei?

Si chiese se ci fosse un’anima in quegli occhi grigio-acciaio, che spesso parevano azzurri e riflettevano il vigore dell’aria salmastra spirante dal mare illuminato dal sole. Si domandò anche che impressione avessero fatto a lei. Cercò poi di immedesimarsi nella ragazza per capire che cosa provasse mentre lo fissava negli occhi, ma il gioco non gli riuscì. Era in grado di mettersi agevolmente nei panni di altri uomini, ma dovevano essere persone di cui conosceva il modo di vivere. Come ella vivesse gli era invece ignoto. Come poteva indovinare anche uno solo dei suoi pensieri essendo per lui una creatura magica e misteriosa? Egli aveva occhi onesti, concluse tornando a sé, privi di viltà e di grettezza. Fu anche sorpreso dall’abbronzatura del proprio volto, che non aveva mai pensato potesse essere così scuro. Si arrotolò la manica della camicia e confrontò la parte interna del braccio con il colore del viso. Sì, era un uomo bianco, dopo tutto, ma anche le braccia erano cotte dal sole. Torse il braccio, sollevò il bicipite con l’altra mano e si guardò sotto, dove la pelle era meno toccata dal sole. Era candida. Scorgendo nello specchio la faccia abbronzata rise al pensiero che un tempo era stata bianca come la parte sottostante del braccio; e non gli venne in mente che al mondo ci fossero poche pallide donne che potessero vantare una pelle più chiara o più liscia della sua – più chiara delle parti del proprio corpo sfuggite alle vampe del sole.

La sua bocca poteva sembrare quella di un cherubino se non fosse stato per la smorfia che le labbra piene e sensuali assumevano sotto sforzo, tendendosi rigidamente sui denti. A volte si contraevano tanto che la bocca diventava dura e severa, quasi ascetica. Erano le labbra di un combattente e di un innamorato. Potevano gustare con piacere la dolcezza della vita e metterla da parte nella lotta per prevalere. Il mento e le mascelle, forti e con una linea leggermente squadrata, accentuavano il disegno imperioso della bocca. La forza influiva positivamente sulla sensualità, inducendolo ad amare la bellezza sana e facendolo vibrare di fronte a sensazioni altrettanto sane. Le labbra si aprivano su denti che non avevano mai avuto bisogno delle cure del dentista. Osservandoli concluse che erano bianchi, forti e regolari. E tuttavia, guardandoli, cominciò ad avere qualche perplessità. Nei suoi vaghi ricordi, in qualche remoto angolo della mente, permaneva il sospetto che qualcuno si lavasse i denti tutti i giorni, – persone della stessa classe sociale di lei. Anch’ella doveva lavarsi i denti tutti i giorni: che cosa avrebbe pensato se avesse saputo che lui non lo aveva mai fatto in vita sua? Decise di procurarsi uno spazzolino e di contrarre questa abitudine. Avrebbe cominciato subito l’indomani. Doveva cambiare i propri comportamenti in tutto, persino nella pulizia dei denti e nell’uso del colletto, anche se la rigidità di questo lo colpiva come una rinuncia alla libertà.

Alzò la mano, strofinando il polpastrello del pollice sul palmo calloso e fissando lo sporco penetrato nella carne stessa che nessuna spazzola sarebbe riuscita a rimuovere. Quant’era diverso il palmo di lei! Lo ricordò con un brivido di felicità. Sembrava un petalo di rosa, pensò, fresco e soffice come un fiocco di neve. Non avrebbe mai creduto che la semplice mano di una donna potesse essere di una morbidezza così deliziosa. Arrossì colpevolmente immaginando la felicità che una sua carezza avrebbe provocato in lui. Era un pensiero troppo volgare, che pareva mettere in dubbio la sua elevata spiritualità. Lei era un pallido, esile spirito che si ergeva ben oltre il mondo carnale; e tuttavia nei pensieri di Martin persisteva il ricordo della morbidezza di quella mano. Era abituato alla durezza callosa delle mani delle ragazze delle fabbriche. Sapeva bene perché fossero così ruvide, ma la mano di lei… Era morbida perché non l’aveva mai adoperata per lavorare. Il pensiero che qualcuno non fosse costretto a farlo per vivere fece crescere a dismisura l’abisso fra loro. E subito vide l’aristocrazia della società – coloro che non dovevano faticare – ergersi davanti a sé sulla parete – figura di bronzo arrogante e potente. Anche lui aveva lavorato, come tutti i membri della sua famiglia. I suoi primi ricordi erano legati al lavoro. Ricordò Gertrude: quando non erano indurite dalle interminabili faccende di casa le sue mani erano così gonfie e screpolate per il bucato che sembravano manzo lesso. E gli venne in mente l’altra sorella, Marian: l’estate prima aveva lavorato in un conservificio, dove le sue mani belle e sottili si erano ricoperte di cicatrici con i coltelli per tagliare i pomodori, senza contare le punte di due dita rimaste nella tagliatrice di uno stabilimento di scatole di cartone l’inverno precedente. Rammentò le palme indurite di sua madre distesa nella bara. E il padre, che aveva lavorato fino all’ultimo rantolo: quando se ne andò lo spessore dei calli delle sue mani doveva essere più di due centimetri. Le mani di lei erano morbide, invece, come quelle della madre e dei fratelli. Quest’ultimo particolare lo colpì: provava inequivocabilmente quanto fosse alta la loro casta e quanto grande la distanza che lo separava da lei.

Si sedette sul letto ridendo amaramente e finì di togliersi le scarpe. Era stato uno stupido a restare incantato davanti a un viso di donna e a due mani bianche e morbide. Poi, all’improvviso, sul lercio intonaco del muro apparve una visione. Si trovava davanti a un tetro casamento, di notte, nell’East End di Londra, e davanti a lui era Margey, una minuscola operaia di quindici anni che aveva accompagnato a casa dopo una festa. La ragazza abitava in quel tugurio, una tana indegna di un animale. Le stava porgendo la mano augurandole la buona notte. Lei aveva alzato il viso per farsi baciare, ma Martin non aveva intenzione di farlo: ne aveva quasi paura. E allora la mano di lei afferrò la sua stringendola febbrilmente. Sentendo quelle callosità sfregare contro le sue egli fu sommerso da un’ondata di compassione. Vide i supplichevoli e bramosi occhi di lei, e la sua malnutrita figura femminile che era passata all’improvviso da una brevissima fanciullezza a una maturità spaventosa e crudele; e allora l’avvolse generosamente con le braccia e chinandosi la baciò sulle labbra. Gli risuonò nelle orecchie un gridolino di felicità mentre sentiva che gli si aggrappava come un gatto. Povera creatura affamata! Continuò a fissare l’immagine di ciò che era accaduto tanto tempo fa. Aveva la pelle d’oca proprio come quella notte in cui la ragazza si era avvinghiata a lui, e il cuore stretto da una compassione struggente. Era una scena grigia, di un grigio greve e fumoso, con la pioggia che cadeva uggiosa su un lurido selciato. Ed ecco splendere sulla parete una visione luminosa, che uscendo a poco a poco dalle nebbie dell’altra e ad essa sovrapponendosi fece emergere il pallido viso di Lei sotto una corona di capelli d’oro, remoto e inaccessibile come una stella.

Prese dalla sedia il Browning e il Swinburne e li baciò. Eppure mi ha detto di tornarla a trovare, pensò. Si guardò di nuovo allo specchio e disse forte con grande solennità:

«Martin Eden, domani come prima cosa andrai in biblioteca a leggere un libro sul galateo. Capito?».

Mentre si allungava per spegnere il gas le molle cigolarono sotto il peso del suo corpo.

«Ma devi piantarla di sacramentare, Martin, vecchio mio; devi piantarla di sacramentare», disse forte.

Si assopì a poco a poco e quando fu addormentato ebbe in sogno visioni che per audacia e follia rivaleggiavano con quelle di chi è sotto gli effetti dell’oppio.

V

Il mattino seguente, risvegliandosi, passò dalle dolci immagini del sogno a un ambiente che emanava odore di lisciva e di panni sporchi e fremeva degli aspri stridori di un’esistenza tormentata. Uscendo dalla stanza sentì lo sciabordio dell’acqua, un urlo e il forte rumore di uno schiaffo con cui la sorella sfogava la propria irritazione contro uno dei suoi numerosi figli. Lo strillo del bimbo lo trapassò come un coltello. Era consapevole che tutto, e la stessa aria che respirava, fossero squallidi e ripugnanti. Che differenza, pensò, dall’atmosfera di bellezza e serenità della casa in cui dimorava Ruth. Lì tutto era spirituale, qui tutto era materiale e meschino.

«Vieni, Alfred», disse al bambino piangente, ficcandosi la mano nella tasca dei pantaloni, in cui teneva sparsi i propri soldi con la stessa noncuranza con cui affrontava la vita in generale. Mise un quarto di dollaro nella mano del ragazzino e lo tenne per un istante fra le braccia per calmarne i lacrimosi sussulti. «Ora va’ a prendere delle caramelle e non dimenticare di darle anche ai fratellini e alle sorelline. Fa’ in modo di prendere quelle che durano di più».

Sua sorella sollevò la faccia arrossata dalla tinozza e lo guardò.

«Bastava un nichelino», disse. «Fai sempre così, non hai idea del valore del denaro. E il bambino mangerà fino a star male».

«Non brontolare, sorella», rispose allegramente. «Sono soldi spesi bene. Se tu non fossi così occupata ti darei il buongiorno con un bacio».

Voleva essere affettuoso con questa sorella, che era una buona donna e che a suo modo, ne era certo, gli voleva bene. E tuttavia, quale ne fosse la causa, era cambiata con il passare degli anni, diventando sempre più sfuggente. Erano stati la fatica, i molti figli e le punzecchiature del marito a renderla diversa, ne era convinto. Gli venne in mente, in un volo dell’immaginazione, che la sua natura sembrava assumere sempre più le caratteristiche della verdura appassita, della puzzolente lisciva e delle unte monetine che maneggiava al banco del negozio.

«Va’ a fare colazione», disse in tono rude, ma sotto sotto compiaciuta. Fra tutti i suoi fratelli giramondo quello era sempre stato il suo preferito. «Sarò io a darti un bacio», disse con un improvviso tuffo al cuore.

Si pulì le braccia insaponate detergendole con le dita di entrambe le mani. Lui cinse con le braccia la sua larga vita e la baciò sulle labbra. A lei vennero le lacrime agli occhi, non tanto per la forza del sentimento che provava quanto per lo sfinimento causato dal continuo lavoro. Lo spinse lontano da sé, ma non poté impedire che egli notasse i suoi occhi umidi.

«La colazione è nel forno», disse lei rapidamente. «Jim dovrebbe essere in piedi ormai. Io mi sono dovuta alzare presto per il bucato. Ora prendi su ed esci di casa presto. Oggi non sarà un bel giorno, visto che Tom se n’è andato e non c’è che Bernard per portare il carro».

Martin andò in cucina con la morte nel cuore: l’immagine del viso rosso e della sgraziata figura della sorella erano per lui come un chiodo conficcato nel cervello. Concluse che lei lo avrebbe amato se avesse avuto più tempo libero e non fosse stata costretta ad ammazzarsi per la fatica. Bernard Higginbotham era un bruto a farla lavorare tanto; Martin aveva avuto tuttavia l’impressione che non vi fosse stato nulla di affettuoso in quel bacio. Era vero che per anni la sorella lo aveva salutato in questo modo solo quando partiva per qualche viaggio, o al suo ritorno. Ma questo bacio sapeva di lisciva e le labbra erano inerti. Era mancata la rapida, vigorosa pressione che dovrebbe accompagnare sempre un bacio. Quello era il bacio di una donna ormai così stanca da avere dimenticato come si bacia. La ricordava da ragazza, prima del matrimonio, quando era capace di ballare tutta la notte con i migliori ballerini dopo una dura giornata di lavoro in lavanderia, e non lasciava le danze che per tornare a un’altra dura giornata di lavoro. Poi pensò a Ruth e alla fresca dolcezza che doveva essere in quelle labbra come in tutta la sua persona. Il bacio di lei doveva essere come la sua stretta di mano o come il suo modo di guardare gli altri, fermo e schietto. Si spinse con la fantasia a pensare alle labbra della ragazza sulle proprie e lo immaginò con tanta intensità che gli vennero le vertigini e gli parve di volare in mezzo a nubi di petali di rose con un profumo così penetrante che gli arrivava fino al cervello.

In cucina trovò l’altro pensionante, Jim, che mangiava languidamente la pappa di avena con uno sguardo disgustato e lontano. Era apprendista idraulico e aveva un mento sfuggente e un temperamento edonistico che, uniti a un certo ottuso nervosismo, non promettevano nulla di buono per lui nella lotta per l’esistenza.

«Perché non mangi?», chiese a Martin che infilava neghittosamente il cucchiaio nella pappa d’avena semicruda e fredda. «Ti sei sbronzato anche ieri sera?».

Martin scosse il capo, sopraffatto dallo squallore di tutto ciò che lo circondava. Ruth Morse gli sembrava più distante che mai.

«Io sì», continuò Jim con aria fiera e una risatina nervosa. «Ero pieno fino agli occhi. Oh, lei è stata grande. Mi ha portato a casa Billy».

Martin fece un cenno di assenso con la testa – era portato per natura a prestare attenzione a chiunque gli rivolgesse la parola – e si versò una tazza di caffè tiepido.

«Vai al ballo del Lotus Club stasera?», chiese Jim. «Daranno birra a volontà e se viene quel gruppo di Temescal ci sarà un bel pasticcio. Io me ne frego e la donna ce la porto lo stesso. Cribbio, che saporaccio mi sento in bocca!».

Fece una smorfia e cercò di farlo scomparire con una sorsata di caffè.

«Conosci Julia?».

Martin scosse il capo.

«È la mia donna», spiegò Jim, «ed è una delizia.Te la presenterei, ma è che faresti colpo su di lei. Non so che cosa vedono in te le ragazze, giuro che non lo capisco; mi vien male a pensare come piantano gli altri per venire con te».

«A te non ne ho portata via nessuna», rispose Martin con scarso interesse. Doveva finire la colazione in un modo o nell’altro.

«E invece sì», disse l’altro con calore. «Maggie».

«Mai avuto a che fare con lei. Non ci ho mai neanche ballato, tranne quella sera».

«Sì, e fu proprio allora». esclamò Jim. «Ci hai ballato una volta, l’hai guardata, ed ecco fatta la frittata.

«Naturalmente non l’hai fatto apposta, ma io sono stato sistemato per bene. Se ne sbatteva di me, continuava a chiedere di te. Se tu volevi diventava la tua donna».

«Ma io non volevo».

«Non mi è servito. Mi ha piantato in asso». Jim lo guardò con ammirazione. «Ma spiegami un po’ come fai, Mart».

«Me ne frego di loro»,. fu la risposta.

«Cioè fai credere che non ti importano?», chiese Jim con vivo interesse.

Martin rifletté un momento prima di parlare. «Forse bisogna fare così, ma per me è diverso. Non mi è mai importato molto. Comunque se sei capace di bluffare va bene lo stesso, almeno credo».

«Dovevi venire al capannone di Riley ieri sera», disse Jim passando improvvisamente a parlare di tutt’altro. «Un sacco di ragazzi si sono messi i guantoni. C’era un duro di West Oakland che chiamavano «Il topo». Ti sgusciava di sotto come seta. Non riusciva a toccarlo nessuno. Speravamo tanto che ci fossi anche tu. Dove sei andato, a proposito?».

«Giù a Oakland», rispose Martin.

«A teatro?».

Martin allontanò da sé il piatto e si alzò.

«Vieni al ballo stasera?», gli chiese l’altro cercando di trattenerlo.

«Penso di no», rispose.

Scese le scale e uscì in strada, respirando a pieni polmoni. Stava quasi per soffocare in quell’atmosfera chiusa e i discorsi dell’apprendista lo avevano portato all’esasperazione. C’erano stati momenti in cui era stato sul punto di scattare e di prendere la testa di Jim per sbattergliela sul piatto di pappa d’avena. Quanto più quello blaterava, tanto più gli pareva che Ruth si allontanasse da lui. Come sarebbe mai riuscito a diventare degno di lei frequentando simili animali?

Questo problema lo atterriva, mentre si sentiva come oppresso dall’incubo delle sue origini operaie. Tutto congiurava per tenerlo in quell’umile posizione: Gertrude, la casa e la famiglia della sorella, l’apprendista Jim, tutte le persone che conosceva, tutti i legami che aveva nella vita. L’esistenza non gli appariva più sotto una luce favorevole. Fino ad allora l’aveva accettata, e l’aveva vissuta come una cosa buona, con tutto ciò che lo circondava. Non l’aveva mai messa in discussione, tranne che nelle riflessioni seguite alle proprie letture; e comunque erano solo idee trovate nei libri, favole che parlavano di un mondo perfetto e impossibile. Ma ora lo aveva scorto, questo mondo, possibile e vero, e al centro di questo universo era una donna meravigliosa di nome Ruth; da quel momento avrebbe provato amarezze, e desideri così intensi da provarne dolore, e una disperazione tanto più tormentosa perché alimentata dalla speranza.

Era indeciso se servirsi della biblioteca di Berkeley o di quella di Oakland; alla fine scelse quest’ultima perché Ruth viveva in quel quartiere. Chissà… una biblioteca era un luogo dove era facile che lei si recasse, e avrebbe potuto incontrarla. Non sapeva come funzionassero queste istituzioni e si aggirò fra gli interminabili scaffali della narrativa, finché quella che gli sembrò un’impiegata, una ragazza di lineamenti delicati che pareva francese, non gli disse che le opere di consultazione erano al piano superiore. Non si sentiva sufficientemente sicuro da potersi rivolgere all’addetto seduto alla scrivania e cominciò la propria avventura nel reparto della filosofia. Aveva sentito parlare della filosofia che si trovava nei libri, ma non avrebbe mai pensato che se ne fosse scritto tanto. Gli alti scaffali ricolmi di ponderosi tomi ebbero su di lui un effetto mortificante e allo stesso tempo stimolante. Ecco opere che potevano mettere alla prova la forza del suo cervello. Trovò libri di trigonometria nel settore della matematica, che sfogliò soffermandosi di tanto in tanto su formule e cifre per lui incomprensibili. Sapeva leggere l’inglese, ma quella era una lingua straniera. Norman e Arthur però la conoscevano, li aveva sentiti esprimersi in quell’idioma, ed erano i fratelli di lei. Lasciò il reparto in preda alla disperazione, mentre da ogni parte i libri sembravano premerglisi addosso e schiacciarlo. Non aveva mai neppure sognato che il cuore del sapere umano avesse quelle dimensioni, e ne fu sbigottito. Sarebbe mai stato capace il suo cervello di dominarla tutta? Più tardi ricordò che altri uomini, molti uomini, ce l’avevano fatta, e giurò fra sé, appassionatamente, che anche lui ci sarebbe riuscito.

Continuò a girovagare alternando attimi di depressione ad altri di esaltazione mentre fissava gli scaffali pieni di sapienza. In un reparto di opere miscellanee si imbatté in un Compendio di Norrie, di cui sfogliò le pagine con rispetto. In un certo senso esso parlava un linguaggio familiare, legato al mare come lui. Trovò quindi un Bowditch e libri di Lecky e Marshall. Ecco la soluzione: si sarebbe istruito nell’arte della navigazione, avrebbe smesso di bere, avrebbe lavorato sodo e sarebbe diventato capitano. A questo punto Ruth gli parve più vicina. Come comandante l’avrebbe potuta sposare (se lei lo avesse voluto). E se non avesse accettato, ebbene – egli avrebbe condotto un’esistenza dignitosa fra gli uomini grazie a lei, e comunque avrebbe smesso di bere. Poi si ricordò che c’erano gli assicuratori e gli armatori, e che un capitano deve essere sempre al servizio di due padroni, ciascuno dei quali capace di schiacciarlo e prontissimo a farlo, e che essi avevano interessi diametralmente opposti. Volse gli occhi tutt’intorno alla sala e chiudendoli continuò ad avere la visione di migliaia di libri. No, mai più mare per lui. C’era una grande potenza in quella moltitudine di libri, e se voleva fare grandi cose doveva farle a terra. Inoltre i capitani non potevano portare con sé in mare le proprie mogli.

Venne il mezzogiorno e poi il pomeriggio. Dimenticandosi di mangiare continuò la sua ricerca nei libri sul galateo, perché oltre che dal problema della carriera era tormentato da un dubbio semplice e concreto: Se si conosce una signora che vi invita ad andarla a trovare, quando lo si può fare? Erano questi i termini in cui formulava quell’ interrogativo. Ma dopo aver trovato lo scaffale giusto cercò invano la risposta. Fu spaventato dalla mole delle norme che regolavano le buone maniere e si perse nei meandri della condotta relativa ai biglietti di visita nella società per bene. Abbandonò l’indagine. Non aveva trovato ciò che voleva, benché avesse scoperto che ci sarebbe voluto tutto il tempo a disposizione di un uomo per imparare la buona educazione e che quindi avrebbe dovuto poter disporre di una vita preliminare in cui apprendere come essere cortese.

«Ha trovato quello che cercava?», gli chiese l’uomo dalla scrivania mentre se ne stava andando.

«Sì, signore», rispose. «Bella questa biblioteca qui».

L’altro annuì. «Saremo lieti di vederla qui spesso. Fa il marinaio?».

«Sì, signore», rispose, «e tornerò».

Com’era riuscito a capirlo? si chiese scendendo le scale. Quando fu in strada camminò rigido, diritto e goffo per il primo isolato, finché assorbito dai propri pensieri, tornò naturalmente alla sua andatura dondolante.

VI

Una terribile irrequietezza simile alla fame affliggeva Martin Eden. Bruciava per il desiderio di vedere la ragazza le cui esili mani serravano la sua esistenza in una stretta d’acciaio. Non riusciva a trovare la forza di andarla a trovare. Temeva che la sua visita potesse avvenire troppo presto, rendendolo colpevole di un’orribile infrazione di quella spaventosa faccenda nota come galateo. Trascorreva lunghissime ore nelle biblioteche di Oakland e di Berkeley dopo essersi procurato tesserini per il prestito per sé, per le sorelle Gertrude e Marian, e per Jim, e aver ottenuto il consenso di quest’ultimo solo in cambio di diversi bicchieri di birra. Con quattro moduli a propria disposizione per il ritiro dei libri consumò molto gas nella stanza della servitù in cui era alloggiato, che Higginbotham gli addebitò nella misura di cinquanta centesimi la settimana.

I molti libri che lesse non calmarono la sua irrequietezza. Ogni pagina era una nuova fessura che si apriva nel regno della conoscenza. La sua fame si placava con ciò che leggeva, ma poi tornava più forte. Inoltre non sapeva da dove cominciare e incontrava continui ostacoli dovuti alla mancanza di preparazione. Non comprendeva le citazioni più comuni, neppure quelle che, ne era perfettamente consapevole, erano alla portata di ogni lettore. Lo stesso poteva dirsi della poesia, che lo faceva quasi impazzire di gioia. Di Swinburne lesse altre cose oltre a quelle contenute nel volume prestatogli da Ruth, e non ebbe nessuna difficoltà nella lettura di Dolores. Giunse alla conclusione che evidentemente la ragazza non lo aveva capito. Eppure come era possibile, con la vita raffinata che conduceva? Si imbatté nelle poesie di Kipling, e si lasciò trascinare dal ritmo, dal movimento e dal fascino che infondevano negli oggetti più familiari. Fu sorpreso dell’amore per la vita di quest’uomo e della sua penetrante psicologia. Psicologia era un termine nuovo nel vocabolario di Martin. L’acquisto di un dizionario aveva significato una notevole diminuzione delle sue riserve di denaro e avvicinato il giorno in cui sarebbe stato costretto a imbarcarsi per procurarsene dell’altro. Aveva anche fatto infuriare Higginbotham, il quale avrebbe preferito che quei soldi finissero nelle proprie tasche sotto forma di compenso per l’alloggio.

Durante le ore del giorno non osava avvicinarsi al quartiere di Ruth, ma la notte lo coglieva appostato come un ladro presso la casa dei Morse, a lanciare di tanto in tanto sguardi appassionati verso i muri e le finestre. Più d’una volta mancò poco che non fosse sorpreso dai fratelli di lei e una volta pedinò fino in centro il signor Morse, studiandone l’espressione del viso lungo le strade illuminate, in ansiosa attesa dei segni di un improvviso pericolo di morte che gli desse la possibilità di salvarlo con un intervento tempestivo. Un’altra sera la sua veglia fu ricompensata, attraverso una finestra del secondo piano, dalla visione di Ruth, di cui scorse la testa e le spalle e le braccia che si sollevavano a fissare i capelli davanti a uno specchio. Fu solo un momento, ma fu per lui un attimo lunghissimo, durante il quale sentì il sangue divenirgli vino e scorrergli cantando nelle vene. Poi lei chiuse l’imposta. Ma Martin aveva capito quale fosse la camera di lei e dopo di allora si soffermò spesso da quelle parti, dove, nascosto sotto un albero buio al lato opposto della strada, rimaneva fermo a fumare un’infinita quantità di sigarette. Un pomeriggio vide sua madre uscire da una banca e ricevette un’altra prova dell’enorme distanza che lo separava da Ruth, la quale apparteneva alla classe che aveva rapporti con le banche. Non era mai stato in simili posti in vita sua e si era fatto l’idea che queste istituzioni fossero frequentate solo dai ricchi e dai potenti. Era come se avesse avuto una rigenerazione morale. L’innocenza e la purezza di lei avevano avuto conseguenze su di lui, che ora sentiva una grande esigenza di pulizia, necessaria se mai avesse potuto un giorno respirare la stessa aria di lei. Si lavava i denti e si fregava le mani con una spazzola da cucina, finché non vide in una vetrina uno spazzolino per le unghie di cui intuì l’uso. E poiché al momento dell’acquisto il commesso gli suggerì, osservandogli le unghie, di comprare una limetta, si procurò anche questo accessorio da toletta. In biblioteca aveva consultato un libro sull’igiene personale, ed ecco nascere in lui la mania del bagno freddo ogni mattina, con grande meraviglia di Jim e sconcerto di Higginbotham, che non aveva in grande simpatia le idee dell’ultima moda e che si domandò seriamente se dovesse far pagare a Martin un supplemento per il consumo dell’acqua. Un altro progresso fu fatto con la piega ai pantaloni. Ora che era diventato sensibile a queste cose Martin non tardò ad accorgersi della differenza fra le borse alle ginocchia dei calzoni indossati dagli operai e la riga diritta lungo tutta la gamba di quelli portati da coloro che erano dei ceti superiori. Compresone il motivo invase la cucina della sorella alla ricerca del ferro e dell’asse per stirare. All’inizio ebbe qualche inconveniente che lo portò a bruciare un paio di pantaloni e a comprarne un altro, con una spesa che avvicinò ulteriormente il giorno in cui si sarebbe dovuto imbarcare nuovamente.

Il cambiamento non riguardava il solo aspetto esteriore. Fumava ancora ma aveva rinunciato all’alcol. Fino ad allora aveva considerato il bere un’attività tipicamente virile e si era vantato della propria capacità di resistenza, che gli consentiva di rimanere lucido anche dopo che molti erano finiti sotto il tavolo. Nei suoi incontri casuali con marinai che erano stati suoi compagni, e ce n’erano molti a San Francisco, offriva loro da bere e accettava i loro inviti, ma per sé ordinava sempre succo di frutta o acqua brillante subendo senza reagire i caustici commenti degli amici. E a mano a mano che gli altri diventavano brilli li studiava con attenzione, osservandoli a poco a poco cadere vittime del demone dell’alcol e ringraziando Dio di non essere più come loro. Dovevano dimenticare i loro limiti, e quando erano ubriachi si esaltavano nel vaneggiamento e nella stupidità che li portavano a sentirsi onnipotenti. In Martin il desiderio delle bevande forti era svanito. Era stato inebriato da cose nuove e più profonde: da Ruth, che aveva acceso in lui l’amore e gli aveva permesso di scorgere l’esistenza di una vita più alta ed eterna; dai libri, che avevano suscitato in lui una febbre che gli divorava il cervello; dalla soddisfazione per la pulizia personale, che gli aveva dato un’efficienza fisica superiore a quella che aveva prima e che sentiva vibrare in tutto il corpo.

Una sera andò a teatro sperando che un caso fortunato gli consentisse di vederla, ed effettivamente riuscì a scorgerla dalla seconda galleria. La vide scendere lungo il corridoio centrale fra le poltrone insieme con Arthur e un giovane sconosciuto che portava gli occhiali e aveva una massa tondeggiante di capelli, la vista del quale suscitò subito in lui apprensione e gelosia. L’osservò prendere posto in una delle prime file di platea e per il resto della serata la sua attenzione fu soprattutto attratta da quel paio di spalle bianche e da quella folta chioma bionda che a quella distanza riusciva appena a scorgere. Vide anche altre persone, e di tanto in tanto, alzando lo sguardo su coloro che si trovavano vicino a lui, notò due ragazze che si voltavano dal loro posto nella prima fila della galleria a una dozzina di posti da lui e gli sorridevano con occhi audaci. Era sempre stato di carattere compiacente e poco portato a respingere gli approcci. In passato avrebbe restituito il sorriso e cercato il modo di stabilire ulteriori contatti, ma ora era diverso: restituì il sorriso, ma distolse subito lo sguardo e non si girò più da quella parte. Tuttavia diverse volte, dimenticandosi dell’esistenza delle due ragazze e volgendo il viso verso di loro vide che continuavano a sorridere. Non poteva cambiare da un giorno all’altro, né cancellare l’innata bonomia della propria natura; ricambiò dunque il sorriso con calda simpatia. Non era una novità per lui. Sapeva che stavano cercando di agganciarlo. Ma adesso era diverso. Lontana, giù in platea, era la sola donna che contasse al mondo, così diversa, così tremendamente diversa da quelle due ragazze della sua stessa classe sociale, che per loro egli sentiva solo compassione e dolore. In cuor suo desiderava ardentemente che potessero avere, almeno in minima parte, la bontà e lo splendore di lei. Per nessun motivo avrebbe potuto offenderle a causa di quella profferta, che non lo lusingava; giunse persino a provare imbarazzo per la propria volgarità, che l’aveva suscitata. Sapeva che se fosse appartenuto al ceto di Ruth non ci sarebbe stata nessuna avance da parte di quelle ragazze; e ad ogni loro occhiata sentiva su di sé il peso della propria classe sociale, che gravava su di lui e gli impediva di elevarsi.

Lasciò il posto prima che calasse il sipario dell’ultimo atto con l’intenzione di vederla al momento dell’uscita. C’erano sempre molti uomini in piedi sul marciapiede di fronte e poteva calarsi il berretto sugli occhi e nascondersi dietro le spalle di qualcuno per evitare che lei lo scorgesse. Fu fra i primi a emergere dal teatro, ma si era appena sistemato sul bordo quando apparvero le due ragazze. Capì che lo stavano cercando e in quel momento maledisse ciò che in lui attirava tanto le donne. Il modo in cui attraversavano il marciapiede gli fece capire che lo avevano scoperto. Accostandosi a lui rallentarono l’andatura per la presenza della folla. Una delle due lo sfiorò e fece finta di notarlo solo in quel momento. Era una ragazza snella e bruna con audaci occhi neri.

Martin restituì il sorriso che gli fu rivolto. «Ciao», disse.

Era stata una reazione automatica; quante volte si era comportato così in circostanze simili. E poi non avrebbe potuto esimersi dal farlo: aveva un’indole così generosa e tollerante che non poté farne a meno. La ragazza bruna gli lanciò un sorriso di gratitudine e di saluto e parve volersi fermare, mentre la compagna, che la teneva sotto braccio, ridacchiava e sembrava anch’ella volersi arrestare. Martin fece un rapido calcolo. Non sarebbe stato opportuno che Lei uscisse e lo vedesse mentre conversava con quelle due e istintivamente, come se fosse una cosa del tutto naturale, cominciò a camminare a fianco della ragazza con gli occhi neri. Non era imbarazzato, la lingua gli funzionava perfettamente. In una situazione di questo genere si sentiva a proprio agio e tenne testa con disinvoltura alla schermaglia di battute rapide e argute che costituivano sempre i preliminari di presentazione di queste fuggevoli relazioni. All’incrocio in cui il flusso principale della folla puntava verso la strada principale Martin cominciò a portarsi verso il bordo del marciapiede per svoltare nella via laterale. Ma pur continuando a seguirlo e a trascinarsi dietro l’amica, la ragazza con gli occhi neri lo prese per un braccio esclamando:

«Calma, Bill! Che fretta hai? Non avrai intenzione di scaricarci così presto?».

Lui si arrestò con una risata e si girò a fronteggiarle. Dietro le spalle delle ragazze scorgeva la folla passare sotto la luce dei lampioni. Il posto dove si trovava non era molto illuminato e sarebbe riuscito a vederLa, inosservato, mentre passava. E sarebbe certamente passata di lì, perché quello era il percorso che doveva seguire per tornare a casa.

«Come si chiama la tua amica?», chiese alla ragazza che ridacchiava, accennando a quella con gli occhi neri.

«Chiediglielo tu», fu la convulsa risposta.

«E allora?», domandò volgendosi esplicitamente all’interessata.

«Non mi hai detto ancora come ti chiami tu», ribatté l’altra.

«Non me l’hai chiesto», rispose Martin con un sorriso. «Pensa, ci hai azzeccato. Mi chiamo Bill, proprio così».

«Non contar balle», e lo fissò in viso osservandolo con occhi penetranti, appassionati e invitanti. «Davvero, che nome hai?».

Tornò a guardarlo, con un’espressione che era quella delle donne di tutti i tempi fin dall’inizio della battaglia fra i sessi. Dopo una distratta valutazione Martin, ormai imbaldanzito, capì che la ragazza avrebbe cominciato a ritrarsi pudica e riservata davanti ai suoi approcci, sempre pronta a passare alla controffensiva se lui avesse dimostrato minore calore. Ma aveva anch’egli istinti umani e il suo orgoglio non poteva che essere lusingato dalle attenzioni di lei. Oh, sapeva tutto di come andavano queste cose, dalla A alla Z. Era una brava ragazza, quella, secondo i criteri di valutazione della sua classe sociale, la quale lavorava sodo in cambio di un misero salario rifiutando sprezzante le facili soluzioni a sua disposizione, rabbiosamente tesa a un briciolo di felicità nel deserto dell’esistenza, in un futuro in bilico fra l’abbrutimento di una fatica senza fine e l’oscuro baratro di una condizione ancora peggiore, in cui si precipitava con maggiore rapidità sebbene il cammino fosse meglio retribuito.

«Bill», rispose con un cenno del capo. «Sicuro, Pete, Bill e niente altro».

«Sul serio?», chiese la ragazza.

«Non è vero che si chiama Bill», intervenne l’altra.

«Come lo sai?», domandò lui. «Non mi hai mai visto prima di adesso».

«Non ce n’è bisogno per capire che è una frottola», fu la replica.

«Allora, Bill, come ti chiami?», chiese ancora la prima ragazza.

«Bill può andare», confessò lui.

Lei lo prese per un braccio e lo scosse giocosamente. «Lo sapevo che dicevi balle, ma mi piaci lo stesso».

Martin afferrò quella mano invitante e sentì nella palma segni e alterazioni che gli erano familiari.

«Quando hai piantato il conservificio?» chiese.

«Come fai a saperlo?» e «Accidenti, sei un mago!» esclamarono contemporaneamente le ragazze in una specie di coro.

E mentre con loro scambiava quelle battute, stupido prodotto di cervelli stupidi, gli tornarono alla mente i giganteschi scaffali della biblioteca pieni della saggezza universale. Sorrise con amarezza all’assurdità di quella situazione e fu assalito dai dubbi. Tuttavia fra visioni interiori e chiacchiere aveva trovato il tempo di sorvegliare la folla che, uscita dal teatro, sciamava davanti a lui. E infine la vide, sotto le luci, fra il fratello e il giovane sconosciuto con gli occhiali, ed ebbe la sensazione che il cuore gli si arrestasse. A lungo aveva atteso questo momento. Ebbe il tempo di notare una cosa leggera e vaporosa che le nascondeva la testa regale, la linea aggraziata della sua figura, la grazia del portamento e della mano che raccoglieva la lunga gonna; ed eccola scomparsa, mentre lui si ritrovava a fissare le due ragazze del conservificio, i loro goffi tentativi di vestire con eleganza, quei patetici sforzi per essere pulite e in ordine, la stoffa scadente, i nastri scadenti, gli anelli scadenti alle dita. Si sentì tirare per un braccio e udì una voce che esclamava:

«Svegliati, Bill! Che cos’hai?».

«Che stavi dicendo?», chiese.

«Oh nulla», rispose la ragazza bruna con un movimento del capo. «Stavo solo notando…»

«Che cosa?».

«Beh, stavo dicendo che sarebbe bello se tu riesci a scovare un amico… per lei» (e indicò la compagna), «così potremmo andare da qualche parte a prendere un gelato, o un caffè, o qualcos’altro».

Martin avvertì un’improvvisa nausea dello spirito.

Il passaggio da Ruth a quella ragazza era stato troppo brusco. Accanto agli occhi arditi e sfacciati della donna davanti a lui vide quelli limpidi e luminosi di Lei, che lo osservava con un’espressione così infinitamente pura e profonda che gli parve di vedere il volto di una santa. E oscuramente sentì sorgere una grande forza in sé. Egli era superiore a ciò che aveva davanti. Per lui la vita aveva un significato più alto di quello che le attribuivano quelle due ragazze, le cui aspirazioni non andavano al di là del gelato e di un amico. Ricordò di avere sempre avuto una segreta vita interiore. Aveva cercato di comunicarla ad altri, ma non aveva mai trovato una donna, né un uomo, in grado di comprenderla. A volte aveva fatto il tentativo, ma era solo riuscito a sconcertare coloro che lo ascoltavano. E come i suoi pensieri erano al di là della portata di costoro, così, concluse, egli stesso doveva essere al di sopra di loro. Sentì in sé una grande vampata di forza e strinse i pugni. Se adesso la vita aveva assunto ben altro significato per lui, anche egli doveva esigere di più dalla vita, ma non poteva pretenderlo da compagnie come quella che aveva davanti. Quegli occhi audaci non avevano nulla da offrirgli. Sapeva che pensieri nascondevano – gelati e qualcos’altro. Ma quello sguardo di santa… quello sguardo offriva cose che già aveva conosciuto e altre che poteva intuire: libri e quadri, bellezza e quiete, e tutta la raffinatezza di un’esistenza superiore. Indovinava che pensieri si celassero dietro quegli occhi neri, come un organismo familiare di cui conosceva ogni movimento. Offrivano bassi piaceri, angusti come la terribile tomba che ne era l’inevitabile e spietato suggello. Gli occhi della santa, invece, offrivano mistero, meraviglie impensabili e vita eterna. In essi aveva intravisto le espressioni dell’anima di lei, e anche della propria.

«C’è solo una cosa che non va in questo programma», disse ad alta voce. «Ho già un appuntamento».

Gli occhi della ragazza fecero trapelare la sua delusione.

«Devi assistere un amico malato, immagino?», chiese beffarda.

«No, un vero appuntamento con…», esitò, «con una ragazza».

«Non mi starai pigliando per i fondelli?», chiese la ragazza con espressione severa.

La guardò fisso in volto e rispose: «È proprio così, davvero. Ma possiamo trovarci un’altra volta. Non mi hai detto ancora il tuo nome. Dove abiti?».

«Lizzie», rispose con tono più dolce stringendogli il braccio con la mano e appoggiandosi a lui con il corpo. «Lizzie Connolly. E abito sulla Quinta, all’angolo con Market Street».

Continuò a chiacchierare ancora per qualche minuto prima di augurare la buona notte. Non andò subito a casa; e giunto all’albero sotto cui trascorreva le sue veglie guardò verso la finestra mormorando: «Quell’appuntamento era con te, Ruth. Non ho voluto mancare».

VII

Una settimana di intense letture era passata dalla sera in cui aveva conosciuto Ruth Morse e Martin ancora non osava andarla a visitare. Più volte aveva raccolto tutto il suo coraggio per l’impresa, ma la determinazione gli era venuta meno di fronte ai dubbi che lo assalivano. Non sapeva quale fosse l’ora più adatta per presentarsi e siccome non aveva nessuno cui chiedere un parere temeva di commettere un errore imperdonabile. Liberatosi dei vecchi compagni e scrollatesi di dosso le abitudini del passato non gli rimaneva da fare altro che leggere. Le lunghe ore che dedicava a questa attività avrebbero rovinato gli occhi di chiunque, ma i suoi erano forti ed avevano il sostegno di un fisico possente. Inoltre la sua mente era come un campo appena arato, mai toccato dalle astrazioni contenute nei libri, e ormai pronto per la semina. Poiché non era mai stata logorata dalle fatiche dello studio, si impadroniva della cultura libresca con la voracità di un animale da preda che non vuole mollare ciò che è riuscito ad azzannare.

Gli sembrò alla fine della settimana di aver vissuto secoli, tanto lontane erano la vecchia vita e le abitudini del passato. Ma la mancanza di preparazione era per lui fonte di continue frustrazioni. Cercava di leggere libri che richiedevano anni di specializzazione. Un giorno affrontava un’opera di filosofia estremamente tradizionale, un altro un libro ultra-moderno, con la conseguenza che la testa gli si confondeva per il conflitto e le contraddizioni fra idee opposte. Lo stesso avvenne per gli economisti. Su uno scaffale della biblioteca trovò Karl Marx, Ricardo, Adam Smith e Mill, e le astruse formule dell’uno non spiegavano perché le idee dell’altro fossero superate. Era sconcertato, e tuttavia voleva capire. Un giorno sentì nascere in sé l’interesse per l’economia, l’industria e la politica. Passando per il City Hall Park aveva notato un gruppo di persone al centro del quale cinque o sei uomini discutevano animatamente con il viso rosso e a voce molto alta. Si accostò agli ascoltatori e sulle labbra di quei filosofi del popolo sentì un linguaggio nuovo, sconosciuto. Uno era un barbone, un altro un agitatore sindacale, un terzo uno studente in legge e gli altri erano operai con buone capacità nel parlare. Per la prima volta sentì parlare di socialismo, anarchia, imposta unitaria e apprese che c’erano filosofie sociali in contrasto. Udì centinaia di termini tecnici che gli erano nuovi, appartenenti a campi dell’attività intellettuale che non aveva mai neppure sfiorato. A causa di ciò non poté seguire da vicino le argomentazioni e fu solo in grado di avere intuizioni e formulare congetture sulle idee di cui quelle strane espressioni erano il veicolo. C’erano anche un uomo con gli occhi scuri, cameriere in un ristorante, che si professava teosofo, un fornaio sindacalizzato che si dichiarava agnostico, un vecchio che sconcertava tutti con una strana filosofia secondo la quale ciò che è, è giusto, e un altro che si dilungava in interminabili discorsi sul cosmo e su padre atomo e su madre atomo.

Martin Eden aveva la testa frastornata quando si allontanò dopo diverse ore per correre in biblioteca a controllare i significati di una dozzina di parole inconsuete. E quando se ne andò aveva sotto il braccio quattro volumi: La dottrina segreta di Madame Blavatsky, Progresso e povertà, La quintessenza del socialismo e La guerra fra religione e scienza. Purtroppo cominciò con La dottrina segreta. Ogni riga era piena di parole lunghissime che non comprendeva. Rimase seduto con le spalle appoggiate allo schienale del letto e il dizionario accanto a sé, e finì per averlo davanti agli occhi più spesso che non l’opera che stava leggendo. Le parole nuove di cui era costretto a cercare il significato erano tante che quando le ritrovava le aveva ormai dimenticate e doveva andarle a rivedere. Decise di scrivere le definizioni in un taccuino e in tal modo riempì pagine e pagine di appunti, ma continuava a non capire. Lesse fino alle tre della mattina: gli girava la testa, ma non era ancora riuscito ad afferrare alcuno dei concetti fondamentali del testo. Alzando lo sguardo gli sembrò che la camera si alzasse, ondeggiasse e si abbassasse come una nave in mare. Con molte maledizioni lanciò lontano da sé La dottrina segreta, spense il gas e si preparò a dormire. Non ebbe molta più fortuna con gli altri tre libri. Ciò non era dovuto a scarsa intelligenza perché sarebbe stato in grado di comprendere quei pensieri se avesse avuto una formazione adeguata e se avesse acquisito gli strumenti concettuali idonei. Sospettando che quella fosse la causa delle sue difficoltà, meditò per qualche tempo se non gli convenisse studiare il dizionario fino a quando non si fosse impadronito di ogni termine che conteneva.

Tuttavia trovava consolazione nella poesia, e ne leggeva molta, ricavando le più grandi soddisfazioni dai poeti più semplici, che erano i più accessibili. Amava la bellezza e lì trovava la bellezza. Era una cosa che lo toccava nel profondo, come la musica e, sebbene allora non ne fosse consapevole, si andava così preparando agli studi più impegnativi che sarebbero seguiti. Il suo cervello era una tabula rasa e gran parte di ciò che leggeva e apprezzava in quelle strofe e in quei versi vi veniva registrato indelebilmente, finché Martin scoprì di provare grande piacere nel ripetere a voce alta, o con un sussurro appena accennato, le armoniose melodie che vedeva nelle pagine stampate. In seguito scorse a fianco a fianco, su uno scaffale della biblioteca, I miti classici di Gayley e L’età della favola di Bullfinch. Fu come una folgorazione, una vivida luce nelle tenebre della sua ignoranza, e lo portò a leggere ancor più avidamente opere di poesia.

L’impiegato seduto alla scrivania aveva visto Martin così spesso, che aveva assunto verso di lui un atteggiamento di grande cordialità, accogliendolo sempre al suo ingresso in biblioteca con un sorriso e un cenno del capo. E fu proprio questo il motivo che spinse Martin a diventare audace. Mentre ritirava alcuni libri e l’altro era impegnato a timbrare le schede, gli chiese all’improvviso: «Senta, c’è qualcosa che vorrei chiederle». L’impiegato gli rivolse un sorriso di incoraggiamento. «Quando si conosce una signorina, e lei vi chiede di andarla a trovare, dopo quanto tempo si può farlo?».

Si sentiva la camicia appiccicata alla pelle per il sudore provocato dall’emozione.

«Beh, direi in qualunque momento».

«Sì, ma qui è diverso», obiettò Martin. «Lei…io…beh, vede, le cose stanno così: magari lei non è in casa. Va all’università».

«Può sempre ripresentarsi un’altra volta».

«Non mi sono spiegato bene», confessò Martin con voce balbettante, decidendo di gettarsi del tutto alla mercè del suo interlocutore. «Io sono un tipo un po’ rozzo e non sono mai stato nella buona società. Questa ragazza è tutto quello che io non sono, e io non sono nulla di quello che è lei. Lei non penserà mica che io la stia prendendo in giro?», gli chiese all’improvviso.

«No, no, nient’affatto, glielo assicuro», protestò l’altro. «La sua richiesta non rientra precisamente nelle competenze del reparto delle opere di consultazione, ma io sarò lieto di aiutarla».

Martin lo guardò con ammirazione: «Se potessi contarla su bene in questo modo, mi andrebbe di lusso».

«Mi scusi, non ho capito».

«Voglio dire, se fossi capace di parlare come lei, così sciolto così cortese, eccetera».

«Oh», disse l’altro con tono comprensivo.

«Qual’è l’ora migliore per andare? Il pomeriggio?… Non troppo vicino all’ora di pranzo? O la sera? O la domenica?».

«Senta», rispose il bibliotecario illuminandosi in volto. «La chiami al telefono e glielo chieda».

«Lo farò», disse Martin raccogliendo i libri e avviandosi alla porta.

Ma prima di uscire si girò per fare un’altra domanda.

«Se parla con una donna giovane, per esempio con una che si chiama signorina Lizzie Smith, le dice “Signorina Lizzie” o “signorina Smith?”».

«Signorina Smith», rispose il bibliotecario con tono perentorio. «Dica sempre “Signorina Smith”, fino a quando non l’avrà conosciuta meglio».

E fu così che Martin Eden risolse il suo problema.

«Venga in qualunque momento; rimarrò in casa tutto il pomeriggio», fu la risposta telefonica di Ruth alla sua incerta richiesta sul momento più opportuno per la restituzione dei libri che gli erano stati prestati.

Gli venne incontro alla porta e il suo occhio femminile notò subito la piega dei pantaloni e un certo leggero ma indefinibile cambiamento in meglio nella persona. Rimase anche sorpresa dal viso di Martin. Era quasi violenta la sensazione di salute che emanava da quel volto e la investiva con forza. Di nuovo sentì in sé il desiderio di appoggiarsi a lui per riceverne il calore e di nuovo fu sorpresa degli effetti che quella presenza provocava in lei. Lui, a sua volta, riprovò la vertiginosa sensazione di piacere al contatto della mano di lei nel momento del saluto. L’unica differenza fra loro era che mentre la donna era fredda e controllata, il viso di lui era rosso fino alla radice dei capelli. La seguì con la sua andatura goffa, dondolando e muovendo esageratamente le spalle. Dopo che si furono seduti nel soggiorno cominciò a trovarsi a proprio agio – molto più di quanto non si fosse aspettato. La ragazza gli rese tutto più facile e il garbo con cui lo fece moltiplicò l’amore che provava per lei. Dapprima parlarono dei libri che aveva preso – di Swinburne di cui era appassionato e di Browning che non capiva; e lei condusse la conversazione passando da un argomento all’altro, sempre pensando al modo migliore per poterlo aiutare. Ci aveva riflettuto dopo il loro primo incontro. Avrebbe voluto tanto essere utile a un uomo che, lungi dal suscitare in lei alcuna forma di disprezzo, le faceva sentire dentro una pietà e una tenerezza quali non aveva mai sentito, le faceva provare un istinto quasi materno. Non poteva essere una normale compassione, se colui che la provocava emanava una virilità tale da turbarla nei suoi timori di fanciulla e risvegliarle nella mente e nel cuore idee e sentimenti strani. Sentì di nuovo grande attrazione per quel collo maschile e struggente dolcezza al pensiero di posarvi le mani. Anche quella volta lo percepì come un impulso irresistibile, ma cominciava ad abituarvisi e non le venne mai in mente che quelli fossero i segni con cui si rivelava l’amore, né che fosse amore ciò che quell’uomo aveva scatenato in lei. Credeva di interessarsi a lui semplicemente per la curiosità che normalmente si ha per un tipo insolito in possesso di varie qualità potenziali e nei suoi confronti si sentiva addirittura animata da spirito filantropico.

Non sapeva di desiderarlo. Per lui era diverso. Martin era certo di amarla e la voleva con un ardore che non aveva mai provato per niente altro in vita sua. Aveva amato la poesia per amore della bellezza, ma dopo aver incontrato Ruth gli si era spalancato davanti lo sterminato territorio della poesia d’amore. Lei gli aveva dato una capacità di comprensione superiore a quella che aveva acquisito nella lettura di Bullfinch e di Gayley. Un verso che una settimana prima non avrebbe giudicato degno di riflessione. – «Il folle amante divino che muore per un bacio» – gli ricorreva ora nella mente in modo ossessivo. Quanta verità e quanta bellezza erano in esso! E nel guardare la fanciulla capiva che sarebbe stato pronto a morire per un bacio. Si sentì anch’egli un folle amante divino; nessuna onorificenza di cui fosse stato solennemente insignito avrebbe potuto renderlo più orgoglioso. E alla fine comprese quale fosse il significato della vita e perché fosse venuto al mondo.

Contemplandola e ascoltandola i suoi pensieri divennero più audaci. Rammentò la gioia delirante per il tocco della mano alla porta e provò un bruciante desiderio di risentirlo. Gli occhi si posavano spesso sulla bocca di lei, da cui era irresistibilmente attratto. Ma non c’era nulla di profano e di volgare in quell’impulso. Era invaso da una felicità indicibile nel seguire ogni movimento e gioco delle labbra mentre pronunciavano le parole; non erano labbra come quelle di tutte le altre creature umane, la loro sostanza non era creta mortale. Erano fatte di puro spirito, e il desiderio che suscitavano in lui era diverso da quello che aveva avvertito per altre donne. Avrebbe potuto baciarle, quelle labbra, posarvi le sue, ma sarebbe stato un gesto animato dallo stesso nobile e reverente fervore con cui il fedele bacia la tunica di Nostro Signore. Non era consapevole di questa metamorfosi avvenuta in sé, e non si era accorto che la luce che gli brillava negli occhi quando la guardava fosse la stessa che illumina lo sguardo di tutti gli uomini innamorati. Non immaginava quale maschio ardore prorompesse dai propri occhi, né gli effetti sullo spirito di lei del calore di quelle fiamme. Fu esaltato e confuso dalla sua penetrante verginità, che elevava i pensieri ad una siderale e gelida castità, ma sarebbe stato sorpreso di sapere che la luce del proprio sguardo, come un’ondata di calore, la faceva vibrare di un fuoco simile al suo. Lei ne fu sottilmente turbata e più di una volta senza rendersi conto del perché, perse il filo del ragionamento a causa di quella dolce intrusione che la costringeva a uno sforzo mentale nel tentativo di rimettere in ordine idee già in parte espresse. Parlare le era sempre riuscito facile e queste interruzioni l’avrebbero sconcertata, se non fosse stata convinta che erano determinate dal fatto di trovarsi di fronte a un tipo umano di notevole interesse. Era molto sensibile alle impressioni, e non era dunque strano che fosse stata colpita in modo così intenso da un uomo che pareva provenire da un altro mondo.

Giacché il problema di come aiutarlo, sia pure in secondo piano, persisteva ancora, la ragazza indirizzò la conversazione in quella direzione; ma fu Martin che affrontò la questione per primo. «Forse lei può darmi un buon consiglio», cominciò, ricevendo un segno di incoraggiamento che gli fece balzare il cuore in gola. «Ricorda l’altra volta che sono stato qui, che le ho detto a lei che non ero capace a parlare di libri e altre cose così perché non ne sapevo un’acca? Beh, ci ho pensato su molto. Ho passato un sacco di tempo in biblioteca, ma i libri che ho preso non erano roba facile. Ma forse è meglio che le spieghi tutto da principio. Ho sempre avuto una vita difficile. Ho lavorato duro fin da quando ero piccolo, e ora che sono stato in biblioteca e che ho visto i libri con altri occhi – e anche gli altri libri che ho visto – ho capito che i libri che leggevo non erano quelli giusti. Sa, i libri che uno trova negli allevamenti di bestiame e sulle navi non sono gli stessi che lei ha magari in casa sua. Beh, queste sono le letture che ho fatto. Ma io – non lo dico per vantarmi – sono diverso da quelli con cui sono stato. Non dico che sono migliore dei marinai e dei vaccari che erano con me – per un po’ ho fatto anche il vaccaro – ma i libri mi sono sempre piaciuti, ho letto tutto quello che mi capitava fra le mani – beh, penso proprio di essere diverso dalla maggior parte di loro.

«Ora, per tornare a bomba: non sono mai stato in una casa come questa. Quando sono venuto una settimana fa, e ho visto tutto, e lei, e sua madre, e i fratelli e tutto il resto – beh, mi è piaciuto moltissimo. Avevo sentito parlare di queste cose e avevo letto di queste cose nei libri, e quando mi sono guardato in giro in casa sua ho visto che quello che avevo letto nei libri era vero. Comunque quello che conta è che mi è piaciuto moltissimo tutto questo. Lo volevo anch’io. E lo voglio ancora. Voglio respirare un’aria come quella che si respira in questa casa – un’aria piena dell’odore dei libri, dei quadri, delle cose belle, dove la gente parla a bassa voce ed è pulita e quello che pensa è pulito. L’aria che ho sempre respirato io puzzava di sbobba e dell’affitto da pagare e di spazzatura e di birra, e nessuno sapeva parlare d’altro. Sa, quando lei ha traversato la stanza ed è andata a baciare la sua mamma, ho pensato che quella era la cosa più bella che avevo mai visto. Ho visto molto della vita, e comunque molto di più di ciò che hanno visto quelli che in genere stavano con me. Mi piace conoscere le cose, e voglio sempre vedere dell’altro, e voglio sempre vedere posti diversi.

«Ma non sono ancora venuto al punto. Adesso ci arrivo. Voglio aprirmi la strada fino al tipo di vita che fa lei in questa casa. Al mondo ci sono altre cose oltre alle sbronze, e alla fatica del lavoro, e allo sbattersi sempre in giro. Ora, che devo fare per riuscirci? Da dove cominciare? Sono pronto a lavorare sodo per pagarmi questo viaggio, e quando si tratta di sgobbare pochi ce la fanno a starmi alla pari. Se comincio sono capace di lavorare giorno e notte. Magari lei pensa che è strano che domando tutto questo proprio a lei, ma non ho nessun altro da chiedere – o forse Arthur. Sì, magari dovevo domandare a lui…. Ma se io dovevo…».

Si interruppe. Il suo piano così accuratamente preparato era naufragato di fronte al terribile sospetto che si sarebbe dovuto rivolgere ad Arthur, e che si era reso ridicolo. Ruth non rispose subito. Era troppo impegnata a cercare di conciliare quel discorso impacciato e balbettante, e l’ingenuità di quei pensieri, con ciò che scorgeva nel viso di lui. Non aveva mai visto tanta energia negli occhi di un uomo. Ecco un uomo che può fare qualsiasi cosa, era il messaggio che leggeva in quello sguardo, un messaggio che mal si accordava con la debolezza delle parole in cui era stato formulato. Senza contare che la sua mente, così raffinata e agile, non era in grado di apprezzare adeguatamente la semplicità. E tuttavia Ruth aveva intuito proprio nell’incertezza in cui quella mente si dibatteva una forza enorme. Le era parso qualcosa di simile allo sforzo di un gigante impegnato a liberarsi dalle catene che lo tengono avvinto. Quando parlò, il suo volto era pieno di comprensione.

«Lei stesso ha capito di che cosa abbia bisogno. Le occorre un’istruzione regolare. Dovrebbe quindi tornare a scuola per terminare le secondarie e poi continuare andando all’università».

«Ma ci vogliono soldi», l’interruppe lui.

«Oh! Non ci avevo pensato», esclamò la ragazza. «Non ha parenti, qualcuno che la possa aiutare?».

Lui scosse la testa.

«Mio padre e mia madre sono morti. Ho due sorelle, una sposata e una che si sposerà presto, penso. Poi ho un mucchio di fratelli – io sono il minore – ma loro non hanno mai dato una mano a nessuno. Se ne sono andati in giro per il mondo pensando solo a se stessi. Il più vecchio è morto in India. Due sono in Sud Africa adesso, e un altro è imbarcato su una baleniera, e un altro viaggia con un circo – fa il trapezista. Penso di essere anch’io come loro. È da quando avevo undici anni che ho badato a me stesso – cioè da quando è morta mia mamma. Devo studiare da solo, immagino, e quello che voglio sapere è da dove cominciare».

«Credo che la prima cosa da fare sia di procurarsi una grammatica. Il suo modo di esprimersi…», stava per dire «è spaventoso», ma si corresse e concluse, «non è molto corretto».

Martin arrossì e cominciò a sudare.

«So che tiro fuori molte parole di gergo che lei non capisce, ma sono le sole parole che conosco, o almeno che conosco bene. Me ne vengono in mente altre, che ho pescato nei libri, ma non sono sicuro di saperle dire a proposito e così non le uso».

«Non è tanto quello che lei dice, quanto il modo in cui lo dice. Mi perdona se sono sincera? Non vorrei ferire la sua sensibilità».

«No, no», esclamò lui, intimamente commosso per la gentilezza che gli dimostrava. «Spari pure. Devo saperlo, e preferisco che me lo dica lei piuttosto che chiunque altro».

«Ecco, per esempio lei dice “più minore” invece di “minore” e “non ho nessuno da chiedere” invece di “non ho nessuno a cui chiedere”. Poi usa in modo errato i pronomi…»

«Che cosa sono i pronomi?», domandò Martin; e aggiunse umilmente: «Vede, non capisco nemmeno le sue spiegazioni».

«In effetti non gliel’ho spiegato», rispose la fanciulla con un sorriso. «Per esempio, poco fa ha usato l’espressione “le ho detto a lei”. Non doveva aggiungere “a lei” perché “le” significa, appunto, “a lei” e quindi aveva già usato il pronome giusto. Il secondo pronome è una ripetizione grammaticalmente scorretta».

«Ora capisco» disse Martin. «Non ci avevo mai pensato. Se dico “le” è come se dico “a lei” e allora è inutile dire “a lei” un’altra volta. Non mi era mai venuto in mente che era sbagliato e non lo dirò più».

Ruth rimase sorpresa dalla prontezza di lui nell’afferrare quei concetti. Avuto il suggerimento non solo aveva capito ma era anche riuscito a dare una spiegazione, più efficace di quella di lei.

«Troverà tutto nella grammatica», proseguì. «Ci sono altre cose che ho notato nel suo modo di parlare. Qualche volta usa “ci” invece di “le”. Non è corretto usare “ci” in sostituzione di “a lei”. “Ci” è una variante di un altro pronome personale. Lo sapeva?».

Egli rifletté per un istante; poi rispose: «Vuol dire “a noi”».

La fanciulla fece un cenno di approvazione con la testa e continuò: «E poi lei non usa i congiuntivi».

Martin assunse un’espressione perplessa. Era qualcosa che non riusciva ad afferrare.

«Mi faccia un esempio».

«Bene…», Ruth aggrottò la fronte pensando a ciò che doveva dire, mentre lui, continuando a fissarla, giunse alla conclusione che aveva un’espressione adorabile. «”Mi pare che è strano”. Non le pare una forma scorretta?».

Egli cominciò a riflettere ripetendosi mentalmente quelle parole.

«Non le suona male?».

«Non mi pare», riprese Martin attento ad esprimersi in modo corretto.

«Perché non ha detto “a me non mi pare”?».

«Perché è sbagliato. Ma per l’altro, – beh, non so proprio che dire. Forse il mio orecchio non è abituato come il suo».

«Bisognerebbe dire “mi pare che sia strano”», esclamò la ragazza.

Martin arrossì di nuovo.

«E poi la pronuncia», proseguì Ruth. «Non parliamo delle “o” e delle “e” che pronuncia aperte quando dovrebbero essere chiuse e viceversa. Ma dovrebbe almeno correggere la sua “z”, che è spaventosa».

«In che senso?», chiese Martin piegandosi verso di lei pieno di tanta gratitudine che le si sarebbe inginocchiato ai piedi.

«Lei sbaglia la pronuncia di questo suono. Lei dice “stansa” invece di “stanza” e “marso” invece di “marzo”. Deve stare anche attento ai suoni con la “g”. Qualche volta li pronuncia giusti e qualche altra li sbaglia. Dice “campania” invece di “campagna” e “li ho parlato” invece di “gli ho parlato”. Ma è inutile che continui. Ciò che le occorre è una buona grammatica. Gliene vado a prendere una e le faccio vedere da dove cominciare».

Mentre Ruth si alzava gli venne in mente come in un lampo una regola che aveva letto nei libri sulle buone maniere e si tirò su goffamente non sapendo se fosse proprio quello ciò che doveva fare, con il rischio, inoltre, che la ragazza lo interpretasse come un segno che fosse lui a volersene andare.

«A proposito signor Eden», disse voltandosi quando fu alla porta. «Che cosa significa “filtrare?”. È una parola che ha usato più volte».

«Ah, filtrare», rise Martin. «È gergo. Vuol dire prendere whisky e birra – insomma tutto quello che bevi quando vuoi ubriacarti».

«E un’altra cosa», rise a sua volta la ragazza. «Non usi il pronome “tu” quando vuole descrivere azioni impersonali. “Tu” è molto personale e lei adesso non lo ha usato in questo senso».

«Non capisco».

«Poco fa lei mi ha detto, “whisky e birra – insomma tutto quello che bevi quando vuoi ubriacarti” – ora, io non voglio ubriacarmi, ha capito adesso?».

«Ma se vuoi ubriacarti devi berli».

«Sì, naturalmente», disse lei sorridendo. «Ma sarebbe meglio che lei non mi coinvolgesse personalmente. Usi “si” al posto di “tu” – “quello che si beve quando ci si vuole ubriacare” – suona anche molto meglio».

Tornando con la grammatica avvicinò una sedia a quella di lui – Martin si chiese se dovesse aiutarla in questa operazione – e gli si sedette accanto. Mentre sfogliava le pagine del libro le loro teste erano vicinissime. Inebriato da quella intimità, Martin faticava a seguire quello che la fanciulla gli diceva per assegnargli il lavoro da svolgere. Ma quando lei cominciò a esporre l’importanza della coniugazione dei verbi fu così affascinato dalla struttura del linguaggio che per la prima volta gli si rivelava, che si dimenticò di chi gli stava a fianco. Accostandosi di più alla pagina si sentì sfiorare la guancia dai capelli di lei. Era svenuto una sola volta in vita sua e credette di essere sul punto di ripetere quella esperienza. Non riusciva a respirare perché il cuore gli batteva in gola fino quasi a soffocarlo. Non gli era mai parsa così accessibile. In quell’attimo il grande baratro che si stendeva fra loro era scomparso. E ciò nonostante il sentimento che provava non aveva perso nulla della sua natura elevata. Non era stata lei ad abbassarsi fino a lui, ma era stato lui ad elevarsi nell’alto dei cieli fino a lei. In quel momento la reverenza che lo pervadeva assomigliava al rispetto e al fervore dei credenti. Gli sembrava di essere penetrato abusivamente nel sancta sanctorum e a poco a poco, con grande cautela, allontanò il capo da quello di lei, ponendo fine a una vicinanza che lo aveva fatto vibrare come una scarica elettrica, ma di cui lei non si era accorta.

VIII

Passarono diverse settimane, durante le quali Martin Eden studiò la grammatica, ripassò i libri sulle buone maniere e ne lesse voracemente altri che lo avevano attratto. In quel periodo non frequentò nessuno della sua stessa classe sociale. Le ragazze del Lotus Club si chiedevano che ne fosse stato di lui e tormentavano Jim di domande, ma alcuni dei giovanotti che avevano indossato i guantoni da Riley furono contenti che non venisse più. Martin, nel frattempo, aveva fatto un’altra preziosa scoperta in biblioteca. Come la grammatica gli aveva rivelato la struttura della lingua, così quest’opera gli apri gli occhi su quella della poesia consentendogli di capire, attraverso lo studio della metrica, della costruzione e della forma quale fosse la fonte segreta di tanta bellezza. Un altro saggio moderno trovato in biblioteca trattava la poesia come un’arte rappresentativa, analizzandola in modo esauriente con abbondanti esempi tratti da quanto di meglio era in letteratura. Non aveva mai letto opere di narrativa con la stessa passione che mise nello studio di questi libri. La sua fresca intelligenza, mai messa alla prova nei primi vent’anni di vita e ora spinta dalla maturità del desiderio, si impadroniva di ciò che leggeva con un vigore inconsueto alla mente degli studenti.

Ricordandola adesso dalla sua nuova posizione, la vecchia realtà che aveva conosciuto, fatta di terra, mare e navi, di marinai e donnacce, gli sembrava piccola, e tuttavia, fondendosi con il nuovo universo, tendeva ad espandersi insieme con questo. Con una mente come la sua, portata alla ricerca dell’unità, Martin rimase sorpreso quando cominciò a vedere per la prima volta punti di contatto fra questi due mondi. Si sentiva nobilitato dall’elevatezza dei pensieri e dalla bellezza che trovava nei libri. Ciò lo indusse a credere ancora più fermamente che al di sopra del suo ceto, nella classe sociale di Ruth e della famiglia di lei, tutti avessero questi pensieri e che vi si ispirassero nel loro modo di vivere. Giù di sotto dove lui viveva c’era l’ignobile e lui voleva purgarsi dell’ignobile che aveva sporcato tutti i suoi giorni e salire a quel regno sublimato dove abitavano la classi superiori. Per tutta la fanciullezza e giovinezza era stato tormentato da una vaga inquietudine: non aveva mai scoperto che cosa desiderasse, ma si trattava di qualcosa che aveva cercato vanamente fino a quando non aveva conosciuto Ruth. Ora la sua irrequietezza era diventata intensa e dolorosa, e sapeva finalmente, in modo chiaro e inequivocabile, che le cose cui voleva assolutamente arrivare erano la bellezza, l’intelletto e l’amore.

Durante quelle settimane vide Ruth cinque o sei volte, e ognuna fu una nuova fonte d’ispirazione. Lei lo aiutava nella lingua inglese, gli correggeva la pronuncia e lo introdusse all’aritmetica. Ma quegli incontri non erano dedicati solo agli studi di base. Egli aveva avuto tante esperienze nella vita e la sua mente era così matura che non si accontentava delle frazioni, della radice cubica, dell’analisi del testo e degli elementi della frase; c’erano momenti in cui la conversazione si volgeva ad altri argomenti – all’ultima poesia che l’uno aveva letto e all’ultimo poeta che l’altra aveva studiato. E quando lei leggeva ad alta voce i brani preferiti, lui raggiungeva il massimo della felicità. Nessuna di tutte le donne che aveva sentito parlare, aveva mai avuto una voce come quella. Il più piccolo suono accresceva il suo amore, ogni parola lo faceva fremere e tremare. Quella voce pacata, modulata, musicale, era il dolce, ricco e indefinibile prodotto della cultura e della gentilezza d’animo. Ascoltandola si sentiva risuonare nelle orecchie le grida stridule delle donne indigene e delle prostitute e, meno aspre, le rauche cantilene delle operaie e delle ragazze del suo ceto. E allora il cervello cominciava a trasformarle in visioni che gli si presentavano una dopo l’altra agli occhi della mente, ciascuna moltiplicando nel contrasto le splendide qualità di Ruth. La sua felicità diventava ancora più intensa al pensiero che lei comprendeva ciò che leggeva e palpitava di piacere nel percepire la bellezza della pagina scritta. Gli lesse gran parte di The Princess e spesso le vide gli occhi colmi di lacrime, tanto forte era la sua sensibilità estetica. In quei momenti le emozioni che lei provava lo innalzavano a un’altezza divina e, guardandola, Martin aveva l’impressione di scrutare il volto della vita e di leggerne i segreti più profondi. Conscio dell’altissimo livello di raffinata sensibilità che aveva raggiunto egli concluse che era amore, e che l’amore era la cosa più grande del mondo. Passava allora in rassegna, traendoli dai meandri della memoria, tutti i fremiti e gli ardori che aveva provato in passato – l’ebrietà del vino, le carezze delle donne, la rudezza dei colpi dati e ricevuti negli scontri fisici – e tutti gli sembravano ora squallidi e volgari paragonati a quel fuoco sublime che lo colmava di gioia.

Era invece una situazione nuova per Ruth, che non aveva mai avuto esperienze sentimentali. In questo campo le sole conoscenze le venivano dai libri, nei quali i fatti della vita ordinaria venivano trasformati dalla fantasia in un mondo immaginario; non pensava che questo rozzo marinaio le si stesse insinuando nel cuore, ammassandovi una forza esplosiva che un giorno sarebbe scoppiata avvolgendola in un rogo gigantesco. Ignorava che cosa fosse la fiamma dell’eros. Ciò che sapeva dell’amore era puramente teorico, e nella concezione che se ne era fatta lo vedeva come una quieta lingua di fuoco, dolce come gocce di rugiada o le lievi increspature di un laghetto, e fresco come la vellutata oscurità delle notti d’estate. L’amore, ai suoi occhi, era piuttosto un affetto tranquillo che si volgeva alla persona amata in una delicata atmosfera di calma eterea pervasa da un tenue profumo di fiori e avvolta da una luce soffusa. Non riusciva a immaginare le vulcaniche esplosioni dell’amore, il calore rovente e le desolate distese di ceneri infuocate che lasciava. Non conosceva né ciò che in lei stessa rimaneva nascosto, né ciò che si celava nel mondo: gli abissi della vita erano coperti dal mare delle illusioni. L’affetto coniugale che univa suo padre e sua madre costituiva il suo ideale di affinità amorosa, e attendeva il giorno in cui anche lei sarebbe arrivata, senza difficoltà e turbamenti, al tranquillo approdo di una dolce unione con l’uomo amato.

Fu così che cominciò a vedere Martin Eden come una novità, come una creatura strana, e a considerare strani e nuovi gli effetti che produceva su di lei. Ed era naturale che così fosse. Allo stesso modo aveva provato sensazioni insolite osservando gli animali allo zoo o percependo con un brivido la luce abbagliante del fulmine. C’era qualcosa di cosmico in quelle manifestazioni, e c’era qualcosa di cosmico in lui. Vedeva nel suo volto il bagliore del sole tropicale, e nei suoi muscoli palpitanti e possenti il primordiale vigore della vita. Era segnato e scavato da quel mondo misterioso di uomini rudi e di azioni ancora più rudi i cui avamposti si trovavano al di là dell’orizzonte di lei. Lui era una creatura ribelle e selvaggia e segretamente Ruth si sentiva lusingata nella vanità dal fatto che la seguisse in modo così mansueto. Era anche animata dal comprensibile desiderio di addomesticare quell’animale pericoloso. Ma era un impulso inconscio e mai la ragazza avrebbe immaginato che in realtà aspirava a modellare quella creta a somiglianza della figura del padre, in un’immagine che per lei era la più bella al mondo. Né si rendeva conto, a causa dell’inesperienza, che quel senso cosmico che aveva colto in lui era il più cosmico fra tutti i fenomeni della realtà, l’amore, che attirava con uguale forza gli uomini e le donne in tutte le parti del mondo, costringeva i cervi a uccidersi nella stagione degli accoppiamenti e spingeva persino gli elementi a unirsi con forza irresistibile.

Il rapido sviluppo di Martin era per lei fonte di meraviglia e di interesse. Scopriva in lui qualità inattese, che parevano sbocciare, da un giorno all’altro, come fiori piantati in un terreno favorevole. Gli leggeva ad alta voce Browning ed era spesso sorpresa dalle strane spiegazioni che dava di passi controversi. Non era in grado di capire che grazie alla sua esperienza degli uomini, delle donne e della vita, le interpretazioni che forniva erano molto più corrette di quelle di lei. Le concezioni che aveva le sembravano ingenue, benché spesso si sentisse stimolata da quegli audaci voli della mente, con cui si spingeva ad altezze e a distanze tali che lei non riusciva a seguirlo e doveva limitarsi ad osservare, piena di ammirazione, il lavorio di quella straordinaria intelligenza. Poi Ruth suonava – non più contro di lui – sondandone l’animo con una musica che penetrava più profondamente di quanto lei non potesse immaginare. La sua natura si apriva a quei suoni come un fiore al sole, passando rapidamente dal ragtime e dalle canzonette popolari ai brani più frequentati del repertorio classico, che lei conosceva quasi a memoria. Palesò subito una predilezione per Wagner, frutto delle sue tendenze democratiche, e l’ouverture del Tannhäuser divenne, dopo che lei glielo ebbe illustrato, il pezzo che più lo attirava. Identificava tutto il suo passato nel motivo della Venusberg, e Ruth nel Coro dei pellegrini; e dall’entusiasmo cui la musica lo aveva portato spaziava nell’oscura regione della ricerca dello spirito, in cui si svolge l’eterna battaglia fra bene e male.

Qualche volta la interrogava e le insinuava qualche dubbio sulla correttezza del modo in cui definiva e concepiva la musica. Ma sul canto non aveva riserve. Ella vi metteva tutta se stessa, ed egli rimaneva sempre pieno di ammirazione per la divina musicalità della sua pura voce di soprano. E non poteva fare a meno di confrontarla con il debole pigolìo e gli striduli gorgheggi delle operaie, malnutrite e ineducate, e con i rauchi urli che uscivano dalla gola rovinata dal gin delle donne nelle città di porto. Alla ragazza piaceva cantare e suonare per lui. In realtà era la prima volta che Ruth agiva su un’anima umana, ed era felice di modellare una materia così duttile; era convinta infatti che sarebbe riuscita a dargli la foggia che voleva. Inoltre stare con lui le piaceva, non provava più alcuna repulsione. Quella prima reazione era stata in effetti causata dal timore di scoprire il proprio io sconosciuto, ma ormai lo aveva superato. Pur non essendone consapevole, sentiva di avere su di lui diritti di proprietà. E poi egli aveva su di lei un effetto stimolante. Ruth studiava intensamente all’università, e le faceva bene uscire ogni tanto dal chiuso dei libri per respirare la corroborante atmosfera che spirava da lui, fresca come una brezza marina. Forza! Era di forza che aveva bisogno e lui gliela dava generosamente. Entrare nella stessa stanza, o incontrarlo alla porta aveva su di lei un effetto rigeneratore. E quando se ne era andato, tornava ai libri con rinnovato ardore e una nuova carica di energia.

Ruth conosceva Browning, ma non si era mai resa conto della delicatezza che occorre nel giocare con le anime. A mano a mano che il suo interesse per Martin aumentava, il desiderio di trasformarne la vita divenne per lei una vera ossessione.

«Prendiamo il signor Butler», disse un pomeriggio dopo aver terminato le consuete attività con la grammatica, l’aritmetica e la poesia. «In partenza era in una posizione relativamente sfavorevole. Suo padre era stato impiegato di banca, ma si trascinò per anni a causa della salute malferma, fino a quando non morì di turbercolosi in Arizona, e dunque alla sua morte il signor Butler – il suo nome è Charles Butler – si trovò solo al mondo. Il padre veniva dall’Australia e lui non aveva parenti in California. Andò a lavorare in una tipografia – gliel’ho sentito raccontare tante volte – e come prima paga guadagnava tre dollari la settimana. Il suo reddito è ora di almeno trentamila dollari l’anno. Come c’è riuscito? Era onesto, fidato, industrioso e parsimonioso. Evitava i piaceri cui la maggior parte dei ragazzi non sa rinunciare. Si era proposto di mettere da parte un tanto la settimana, qualunque fosse ciò di cui doveva privarsi. Naturalmente presto guadagnò più di tre dollari la settimana, e a mano a mano che il salario aumentava risparmiava sempre di più.

«Lavorava di giorno e la sera andava a scuola. Aveva sempre lo sguardo fisso al futuro. In seguito frequentò un istituto superiore serale. Quando compì diciassette anni aveva un ottimo salario come tipografo, ma era ambizioso. Voleva far carriera e non solo guadagnarsi da vivere, ed era disposto a fare sacrifici immediati in vista di un tornaconto futuro. Decise di entrare in campo legale e si fece assumere come fattorino nell’ufficio di papà – pensi! – con una paga di solo quattro dollari la settimana. Ma aveva imparato a fare economie e continuò a risparmiare anche su quei quattro dollari».

Si fermò per ripigliare fiato e per vedere come la prendeva Martin. Il viso di lui mostrava vivo interesse per gli sforzi giovanili del signor Butler, ma anche un’ombra di perplessità.

«Direi che se la passava proprio male», osservò. «Quattro dollari alla settimana! Come poteva viverci? Certo che ne doveva aver pochi, di grilli per il capo. Beh, io pago cinque dollari alla settimana per vitto e alloggio e non faccio proprio niente di straordinario, questo è sicuro. Ma lui deve aver vissuto come un cane. Quello che mangiava…».

«Si cucinava da solo», l’interruppe Ruth, «su un fornellino a cherosene».

«Quello che mangiava doveva essere peggio di quello che danno ai marinai nelle carrette più scassate… e non c’è un vitto più schifoso di quello».

«Ma pensi a ciò che è adesso!», esclamò Ruth con entusiasmo. «Pensi a ciò che può permettersi con il suo reddito attuale. I suoi sacrifici gli fruttano una ricompensa mille volte maggiore».

«Scommetto una cosa», disse Martin guardandola con occhi penetranti, «ed è che il signor Butler non è un tipo allegro adesso che le cose gli vanno così bene. Se per anni ha mangiato in quel modo scommetto che si è rovinato lo stomaco».

Ruth abbassò gli occhi sentendosi scrutata in quel modo.

«Scommetto che soffre di cattiva digestione!», l’incalzò Martin.

«Sì», confessò la ragazza, «ma…».

«E scommetto», proseguì lui implacabile, «che è un tipo tetro e noioso come un gufo e che non è capace di divertirsi, con tutti i suoi trentamila dollari all’anno. E scommetto che si scoccia pure, se vede gli altri divertirsi. Non ho ragione?».

Lei annuì in segno di assenso, affrettandosi però a precisare:

«Non è un tipo così, ma un uomo serio e sobrio per natura. Lo è sempre stato».

«E ci credo!», esclamò Martin. «Guadagnare tre o quattro dollari alla settimana, farsi da mangiare su un fornellino a petrolio per risparmiare, lavorare tutto il giorno e la sera studiare, sempre a sgobbare e mai a divertirsi, non godersi mai la vita, non avere mai saputo come si fa a godersi la vita; ma è chiaro: i trentamila dollari gli sono arrivati troppo tardi».

Nella sua umana comprensione cercava di immaginare nei minimi particolari l’esistenza di quel ragazzo e la grettezza spirituale della sua trasformazione in un uomo da trentamila dollari l’anno. Con un balzo prodigioso della sua fervida immaginazione Martin vide tutta la vita di Charles Butler animarsi e dilatarsi davanti agli occhi.

«Sa» aggiunse. «Mi dispiace per il signor Butler. Era troppo giovane per capirlo, ma per amore di questi trentamila dollari all’anno ha rinunciato a vivere. E adesso questi soldi sono sprecati per lui. Questi trentamila, tutti insieme, non sono capaci di dargli quello che avrebbe potuto dargli la monetina da dieci centesimi che metteva via da ragazzo invece di comprarsi le caramelle, le noccioline, o un ingresso in loggione».

Era la singolarità di queste affermazioni che sbalordiva Ruth, non solo perché erano nuove e contrarie alle sue convinzioni, ma anche perché vi avvertiva un fondo di verità che minacciava di sconvolgere i suoi valori. Se invece di ventiquattro anni ne avesse avuti quattordici ne sarebbe stata trasformata; ma aveva ventiquattro anni, era conservatrice per natura e per educazione e si era già cristallizzata in quella nicchia dell’esistenza nella quale era nata e si era formata. Era vero che quei bizzarri giudizi la turbavano nel momento in cui li sentiva enunciare, ma li attribuiva al temperamento particolare e alle esperienze insolite di lui, e presto li dimenticava. Ciò nonostante, pur disapprovandoli, la forza della voce che li pronunciava, il lampeggiare di quegli occhi e la serietà del viso che ad essi si accompagnavano la facevano fremere ogni volta, attirandola irresistibilmente verso di lui. Non avrebbe mai immaginato che in quei momenti quell’uomo, venuto da una regione oltre il suo orizzonte, si spingesse, con ardito volo del pensiero, molto al di là delle sue frontiere. Il suo ambito non superava questi confini, ma le menti limitate sono in grado di riconoscere solo le limitazioni altrui. Ruth, convinta di avere un intelletto molto aperto, riteneva che i conflitti che fra loro sorgevano fossero dovuti ai limiti di lui; sognava perciò di aiutarlo a vedere come lei vedeva, di ampliare il suo orizzonte fino a farlo coincidere con il proprio.

«Ma non ho finito la mia storia», riprese. «Lavorava, dice il papà, come nessun altro fattorino ha mai fatto. Era sempre disponibile, non arrivava mai in ritardo e di solito si trovava in ufficio qualche minuto prima dell’orario d’inizio. E tuttavia riusciva a trovare il modo di studiare. Ogni ritaglio di tempo era per lo studio. Imparò la contabilità e la dattilografia e si pagava le lezioni di stenografia facendo dettati la sera a un cronista giudiziario che aveva bisogno di impratichirsi. Presto fu promosso impiegato e si rese indispensabile. Il papà lo stimava molto e vide che avrebbe fatto strada. Fu su suo suggerimento che si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza. Divenne avvocato e appena rientrò in ufficio il papà lo fece diventare socio dello studio. È un grand’uomo. Diverse volte ha rifiutato la candidatura a senatore degli Stati Uniti; il papà dice che, se solo lo volesse, potrebbe essere nominato giudice della Corte Suprema ogni volta che vi è un posto vacante. Una vita così è una fonte di ispirazione per tutti noi. Ci dimostra che con la propria volontà un uomo può elevarsi al di sopra dell’ambiente in cui è nato».

«È un grand’uomo», disse Martin con sincerità.

Tuttavia gli sembrava che in quel racconto vi fosse qualcosa che contrastava con la sua concezione della vita e della bellezza. Non riusciva a trovare motivazioni adeguate nella vita piena di privazioni e sacrifici del signor Butler. L’avesse fatto per l’amore di una donna o per il raggiungimento della bellezza Martin l’avrebbe capito. Il folle amante divino deve essere pronto a tutto per un bacio, ma non per trentamila dollari l’anno. La carriera del Signor Butler non lo convinceva. Tutto sommato aveva un che di meschino. Trentamila all’anno erano una bella cosa, ma lo stomaco in disordine e l’incapacità di godere della felicità che è prerogativa degli esseri umani toglieva a quel denaro ogni valore.

Questo cercò di comunicare a Ruth, ma la scandalizzò, facendole chiaramente capire che era necessario intervenire ancora per dargli un giusto indirizzo. La ragazza aveva quella diffusa chiusura mentale dalla quale tutte le creature umane sono indotte a credere che la propria razza, la propria fede religiosa e le proprie idee politiche siano le migliori e le sole giuste e che i loro simili sparsi nel resto della terra si trovano in una situazione meno fortunata della loro. Era la stessa ristrettezza che spingeva gli antichi Ebrei a ringraziare Dio di non essere nati donne e che fece andare i missionari moderni nei più remoti angoli del mondo a sostituire gli dei degli indigeni con altri dei; e che faceva sentire a Ruth il desiderio di modellare quest’uomo uscito da altre sfere dell’esistenza a immagine e somiglianza di coloro che si trovavano nella sua.

IX

Al termine del successivo viaggio Martin Eden tornò alla natia California infervorato dall’amore. Esauriti i soldi, si era imbarcato come marinaio semplice sulla goletta che andava alla ricerca del tesoro; alle Isole Salomone, dopo otto mesi di tentativi infruttuosi, la spedizione si era sciolta. Gli uomini avevano ricevuto la paga in Australia e Martin aveva preso la prima nave che faceva la traversata fino a San Francisco. Quegli otto mesi non erano solo serviti a fargli guadagnare denaro sufficiente per diverse settimane sulla terraferma, ma gli avevano anche consentito di studiare e di leggere molto.

Aveva la tempra dello studioso e, dietro alla sua capacità di apprendere, c’erano la tenacia della sua natura e l’amore per Ruth. Continuò a rileggere la grammatica che aveva portato con sé fino a quando non l’ebbe padroneggiata con la sua mente assetata di sapere. Notò la rozzezza di linguaggio dei compagni e si propose di correggere mentalmente ogni scorrettezza che udiva. Scoprì con gioia che stava acquisendo una grande sensibilità d’orecchio e che si stava formando in lui il gusto della proprietà grammaticale. L’uso errato dei pronomi lo colpiva sgradevolmente, ma spesso, a causa della mancanza di abitudine, era lui stesso che ricadeva in quei vecchi difetti; la sua lingua si rifiutava di apprendere troppi nuovi trucchi in un giorno solo.

Dopo aver ripassato più volte la grammatica, si dedicò al dizionario aggiungendo ogni giorno venti parole al proprio repertorio lessicale. Si accorse che non era un compito facile e mentre stava alla barra o di vedetta tornava in continuazione su quell’elenco sempre più lungo di pronunce e di definizioni che imparava a memoria prima di addormentarsi. «Non ho mai fatto alcunché», «se fossi» e «coloro i quali» erano espressioni che ripeteva sotto voce al fine di abituare la lingua al tipo di idioma parlato da Ruth. E pronunciò migliaia di volte con il suono giusto «stanza», «campagna» e parole analoghe; e si accorse infine, con grande sorpresa, che stava cominciando a parlare una lingua più pura e corretta di quella degli ufficiali stessi e dei signori delle cabine che avevano finanziato la spedizione.

Il capitano era un norvegese con occhi sfuggenti, che in qualche modo era venuto in possesso dell’opera completa di Shakespeare. Poiché non la leggeva mai, Martin si offrì di lavargli i vestiti e in cambio poté avere accesso a quei preziosi volumi. La sua mente era così imbevuta di quelle creazioni e dei molti brani preferiti che gli si imprimevano nella memoria senza alcuno sforzo, che per qualche tempo tutto ciò che lo circondava assunse le forme delle tragedie e delle commedie elisabettiane e i suoi stessi pensieri venivano formulati in versi sciolti. Queste letture furono un addestramento per l’orecchio, introducendo nella sua mente molte espressioni arcaiche e inconsuete.

Gli otto mesi erano trascorsi proficuamente: oltre a ciò che aveva imparato dal punto di vista della proprietà del linguaggio e dell’elevatezza di pensiero, aveva scoperto molto su se stesso. E accanto all’umiltà dovuta alla consapevolezza della propria ignoranza, era nata in lui la convinzione delle proprie capacità. Era certo di essere molto diverso dagli altri marinai, ma ebbe la saggezza di capire che la differenza era più nella potenzialità che nei risultati ottenuti. Ciò che era in grado di fare sarebbe riuscito anche a loro, e tuttavia avvertiva in sé un confuso fermento che lo portava a concludere di avere enormi possibilità ancora inespresse. Era torturato dalla squisita bellezza del mondo e avrebbe voluto che Ruth fosse lì per condividerla con lui. Decise che le avrebbe descritto gli scenari dei mari del Sud. A quel pensiero si sentì divampare dentro uno spirito creativo e l’ambizione di ricreare tanta bellezza per un pubblico più vasto. Avrebbe scritto. Sarebbe stato uno degli occhi con cui il mondo vedeva, uno degli orecchi con cui ascoltava, uno dei cuori con cui palpitava. Avrebbe scritto di tutto, poesia e prosa, narrazioni e descrizioni, e drammi come quelli di Shakespeare. Quella era la sua carriera, la strada attraverso la quale avrebbe conquistato Ruth. I letterati erano i giganti del mondo, e vide in loro esseri molto migliori dei vari signor Butler che guadagnavano trentamila dollari l’anno e sarebbero potuti diventare giudici della Corte Suprema se solo lo avessero voluto.

Una volta sbocciata, questa idea lo assorbì completamente e il viaggio di ritorno a San Francisco fu come un sogno. Era ebbro di un potere di cui non conosceva i limiti e aveva la sensazione dell’onnipotenza. Nell’immensità e nella solitudine del mare la sua visione si ampliò, e per la prima volta Ruth e il mondo cui apparteneva gli apparvero con chiarezza, concretizzandosi nella mente come oggetti reali che potevano essere presi in mano, rigirati ed esaminati. Molto era ancora oscuro e nebuloso in quel mondo, ma riuscendo a percepirlo nella sua globalità, se non nei particolari, capiva anche che cosa avrebbe dovuto fare per dominarlo. Scrivere! Quel pensiero era come un fuoco per lui. Avrebbe cominciato non appena fosse tornato. La prima cosa che avrebbe fatto sarebbe stata una descrizione del viaggio dei cercatori del tesoro che avrebbe venduto a qualche giornale di San Francisco. Non avrebbe detto niente a Ruth, che sarebbe stata sorpresa e felice quando avesse visto il suo nome stampato. Pur scrivendo avrebbe continuato a studiare. Il giorno aveva ventiquattro ore ed egli si sentiva invincibile. Sapeva che cosa volesse dire lavorare e nessuna barriera gli avrebbe resistito. Non sarebbe più stato costretto a tornare in mare, almeno come marinaio, e per un attimo si vide proprietario di un panfilo da crociera. Altri scrittori ne possedevano uno. Naturalmente la prudenza suggeriva di non illudersi: il successo sarebbe arrivato lentamente all’inizio e per un po’ avrebbe dovuto accontentarsi di guadagnare denaro appena sufficiente a consentirgli il proseguimento degli studi. Tuttavia dopo qualche tempo – la cui durata rimaneva ancora ignota – dopo il necessario apprendistato, avrebbe scritto cose sublimi e il suo nome sarebbe stato sulla bocca di tutti. Ma soprattutto, ed era ciò che considerava la sua più grande vittoria, si sarebbe dimostrato degno di Ruth. La fama era bellissima, ma era per Ruth che era nato quello splendido sogno. Non aspirava alla gloria; era solo uno dei folli amanti divini.

Arrivato a Oakland con il suo bel gruzzolo in tasca riprese la vecchia stanzetta in casa di Bernard Higginbotham e si mise al lavoro. Non avvertì del ritorno neppure Ruth, che sarebbe andato a trovare quando avesse finito l’articolo sui cercatori del tesoro. Non gli riuscì così difficile evitare di vederla grazie alla violenta febbre creativa da cui fu colto. Inoltre, proprio ciò che stava scrivendo l’avrebbe avvicinato a lei. Non sapeva quale dovesse essere la lunghezza dell’articolo, ma decise di contare il numero di parole di un saggio stampato su due pagine nel supplemento domenicale del «San Francisco Examiner» e di orientarsi su quello. Completò la narrazione in tre giorni frenetici, ma, dopo averla ricopiata attentamente in una calligrafia chiara e di facile lettura, apprese da un manuale di retorica preso in biblioteca che esistevano cose come i capoversi e le virgolette. Non ci aveva mai pensato prima di allora, ma si mise subito all’opera per riscrivere l’articolo consultando in continuazione il manuale e imparando in un giorno sulla tecnica della composizione più di quanto uno studente di scuola non riesca a fare in un anno. Dopo averlo copiato per la seconda volta e averlo arrotolato attentamente, lesse in un giornale alcuni consigli per i principianti e scoprì una regola ferrea, per la quale i manoscritti non dovevano mai essere arrotolati e dovevano avere il testo su una sola facciata del foglio. Aveva infranto ambedue le norme. Dalla stessa fonte apprese anche che i giornali di prim’ordine pagavano come minimo dieci dollari la colonna. Copiando il manoscritto per la terza volta si consolò quindi al pensiero che doveva moltiplicare dieci colonne per dieci dollari, con un totale di cento dollari, e decise che era meglio che andare in mare. Se non fosse stato per gli errori avrebbe finito l’articolo in tre giorni. Cento dollari per tre giorni di lavoro! Per guadagnare la stessa cifra sarebbe dovuto rimanere su una nave per almeno tre mesi. Sarebbe stato stupido a tornare a navigare quando poteva scrivere, rifletté, sebbene il denaro in se stesso non avesse per lui alcun significato, ma valesse solo per la libertà che gli avrebbe dato e gli abiti rispettabili che gli avrebbe consentito di indossare. Tutto ciò a sua volta lo avrebbe portato più vicino, molto più vicino, alla pallida fanciulla che gli aveva cambiato la vita ed era stata per lui fonte di ispirazione.

Spedì i fogli in una busta grande indirizzata al direttore del «San Francisco Examiner». Pensava che ciò che veniva accettato dai giornali sarebbe stato pubblicato immediatamente, e dal momento che il manoscritto era stato mandato di venerdì sperava di vederlo pubblicato la domenica successiva. Sarebbe stato bello che Ruth venisse informata in quel modo del suo ritorno. Sarebbe quindi andato a trovarla la domenica pomeriggio. Nel frattempo gli venne un’altra idea, di cui fu particolarmente fiero perché gli pareva saggia, intelligente e ragionevole. Avrebbe scritto un racconto di avventure per ragazzi e lo avrebbe venduto a «The Youth’s Companion». Consultando le annate del periodico nella sala di lettura della biblioteca scoprì che pubblicava racconti a puntate suddividendoli in cinque episodi settimanali, ciascuno dei quali costituito da circa tremila parole. Per altro c’erano anche racconti distribuiti in sette puntate e decise di scriverne uno di quella lunghezza.

Era stato su una baleniera nell’Artico in una spedizione che, prevista inizialmente in tre anni, si era conclusa dopo sei mesi a causa di un naufragio. Benché avesse un’immaginazione vivace, e a volte persino bizzarra, aveva per la realtà un sostanziale rispetto, che lo costringeva a scrivere soprattutto su ciò che conosceva. Sulle solide fondamenta di queste esperienze di prima mano nella pesca dei cetacei costruì l’avventurosa storia di due ragazzi, di cui fece i protagonisti della narrazione. Il sabato sera decise che questo tipo di letteratura non era difficile: quel giorno aveva infatti portato a termine la prima puntata di tremila parole, fra il grande divertimento di Jim e i sarcasmi di Higginbotham, che per tutta la cena lanciò continue frecciate al «literato» della famiglia.

Martin si limitò a pregustare in silenzio la sorpresa del cognato quando l’indomani mattina, aprendo l’«Examiner», avesse visto l’articolo sui cercatori del tesoro. Il giorno dopo, di buon’ora, andò alla porta a prendere il giornale e scorse immediatamente, con crescente eccitazione, le molte pagine dell’edizione domenicale. Lo riguardò una seconda volta con molta attenzione, lo ripiegò e lo ripose dove l’aveva trovato. Era contento di non aver detto a nessuno dell’articolo. Ripensandoci, decise di essersi sbagliato sulla rapidità con cui gli scritti arrivavano alle colonne dei giornali. Inoltre il suo saggio non conteneva notizie di attualità e molto probabilmente il direttore gli avrebbe scritto in proposito.

Dopo la prima colazione continuò il racconto a episodi. Le parole gli fluivano con facilità dalla penna, anche se frequentemente smetteva di scrivere per verificare sul dizionario le definizioni dei vocaboli o per consultare il manuale di stile. Spesso approfittava di queste pause per leggere o rileggere un capitolo senza interruzioni e si consolava pensando che anche se non erano le grandi cose che sentiva in sé, quei tentativi gli servivano per esercitarsi nell’arte della composizione o almeno per imparare a dare forma ed espressione ai propri pensieri. Lavorò duramente fino al crepuscolo, quando uscì per andare in biblioteca ad esplorare riviste e settimanali fino alle dieci, ora della chiusura. Per una settimana seguì lo stesso programma. Ogni giorno scriveva circa tremila parole e ogni sera frugava fra le pagine dei periodici, prendendo nota dei racconti, degli articoli e delle poesie che i direttori giudicavano degni di pubblicazione. Di una cosa era certo: ciò che erano in grado di fare questi diversi scrittori era anche alla sua portata, e, col tempo, sarebbe riuscito a fare anche cose di cui gli altri non erano capaci. Si rallegrò nel leggere in «Book News», in una nota relativa ai compensi per i collaboratori delle riviste, non tanto che Rudyard Kipling ricevesse un dollaro per parola, quanto che la tariffa minima pagata dai periodici migliori fosse di due centesimi per parola. «The Youth’s Companion» era certamente un settimanale di prim’ordine e a quelle condizioni le tremila parole che aveva scritto quella giornata gli avrebbero fruttato sessanta dollari – il salario di due mesi di un marinaio!

Venerdì sera finì il racconto a puntate, della lunghezza di ventunmila parole. Calcolò che a due centesimi la parola gli avrebbe fruttato quattrocentoventi dollari. Non male per il lavoro di una settimana. Era la cifra più alta che avesse mai posseduto in una sola volta e non sapeva neppure come fare per spenderla tutta. Aveva scoperto una miniera d’oro, che non si sarebbe esaurita tanto facilmente. Fece piani di spese per nuovi vestiti, di abbonamenti a molte riviste e di acquisto di decine di testi di consultazione cui allora poteva avere accesso solo in biblioteca. Ma anche così gli rimaneva una grossa parte di quei quattrocentoventi dollari. Se ne preoccupò fino a quando non gli venne in mente che avrebbe assunto una domestica per Gertrude e che avrebbe regalato una bicicletta a Marian.

Spedì il voluminoso manoscritto a «The Youth’s Companion» e la domenica pomeriggio, dopo aver preparato lo schema per un articolo sui pescatori di perle, andò a trovare Ruth. Le aveva telefonato ed ella gli venne incontro alla porta, dove ancora una volta venne investita dalla ventata di vigore e di salute che emanava da lui. Le parve che le entrasse nel corpo e le scorresse nelle vene in un’onda di calore, facendola fremere per la forza che le trasmetteva. Egli arrossì violentemente stringendole la mano e guardandola negli occhi azzurri, ma l’abbronzatura recente dovuta agli otto mesi trascorsi sotto il sole coprì l’alterazione del viso pur non potendo proteggere il collo dall’irritazione provocata dal colletto rigido. Ruth notò quella riga sulla pelle con un sorriso divertito che svanì subito quando osservò i vestiti di lui. Gli andavano alla perfezione – era il primo abito che si era fatto fare su misura – e davano alla sua figura, che sembrava più snella, una forma armoniosa. Inoltre il berretto di panno era stato sostituito da un cappello floscio, che la ragazza gli ordinò di rimettersi congratulandosi con lui per l’eleganza dell’abbigliamento. Non ricordava di essere mai stata così felice. Quella metamorfosi era opera sua; ne era orgogliosa ed era animata dall’ambizione di continuare ad aiutarlo.

Tuttavia il cambiamento più radicale, e che più apprezzava, riguardava il modo completamente diverso in cui si esprimeva. Non solo parlava con maggiore correttezza e in maniera più spedita, ma aveva anche un vocabolario molto più ricco. Trasportato dall’entusiasmo o dall’emozione ricadeva ancora, a volte, nei vecchi difetti di pronuncia. Si notava pure, di tanto in tanto, un’imbarazzata esitazione quando usava le nuove parole che aveva imparato. D’altronde, insieme alla facilità di espressione palesava uno spirito arguto e piacevole che entusiasmò Ruth. Era frutto di quel senso dell’umorismo e di quella predisposizione allo scherzo che un tempo l’avevano reso così popolare presso quelli del suo ceto, ma che fino ad allora non era riuscito a fare emergere quando si trovava con lei per mancanza di un linguaggio adatto. Solo adesso cominciava a sentirsi a proprio agio e a capire di non essere del tutto sgradito, ma era ancora molto titubante, fin troppo, lasciando a Ruth l’iniziativa della conversazione brillante e intelligente, cui teneva testa ma senza osare di spingersi troppo oltre.

Le parlò di ciò che aveva fatto e del piano di guadagnarsi da vivere scrivendo pur continuando a studiare, ma fu deluso dalla freddezza con cui lei lo accolse. Ruth non si mostrò entusiasta di quel progetto.

«Vede», disse con franchezza, «scrivere è un lavoro come tutti gli altri. Naturalmente non lo conosco direttamente, ma ragiono basandomi sul buon senso. Non si può fare il fabbro senza passare tre anni ad imparare il mestiere – e magari sono cinque anni! Gli scrittori sono pagati tanto più dei fabbri che è naturale ci siano tanti più uomini cui piacerebbe questa carriera, o comunque che tentano di scrivere».

«Perché escludere, però, che in me vi possa essere la predisposizione a scrivere?», chiese, esultando in cuor suo per il linguaggio di cui si era servito e proiettando subito con la mente la situazione e l’atmosfera in cui ora si trovava sul vasto schermo della memoria accanto a innumerevoli altri episodi della sua vita – scene rozze e grossolane, volgari e bestiali.

Quella complessa visione interiore balenò come in un lampo senza provocare pause nella conversazione, né interrompere il tranquillo fluire dei suoi pensieri. Con gli occhi della fantasia si vide mentre conversava con questa dolce e bellissima fanciulla seduta accanto a lui, in una stanza piena di libri, quadri, gusto e intelligenza, pervasa da una luce chiara e da un’atmosfera calda e brillante; mentre disposti intorno a questo centro luminoso fino a perdersi oltre i margini dello schermo erano scene del tutto diverse, ciascuna collocata come un quadro che egli poteva osservare a piacimento come il visitatore di un museo. Scorgeva queste immagini dietro nubi di fumo fluttuanti e spirali di nebbia, squarciate da fasci di vivida luce rossa. Vide cowboys al bar che bevevano accanitamente whisky in un’atmosfera densa di bestemmie e scurrilità e si vide in mezzo a loro mentre trincava e imprecava come i più selvaggi di quella masnada, o seduto al tavolo sotto fumanti lampade di cherosene fra il secco rumore delle fiches e il fruscio delle smazzate. Si vide a torace scoperto e a pugni nudi mentre si batteva in un’epica lotta con Liverpool Red sul castello di prua della Susquehanna; e vide il ponte insanguinato della John Rogers quella grigia mattina del tentativo di ammutinamento, con il secondo ufficiale scosso dai sussulti della morte al boccaporto principale, la rivoltella in mano al vecchio che vomitava fuoco e fumo, gli uomini con facce contorte in smorfie animalesche che gli cadevano intorno urlando orrende maledizioni – per poi tornare alla scena centrale calma e pura sotto una luce ferma, nella quale Ruth era seduta a conversare in mezzo a quadri e libri, e vide il pianoforte a coda sul quale ella più tardi avrebbe suonato per lui e udì l’eco delle proprie parole eleganti e appropriate: «Perché escludere, però, che in me vi possa essere la predisposizione a scrivere?».

«Per quanto si possa essere predisposti per il mestiere di fabbro», diceva lei ridendo, «non ho mai sentito di nessuno che lo sia divenuto senza aver prima finito l’apprendistato».

«Lei che cosa consiglierebbe?», chiese Martin. «Non dimentichi che sono certo di avere le qualità per scrivere – non riesco a spiegarlo, ma me lo sento dentro».

«Deve ricevere un’istruzione completa», fu la risposta, «indipendentemente dal fatto che finisca o no per diventare scrittore. Questa formazione è indispensabile qualunque sia la carriera che sceglierà, ma non deve essere lacunosa e irregolare. Deve andare alle scuole superiori».

«Sì…», cominciò lui, ma fu interrotto dalla ragazza che aggiunse:

«Naturalmente lei potrebbe continuare a scrivere».

«Non potrò farne a meno», disse lui con tono grave.

«Perché?». Ruth lo guardò perplessa, perché non le piaceva l’ostinazione con cui ripeteva quell’idea.

«Perché se non scrivessi non ci sarebbe nessuna scuola superiore. Devo avere quanto mi basta per vivere, vestirmi e comprare libri, capisce?».

«Me ne ero dimenticata», disse ridendo. «Ma perché non è nato con una buona rendita?».

«Preferisco avere salute e fantasia», rispose lui. «Per i soldi posso arrangiarmi, ma sono contento di avere le altre cose per…». Stava per dire «per te», ma si corresse: «per diventare in gamba».

«Non dica “in gamba”», esclamò lei, teneramente petulante. «È poco fine, e brutto».

Lui arrossì e balbettò: «Ha ragione. Vorrei solo che mi correggesse sempre».

«Lo farò», disse lei, esitante. «Ha tante buone qualità che da lei voglio la perfezione».

Martin fu subito come cera nelle mani di lei, non meno ansioso di essere modellato di quanto lei fosse smaniosa di foggiarlo nell’immagine del suo uomo ideale. E quando la ragazza osservò che era proprio il periodo giusto, poiché gli esami di ammissione alla scuola superiore sarebbero cominciati il lunedì seguente, Martin promise immediatamente di sostenerli.

Poi lei suonò e cantò per lui che la contemplava con occhi imploranti, perso dietro a quella bellezza e stupito che non vi fossero centinaia di pretendenti che l’ascoltavano e la vagheggiavano come lui.

X

Quella sera si fermò a cena e, con grande soddisfazione di Ruth, fece buona impressione a suo padre. Parlarono della carriera nella marina mercantile, un argomento che Martin conosceva a menadito, e il signor Morse osservò in seguito che gli era parso un giovane con le idee molto chiare. Lo sforzo per evitare espressioni gergali e la ricerca delle parole giuste lo costringevano a parlare con lentezza, consentendogli di esprimere quanto di meglio era in lui. Era più a suo agio di quella prima serata quasi un anno prima, e quella timidezza e modestia furono apprezzate persino dalla signora Morse, la quale fu lieta del suo evidente miglioramento.

«È il primo uomo che abbia mai suscitato il minimo interesse in Ruth», osservò rivolta al marito. «È così immatura in queste faccende che ne ero alquanto preoccupata».

Il signor Morse guardò la moglie con aria incuriosita.

«Hai intenzione di servirti di questo giovane marinaio per svegliarla?», chiese.

«Ho intenzione di non vederla morire zitella se posso evitarlo», fu la risposta. «Se questo giovanotto riuscirà a richiamare la sua attenzione sugli uomini sarà una buona cosa».

«Un’ottima cosa», commentò il padre. «Ma supponi – qualche volta dobbiamo fare supposizioni, mia cara – supponi che questo interesse per lui diventi un po’ troppo particolare…».

«Impossibile», rise la signora Morse. «Lei è di tre anni maggiore di lui, e poi… è impossibile. Non ci sono pericoli. Fidati di me».

E così la posizione di Martin fu decisa proprio mentre lui a causa di Arthur e Norman meditava una pazzia. Fu attratto dai loro discorsi, che riguardavano una gita in bicicletta sulle colline la domenica mattina, solo quando seppe che anche Ruth sarebbe stata della partita. Non aveva la bicicletta, e non sapeva neppure andarci, ma stabilì che se Ruth ne era capace avrebbe dovuto cominciare anche lui; dunque dopo essersi congedato da loro si fermò da un ciclista che si trovava sulla strada di casa e ne comprò una per quaranta dollari. Era una somma superiore al salario guadagnato in un mese di duro lavoro e i suoi risparmi vennero notevolmente decurtati; ma vinse le perplessità per una spesa così gravosa aggiungendo ai cento dollari che avrebbe ricevuto dall’«Examiner» i quattrocentoventi che come minimo gli sarebbero stati versati da «The Youth’s Companion». Né si preoccupò di avere rovinato l’abito durante i tentativi fatti per imparare ad andare in bicicletta durante il tragitto dal negozio a casa. La stessa sera riuscì a mettersi in contatto con il sarto attraverso il telefono nel negozio di Higginbotham e ne ordinò un altro. Trasportò quindi il veicolo su per gli stretti gradini che salivano rasente il muro posteriore del fabbricato come una scaletta antincendio e, dopo avere staccato il letto dalla parete, scoprì che nella stanzetta era rimasto solo spazio sufficiente per lui e la bicicletta.

Si era riproposto di dedicare la domenica allo studio per l’esame di ammissione alla scuola superiore, ma ne fu distratto dall’articolo sui pescatori di perle e trascorse la giornata divorato dall’ansia febbrile di ricreare la bellezza e l’atmosfera romanzesca che si sentiva bruciare dentro. Il fatto che l’«Examiner» di quella mattina non avesse pubblicato l’articolo sui cercatori del tesoro non lo avvilì. Si trovava in tale stato di esaltazione che non sentì neppure l’invito, ripetuto due volte, che il pranzo era pronto, e perse il sostanzioso pasto che Higginbotham faceva immancabilmente preparare per la tavola della domenica. Per il cognato quel pranzo era il segno tangibile del successo e della prosperità che aveva conquistato su questa terra, e l’onorava con tirate piene di luoghi comuni sulle istituzioni americane e sull’opportunità di elevarsi che offrivano a tutti gli uomini disposti a lavorare sodo; e a mo’ di esempio non mancava mai di citare la propria ascesa da povero garzone di drogheria a proprietario della Higginbotham’s Cash Store.

Lunedì mattina Martin Eden guardò sospirando l’incompiuto Pescatori di perle prima di uscire per prendere il tram che lo avrebbe portato alla scuola superiore di Oakland. E quando, qualche giorno dopo, tornò per avere i risultati delle prove, seppe di essere stato respinto in tutte le materie, tranne che in grammatica.

«Sei bravo in grammatica», l’informò il professor Hilton fissandolo attraverso spesse lenti; «ma non sai nulla, proprio nulla, delle altre discipline, e nella storia degli Stati Uniti sei un vero disastro – non c’è altro termine, un vero disastro. Ti consiglierei…».

L’insegnante fece una pausa e lo squadrò con occhi freddi e privi di simpatia, come se stesse osservando una delle sue provette. Aveva una cattedra di fisica alla scuola superiore, una famiglia numerosa, un magro stipendio e un buon patrimonio di nozioni che ripeteva come un pappagallo.

«Sì, professore», disse Martin con umiltà, augurandosi che al posto del docente ci fosse il suo amico della biblioteca.

«Ti consiglierei di tornare alla scuola media per almeno due anni. Buon giorno!».

Martin non rimase particolarmente colpito dalla bocciatura, ma fu sorpreso dall’espressione sconvolta di Ruth quando le riferì il consiglio del professor Hilton. La delusione della ragazza era così evidente che gli dispiacque di esser stato respinto soprattutto per il dispiacere che le aveva provocato.

«Ha visto che avevo ragione», disse Ruth. «Lei ne sa più di qualsiasi studente che entra nella scuola superiore, ma non è in grado di superare gli esami perché ha un’istruzione frammentaria e incerta. Ha bisogno della disciplina allo studio che solo insegnanti esperti possono darle. Le occorrono buone basi. Il professor Hilton ha ragione, e se fossi in lei andrei a una scuola serale. In un anno e mezzo potrebbe colmare tutte le lacune. Inoltre questo le lascerebbe libere le giornate per scrivere, oppure, se non riuscisse a guadagnarsi da vivere con la penna, per trovarsi un impiego».

Ma se di giorno devo lavorare e di notte studiare, quando posso vederti? – fu il primo pensiero di Martin, che però si guardò bene dall’esprimerlo ad alta voce. Rispose invece:

«Sono troppo vecchio per andare alla scuola serale. Non che me ne importerebbe se pensassi che servisse, ma credo che non mi sarebbe utile. Vanno troppo piano per me. Sarebbe una perdita di tempo…» – pensò a lei e al desiderio che diventasse sua – «… e non posso permettermelo. Di tempo ne ho poco».

«Ci sono tante cose che dovrebbe imparare». Lei lo guardò con tanta dolcezza che Martin pensò di essere un bruto nel contraddirla in quel modo. «La fisica e la chimica… non può farle senza laboratori; e l’algebra e la geometria sono quasi impossibili da imparare senza l’aiuto di un insegnante. Lei ha bisogno di professori esperti, preparati dal punto di vista didattico».

Egli rimase in silenzio per un minuto, cercando di esprimersi in un modo che non lo facesse sembrare troppo vanitoso.

«Non pensi che voglia darmi arie», cominciò. «Non è proprio nelle mie intenzioni. Ma ho l’impressione di essere, potrei dire, molto dotato per lo studio. Sono in grado di studiare da solo in modo del tutto naturale, come un’anatra che si muove nell’acqua. Ha visto anche lei che cosa sono riuscito a fare con la grammatica. Ho imparato molte altre cose, non immagina neanche quante. E ho appena cominciato. Aspetti che abbia acquistato…» si arrestò un attimo prima di proseguire «sicurezza. Ora sto cominciando a orientarmi, a figurarmi un po’ la situazione…».

«Per favore, non dica “figurarmi”», lo interruppe la ragazza.

«A sbrogliarmi un po’», rimediò subito Martin.

«Neanche questa è una forma corretta», protestò lei.

Martin ricominciò tutta la frase da capo.

«Quello che voglio dire è che comincio a darmi un po’ una regolata».

Impietosita, Ruth si astenne dall’intervenire ancora una volta, ed egli proseguì.

«La cultura mi sembra come la sala delle mappe. Ho questa impressione tutte le volte che vado in biblioteca. Compito degli insegnanti è istruire gli studenti nell’uso delle carte in modo sistematico. Sono le guide della sala delle mappe, e niente altro. Non è qualcosa che hanno composto personalmente. Non l’hanno fatto loro, non è una creazione loro. È tutto già nelle mappe e loro devono solo dare un orientamento ai visitatori, che altrimenti non si raccapezzerebbero. Ma io non mi perdo facilmente. Capisco subito la posizione. So in dove sono… E adesso che c’è?».

«Non dica “in dove sono”».

«Giusto», rispose grato, «dove sono. Però in dove ero rimasto?… Voglio dire, dove ero rimasto? Ah, sì nella sala delle mappe. Beh, c’è della gente…».

«Ci sono persone», lo corresse la ragazza.

«Ci sono persone che hanno bisogno di una guida, e sono molti… ma io penso di potermela cavare da solo. Ho passato molto tempo nella sala delle mappe ormai, e sono in grado di orientarmi; conosco le carte che devo consultare, le coste che voglio esplorare. Per il tipo di rotta che intendo percorrere è molto meglio che viaggi da solo. La velocità di una squadra navale coincide con quella della nave più lenta, e per gli insegnanti è lo stesso. Non possono andare più forte della maggioranza della classe mentre io sono in grado di correre più velocemente del resto della scolaresca».

«”Meglio soli che male accompagnati”», osservò lei.

Meglio con te che soli, avrebbe voluto risponderle lui vagheggiando nella mente un mondo infinito di distese inondate dal sole e spazi stellati, che attraversava con lei cingendola con le braccia e sentendo sul viso i suoi capelli d’oro mossi dal vento. In quel momento avvertì dolorosamente quanto fosse inadeguato il linguaggio. Dio! Oh, se avesse potuto pronunciare parole sublimi, che le facessero vedere quel che lui vedeva! Sentì in sé, come una morsa dolorosa e struggente, l’acuto desiderio di raffigurare quelle visioni che gli balenavano inattese nello specchio della mente. Adesso capiva! Ebbe come la rivelazione di un segreto. Ecco in che cosa erano grandi gli scrittori e i poeti sommi. Ecco perché erano giganti: perché sapevano esprimere ciò che pensavano e sentivano e vedevano. I cani addormentati al sole spesso guaivano e abbaiavano, ma erano incapaci di dire che cosa li avesse spinti a quei mugolii e a quei latrati. Se lo era chiesto più volte. E ora aveva capito che egli stesso non era nulla più che un cane assopito. Aveva nobili e bellissime visioni, ma era solo capace di guaire e abbaiare a Ruth. Avrebbe però smesso di dormire al sole. Si sarebbe alzato, avrebbe spalancato gli occhi, avrebbe lottato, faticato e imparato fino ad eliminare le nubi che gli offuscavano la vista e i lacci che gli legavano la lingua per riuscire a condividere con lei la ricchezza di quelle visioni. Altri uomini avevano scoperto il meccanismo dell’espressione, attraverso il quale le parole diventavano strumenti obbedienti e il modo in cui si combinavano assumeva significati più grandi della semplice somma delle parti. Sentì un fremito profondo per quel segreto appena intravisto e ancora una volta si vide in un vortice di distese inondate dal sole e di spazi stellati, finché non si accorse che tutto era calmo intorno a lui e vide che Ruth l’osservava con espressione divertita e occhi sorridenti.

«Sono stato preso in un turbinio di visioni», disse e nel momento in cui la frase gli risuonò nelle orecchie il cuore gli balzò in petto. Da dove gli erano venute quelle parole che avevano espresso in modo così adeguato quella pausa visionaria? Era un miracolo. Mai aveva formulato in maniera elevata un pensiero elevato. Ecco ciò che spiegava tutto. Non aveva mai tentato quello che avevano fatto Swinburne e Tennyson e Kipling e tutti gli altri poeti. La mente gli tornò fulminea ai Pescatori di perle. Non aveva mai osato salire alle grandi altezze e dare forma allo spirito di bellezza che gli bruciava dentro come un fuoco. Quell’articolo sarebbe stato una cosa diversa quando lo avesse terminato. Era sbigottito dall’infinita bellezza che vedeva e ancora una volta ebbe come in un lampo un pensiero temerario: perché non avrebbe potuto cantarla anche lui, quella bellezza, in nobili versi come i grandi poeti, e con essa tutta la misteriosa felicità e il reverente stupore che sentiva per Ruth? Perché non poteva celebrare la sua donna, come i grandi poeti? Loro avevano cantato l’amore. L’avrebbe cantato anche lui… Per Dio!

Il suo orecchio terrorizzato percepì l’eco di quella esclamazione che nel trasporto dell’emozione gli era sfuggita dalle labbra. Il sangue gli salì al viso in ondate successive così violente che il rossore della vergogna coprì il bronzo della pelle dal bordo del colletto fino alla radice dei capelli.

«Io… io… chiedo scusa», balbettò. «Stavo pensando».

«Sembrava che stesse pregando», disse lei, cercando di farsi forza, ma sentendosi venir meno il cuore. Era la prima volta che aveva udito una bestemmia dalla bocca di un uomo che conosceva e ne era sgomenta, non solo perché offendeva i principi del buon gusto e dell’educazione, ma anche, e soprattutto, perché la feriva nell’anima, entrando come un ciclone nel giardino protetto della sua verginità.

Ma lo perdonò, pur sorpresa dalla facilità con cui ciò avvenne. Non era difficile scusarlo per tutto ciò che faceva. Non aveva avuto l’opportunità di diventare come gli altri uomini, ma stava cercando di cambiare con grande abnegazione, e ci stava riuscendo. Non le venne in mente che ci potessero essere altre ragioni per spiegare il fatto che fosse così ben disposta verso di lui. Per quell’uomo sentiva tenerezza, ma non lo sapeva. Non poteva saperlo. Ventiquattro placidi anni vissuti senza nessuna esperienza di quel genere non l’avevano preparata a capire con chiarezza ciò che provava, e Ruth, che non aveva mai avvertito il fuoco del vero amore, non si era accorta da dove venisse quel calore che l’avvolgeva.

XI

Martin tornò all’articolo sui pescatori di perle, che avrebbe finito prima se non fosse stato interrotto tanto spesso dai tentativi di scrivere poesie. Erano liriche d’amore ispirate da Ruth, ma non furono mai completate. Non poteva imparare in un giorno a cantare in versi elevati. Rima, prosodia e struttura erano di per se stesse questioni di grande difficoltà, ma egli sentiva che, al di là di questi aspetti, la grande poesia aveva un qualcosa di intangibile e sfuggente che non riusciva a cogliere e a infondere nei propri versi. Era in grado di percepire l’inafferrabile spirito della poesia, cercava di inseguirlo, ma non era capace di raggiungerlo. Gli guizzava davanti agli occhi come una lingua di nebbia luminosa e impalpabile sempre troppo lontana per le sue mani protese, anche se qualche volta riusciva ad acchiapparne un lembo e a tesserne frasi che gli echeggiavano nel cervello come note ossessive o che gli passavano fluttuando davanti agli occhi in vaghe visioni di arcana bellezza. Era sconcertato. Avvertiva un desiderio acuto di esprimere ciò che sentiva, ma poteva solo balbettarlo prosaicamente in parole banali e ordinarie. Rileggeva ad alta voce quei frammenti. La prosodia presentava una scansione perfetta, la rima risuonava in ritmi più ampi e ugualmente impeccabili, ma lo splendore e la nobiltà che sentiva nei grandi poeti erano assenti dai suoi versi. Non riusciva a comprenderne il perché e ogni volta tornava al suo articolo in preda a una rabbia impotente e disperata.

Dopo i Pescatori di perle, scrisse un articolo sulla carriera nella marina mercantile, un altro sulla cattura delle tartarughe e un terzo sugli alisei del nord-est. Avendo provato, in via sperimentale, a cimentarsi nel genere del racconto breve, ne fu così preso da comporne sei, uno dietro l’altro, che spedì alle diverse riviste. Lavorava con grande lena dalla mattina alla sera e fino a notte inoltrata, tranne quando si interrompeva per andare in biblioteca a prendere libri a prestito, o per passare a vedere Ruth. Era profondamente felice. Viveva intensamente, in un’attività febbrile e incessante. Aveva raggiunto la gioia della creazione, prerogativa che si ritiene appartenga agli dei. Tutto ciò che lo circondava – gli odori della verdura appassita e della lisciva, la figura trasandata della sorella e la faccia beffarda di Higginbotham – era un sogno. Il mondo reale era nella sua mente, e le storie che scriveva ne erano le prove tangibili.

Le giornate erano troppo corte. Erano tante le cose che voleva studiare! Ridusse le ore di sonno a cinque e si accorse che gli bastavano. Provò anche a dormire per sole quattro ore e mezzo, ma purtroppo fu costretto a tornare alle cinque. Sarebbe stato felicissimo di passare tutti i momenti di veglia impegnato in ciascuna delle diverse occupazioni. Era con rammarico che smetteva di scrivere per immergersi nello studio, che cessava di studiare per andare in biblioteca e che infine si allontanava anche da lì, dai libri in cui era delineata la geografia della cultura, e dalle riviste, meravigliosi mercati pieni dei segreti degli scrittori che erano riusciti a vendere la propria merce. Quando dopo essersi intrattenuto con Ruth si alzava per congedarsi, era come se gli si spezzassero le fibre del cuore; e copriva di corsa le buie strade verso casa, nell’ansia bruciante di tornare ai libri senza perdere un attimo di tempo. Ma il dolore più acuto era quando doveva chiudere il testo di algebra o di fisica, metter giù quaderno e matita, e chiudere al sonno gli occhi affaticati. Non sopportava il pensiero di arrestare la vita, sia pure per un periodo brevissimo, e la sua sola consolazione era di fissare la sveglia perché suonasse cinque ore dopo. Avrebbe perso solo cinque ore, prima che il rumore stridulo della suoneria lo facesse uscire dall’incoscienza aprendogli le porte alle diciannove ore di un’altra radiosa giornata.

Nel frattempo le settimane passavano, il denaro diminuiva e non ne arrivava altro. Un mese dopo la spedizione, «The Youth’s Companion» gli restituì le puntate del racconto di avventure destinato ai ragazzi. Il biglietto di rifiuto era formulato con tanta cortesia che provò simpatia per il direttore. Non ne sentì altrettanta per il responsabile editoriale del «San Francisco Examiner». Dopo un’attesa di due settimane Martin gli scrisse, e dopo un’altra settimana gli spedì una nuova lettera. Alla fine del mese andò a San Francisco con l’intenzione di presentarsi al direttore in persona, ma non poté incontrare questo nobile personaggio a causa di un cerbero che, sotto le sembianze di un giovane usciere con i capelli rossi, gli impedì di oltrepassare la soglia di entrata. Il manoscritto gli fu recapitato per posta al termine della quinta settimana, senza alcun biglietto di rifiuto, spiegazione o altro. Gli altri articoli rimasero bloccati nello stesso modo presso gli altri importanti giornali di San Francisco. Quando riuscì a riaverli li spedì a riviste dell’Est, che li restituirono con maggiore sollecitudine accompagnandoli sempre con biglietti stampati di rifiuto.

I racconti venivano respinti nello stesso modo. Rileggendoli più e più volte li trovava così belli da non riuscire a capacitarsene, finché un giorno lesse in un giornale che tutti i testi dovevano essere presentati dattiloscritti. Ora era chiaro! Naturalmente i direttori erano così impegnati che non potevano perdere tempo e fatica a decifrare pagine scritte a mano. Martin affittò una macchina per scrivere e impiegò una giornata per imparare a usarla. Ogni giorno batteva quello che componeva e i vecchi manoscritti che nel frattempo gli venivano restituiti. Ebbe però la sorpresa di vedere che anche i dattiloscritti gli venivano rispediti. La mascella gli divenne più quadrata, il mento più aggressivo, e riprese a spedire manoscritti a nuovi direttori.

Gli venne in mente di non essere un buon giudice della propria opera, e provò con Gertrude, cui lesse ad alta voce i racconti. La sorella lo guardò con occhi lucidi e un’espressione di orgoglio dicendogli:

«Sei proprio in gamba a scrivere queste cose».

«Sì, sì», chiese lui con impazienza. «Ma il racconto, ti è piaciuto?».

«È forte», fu la risposta. «Proprio forte, e anche commovente. Sono tutta sottosopra».

Vide che non aveva capito bene. C’era una forte perplessità sulla sua faccia bonaria. Aspettò.

«Ma, dimmi, Mart», disse la donna dopo una lunga pausa, «come è andata a finire? Quel giovanotto che parlava con tutti quei paroloni, è riuscito ad averla, la ragazza?».

E dopo che lui le ebbe spiegato la fine, che gli era parsa tanto artisticamente ovvia, lei disse:

«Era questo che volevo sapere. Ma perché non l’hai scritto nella storia?».

Quello che apparve chiaro dopo diverse letture era che le piacevano i racconti a lieto fine.

«Questa storia è proprio forte», dichiarava la sorella sollevandosi dalla tinozza del bucato con un sospiro di stanchezza e asciugandosi il sudore della fronte con la mano rossa e fumante; «ma mi ha fatto venire la malinconia. Ho voglia di piangere. Ci sono già tante cose brutte al mondo. Sono contenta, invece, se posso pensare a cose belle. Ora se lui avesse sposato lei, e… non ti dispiace se ti dico questo, Mart?», aggiunse con tono apprensivo. «Beh, forse sono così per via della stanchezza. Ma la storia era in gamba lo stesso, proprio in gamba. A chi la vendi?».

«Questa è un’altra faccenda», rispose lui ridendo.

«Ma se la vendi, quanto pensi che ne ricaverai?».

«Oh, un centinaio di dollari. È il minimo in questo campo».

«Cavolo! Spero proprio che la vendi!».

«Facile far soldi così, eh?». Poi aggiunse orgogliosamente: «L’ho scritta in due giorni. Sono cinquanta dollari al giorno».

Moriva dalla voglia di leggere a Ruth i suoi racconti, ma non osava. Decise che avrebbe aspettato che fossero pubblicati; lei allora avrebbe capito che cosa lo aveva impegnato intensamente per tanto tempo. Nel frattempo continuava a lavorare sodo. Mai lo spirito di avventura lo aveva affascinato come in questa straordinaria esplorazione nel regno dell’intelletto umano. Comprò testi di fisica e chimica, che, con quello di algebra, lo impegnarono in problemi e dimostrazioni. Accettava come dimostrate le prove di laboratorio, vedendo con gli acuti occhi della mente le reazioni chimiche più chiaramente di quanto lo studente ordinario non le vedesse nel laboratorio stesso. E si addentrava in quelle fitte pagine, sbalordito dai segreti che scopriva nella natura delle cose. Aveva accettato il mondo come tale, ma ora comprendeva come fosse organizzato e quale fosse l’interazione fra forza e materia. In tal modo vecchie questioni trovavano una spontanea spiegazione. Affascinato da leve e pulegge tornava con la mente ai verricelli, alle carrucole e agli argani usati in mare. La teoria della navigazione, che consentiva alle navi di coprire senza sbagliare un immenso oceano privo di sentieri, gli divenne chiara. Gli si rivelarono i misteri delle tempeste, delle piogge e delle maree, e l’origine degli alisei lo indusse a chiedersi se non avesse scritto troppo presto l’articolo sui venti del nord-est. In ogni caso adesso sapeva che poteva scriverlo meglio. Un pomeriggio andò con Arthur all’Università della California dove, con il fiato sospeso e un senso di rispetto religioso, passò per i laboratori, vide dimostrazioni e ascoltò le lezioni di un professore di fisica.

Ma non trascurava l’attività letteraria. I racconti gli fluivano facilmente dalla penna, mentre in campo poetico passò a composizioni più agevoli, del tipo che aveva visto pubblicato nelle riviste. Sprecò anche due settimane perdendo la testa su una tragedia in versi sciolti, il cui rifiuto da parte di una mezza dozzina di riviste lo stupì. Poi scoprì Henley e scrisse una serie di liriche di argomento marino sul modello degli Hospital Sketches. Erano poesie semplici, piene di luce e di colore, di fantasia e di avventura. Le intitolò Liriche del mare e le giudicò l’opera migliore che avesse mai fatto. Erano trenta e le completò in un mese, componendone una ogni giorno dopo un’intera giornata trascorsa a scrivere narrativa, con un carico di lavoro corrispondente a quello che gli scrittori di successo ripartivano normalmente nel corso di una settimana. Non avvertiva la stanchezza. Tutta quell’attività non gli costava fatica. Stava trovando il linguaggio, e tutta la bellezza e l’ammirazione che per anni erano rimaste sigillate da labbra inerti sgorgavano ora in un flusso potente e selvaggio.

Non mostrò a nessuno le Liriche del mare, neppure ai direttori dei giornali, di cui ora non si fidava più. Ma non era la diffidenza che gli impedì di inviare loro quelle composizioni. Gli sembravano così belle che sentiva di doverle conservare per dividerle con Ruth per quel lontano splendido giorno in cui avrebbe trovato il coraggio di leggerle ciò che aveva scritto. Nell’attesa le teneva con sé, le rileggeva, le declamava ad alta voce, fino a saperle a memoria.

Viveva intensamente ogni momento delle ore di veglia e durante le cinque ore di sonno tornava con la mente inquieta ai pensieri e agli eventi della giornata, che ricostruiva in combinazioni grottesche e impossibili. Di fatto non trovava mai riposo, e un fisico più debole o una mente meno equilibrata, avrebbero subìto un collasso. Le visite a Ruth del tardo pomeriggio erano adesso più rare, perché giugno era vicino, ed avrebbe finito l’università conseguendo la laurea. Dottore in lettere! Al pensiero di quella proclamazione, gli parve che la ragazza si allontanasse da lui diventando irraggiungibile.

Ruth gli concedeva una visita la settimana e arrivando tardi Martin si fermava di solito a cena e per l’ascolto della musica, che concludeva la serata. Erano quelli i suoi giorni di festa. L’atmosfera della casa, così contrastante con quella in cui viveva, e la semplice vicinanza di lei, lo rafforzavano ogni volta nella decisione di elevarsi fino a lei. Nonostante la bellezza che sentiva in sé e l’acuto desiderio di creare, era per lei che lottava. Era prima di tutto e sempre un uomo che amava, e ogni altra cosa era subordinata al suo amore. Quell’avventura dei sentimenti era per lui molto più importante di quella dell’intelletto. Il mondo stesso non era meraviglioso per gli atomi e le molecole che lo formavano combinandosi per l’attrazione di forze irresistibili; ciò che lo rendeva straordinario era il fatto che in esso vi fosse Ruth, la cosa più sublime che avesse conosciuto, sognato o intuito.

E tuttavia era sempre tormentato dall’abisso che lo separava dalla fanciulla. Era così distante che non sapeva come avvicinarla. Aveva avuto successo con le ragazze e le donne del suo ambiente, ma non ne aveva mai amata una, mentre amava lei, che per giunta non era neppure di un altro ceto perché il suo amore la sollevava al di sopra di tutte le classi. Era una creatura diversa e così remota che Martin non sapeva in che modo accostarla, come deve fare ogni innamorato. Le era meno lontano, era vero, a mano a mano che acquisiva abilità nel linguaggio, che allargava la propria cultura, che parlava il suo idioma, che scopriva di avere le stesse idee e di amare le medesime cose; ma tutto questo non appagava la sua brama di innamorato. La sua fantasia di amante ne aveva fatto qualcosa di troppo sacro, troppo divino, troppo spiritualizzato per pensare che potesse avere con lui contatti fisici. Era stato proprio l’amore a spingerla lontano da lui e a fargliela sembrare irraggiungibile. L’amore stesso gli negava l’unica cosa che desiderava.

Poi un giorno, senza che nulla lo lasciasse presagire, l’abisso che era fra loro fu colmato, e in seguito divenne sempre meno profondo, pur non scomparendo del tutto. Avevano mangiato ciliege – grandi, saporite, nere e ricche di un succo scuro come il vino rosso. E più tardi, mentre lei gli leggeva The Princess, Martin notò casualmente la macchia che le era rimasta sul labbro. Per un momento la sua natura divina ne fu distrutta. Il corpo di lei era di argilla, dopo tutto, soggetto alla stessa legge cui obbediva il corpo di lui e quello di tutti gli uomini. Le labbra di lei erano fatte di carne, come quelle di lui, e come quelle di lui si potevano macchiare con il succo delle ciliege. E come per le labbra era per tutto il resto. Ruth era una donna, lo era in ogni sua parte, come qualunque altra donna. Questa rivelazione gli arrivò all’improvviso, lasciandolo sbigottito. Era come se avesse visto il sole precipitare dal cielo, o la profanazione della purezza divina.

Quando capì il senso di quell’episodio, il cuore cominciò a battergli forte, spingendolo a comportarsi da innamorato con quella donna, che non era uno spirito arrivato da un altro mondo, ma una semplice creatura le cui labbra potevano essere macchiate dalle ciliege. Tremava per l’audacia di quel pensiero, ma tutto ciò che l’anima sua sentiva e celebrava in un peana trionfante lo assicurava che aveva ragione. Qualcosa di questo mutamento avvenuto in lui dovette essere percepito dalla ragazza, che smise di leggere, lo fissò e sorrise. Egli abbassò lo sguardo dagli occhi azzurri alle labbra di lei, e la vista della macchia lo fece impazzire. Stava per stringerla fra le braccia, come aveva fatto tante volte nel corso della sua vecchia vita spensierata. Lei parve avvicinarsi a lui in attesa, Martin fece uno sforzo sovrumano per trattenersi.

«Non ha ascoltato una sola parola», gli disse con l’aria imbronciata.

E quindi rise, felice dell’imbarazzo di lui, mentre Martin, guardandola negli occhi limpidi, si accorse che non aveva intuito nulla di quello che lui aveva provato e ne fu confuso. Era andato troppo in là col pensiero. Tutte le donne che aveva conosciuto avrebbero intuito, tranne lei. Lei no. Quella era la differenza. Lei era diversa. Era inorridito dalla propria rozzezza e muto di fronte alla cristallina innocenza di lei, e la fissò di nuovo dall’altra parte dell’abisso. Il ponte era crollato.

E tuttavia quell’episodio lo aveva avvicinato a lei. Ora lo riviveva nei ricordi, e nei momenti in cui più era abbattuto vi tornava con ardore. L’abisso non fu mai profondo come era stato in precedenza. Martin aveva coperto una distanza molto maggiore di quella che lo separava dalla laurea, da una dozzina di lauree. Lei era pura, era vero, di una purezza che egli non avrebbe mai potuto immaginare, ma le sue labbra erano macchiate dalle ciliege. Era soggetta alle leggi dell’universo non meno inesorabilmente di lui. Per vivere doveva mangiare e quando aveva i piedi bagnati le veniva il raffreddore. Ma soprattutto ciò significava un’altra cosa. Se sentiva la fame e la sete, il caldo e il freddo, poteva sentire anche l’amore – l’amore per un uomo. Beh, lui era un uomo. Perché non poteva essere lui quell’uomo? «Spetta a me fare in modo che ciò avvenga», mormorava fra sé con fervore. «Io sarò quell’uomo. Farò di me quell’uomo. Ci riuscirò».

XII

Durante le prime ore della sera, mentre era alle prese con un sonetto cui non riusciva a dare tutta la bellezza e la profondità che palpitavano e risplendevano invece nel suo cervello, Martin fu chiamato al telefono.

«È la voce di una signora, di una signora fine», gli disse con tono beffardo Higginbotham, che era venuto a chiamarlo.

Martin andò al telefono all’angolo della stanza e si sentì investire da un’ondata di calore nell’ascoltare la voce di Ruth. Nella lotta con il sonetto aveva dimenticato l’esistenza di lei, e a quegli accenti il suo amore lo colpì come una mazzata. E quale voce! – dolce e delicata come una musica udita appena in lontananza, o meglio perfetta e purissima come il rintocco di una campana d’argento. Nessuna donna aveva una voce come quella. In essa c’era qualcosa di celestiale, che veniva da altri mondi. Non riusciva quasi a capire che cosa dicesse, tanto ne era rapito, anche se tentava di controllare l’espressione del viso, perché sapeva che gli occhi da furetto di Higginbotham erano fissati su di lui.

Non era molto quello che Ruth voleva dirgli: semplicemente che Norman avrebbe dovuto portarla a una conferenza quella sera ma aveva il mal di capo, e che lei era così delusa e che aveva già i biglietti; se Martin non aveva altri impegni per quella sera, sarebbe stato così gentile da accompagnarla?

Sarebbe stato così gentile! Fece uno sforzo immenso per non far trasparire l’entusiasmo della voce. L’aveva sempre vista in casa, non avendo mai osato invitarla ad andare in qualche posto con lui. Assurdamente, mentre era ancora al telefono, sentì un prepotente desiderio di morire per lei, e visioni di eroici sacrifici apparivano e sparivano nel suo cervello in tumulto. Il suo amore era così forte, così terribile, così disperato! E in quel momento di folle felicità per il fatto che uscisse con lui, che andasse a una conferenza con lui – con lui, Martin Eden – Ruth si librò così in alto che non gli parve vi fosse altro da fare se non morire per lei. Era il solo modo per esprimere la nobile e intensa commozione che sentiva. Era il sublime spirito di sacrificio del vero amore che prende tutti gli amanti, e che lo attanagliò proprio in quel momento, al telefono, in un turbine di passione e di beatitudine; e capiva che morire per lei era la degna conclusione dell’aver ben vissuto e amato. Aveva ventun anni e non era mai stato innamorato prima di allora.

Riattaccò il ricevitore con mani tremanti e si sentì debole per quella voce che lo aveva sconvolto. Aveva gli occhi raggianti come quelli di un angelo, e il viso, trasfigurato di ogni residuo terreno, era di una purezza celeste.

«Hai un appuntamento fuori, eh?», osservò il cognato sogghignando. «Sai che cosa ti può capitare. Puoi finire negli uffici della polizia».

Ma Martin non riuscì a ripiombare a terra. Neppure la volgarità di quell’allusione fu sufficiente a toglierlo dall’empireo in cui si trovava. Era superiore all’ira e alla provocazione. Aveva avuto una grande visione ed era come un dio, che avvertiva solo una grande e profonda pena per il verme che strisciava al suolo. Non lo guardò e sebbene rivolgesse gli occhi verso di lui non lo vide mentre gli passava davanti per andare a cambiarsi. E fu solo mentre in camera sua si annodava la cravatta che percepì un suono sgradevole all’udito. Aguzzate le orecchie, lo identificò come l’ultimo sarcasmo di Bernard Higginbotham, che fino ad allora non aveva percepito.

Quando il portone della casa di Ruth si chiuse alle loro spalle ed egli scese gli scalini con lei si sentì molto turbato. Accompagnarla alla conferenza non era solo fonte di gioia per lui, perché non sapeva che fare. Aveva visto che nelle strade le donne della sua classe sociale prendevano il braccio dell’uomo, ma qualche volta non lo facevano, e si chiedeva se ciò avvenisse solo la sera, o solo fra marito e moglie o fra congiunti.

Poco prima di arrivare al marciapiede si ricordò di Minnie, che era sempre stata attenta a queste cose. La seconda volta che erano usciti insieme lo aveva rimproverato perché le si era messo al fianco dalla parte interna della strada, mentre secondo lei le regole imponevano al gentiluomo di camminare sul lato esterno quando si trovava con una signora. E Minnie aveva l’abitudine di allungargli un calcio quando si trasferivano da una parte all’altra di una via per ricordargli che doveva passare alla parte esterna. Si chiedeva dove avesse scovato quella regola di etichetta e se fosse arrivata a lei dal bel mondo e quindi fosse corretta.

Decise che quando fossero giunti al marciapiede avrebbe anche potuto metterla alla prova; passò quindi dietro Ruth e le si portò all’esterno. Poi gli si presentò l’altro problema. Avrebbe dovuto offrirle il braccio? In vita sua non lo aveva mai fatto. Le ragazze che aveva conosciuto non prendevano mai il braccio dell’uomo. Con loro la prima volta che si usciva si camminava a fianco a fianco senza toccarsi, poi veniva il momento delle braccia allacciate alla vita e della testa appoggiata alla spalla quando le strade erano poco illuminate. Ma questo caso era diverso. Lei non era quel tipo di ragazza. Doveva fare qualcosa.

Standole accanto piegò il braccio: lo fece impercettibilmente, non volendo far vedere che la stava invitando, ma in modo casuale, come se fosse abituato a camminare in quel modo. Ed ecco avvenire il miracolo. Sentì sul braccio la mano di lei. A quel contatto fu percorso da brividi di felicità e per alcuni attimi dolcissimi gli parve di aver lasciato la solida terra e di librarsi con lei nell’aria. Ma subito tornò al suolo turbato da una nuova complicazione. Poiché stavano traversando la strada si sarebbe trovato sul lato interno invece che sull’esterno. Doveva lasciarle il braccio e passare dall’altra parte? E se lo avesse fatto, avrebbe dovuto ripetere l’operazione ogni volta che fosse richiesto? E ad ogni attraversamento? C’era qualcosa che non funzionava, e decise che non era il caso di continuare a passare da una parte all’altra come un burattino. E tuttavia questa soluzione non lo soddisfaceva, e quando si trovò dal lato sbagliato si mise a parlare intensamente e con animazione, facendo apparire di essere così trascinato dalla foga del discorso che l’eventuale errore per non essersi trasferito dalla parte giusta fosse dovuto a quell’eccessivo entusiasmo.

Mentre passavano per Broadway, si trovò di fronte a un nuovo problema. Nel bagliore delle lampade elettriche vide Lizzie Connolly con la sua amica che rideva sempre. Ebbe un solo attimo di esitazione, prima di portare la mano alla testa e di togliersi il cappello. Non poteva essere sleale verso il suo ceto, e non era alla sola Lizzie Connolly che andava il suo saluto. Lei gli rivolse un cenno di saluto col capo e lo guardò apertamente, non con dolce gentilezza come Ruth, ma con occhi duri e splendenti che dopo averlo sfiorato si posarono sulla sua accompagnatrice analizzandone il viso, l’abito e la posizione sociale. Si accorse che anche Ruth osservava rapidamente con occhi timidi e miti come quelli di una colomba, che avvolsero, in un rapido sguardo fuggevole, la giovane operaia con i suoi fronzoli a buon mercato e quello strano cappello che tutte le ragazze della sua classe allora portavano.

«Che bella ragazza!», disse Ruth un attimo dopo.

Martin l’avrebbe abbracciata, ma rispose:

«Non saprei. Immagino che i gusti siano una questione molto personale, ma non la vedo come particolarmente bella».

«Però non esiste una donna su diecimila che abbia lineamenti regolari come i suoi. Sono splendidi. Il viso sembra un cammeo. E gli occhi sono bellissimi».

«Crede?», chiese Martin distrattamente, perché per lui c’era al mondo una sola donna bella, che si trovava al suo fianco e gli teneva la mano sul braccio.

«Se lo credo? Certo. Se quella ragazza avesse la possibilità di vestirsi in modo adeguato, signor Eden, e se le insegnassero il portamento, lei ne rimarrebbe abbagliato, come tutti gli altri uomini».

«Dovrebbe anche imparare a parlare», osservò «altrimenti la maggior parte degli uomini non capirebbe un quarto di ciò che dice nel suo linguaggio normale».

«Sciocchezze! Lei è cattivo come Arthur quando sostiene il suo punto di vista».

«Lei dimentica come parlavo io quando ci siamo conosciuti. Dopo di allora ho imparato una nuova lingua, ma in quel periodo mi esprimevo come quella ragazza. Adesso so parlare a sufficienza la sua lingua da poterle assicurare che lei non conosce l’idioma di quella ragazza. E sa perché ha quel portamento? Ora rifletto su queste cose, anche se una volta non lo facevo, e comincio a capire… molto».

«Perché?».

«Da anni lavora per molte ore alle macchine. Quando si è giovani il corpo è flessibile, e la fatica lo modella come creta facendogli assumere le forme del mestiere. Potrei dirle a prima vista che lavoro fanno molti operai che incontriamo in strada. Guardi me. Perché cammino dondolando? Per gli anni che ho trascorso in mare. Se avessi impiegato lo stesso periodo, quando il corpo era giovane e malleabile, a marchiare il bestiame, adesso non dondolerei ma avrei le gambe arcuate. E così è per quella ragazza. Avrà notato che aveva occhi che si potrebbero dire duri. Non ha mai avuto protezioni. Ha dovuto provvedere a se stessa e nessuna ragazza può farlo mantenendo uno sguardo dolce e gentile – come il suo per esempio».

«Penso che lei abbia ragione», disse Ruth a bassa voce. «Ed è un vero peccato. Una ragazza così bella».

Guardandola le vide negli occhi un velo di tristezza. E allora si ricordò che l’amava e rifletté sulla fortuna che gli aveva permesso di amarla e di accompagnarla a una conferenza al suo braccio.

Chi sei, Martin Eden? chiese all’immagine riflessa nello specchio quella sera tornando in camera sua. Si osservò a lungo e con curiosità. Chi sei tu? Che cosa sei? Qual è il tuo posto? Appartieni legittimamente a ragazze come Lizzie Connolly. Sei uno dei moltissimi per i quali la vita è fatta di fatica e tutto è ignobile, volgare e privo di bellezza. Il tuo posto è vicino ai buoi e alle bestie da soma, in luoghi sporchi e pieni di puzza e di odori cattivi. Senti il lezzo della verdura marcia ora? Queste patate stanno andando a male. Annusa bene, accidenti a te! E tuttavia osi aprire i libri, ascoltare la bella musica, amare i bei quadri, parlare in un linguaggio corretto, avere pensieri diversissimi da quelli della gente come te, strapparti dalla compagnia dei buoi e delle Lizzie Connolly e amare uno spirito esangue, una donna che è lontanissima da te e che vive fra le stelle! Chi sei tu? Che cosa sei? Accidenti a te! Farai qualcosa di buono?

Agitò il pugno contro la figura che lo guardava dallo specchio e per qualche tempo si sedette sul bordo del letto a sognare a occhi aperti. Poi estrasse il quaderno e il testo di algebra e si smarrì in equazioni quadratiche, mentre le ore scivolavano via, le stelle impallidivano e il grigio dell’alba inondava la finestra.

XIII

Fece la grande scoperta grazie a quel gruppo di verbosi socialisti e filosofi proletari che si radunavano nei caldi pomeriggi nel City Hall Park. Una volta o due al mese percorrendo il parco diretto alla biblioteca, Martin scendeva dalla bicicletta per ascoltare le discussioni, e ogni volta se ne allontanava con riluttanza. Il tono dei discorsi era molto meno elevato che alla tavola del signor Morse. Non erano uomini gravi e dignitosi. Non di rado perdevano le staffe e si insultavano, mentre spesso dalle loro labbra uscivano imprecazioni e oscenità. Una o due volte li aveva visti venire alle mani. E tuttavia, senza che riuscisse a spiegarsene il motivo, gli sembrava che ci fosse qualcosa di valido in quelle argomentazioni. Le loro dispute verbali erano per il suo cervello molto più stimolanti del dogmatismo quieto e riservato del signor Morse. Quegli uomini, che si esprimevano in un linguaggio abominevole, gesticolavano come pazzi e combattevano in modo primitivo le idee degli interlocutori, gli parevano per alcuni aspetti più vivi del signor Morse e del suo amico, il signor Butler.

Durante quelle discussioni Martin aveva sentito citare più volte Herbert Spencer, ma un giorno comparve un discepolo del pensatore, un vagabondo male in arnese con una sudicia giacca abbottonata fino al collo per nascondere la mancanza della camicia. Si scatenò un’epica battaglia, tra il fumo di molte sigarette e gli sputi di una grande quantità di tabacco da masticare, nella quale il vagabondo tenne bene il campo anche quando un operaio socialista disse in tono di scherno: «Non c’è altro Dio al di fuori dell’Inconoscibile, e Herbert Spencer è il suo profeta». Martin rimase perplesso sulla natura del dibattito, ma quando proseguì per la biblioteca portò con sé un nuovo interesse per Herbert Spencer, e prelevò una copia dei Primi principi per la frequenza con cui il vagabondo li aveva nominati.

Cominciò così la grande scoperta. Già in passato aveva tentato di leggere Spencer, ma avendo cominciato con i Principi di psicologia aveva fallito totalmente, non diversamente da ciò che gli era capitato con le opere di Madame Blavatsky. Non era riuscito a capire nulla del libro, che aveva restituito senza leggere. Ma quella sera dopo l’algebra e la fisica, e un tentativo con un sonetto, andando a letto aprì i Primi principi. La mattina lo sorprese ancora impegnato a leggere. Non era riuscito a dormire. Quel giorno non scrisse nulla. Rimase sdraiato a letto fino a quando il corpo lo sopportò, e in seguito provò a distendersi sul duro pavimento, continuando a leggere dal volume che teneva alzato sopra la faccia, oppure girandosi ora su un fianco ora sull’altro. La notte successiva dormì e la mattina seguente scrisse finché non fu di nuovo tentato da quell’opera, che rimase a leggere per tutto il pomeriggio, dimentico di tutto e persino del fatto che quello era il pomeriggio concessogli da Ruth. Ebbe la prima consapevolezza del mondo che si trovava intorno a lui quando Bernard Higginbotham aprì bruscamente la porta per chiedergli se pensava di essere in un albergo.

Per tutta la vita Martin Eden era stato spinto dalla curiosità. Voleva sapere, ed era stato questo desiderio a fargli cercare l’avventura nelle varie parti del mondo. Tuttavia Spencer gli insegnava ora che non aveva appreso nulla, che non avrebbe mai potuto imparare nulla se avesse continuato per sempre a navigare e a girare. Aveva solo sfiorato la superficie delle cose, osservando fenomeni staccati, accumulando frammenti di fatti, traendo conclusioni superficiali – il tutto in modo slegato, in un universo arbitrario dominato dal disordine e dalla casualità. Aveva osservato il meccanismo del volo degli uccelli, facendone oggetto di attenta riflessione; ma non gli era mai venuto in mente di cercare di spiegare il processo attraverso il quale queste creature si erano evolute in perfette macchine volanti. Non aveva mai neppure immaginato che un processo di questo genere potesse esistere. Era inconcepibile che gli uccelli avessero avuto un’origine. C’erano sempre stati; erano parte dell’esistente.

E come per gli uccelli era stato per tutto il resto. I suoi sciocchi e velleitari tentativi nel campo della filosofia non avevano prodotto frutto. La metafisica medievale di Kant non gli aveva fornito la chiave di nulla, ed era solo servita a fargli nascere qualche dubbio sulle proprie capacità intellettuali. Analogamente il tentativo di studiare l’evoluzionismo non era andato più in là di un’opera aridamente tecnica di Romanes. Non aveva capito nulla e la sola idea che ne aveva ricavato era che l’evoluzionismo era una teoria priva d’anima proposta da uomini di statura modesta ma in possesso di un vocabolario vasto e incomprensibile. Ora invece aveva appreso che l’evoluzione non era una semplice teoria, ma un processo dello sviluppo ormai comunemente accettato dagli scienziati, le cui sole differenze riguardavano il metodo.

Ed ecco arrivare questo Spencer, che gli organizzava tutte le conoscenze, che riduceva tutto all’unità, che elaborava le realtà ultime e che presentava al suo sguardo sbalordito un universo realizzato con tanta concretezza da renderlo simile a quei modellini di nave che i marinai costruiscono all’interno delle bottiglie. Non c’era arbitrio o casualità. Tutto era legge. Era in ottemperanza alla legge che l’uccello volava, che il fermento del fango si era trasformato in torsione e palpito, che aveva messo zampe e ali ed era diventato uccello.

Martin aveva salito tutti i gradini dell’esistenza intellettuale e adesso era al livello più alto che avesse mai raggiunto. Tutte le cose nascoste gli svelavano i loro segreti e quelle scoperte lo mettevano in uno stato di esaltazione. La notte, nel sonno, viveva accanto agli dei in visioni di incubo; di giorno, durante la veglia, girava come un sonnambulo, fissando con lo sguardo assente il mondo che aveva appena scoperto. A tavola non seguiva gli argomenti futili o elevati che erano oggetto di conversazione, ma cercava di scorgere in tutto ciò che si trovava davanti agli occhi processi di causa ed effetto. Nella carne che gli stava sul piatto vedeva i raggi del sole, la cui energia, attraverso infinite trasformazioni, era giunta fino a lì da una fonte a qualche centinaio di milioni di chilometri di distanza, ed era presente anche nel movimento dei muscoli che gli consentivano di tagliare la carne, o nel lavorio del cervello attraverso il quale impartiva gli ordini ai muscoli, finché rivolgendo lo sguardo dentro di sé, lo rivedeva splendere nella luce della mente. Era così preso da quella illuminazione che non sentì Jim mormorare «Gabbia di matti», né vide l’ansietà dipinta sul viso della sorella, né notò il movimento circolare del dito con cui Bernard Higginbotham indicava che nel cervello del cognato c’era qualche rotella che girava storta.

Ciò che, in un certo senso, più colpì Martin fu il rapporto che esisteva fra tutte quelle conoscenze – fra tutti gli aspetti della cultura. Aveva sempre avuto una grande curiosità di sapere, e tutto ciò che apprendeva era da lui incasellato in una diversa celletta della memoria nel cervello. Così sul tema della navigazione aveva un’immensa quantità di informazioni, mentre sulla donna ne aveva un buon numero. Ma questi due campi erano rimasti privi di collegamenti. Fra le due cellette non c’era stato alcun rapporto. Che dal punto di vista della struttura culturale vi potesse essere un legame fra l’isteria di una donna e una nave con il timone sopra vento o messa alla cappa nella tempesta lo avrebbe colpito come ridicolo e impossibile. Ma Herbert Spencer gli aveva dimostrato non solo che non era ridicolo, ma anche che era impossibile che non vi fosse alcuna relazione. Ogni cosa era connessa a ogni altra della più remota stella negli spazi sterminati del cielo alle miriadi di atomi dei granelli di sabbia sotto i nostri piedi. Questa nuova idea era motivo di sbalordimento continuo per Martin, che era incessantemente impegnato a tracciare i rapporti fra ciò che si trovava sotto il sole e ciò che era al di là del sole. Preparò elenchi delle cose più incongrue e non fu soddisfatto fino a che non riuscì a stabilire una parentela fra tutte – amore, poesia, terremoti, fuoco, serpenti a sonagli, arcobaleni, pietre preziose, mostri, tramonti, il ruggito dei leoni, il gas illuminante, il cannibalismo, la bellezza, il delitto, gli innamorati, le leve e il tabacco. Unificato in tal modo l’universo, lo guardava tenendolo sollevato, o ne percorreva le vie, le tracce e le giungle, non come l’atterrito viaggiatore che cerca una meta sconosciuta in mezzo a misteri impenetrabili, ma osservando, annotando tutto, familiarizzandosi con ciò che era degno di essere appreso. E più capiva, più ammirava la vita dell’universo e la propria vita al centro di tutto.

«Stupido!» esclamò rivolto all’immagine di se stesso nello specchio. «Volevi scrivere e ci hai provato, ma in te non c’era nulla di cui scrivere. Che avevi dentro di te?… Qualche nozione puerile, sentimenti immaturi, un mal formato senso del bello, una grande e profonda ignoranza, un cuore pieno d’amore fino a scoppiare e un’ambizione smisurata come il tuo amore e vacua come la tua ignoranza. E volevi scrivere! Ma via… solo adesso cominci ad avere in te qualcosa di cui valga la pena scrivere. Volevi creare bellezza, ma come potevi farlo quando non sapevi nulla della natura della bellezza? Volevi scrivere della vita quando non sapevi nulla delle caratteristiche essenziali della vita. Volevi scrivere del mondo e del disegno dell’esistenza, quando il mondo non era altro per te che un rompicapo cinese, e tutto quello che avresti potuto scrivere sarebbe stato sul disegno dell’esistenza, che non conoscevi. Ma fatti coraggio Martin, ragazzo mio. Scriverai, tuttavia. È poco ciò che sai, è pochissimo, ma sei sulla strada giusta per imparare. E un giorno, se avrai fortuna, arriverai quasi a conoscere tutto ciò che è possibile conoscere. Allora scriverai».

Portò a Ruth questa grande scoperta, facendola partecipe di tutta la gioia e lo stupore che aveva provocato in lui, ma lei non ne sembrò così entusiasta. L’accettava tacitamente e, in una certa misura, pareva esserne venuta al corrente durante il corso di studi che aveva seguito, ma non la colpiva profondamente come era avvenuto per lui, tanto che egli ne sarebbe stato sorpreso se non avesse pensato che per lei non aveva avuto quei caratteri di novità assoluta e sconvolgente che aveva per lui. Scoprì che Arthur e Norman credevano nell’evoluzione e avevano letto Spencer, anche se la sua opera non sembrava aver fatto loro grande impressione, mentre il giovanotto con gli occhiali e la gran massa di capelli, Will Olney, assunse nei confronti del filosofo un’aria di scherno e disprezzo e ripeté l’epigramma: «Non c’è altro Dio che l’Inconoscibile, e Herbert Spencer è il suo profeta».

Tuttavia ciò gli fu perdonato, perché Martin si accorse che non era innamorato di Ruth. Più tardi rimase sbalordito nell’apprendere da diversi piccoli episodi che Olney non solo era indifferente a Ruth, ma che addirittura nutriva per lei una certa antipatia. Questo Martin non lo capiva. Era un tipo di manifestazione che non riusciva a collegare con gli altri fenomeni dell’universo. Ciò nonostante provò compassione per quel giovane cui una qualche menomazione caratteriale impediva di apprezzare in modo adeguato la finezza e la bellezza di Ruth. Diverse volte la domenica andarono sulle colline con la bicicletta e Martin ebbe molte occasioni per osservare la tregua armata fra la ragazza e Olney. Quest’ultimo stava più volentieri con Norman, lasciando Ruth alla compagnia degli altri due, e di ciò Martin gli fu molto grato.

Quelle domeniche erano per Martin giornate meravigliose, soprattutto perché era con Ruth, ma anche perché lo mettevano su un livello di maggiore uguaglianza con i giovani del ceto sociale di lei. Benché l’istruzione che avevano ricevuto fosse il risultato di una preparazione durata molti anni, egli non si sentiva inferiore a loro sul piano intellettuale, e quelle ore trascorse in conversazione gli consentivano di servirsi della grammatica che aveva studiato così intensamente. Aveva abbandonato i libri di buone maniere, affidandosi all’osservazione per sapere quale fosse la condotta corretta. Tranne quando si lasciava trasportare dall’entusiasmo era sempre controllato e prestava una grande attenzione alle piccole cortesie e alle raffinatezze del comportamento.

Il fatto che Spencer fosse pochissimo letto fu per qualche tempo fonte di grande sorpresa per Martin. «Herbert Spencer», disse l’impiegato della biblioteca, «ah, sì, una grande mente». E tuttavia non sembrava conoscere nulla di ciò che era uscito da quella grande mente. Una sera durante una cena a cui era stato invitato anche il signor Butler, Martin volse la conversazione su Spencer. Il signor Morse attaccò con durezza l’agnosticismo del filosofo inglese, ma confessò di non avere letto i Primi principi, mentre il signor Butler dichiarò di non avere pazienza sufficiente per quel pensatore, di non averne mai letto una riga e di vivere benissimo lo stesso. Martin fu assalito da dubbi e se non avesse avuto una forte personalità avrebbe accettato l’opinione generale e lasciato Spencer al suo destino. E tuttavia trovava che quel filosofo spiegava la realtà in modo convincente e che abbandonarlo voleva dire, questa era l’immagine di cui si serviva, comportarsi come il navigatore che butta a mare bussola e cronometro. E così continuò a studiare intensamente l’evoluzione diventando sempre più esperto in quel campo e trovando conferme nelle posizioni autonome di molti altri autori. Più esplorava, più scorgeva campi di indagine ancora sconosciuti, e il rammarico che i giorni durassero solo ventiquattr’ore divenne per lui quasi un’ossessione.

A un certo punto, a causa della brevità delle giornate, decise di rinunciare all’algebra e alla geometria, oltre che alla trigonometria che non aveva mai neppure cominciato. Tolse quindi dalle materie di studio anche la chimica, e mantenne solo la fisica.

«Non sono uno specialista», disse a Ruth per giustificarsi. «Né lo sarò mai. I settori di specializzazione sono tanti, che un uomo, nel corso della vita, non riesce che a dominarne una piccola parte. Devo perseguire una cultura generale e quando avrò bisogno dell’opera di specialisti consulterò i loro testi».

«Non è come conoscere queste cose di prima mano», protestò Ruth.

«Sono conoscenze per noi inutili, perché possiamo ricorrere a quelli che se ne sono occupati in modo specifico. Quando sono arrivato ho notato all’opera gli spazzacamini. Si tratta di specialisti che ci consentono, finito il lavoro, di godere dei vantaggi del camino pulito senza dover necessariamente conoscere nulla della struttura delle canne fumarie».

«Mi sembra un paragone un po’ forzato».

Lo guardò con aria interrogativa, ed egli avvertì un tono di rimprovero in quell’espressione, ma era convinto che la propria posizione fosse giusta.

«Tutti coloro che costruiscono grandi sistemi filosofici, le menti più elette del mondo, si affidano a specialisti. Lo ha fatto anche Herbert Spencer, che ha ricavato conclusioni di carattere generale dalle scoperte di migliaia di ricercatori. Per ottenere lo stesso risultato con le sue sole forze sarebbe dovuto vivere mille volte di più. Di Darwin si può dire lo stesso. Si servì di ciò che avevano imparato i floricoltori e gli allevatori di bestiame».

«Hai ragione Martin», disse Olney. «Tu sai quello che ti occorre e Ruth no. Non sa neppure quello che servirebbe a lei stessa».

«… Oh, proprio così», proseguì il giovane prevenendo le obiezioni della ragazza, «so che cosa intendi per cultura generale, ma questa si può conseguire in molti modi. Puoi studiare francese, o tedesco, o lasciarli entrambi e rivolgerti all’esperanto, e perseguire ugualmente un obiettivo di cultura. Oppure puoi studiare allo stesso fine il latino o il greco, anche se non ti serviranno mai. È tutto cultura. Del resto Ruth ha studiato l’inglese medievale, ed era diventata bravissima due anni fa – e ora tutto quello che ricorda è “Whaen that sweet Aprile with his schowers soote” – non era così che faceva?».

«Ma ti ha dato lo stesso il tono culturale», aggiunse ridendo e prevenendo nuovamente le obiezioni di lei. «Lo so. Eravamo nello stesso corso».

«Ma tu parli di cultura come di un mezzo per arrivare a qualcosa», esclamò Ruth con gli occhi fiammeggianti e le gote chiazzate di rosso, «mentre è fine a se stessa».

«Ma non è quello che vuole Martin».

«Come lo sai?».

«Che cosa vuoi, Martin?», chiese Olney rivolgendosi esplicitamente verso di lui.

Martin si sentiva a disagio e lanciò a Ruth uno sguardo supplichevole.

«Sì, che cosa vuole?», domandò la ragazza. «Così taglieremo corto a tutte le discussioni».

«Sì, naturalmente, voglio la cultura», rispose Martin balbettando. «Amo la bellezza e la cultura mi consente di apprezzarla in modo più completo e razionale».

Ruth fece ampi cenni di approvazione e assunse un’aria trionfante.

«Sono sciocchezze, e tu lo sai», commentò Olney. «Martin persegue la carriera, non la cultura. Solo che nel suo caso la cultura è uno strumento di lavoro nel campo che ha scelto. Se avesse deciso di dedicarsi alla chimica la cultura non gli servirebbe. Martin vuole scrivere, ma ha paura di dirlo perché non vuole smentirti».

«E perché vuole scrivere?», proseguì. «Perché non nuota nell’oro. Perché tu ti rimpinzi la testa di inglese medievale e di cultura? Perché non devi farti strada nel mondo. C’è tuo padre che provvede. Ti compra i vestiti e tutto il resto. A che diavolo serve l’istruzione che abbiamo ricevuto… io, tu, Arthur e Norman? Ne siamo immersi fino alla radice dei capelli, ma se paparino facesse fallimento oggi, domani non riusciremmo neppure a superare gli esami per diventare insegnanti. Il posto migliore che tu, Ruth, sapresti trovare sarebbe in un collegio di provincia, oppure come maestra di musica in un pensionato femminile».

«E tu, di grazia, che cosa credi riusciresti a trovare?».

«Un bel niente. Potrei guadagnare un dollaro e mezzo al giorno come manovale, o potrei – guarda che ho detto «potrei» – diventare istruttore nei corsi accelerati di Hanley ed essere buttato fuori dopo una settimana per incapacità».

Martin seguiva con attenzione la discussione e, pur convinto che Olney aveva ragione, mal tollerava il tono aggressivo che questi aveva adottato nei confronti di Ruth. Ascoltando quei discorsi si era formata in lui una nuova concezione dell’amore, del tutto indipendente dalla razionalità. Non importava che la donna amata ragionasse in modo corretto o scorretto perché l’amore era al di là della ragione. La circostanza per cui Ruth non si rendeva perfettamente conto della sua necessità di costruirsi una carriera non la rendeva meno degna di essere amata. Lo era in tutto e per tutto, invece, e le sue convinzioni non avevano nulla a che fare con l’amore.

«Come hai detto?», disse in risposta a una domanda di Olney che aveva interrotto quelle considerazioni.

«Dicevo che speravo proprio tu non fossi così incosciente da dedicarti allo studio del latino».

«Ma il latino è più che cultura», interruppe Ruth. «È uno strumento indispensabile di conoscenza».

«Allora, lo comincerai?», insistette Olney.

Martin era in grave imbarazzo. Vedeva che Ruth aspettava ansiosamente la risposta.

«Temo che non ne avrò il tempo», disse infine. «Mi piacerebbe, ma non ne avrò il tempo».

«Vedi? Martin non cerca la cultura», disse Olney esultante. «Cerca di farsi strada, di arrivare da qualche parte».

«Ma è una ginnastica mentale. È una disciplina per il cervello, è quello che ci vuole per preparare la mente». Ruth guardò Martin con aria di speranza, come se si aspettasse una modifica del precedente giudizio. «Anche i giocatori di football devono allenarsi prima delle gare. E questa è la funzione del latino. Abitua a ragionare».

«Solenni sciocchezze! Questo è quello che ci hanno detto quando eravamo ragazzini. Ma c’è una cosa che allora non ci hanno detto, lasciando che l’imparassimo da soli in seguito». Olney fece una pausa per aumentare l’effetto e quindi aggiunse: «Quello che non ci hanno detto è che il vero gentiluomo deve studiare il latino, ma non è necessario che lo conosca».

«Questo non è giusto», esclamò Ruth. «Sapevo che avresti stravolto la conversazione in modo da cambiare le carte in tavola».

«L’ho fatto apposta, è vero», fu la risposta, «ma ho ragione io. I soli uomini che conoscano il latino sono i farmacisti, gli avvocati e i professori di latino. E se Martin vuole diventare uno di loro significa che ho sbagliato tutti i miei calcoli su di lui. E comunque che rapporto c’è fra tutto ciò e Herber Spencer? Martin ha appena scoperto Spencer e ne è entusiasta. Perché? Perché gli indica una direzione nuova in cui muoversi, mentre non dice nulla né a me né a te. Noi non abbiamo una carriera da seguire. Tu un giorno ti sposerai, e io non dovrò far altro che tener d’occhio gli avvocati e gli amministratori cui sarà affidato il denaro che mi lascerà mio padre».

Olney si alzò per andarsene, ma alla porta si girò per lanciare un’ultima frecciata.

«Lascia in pace Martin, Ruth. Sa che cosa gli occorre. Guarda quante cose è già riuscito a fare. Qualche volta mi sbalordisce, e mi fa anche provare vergogna per me stesso. Del mondo, della vita, della posizione dell’uomo e di tutto il resto ne sa ora più di Arthur, di Norman, di me e anche di te, nonostante tutto il nostro latino, il nostro francese, il nostro inglese medievale e la nostra cultura».

«Ma Ruth è la mia maestra», rispose Martin con galanteria. «Devo a lei quel poco che ho imparato».

«Stupidaggini!», intervenne Olney guardando la ragazza con espressione maliziosa. «Immagino che ora mi racconterai di aver letto Spencer su suo suggerimento… Ma le cose non stanno così. Di Darwin e dell’evoluzione lei non ne sa più di quanto ne sappia io delle miniere di re Salomone. Com’è quella straordinaria definizione su qualcosa di Spencer che ci hai tirato fuori l’altro giorno… quella storia dell’indefinita, incoerente omogeneità? Buttagliela un po’ addosso, e vediamo se ci capisce qualcosa. Questa non è “cultura”, capisci. Beh, facciamola finita. Ma se tu attacchi con il latino, Martin, non ti guardo più in faccia».

In tutto quel tempo, per quanto attratto dalla discussione, Martin ne era stato infastidito. Benché vertesse sulle materie di studio, sulle lezioni e sui rudimenti della cultura, il suo tono scolastico contrastava con le grandi cose che sentiva fremere in sé – con la presa sulla vita che già gli aveva trasformato le dita in artigli di leone, con l’ansia cosmica che gli vibrava dentro fino a fargli male, con la confusa consapevolezza di essere in grado di dominare tutto ciò. Si paragonava a un poeta che, naufragato sulle rive di una terra sconosciuta nel pieno della propria capacità di esprimere bellezza, si muovesse incerto e balbettante negli oscuri meandri dell’idioma rozzo e barbaro della sua nuova patria. Proprio come lui, che era consapevole, dolorosamente consapevole, dei grandi temi dell’universo, ma si trovava costretto a brancolare e annaspare in mezzo a questioni puerili, e a discutere se dovesse studiare il latino o no.

«Che diavolo c’entra il latino?», chiese quella notte alla propria immagine riflessa nello specchio. «Vorrei che i morti restassero nelle tombe. Perché tutta la bellezza che è in me deve obbedire a regole da loro fissate? Essa è viva e perenne, mentre le lingue nascono e muoiono. Sono la cenere dei trapassati».

Si accorse di avere formulato le proprie idee con grande efficacia, e andò a letto domandandosi perché non gli riuscisse di parlare nello stesso modo quando era davanti a Ruth. In sua presenza era solo un timido scolaretto che si esprimeva in modo impacciato.

«Datemi tempo», disse forte. «Ho solo bisogno di tempo».

Tempo! Tempo! Tempo! era il suo lamento incessante.

XIV

Nonostante Ruth e l’amore che le portava decise infine di non intraprendere lo studio del latino. Giunse a questa conclusione non tanto per le argomentazioni di Olney, quanto per il fatto che questo nuovo impegno avrebbe significato per lui una perdita di tempo e di denaro, e c’erano tante altre cose più importanti di quella lingua, tanti campi di studio che lo reclamavano imperiosamente. Doveva scrivere per guadagnare. Nulla di suo era ancora stato accettato, e una quarantina di manoscritti andavano e venivano senza un attimo di sosta dalle redazioni delle riviste. Come facevano gli altri autori? Passava lunghe ore nella sala di lettura ad esaminare ciò che avevano scritto, studiandone il lavoro con grande attenzione, confrontandolo con il proprio e continuando a chiedersi incessantemente quale trucco segreto avessero scoperto per riuscire a vendere il prodotto del loro lavoro.

Rimase sbalordito dall’enorme quantità di materiale inerte e spento che veniva pubblicato. Era roba priva di luce, di movimento e di colore. Benché non avesse alcun soffio di vita si vendeva a due centesimi la parola, a venti dollari ogni mille parole, come aveva letto in quel ritaglio di giornale. Rimase perplesso davanti a parecchi racconti, scritti con leggerezza e abilità senza dubbio, ma senza vitalità e senso del reale. L’esistenza era così strana e meravigliosa, aveva una tale varietà di problemi, di sogni e di sforzi eroici che era sorprendente come quelle novelle si soffermassero sulle banalità. Egli sentiva quali fossero le tensioni e i palpiti della vita, i suoi deliri, i suoi sudori, i suoi soprassalti selvaggi: queste erano le cose di cui scrivere! Voleva cantare la grandezza di chi perseguiva le cause senza speranza, degli amanti folli, dei giganti che lottavano in preda alle incertezze e alle emozioni, tra terrori e tragedie, facendo gemere il mondo sotto il peso delle loro epiche imprese. E tuttavia i racconti che comparivano sulle riviste sembravano proporsi l’esaltazione di uomini come il signor Butler, dei sordidi cacciatori di dollari, e di scontate storie d’amore di uomini e donne insignificanti e meschini. Forse perché anche i direttori di questi periodici erano insignificanti e meschini? si chiese. O avevano paura della vita, questi scrittori, questi giornalisti e questi lettori?

Ma il suo maggiore problema era che non conosceva né direttori né scrittori. E come se ciò non bastasse non conosceva neppure qualcuno che avesse mai tentato di scrivere. Non c’era nessuno con cui parlare, da cui avere suggerimenti o una parola di consiglio. Cominciò a dubitare che i direttori fossero uomini veri e non ingranaggi di una macchina. Ecco che cos’era tutto quello, un enorme meccanismo. Egli metteva tutta l’anima nei racconti, negli articoli e nelle poesie che poi affidava a quella macchina. Li ripiegava in un certo modo, univa al manoscritto che aveva infilato in una lunga busta i francobolli per la risposta, la sigillava, vi attaccava altri francobolli per la spedizione e la lasciava ricadere nella cassetta delle lettere. Questa attraversava il continente e dopo un certo tempo il postino gli restituiva il manoscritto contenuto in una nuova busta lunga, su cui erano stati apposti i francobolli che aveva allegato. Dall’altra parte non c’era un essere umano, ma un sistema meccanico che toglieva il manoscritto da una busta per metterlo in un’altra su cui incollava i francobolli da lui inviati. Era come le macchine automatiche in cui si inserivano monete grazie alle quali dopo un ticchettio metallico di ingranaggi si otteneva una stecca di gomma da masticare o una tavoletta di cioccolata a seconda della fessura in cui si erano ficcati i soldi. La macchina editoriale funzionava nello stesso modo. Un’apertura portava assegni e l’altra biglietti di rifiuto. Finora aveva trovato solo fessure del secondo tipo.

L’impressione di avere a che fare con un meccanismo impersonale era accentuata dal modo in cui veniva comunicato il rifiuto. Aveva già ricevuto un centinaio di questi biglietti, costituiti da moduli stampati – e almeno una dozzina, o forse anche più, per ciascuno dei manoscritti più vecchi. Se avesse ricevuto un rigo di risposta, una semplice frase di carattere personale, ne avrebbe tratto grande conforto. Ma nessun direttore aveva fornito una simile prova della propria esistenza, e Martin non aveva potuto far altro che giungere alla conclusione che all’altra estremità non c’erano esseri umani, ma solo ingranaggi ben oliati che facevano girare la macchina alla perfezione.

Era un buon combattente, integro e caparbio, e sarebbe stato pronto a continuare ad alimentare quella macchina per molti anni, ma ormai si era quasi dissanguato e la lotta non si sarebbe conclusa dopo anni, ma nel giro di qualche settimana. Ogni scadenza del conto della pensione lo avvicinava alla catastrofe, e non meno onerosa era l’affrancatura dei quaranta manoscritti. Non comprava più libri ed economizzando anche sulle spese minime cercava di ritardare l’inevitabile fine. Ma non era portato a risparmiare e affrettò la conclusione regalando cinque dollari a sua sorella Marian perché si comprasse un vestito.

Lottava oscuramente, senza consigli, senza incoraggiamenti e cercando di vincere lo sconforto. Persino Gertrude cominciava a guardarlo con diffidenza. Dapprima aveva tollerato per amore fraterno ciò che a suo parere era una mania, ma adesso era seriamente preoccupata. Le sembrava che quella fissazione si stesse trasformando in pazzia. Martin se ne accorse e soffriva più per quel cruccio che per l’esplicito e molesto disprezzo di Bernard Higginbotham. Martin aveva fiducia in se stesso, ma era ormai l’unico ad averla dopo che l’aveva persa anche Ruth. La ragazza aveva voluto che si dedicasse allo studio e, pur non disapprovando apertamente la sua attività letteraria, non l’aveva mai neppure approvata.

Non aveva mai osato proporle di leggere ciò che aveva scritto, impeditone da una sorta di pudore. Inoltre era stata molto impegnata negli studi ed egli capiva che non era giusto sottrarle tempo prezioso. Tuttavia, dopo il conseguimento della laurea, fu la ragazza stessa a chiedergli che le mostrasse ciò che faceva. Martin accolse la proposta con soddisfazione e diffidenza. Ruth era un giudice competente. Aveva una laurea in lettere e aveva studiato letteratura sotto la guida di docenti capaci. Forse anche i direttori dei giornali lo erano, ma con lei sarebbe stato diverso. Non gli avrebbe mandato un impersonale biglietto di rifiuto, né gli avrebbe detto che il fatto che i suoi scritti non erano stati accettati non significava che fossero privi di meriti. Avrebbe parlato con calore e umanità, alla sua maniera rapida e vivace e, soprattutto, avrebbe gettato lo sguardo sul vero Martin Eden. Attraverso l’opera avrebbe scoperto l’anima e il cuore di lui e avrebbe cominciato ad avere un’idea, una minima idea, della materia dei suoi sogni e della grande forza che possedeva.

Martin raccolse un certo numero di copie in carta carbone dei racconti e quindi unì ad essi, dopo un momento di esitazione, le Liriche del mare. In un tardo pomeriggio di giugno salirono in bicicletta e si diressero verso le colline. Era la seconda volta che usciva solo con lei e mentre procedevano nell’aria calda e fragrante, che la brezza marina manteneva fresca, fu colpito dall’ordine e dalla bellezza che dominavano il mondo e fu contento di vivere e di amare. Lasciarono le biciclette sul ciglio della strada e salirono sulla bruna sommità di una collinetta aperta dove l’erba bruciata dal sole emanava un dolce odore secco di mietitura che riempiva l’animo di felicità.

«Ha svolto il suo compito», disse Martin mentre la ragazza si sedeva sulla sua giacca distesa e lui le si metteva vicino sulla calda terra. Annusò la dolcezza di quell’erba fulva, che penetrandogli nel cervello mise in moto pensieri che passarono dal particolare all’universale. «Ha assolto la funzione che le spettava», proseguì accarezzando amorevolmente l’erba secca. «È germogliata ambiziosamente sotto i tremendi acquazzoni dello scorso inverno, ha lottato contro la violenza dell’inizio di primavera, è fiorita attirando gli insetti e le api, ha sparso i propri semi, ha rispettato i patti che aveva con il mondo e…».

«Perché considera sempre le cose da un punto di vista così terribilmente pratico?», lo interruppe la ragazza.

«Immagino, perché ho studiato l’evoluzione. A dire la verità solo recentemente ho sviluppato la capacità di vedere le cose in questo modo».

«Ma mi sembra che un atteggiamento così concreto la porti a distruggere la bellezza, come i ragazzi che catturando le farfalle tolgono loro la polvere che fa belle le ali».

Martin scosse la testa.

«La bellezza ha un senso che prima non ero mai riuscito a cogliere. L’accettavo come un’entità priva di significato, come qualcosa che esisteva senza fondamento o ragione. Non ne sapevo niente. Ma ora ne conosco la natura, o meglio sto cominciando a conoscerla. Per me quest’erba è più bella, ora che so in che modo è diventata erba e quali occulti processi chimici legati al sole, alla pioggia e alla terra l’hanno resa tale. C’è fascino nella storia della vita di ogni erba, e anche avventura. Il solo pensiero mi commuove. Quando mi viene in mente l’interrelazione fra energia e materia e lo spaventoso conflitto che fra loro si scatena, sento che potrei scrivere un’epopea sull’erba».

«Come parla bene, lei», disse Ruth con aria assorta, e lui notò che lo guardava con occhi penetranti.

Ne fu subito confuso e imbarazzato, e si sentì salire il sangue al collo e alla fronte.

«Spero di imparare a parlare», borbottò Martin. «Ci sono in me tante cose che voglio esprimere. Ma sono così grandi che non riesco a trovare veramente il modo di dirle. Qualche volta mi sembra che tutto il mondo, tutta la vita, ogni cosa siano entrati in me e che mi stiano invocando perché sia il loro portavoce. Ne sento – oh, non riesco a descriverlo – la grandiosità, ma quando parlo balbetto come un ragazzino. È stupendo tradurre sentimenti e sensazioni in parole, scritte o semplicemente pronunciate, che a loro volta possano ritrasformarsi negli stessi sentimenti e nelle stesse sensazioni in coloro che leggono o ascoltano. È un compito straordinario. Vede, adesso affondo il viso nell’erba e l’aria che respiro attraverso le narici fa nascere in me una folla di pensieri e fantasie. Ho sentito l’alito dell’universo. Conosco il canto e l’allegria, il successo e il dolore, la lotta e la morte; e percepisco visioni che mi salgono al cervello dal profumo dell’erba, e che vorrei raccontare al mondo. Ma come fare? Ho la lingua legata. Poco fa ho tentato, parlando, di descriverle gli effetti che l’odore dell’erba ha su di me, ma non ci sono riuscito. Sono stato capace solo di dare una pallida idea di quello che sentivo con parole impacciate. Quello che dicevo mi pareva un discorso privo di senso. E tuttavia ardo dal desiderio di parlare. Oh!…», alzò le mani al cielo in un gesto di disperazione, «… è impossibile! Non si può capire! Non si può comunicare».

«Ma lei parla molto bene», insistette Ruth. «Pensi a quanto è migliorato nel breve tempo da che ci conosciamo. Il signor Butler è un famoso oratore. È sempre invitato dal Comitato statale a salire sul podio durante la campagna elettorale. Ma lei ha parlato bene come lui l’altra sera a cena. Lui è solo più controllato. Lei ha ancora la tendenza ad agitarsi troppo, ma la supererà con la pratica. Sarebbe un eccellente oratore. E può arrivare lontano, se vuole. Ha grandi qualità. Sono sicura che ha doti di dirigente e non c’è motivo perché non possa riuscire in qualunque campo in cui si impegni, come ha fatto con la grammatica. Sarebbe un ottimo avvocato. Si affermerebbe in politica. Non c’è nulla che le impedisca di avere lo stesso successo del signor Butler. Senza la cattiva digestione», aggiunse con un sorriso.

Continuarono a parlare; ed ella tornava sempre, con dolce insistenza, alla necessità di un’istruzione completa e ai vantaggi del latino come elemento fondamentale di qualunque carriera. Delineando in tal modo il suo ideale di uomo di successo aveva come modello supremo l’immagine del padre, integrata da alcuni tocchi e tratti inconfondibili del signor Butler. Egli ascoltava con ardore e grande attenzione, osservandola supino e seguendo con gioia ogni mossa delle labbra di lei mentre parlava. Ma il suo cervello rifiutava il contenuto di quei discorsi. Non c’era nulla di allettante nelle situazioni che ella descriveva, ed egli si accorse di provare un forte senso di delusione accanto all’acuto tormento dell’amore per lei. In tutto quello che diceva non c’era alcun cenno alle sue creazioni letterarie, e i manoscritti che aveva portato per leggerglieli giacevano dimenticati sul terreno.

Infine, durante una pausa, lui alzò gli occhi al sole, ne misurò l’altezza al di sopra dell’orizzonte e richiamò l’attenzione sui manoscritti prendendoli in mano.

«Me n’ero dimenticata», disse ella rapidamente. «E sono così ansiosa di ascoltare».

Le lesse un racconto, scegliendolo fra quelli che sperava fossero i migliori. Lo aveva intitolato Il vino della vita, e la bevanda che conteneva, che gli aveva inebriato il cervello quando lo aveva scritto, gli tornò a far girare la testa mentre lo leggeva. C’era un certo incanto nell’idea originale e Martin l’aveva arricchita avvolgendola in un’aura di magia e rivestendola di parole incantate. Tutto il fuoco e la passione che aveva sentito nel comporlo rinacquero in lui, ed egli ne fu così trascinato da non vedere né udire i difetti che aveva. Non così Ruth. Il suo orecchio allenato scoprì le debolezze e le esagerazioni, la voglia di strafare del principiante, e avvertì subito le cadute e le incertezze del ritmo della frase. Per il resto sembrava non percepire la cadenza, tranne quando diventava troppo reboante; in quei momenti era sgradevolmente impressionata dal dilettantismo dello stile. Tale fu l’impressione finale che ricavò da quella lettura: era una composizione dilettantesca. Ma non gliela comunicò, limitandosi a indicare, dopo che egli ebbe finito di leggere, alcuni difetti secondari, e a dirgli che la novella le era piaciuta.

Egli ne fu deluso. Pur riconoscendo che le sue critiche erano giuste, sentiva di non averle fatto conoscere la propria opera perché la giudicasse come un tema di scuola. I particolari non erano importanti, perché vi si soffermava tanto? Poteva correggerli, e imparare ad evitarli. Nella vita aveva colto una cosa grande, e aveva cercato di darle espressione nel racconto. Era questa che le aveva letto, non un compitino con tutte le virgole e gli accenti al posto giusto. Voleva che sentisse anche lei questa cosa grande che era in lui, e che egli aveva visto con i propri occhi, afferrato con il proprio cervello e collocato sulla pagina scritta con parole sue. E concluse che evidentemente non c’era riuscito. Forse i direttori avevano ragione. Aveva sentito quella grande cosa, ma non era stato capace di tradurla in parole. Nascose la delusione e si unì a lei così prontamente nelle critiche che ella non si accorse di quanto forte fosse il dissenso che si celava dietro quelle dichiarazioni.

«L’altro s’intitola Il vaso», disse aprendo il manoscritto. «È stato rifiutato da quattro o cinque riviste ormai, ma continuo a pensare che sia valido. In realtà non so che dirne, se non che vi ho colto qualcosa. Ma forse non le farà l’effetto che fa a me. È una cosa breve… solo duemila parole».

«Tremendo!», gridò Ruth quando lui finì. «È orribile, non c’è parola per dire quanto è orribile!».

Egli notò con un segreto senso di soddisfazione il viso pallido, gli occhi spalancati e tesi e le mani strette a pugno di lei. C’era riuscito. Aveva comunicato quel grumo di fantasie e sensazioni che gli si era formato nel cervello. E aveva colto nel segno. Che le fosse piaciuto o no l’aveva afferrata in una morsa d’acciaio, costringendola ad ascoltare senza preoccuparsi di particolari insignificanti.

«È la vita», rispose, «e la vita non è sempre bella. E tuttavia, forse perché anch’io sono un po’ bizzarro, vi trovo qualcosa di bello. E mi sembra che questa bellezza sia accentuata proprio dal fatto di trovarsi…».

«Ma perché quella povera donna…», l’interruppe Ruth con voce alterata, senza però terminare la protesta che aveva in mente ed esclamando: «Oh! Ma è degradante! È brutto! È disgustoso!».

Gli sembrò per un attimo che il cuore si fermasse. Disgustoso! Non l’avrebbe mai immaginato e non aveva intenzione di provocare simili reazioni. Tutto il racconto gli era davanti agli occhi in lettere di fuoco e in quella luce corrusca cercò invano motivi che potessero provocare disgusto. Il cuore riprese a battere. L’accusa non reggeva.

«Perché non ha scelto una storia gradevole?», gli chiese la ragazza. «Sappiamo che al mondo ci sono cose disgustose, ma non è necessario…».

Continuò con lo stesso tono indignato, ma lui non la seguiva. Sorrise fra sé nell’osservare quel viso virginale, così innocente, così prepotentemente innocente che la purezza sembrava penetrare in lui liberandolo di tutte le scorie e immergendolo in un bagliore etereo, fresco, dolce e vellutato come la luce delle stelle. Sappiamo che al mondo ci sono cose disgustose! Si soffermò sull’idea che lei avesse simili esperienze e ne rise come di uno scherzo fra innamorati. E un attimo dopo, come in una fulminea visione che abbracciava una grande quantità di particolari, vide l’immenso oceano di tutte le cose disgustose fra le quali aveva vissuto e viaggiato, e la perdonò per non avere capito il racconto. Non era colpa sua se non comprendeva. Ringraziò Dio che ella fosse nata e si fosse conservata in quello stato di innocenza. Lui invece conosceva la vita negli aspetti più sordidi come nei più nobili, nella sua grandezza nonostante il fango che vi si annidava e, per Dio!, voleva dire al mondo come la pensava. I santi del cielo – che altro potevano essere se non puri e immacolati? Che meriti avevano? Ma i santi dell’abisso – quelli sì che erano fonte di eterna ammirazione! Era qui che la vita si riscattava. Vedere la grandezza morale levarsi dalla sentina dell’iniquità; rizzare noi stessi il capo e scorgere per la prima volta la bellezza remota e indistinta con occhi grondanti di melma; dalla debolezza, dalla fragilità, dal male e dalla suprema abiezione veder nascere la forza, la verità e le più elevate doti spirituali…

Colse alcune frasi di ciò che la ragazza stava dicendo.

«Tutto il tono è basso, mentre ci sono tante cose elevate. Prenda In Memoriam, per esempio».

Stava per obiettare, suggerendole Locksley Hall, e lo avrebbe fatto se la visione non lo avesse nuovamente rapito costringendolo a guardare fisso quella donna, la femmina della sua specie che, uscita dal fango primordiale e dopo aver strisciato ed essersi arrampicata per la scala dell’esistenza per migliaia e migliaia di secoli, era arrivata al gradino superiore nelle sembianze di quella Ruth, immacolata, bella, celestiale e capace di fargli conoscere l’amore e aspirare alla purezza e desiderare di assaporare la divinità – lui, Martin Eden, anch’egli giunto sorprendentemente fino a lì dal groviglio, dal pantano e dagli infiniti errori e aborti dell’incessante creazione. Lì erano l’avventura, la meraviglia e la gloria. Lì era materia di cui scrivere, se fosse riuscito a trovare la favella. Santi del cielo! Erano solo santi e non potevano farci nulla. Ma lui era un uomo.

«Lei ha forza», sentì che diceva, «ma è una forza priva di disciplina».

«Come un elefante in una cristalleria», osservò lui facendola sorridere.

«Deve imparare a discriminare. E rivolgersi a esempi che siano modelli di gusto, finezza e stile».

«Oso troppo», mormorò.

Lei sorrise in segno di approvazione e si dispose ad ascoltare un altro racconto.

«Non so che idea si farà di questo», disse Martin in tono di scusa. «È buffo. Credo di essere andato al di là di quello che sentivo, ma le mie intenzioni erano buone. Non si preoccupi dei dettagli, ma cerchi di provare a sentire quello di grande che ci ho messo. È una cosa grande e vera, ma è molto probabile che non mi sia riuscito di esprimerla».

Cominciò, e durante la lettura la guardava. Finalmente era arrivato fino a lei, pensava. Ruth sedeva immobile, con gli occhi fissi su di lui, e respirava appena, tutta assorta e dimentica di sé, così egli credeva, presa dalla magia della sua creazione. Aveva intitolato il racconto Avventura perché era l’apoteosi dell’avventura – non dell’avventura da romanzi, ma di quella vera che mette alla prova, che comporta punizioni o ricompense straordinarie, che è infida e capricciosa, che esige una terribile pazienza e una diuturna fatica, che offre l’abbagliante luce della gloria o la morte oscura dopo una vita di fame e di stenti o al termine del lungo delirio di una febbre devastante, che ci conduce attraverso una lunga catena di eventi meschini e ignobili, intrisi di sangue e sudore e tormentati dalle punture di insetti, alle nobili mete e alle grandi vittorie.

Tutto questo, e altro ancora, aveva messo in quella novella, ed era questo, ne era certo, che muoveva il cuore della ragazza, intenta nell’ascolto. Aveva gli occhi spalancati e guance insolitamente accese e prima della fine gli parve che quasi ansimasse. Certamente era stata colpita; ma da lui, non dal racconto. Non era stata la novella a impressionarla particolarmente, ma l’intensità dell’energia di Martin, quella vecchia forza straripante che sembrava traboccare dal corpo di lui e sommergerla. E paradossalmente era il racconto stesso, carico di quell’energia, il canale attraverso il quale, in quel momento, la forza di lui si riversava in lei. Ma Ruth si accorgeva solo della forza, non del mezzo, e quando le parve di essere particolarmente trasportata da ciò che lui aveva scritto, in realtà era stata sconvolta da qualcosa che era del tutto estraneo a ciò che ascoltava – da un’idea terribile e pericolosa che le si era formata spontaneamente nel cervello. Si era sorpresa a chiedersi come fosse il matrimonio, e la calda inquietudine che ciò le provocava l’aveva riempita di terrore. Era sconveniente. Non era da lei. Non era mai stata tormentata dalla propria femminilità, ed era vissuta nel mondo incantato della poesia tennysoniana con un’ingenuità che le aveva persino impedito di cogliere il vero significato delle delicate allusioni di quel delicato maestro alla grossolanità che a volte interferisce nei rapporti fra regine e cavalieri. Fino ad allora aveva dormito e ora la vita bussava con violenza a tutte le porte. Al pensiero di aprire i chiavistelli e togliere le sbarre era presa dal panico, mentre istinti maliziosi la spingevano a spalancare i portali e a invitare nel palazzo l’affascinante visitatore sconosciuto.

Martin attendeva soddisfatto il verdetto. Non aveva dubbi sul giudizio e rimase attonito quando la sentì dire: «È bello».

«È bello», ripeté Ruth con forza dopo una pausa.

Naturalmente lo era, ma conteneva qualcosa di più, un’ansia splendida e tormentosa al cui servizio si era posta la bellezza. Egli si lasciò scivolare sul terreno in silenzio, guardando sorgere davanti a sé l’enorme e sinistra ombra del dubbio. Aveva fallito. Non era stato capace di esprimersi. Aveva visto una delle cose più grandi della vita e non era riuscito a descriverla.

«Che cosa ne pensa del…». Esitò, imbarazzato dal fatto di usare per la prima volta un’espressione per lui inconsueta. «Del tema dominante?».

«Era confuso», rispose Ruth. «È la mia sola critica, in linea generale. Ho seguito il racconto, ma mi è parso denso di molti altri elementi. È troppo prolisso. Lei rallenta l’azione introducendovi molto materiale estraneo».

«Era quello il tema principale», si affrettò a spiegare Martin, «il grande motivo che corre sotterraneo per tutto il racconto, la dimensione cosmica e universale. Ho tentato di fonderlo nella narrazione, che del resto era una vicenda superficiale. L’idea era buona ma temo di averla realizzata male. Non sono riuscito a far capire a che cosa miravo. Con il tempo imparerò».

Lei non lo seguiva. Nonostante la laurea in lettere, la sua capacità di capire non andava oltre un certo limite. E in questo caso attribuiva la mancata comprensione alle incoerenze della novella.

«Era un’opera priva di unità», disse. «Ma in certi momenti era bella».

Udì la voce di lei come se provenisse da lontano, perché si stava chiedendo se doveva leggerle le Liriche del mare. E rimaneva immobile in preda a un dubbio tormentoso, mentre lei lo scrutava, rimuginando fra sé ancora una volta il pensiero insistente e ossessivo del matrimonio.

«Vuole essere famoso?», gli chiese all’improvviso.

«Sì, un po’…», confessò lui. «Fa parte dell’avventura. Non è l’essere famoso che conta, ma il diventarlo. E, dopo tutto, essere famoso vorrebbe dire, per me, soltanto un mezzo per qualcos’altro. Per questo voglio essere famoso a tutti i costi».

Per te, stava per aggiungere, e lo avrebbe fatto se avesse scorto in lei un minimo di entusiasmo per ciò che le aveva letto.

Ma Ruth era troppo impegnata a riflettere, a vagheggiare per lui una carriera che avrebbe potuto seguire, a chiedersi che cosa fosse quel «qualcos’altro» cui aveva accennato. Come scrittore non aveva possibilità. Di ciò era perfettamente convinta. Lo aveva dimostrato oggi, con le sue composizioni scolastiche e dilettantesche. Sapeva parlare bene, ma era incapace di esprimersi in forma letteraria. Lo paragonò a Tennyson, a Browning e ai suoi prosatori preferiti, e vide che ne usciva male. E tuttavia non glielo disse, perché quello strano interesse che aveva in lui la spinse a tacere. Dopo tutto quel desiderio di scrivere era un’innocente debolezza di cui si sarebbe liberato con il tempo. In seguito si sarebbe dedicato alle faccende serie della vita. Lo sentiva. Aveva una tale energia che non poteva fallire – non appena avesse abbandonato la letteratura.

«Mi piacerebbe vedere tutto quello che scrive, signor Eden», disse.

Egli arrossì di piacere. Si interessava a lui, questo era certo. E almeno non gli aveva dato un biglietto di rifiuto. Aveva definito belle certe parti del suo lavoro, ed era il primo incoraggiamento che avesse mai ricevuto.

«Lo farò», disse con calore. «E le prometto, signorina Morse, che mi farò onore. So di avere già fatto molta strada, ma ne ho ancora molta e voglio arrivare fino alla fine, anche se dovessi percorrerla tutta carponi». Le porse un fascio di fogli. «Ecco le Liriche del mare. Quando saremo a casa gliele lascerò perché le possa leggere con comodo. Ma lei deve dirmi francamente quello che pensa. Ciò di cui ho soprattutto bisogno è una critica spassionata. Sia sincera con me, la prego».

«Sarò molto schietta», promise la ragazza, con un senso di disagio perché sentiva di non esserlo stata e dubitava di poterlo essere in futuro.

XV

«La prima battaglia è finita», disse Martin allo specchio una decina di giorni dopo. «Ma ce ne sarà una seconda, e una terza, e altre senza fine, a meno che…».

Non finì la frase, ma volse lo sguardo per la stanza squallida e angusta e gli occhi gli caddero tristemente su un mucchio di manoscritti rifiutati, accatastati in un angolo del pavimento ancora avvolti nelle lunghe buste. Non avendo più francobolli che gli permettessero di continuare a farli viaggiare, da una settimana si erano andati ammassando. Ne sarebbero arrivati altri l’indomani, il giorno dopo e nei successivi, fino a quando non gli fossero pervenuti tutti, ed egli non aveva la possibilità di rimetterli in giro. Era in ritardo di un mese sull’affitto della macchina per scrivere, che non era in grado di pagare, perché aveva denaro sufficiente solo per una settimana di pensione e per i versamenti all’ufficio di collocamento.

Si sedette fissando pensosamente il tavolo. Era coperto di macchie d’inchiostro, e improvvisamente Martin scoprì di essergli affezionato.

«Caro vecchio tavolo», disse, «ho passato ore felici con te, e mi sei stato buon amico, tutto sommato. Non mi hai mai deluso, non mi ha mai dato una nota di biasimo o un biglietto di rifiuto, non ti sei mai lamentato di dover fare gli straordinari».

Vi appoggiò sopra le braccia, fra le quali nascose il viso. Gli doleva la gola e avrebbe voluto piangere. Gli venne in mente la prima volta che aveva fatto a botte, a sei anni, quando si era battuto mentre le lacrime gli correvano giù per le guance e l’altro ragazzo, di due anni maggiore di lui, lo aveva picchiato per bene, lasciandolo esausto. Rivedeva il cerchio dei compagni che urlavano come ossessi quando era caduto a terra alla fine torcendosi per la nausea, con il sangue che gli colava dal naso e le lacrime che gli cadevano dagli occhi pesti.

«Povero sbarbatello», mormorò. «Anche adesso hai preso una bella battuta. Ti han pestato a sangue. Sei proprio finito».

Ma la visione di quel primo scontro che gli era rimasta impressa negli occhi della mente si dissolse per riformarsi nella serie di altri scontri che erano seguiti. Sei mesi più tardi Faccia-di-Cacio (così era conosciuto l’altro ragazzo) gliele aveva date di nuovo, ma questa volta ne era uscito con un occhio nero. Era già qualcosa. E rivide quei combattimenti, uno dopo l’altro, tutti finiti male per lui e con Faccia-di-Cacio esultante. Ma non era mai scappato. Ora quel ricordo gli era di grande conforto. Era sempre rimasto, e aveva accettato fino alla fine l’amaro calice. Faccia-di-Cacio era un demonio quando c’era da menare le mani e non lo aveva mai risparmiato. Ma lui aveva resistito. Aveva sempre resistito.

Rivide poi un vicolo stretto che si apriva fra sgangherate costruzioni in legno, chiuso da un fabbricato di mattoni a un piano da cui usciva il ritmico rombo delle presse che stampavano la prima edizione dell’«Enquirer». Allora aveva undici anni, mentre Faccia-di-Cacio ne aveva tredici e andavano entrambi in giro a vendere il giornale. Erano appunto lì in attesa delle loro copie. E naturalmente Faccia-di-Cacio aveva attaccato briga un’altra volta e ci fu un nuovo scontro che rimase senza esito, perché alle quattro meno un quarto si aprì la porta della tipografia e i ragazzi si affollarono dentro a piegare i giornali.

«Ti meno domani», fu la minaccia che sentì dalla voce del suo nemico; e udì la propria che, acuta e tremante per le lacrime trattenute prometteva che ci sarebbe stato anche lui.

E il giorno dopo, subito dopo la scuola, c’era andato facendo la strada di corsa per riuscire ad arrivare prima e precedendo Faccia-di-Cacio di due minuti. Gli altri ragazzi gli avevano detto che era in gamba e gli avevano dato consigli, indicandogli i difetti che aveva come picchiatore e assicurandogli la vittoria se avesse seguito le istruzioni. Poi diedero gli stessi suggerimenti anche al suo nemico. Come si erano divertiti durante quello scontro! Per un momento fece una pausa in quella successione di ricordi, invidiando i compagni per lo spettacolo cui avevano assistito. E poi iniziò il combattimento, che continuò per mezz’ora senza alcuna tregua fino all’apertura della tipografia.

Si rivide com’era tanti anni prima in quel periodo in cui, giorno dopo giorno, si precipitava dalla scuola al vicolo dell’«Enquirer». Non riusciva a camminare ad andatura molto spedita perché era rigido e zoppicante a causa dei colpi ricevuti. Gli avambracci erano pesti e lividi dal polso al gomito per gli innumerevoli pugni che aveva parato, e qua e là la carne maciullata cominciava ad andare in suppurazione. Gli dolevano la testa, le braccia e le spalle, gli faceva male la schiena, era tutto ammaccato e si sentiva il cervello intorpidito e confuso. A scuola non giocava più, e non riusciva più a studiare. Persino rimanere seduto tutto il giorno al banco, come faceva, era un tormento. Gli pareva di aver cominciato secoli fa quel ciclo di scontri quotidiani, e che il tempo si dilatasse in un futuro angoscioso di lotte continue. Perché non riusciva a pestare Faccia-di-Cacio? pensava spesso; sarebbe stata per lui, Martin, la fine di un incubo. Non gli venne mai in mente di ritirarsi dalla guerra, di permettere all’altro di avere la meglio su di lui.

Si trascinava così al vicolo del giornale stremato nel corpo e nell’anima, ma pronto a sopportare tutto con infinita pazienza, per affrontare il suo eterno nemico, Faccia-di-Cacio, non meno stanco di lui, che sarebbe stato ben disposto a lasciare la sfida se non fosse stato per quella folla di strilloni che l’osservavano, costringendolo, benché controvoglia, a tener alto il proprio orgoglio. Un giorno, dopo venti minuti di sforzi disperati per annientarsi nel rispetto di regole che non consentivano i calci, i colpi sotto la cintura e la continuazione del combattimento quando uno dei due era a terra, Faccia-di-Cacio, con il fiato rotto e la testa che gli girava, gli propose di chiudere la sfida alla pari. E ora Martin, con la testa appoggiata sulle braccia, ebbe un brivido di gioia ripensando a se stesso tanto tempo fa, quando ansimando, barcollando e soffocando per il sangue delle labbra tagliate che gli entrava in bocca e gli colava in gola si avvicinò all’altro con passo malfermo e dopo aver sputato sangue per poter parlare gli gridò che non avrebbe mai accettato di finire alla pari e che lui, Faccia-di-Cacio, poteva ritirarsi se voleva. Ma l’avversario non si era tirato indietro e lo scontro era ripreso. Ed era proseguito il giorno dopo, e il successivo e poi in quelli che seguirono. Ogni volta che, ricominciando, alzava le braccia, sentiva un gran male e i primi colpi che dava e riceveva gli straziavano l’anima; ma dopo un po’ non avvertiva più il dolore e prendeva a combattere ciecamente, seguendo come in sogno, in una specie di danza leggera, i movimenti dell’avversario, le sue fattezze enormi, gli occhi accesi come quelli di un animale. Si concentrava su quella faccia; tutto il resto intorno a lui era un vuoto che ruotava vertiginosamente. Non c’era altro al mondo che quella faccia, e non avrebbe conosciuto tregua, una tregua che desiderava ardentemente, fino a quando non l’avesse ridotta a un ammasso di sangue, a costo di spaccarsi le nocche delle dita, oppure fino a quando l’altro non fosse riuscito a far lo stesso con lui. Solo allora, comunque andasse, avrebbe avuto riposo. Ma ritirarsi, abbandonare – via, era impossibile per lui!

Venne il giorno in cui si trascinò fino al vicolo e Faccia-di-Cacio non c’era. Lo aspettarono invano. I ragazzi si congratularono con lui e gli dissero che gliele aveva date, ma Martin non era soddisfatto. Nessuno dei due aveva vinto e la questione non era risolta. Solo molto tempo dopo vennero a sapere che proprio quel giorno era morto improvvisamente il padre del suo avversario.

Con un salto di diversi anni Martin rievocò ora quella sera nella piccionaia dell’Auditorium. Aveva diciassette anni ed era appena sbarcato. Era scoppiata una rissa perché un tale aveva insultato un altro e Martin, intervenendo, si era trovato di fronte agli occhi fiammeggianti di Faccia-di-Cacio.

«Ti sistemo dopo lo spettacolo», gli aveva sibilato l’antico nemico.

Martin aveva annuito. La maschera si stava dirigendo verso il gruppo dei disturbatori.

«Ci vediamo fuori dopo l’ultimo atto», bisbigliò Martin senza distogliere lo sguardo dal numero di danza sul palcoscenico.

La maschera se ne andò dopo averli scrutati per bene.

«Sei con la banda?», chiese a Faccia-di-Cacio al primo intervallo.

«Certo».

«Allora devo trovarmene una», annunciò Martin. Fra un atto e l’altro raccolse un gruppo di sostenitori – tre tipi che aveva conosciuto alla fabbrica di chiodi, un fuochista, mezza dozzina della banda di Boo e altri della temuta banda del quartiere fra la Diciottesima e Market Street.

Uscendo dal teatro le due bande si allinearono senza farsi notare sui lati opposti della strada. Arrivate a un angolo tranquillo si unirono per tenere un consiglio di guerra.

«Andiamo al ponte dell’Ottava», disse un tale con i capelli rossi della banda di Faccia-di-Cacio. «Ci si può menare in mezzo, sotto la luce elettrica, e da qualunque parte viene la madama si può tagliare la corda dall’altra».

«Mi va bene», disse Martin, dopo essersi consultato con i capi del suo gruppo.

Il ponte dell’Ottava, che traversava un braccio dell’Estuario di Sant’Antonio, era lungo quanto tre isolati cittadini. La luce elettrica era a metà ponte e alle due estremità, e nessun poliziotto poteva superarle senza essere visto. Martin ricordò quel luogo ideale per una battaglia e le due bande torve e decise che rimanendo rigorosamente separate sostenevano i rispettivi campioni, mentre lui e Faccia-di-Cacio si spogliavano. A poca distanza furono poste sentinelle con il compito di sorvegliare le imboccature illuminate del ponte. Un membro della banda di Boo teneva giacca, camicia e berretto di Martin, pronto a portarli con sé in un luogo sicuro in caso di intervento della polizia. Poi si portò al centro di fronte all’avversario e risentì la propria voce che diceva, alzando la mano in tono di avvertimento:

«Niente strette di mano. Capito? Qui si fa solo a botte. E non si butta la spugna. Questa è una storia vecchia e bisogna farla fuori. Chiaro? Uno dei due deve andar sotto».

Faccia-di-Cacio tentennava, si vedeva benissimo, ma fu punto nell’orgoglio davanti alle due bande.

«Perché tante chiacchiere inutili?», rispose. «Certo… si va fino in fondo».

E si avventarono uno sull’altro come torelli, a pugni nudi, con tutta la forza della gioventù, con odio, con la voglia di far male, di ferire, di distruggere. Tutti i faticosi progressi dell’uomo nella sua ascesa millenaria lungo la scala della creazione furono perduti. Come simbolo della grande avventura umana nella via della civiltà rimaneva solo la luce elettrica. Martin e Faccia-di-Cacio erano due selvaggi dell’età della pietra, dell’era delle caverne, dei rifugi sugli alberi. Sprofondarono sempre più nel fango, tornando ai sedimenti primordiali da cui ebbe origine la vita, urtandosi ciecamente come gli atomi nelle reazioni chimiche, come la polvere cosmica nei cieli, scontrandosi, respingendosi e cozzando di nuovo in un processo eterno.

«Dio! Siamo animali! Bestie feroci!», mormorò Martin osservando l’andamento della lotta, che la sua straordinaria capacità di visione gli consentiva di seguire come in una lanterna magica. Era contemporaneamente attore e spettatore. I lunghi mesi di studio e di affinamento culturale fremevano a quella vista, ma poi il presente fu cancellato e la sua mente fu invasa dai fantasmi del passato, ed egli tornò ad essere il Martin Eden che, appena sbarcato, si batteva con Faccia-di-Cacio sul ponte dell’Ottava. Soffriva, faticava, sudava, sanguinava, ma esultava quando i pugni arrivavano a segno.

Erano due grumi di odio che ruotavano mostruosamente uno intorno all’altro. Con il passare del tempo le due bande contrapposte si calmarono. Non avevano mai visto tanta ferocia e ne avevano timore. I duellanti erano animali troppo forti per loro. Perso il primo splendido slancio della gioventù e della freschezza, combattevano ora con più cautela e intelligenza. Fino a quel momento nessuno dei due era prevalso sull’altro. «Possono vincere tutti e due», sentì dire Martin. Poi fece una finta di destro e scagliò il sinistro, ma fu colpito violentemente d’incontro da una botta che gli squarciò la guancia fino all’osso. Il pugno nudo non avrebbe potuto fare tanto. Udì un mormorio di meraviglia a quel taglio spaventoso e sentì il sangue colare. Ma non batté ciglio. Divenne molto prudente, perché sapeva a quale livello di scaltrezza e di slealtà potessero giungere i suoi simili. Rimase in vigile attesa fino a quando non finse un violento attacco che non portò a termine perché aveva visto un luccichio metallico.

«Alza la mano!», urlò. «È un tirapugni! È con quello che mi hai colpito!».

Le due bande fecero un passo avanti con aria torva e ringhiosa. In un attimo ci sarebbe stata una rissa generale e lui sarebbe stato privato della sua vendetta. Era fuori di sé.

«Non v’immischiate voi!», gridò con voce rauca. «Capito? Avete capito?».

Indietreggiarono. Erano animali, ma lui era il re degli animali, un essere spaventoso che incombeva su di loro e li dominava.

«Questo scontro è mio, e non voglio che nessuno ci metta il becco. Dammi il tirapugni».

Calmato e leggermente intimidito Faccia-di-Cacio gli passò l’arma proibita.

«Gliel’hai passato tu, rosso, che ti nascondi dietro gli altri, lì», continuò Martin gettando l’oggetto nell’acqua. «Ti avevo visto e mi chiedevo che cosa stavi combinando. Se ci provi un’altra volta ti pesto a morte, capito?».

Continuarono a combattere fino allo stremo e anche oltre, in un esaurimento incommensurabile e inconcepibile finché la folla delle belve, saziata la sete di sangue e terrorizzata da ciò che vedeva, cominciò a implorarli di smettere rivolgendosi ad entrambi senza distinzione. E Faccia-di-Cacio, pronto a cadere morto come a morire rimanendo in piedi, ridotto a un mostro spaventoso dalla cui faccia era scomparso ogni connotato umano, esitò barcollando, ma Martin si buttò su di lui colpendolo ripetutamente.

Poi, dopo un tempo che parve lunghissimo e mentre le forze di Faccia-di-Cacio scemavano rapidamente, durante uno scambio di colpi si sentì uno schianto e si vide il braccio destro di Martin cadergli inerte al fianco. Tutti capirono; era una frattura. Se ne accorse anche Faccia-di-Cacio, che si gettò come una furia sull’avversario in difficoltà scaricandogli addosso una gragnuola di colpi. Gli amici di Martin erano pronti a intervenire, ma, pur sorpreso dall’attacco del nemico, egli intimò loro di stare lontani, con urlacci e imprecazioni in cui il dolore si mescolava alla disperazione.

Andò avanti con il solo sinistro e mentre picchiava ostinatamente, quasi senza accorgersi di ciò che faceva e come se si trovasse a grande distanza, udì intorno mormorii di paura e una voce rotta che diceva: «Non è uno scontro, ragazzi. È un omicidio; dobbiamo fermarli».

Ma non li fermò nessuno e Martin provava soddisfazione nel continuare a picchiare fiaccamente e caparbiamente con una sola mano, pestando quella massa sanguinolenta davanti a lui che non era più una faccia, ma un’orribile maschera, una ripugnante cosa senza nome che gemeva sotto la scossa dei colpi e non voleva svanire dalla sua vista annebbiata. E andò avanti a colpire sempre più lentamente con gli ultimi brandelli di vitalità per un tempo che gli sembrò durare secoli e millenni, finché si accorse vagamente che la cosa senza nome cedeva, scivolando giù piano piano sull’impiantito del ponte. E subito gli fu sopra traballando sulle gambe malferme, agitando le braccia nell’aria in cerca di sostegni e dicendo con voce irriconoscibile:

«Ne vuoi ancora? Di’, ne vuoi ancora?».

Lo ripeté più volte – chiedendolo con tono imperioso, amichevole, minaccioso – finché non sentì che i compagni lo afferravano, gli battevano le mani sulle spalle e cercavano di mettergli la giacca. E precipitò in un abisso di buio e di oblio.

La sveglia di latta sul tavolo continuava a ticchettare, ma Martin, con la testa nascosta fra le braccia, non la sentiva. Non udiva nulla, non pensava. Aveva rivissuto il passato con tanta intensità da perdere la coscienza, proprio come gli era avvenuto anni prima sul ponte dell’Ottava. Quelle tenebre vuote durarono almeno un minuto. Poi, come risuscitando dalla morte, balzò in piedi con gli occhi in fiamme e il sudore che gli scorreva sulla faccia, gridando:

«Te le ho date, Faccia-di-Cacio! Ci ho messo undici anni, ma te le ho date!».

Si sentiva venire meno e con le gambe tremanti si avviò barcollando verso il letto, e si buttò a sedere sulla sponda. Era ancora nella morsa del passato. Volse per la stanza uno sguardo perplesso e allarmato, chiedendosi dove si trovasse, finché l’occhio non gli cadde sul mucchio di manoscritti nell’angolo. Quindi le ruote della memoria percorsero rapidamente quattro anni e tornò nel presente, all’universo che i libri gli avevano aperto attraverso le loro pagine, ai sogni ambiziosi e all’amore per una pallida ombra di fanciulla, sensibile, privilegiata ed eterea, che sarebbe morta di paura se avesse visto per un solo attimo ciò che lui aveva vissuto – se avesse scorto un solo momento della sordida vita da cui era uscito.

Si alzò e si trovò di fronte la propria immagine riflessa nello specchio.

«E così sei venuto dal fango, Martin Eden», disse con tono solenne. «E ti sei purificato gli occhi a una gran luce, e ti sei fatto largo tra le stelle, facendo tutto ciò che la vita ha sempre fatto, lasciando «morire la scimmia e la tigre» e strappando una nobile eredità a tutte le potenze dell’universo».

Si fissò più da vicino e rise.

«Siamo caduti nell’isterismo e nel melodramma, vero?», si chiese. «Ma sì, non importa. Le hai date a Faccia-di-Cacio e picchierai sodo anche i direttori, anche se ti ci volessero trent’anni. Non ti puoi fermare a questo punto. Devi andare avanti. E lo farai fino alla fine».

XVI

Il suono della sveglia catapultò Martin nella realtà con una violenza che avrebbe fatto venire il mal di capo a chi non avesse avuto la sua robusta costituzione. Benché dormisse profondamente si svegliò subito come un gatto, pieno di energia e felice che le cinque ore di oblio fossero finite. Odiava l’incoscienza del sonno. Erano tante le cose che doveva fare, e tanta la voglia di vivere pienamente la vita. Rimpiangeva ogni momento che il sonno gli sottraeva e prima che la sveglia avesse interrotto il suo tintinnio aveva già ficcato la testa nella catinella rabbrividendo al freddo morso dell’acqua.

Ma non seguì il programma consueto. Non c’erano novelle incompiute in attesa del tocco finale o nuovi spunti che chiedevano di essere articolati in forma narrativa. Aveva studiato fino a tardi ed era ormai quasi ora di colazione. Cercò di leggere un capitolo di Fiske, ma si sentiva irrequieto e chiuse il libro. Quel giorno avrebbe segnato l’inizio di un’altra battaglia, durante la quale per qualche tempo non avrebbe avuto la possibilità di scrivere. Si accorse di essere colmo di una tristezza simile a quella che prova chi lascia la casa e la famiglia. Guardò i manoscritti nell’angolo. Ecco che cos’era. Li doveva abbandonare, poveri figli disonorati che nessuno voleva. Si avvicinò e cominciò a frugare fra quelle carte, soffermandosi qua e là sui suoi brani preferiti. Lesse Il vaso ad alta voce e concesse lo stesso onore ad Avventura. Gioia, la sua ultima creatura, che aveva portato a termine il giorno precedente e aveva gettato nell’angolo per mancanza di francobolli, riscosse la sua più viva approvazione.

«Non capisco», mormorò. «O forse sono i direttori che non capiscono. Che cosa c’è che non va nelle cose mie? Ogni mese pubblicano di peggio. Tutto quello che pubblicano – o quasi – è peggiore».

Dopo colazione mise la macchina per scrivere nella custodia e la riportò a Oakland.

«Sono in arretrato di un mese», disse all’impiegato del negozio. «Ma dica al direttore che adesso comincerò a lavorare e che fra un altro mese, circa, tornerò a sistemare tutto».

Prese il traghetto per San Francisco e andò all’ufficio di collocamento. «Qualunque tipo di lavoro, ma non nel commercio», disse all’impiegato. Fu interrotto dall’arrivo di un uomo vestito in modo alquanto stravagante, tipico di certi lavoratori che aspirano all’eleganza. L’impiegato scosse la testa con aria sconsolata.

«Non c’è niente?», disse l’altro. «Cerco io qualcuno, oggi».

Si girò a fissare Martin che, scrutandolo a sua volta, notò il volto gonfio e pallido, bello e debole, e capì che aveva passato la notte in bianco.

«Cerchi un lavoro?», chiese il nuovo venuto. «Che cosa sai fare?».

«Sono capace di sgobbare, di andare in mare, di scrivere a macchina (ma niente stenografia), di stare a cavallo; e sono pronto a fare tutto e ad affrontare qualunque cosa», fu la risposta.

L’altro annuì.

«Potresti andarmi bene. Mi chiamo Dawson, Joe Dawson, e devo trovare un lavandaio».

«È troppo per me», rispose Martin divertito all’idea di stirare bianchi e vaporosi capi di abbigliamento da donna. Tuttavia quel tipo gli era simpatico e aggiunse. «Potrei lavare e basta. L’ho imparato quando ero in mare».

Joe Dawson si fermò un momento a riflettere.

«Senti, possiamo parlarne e metterci d’accordo. Sei disposto ad ascoltarmi?».

Martin fece un cenno affermativo con il capo.

«È una piccola lavanderia dell’entroterra, che appartiene allo Shelly Hot Springs… un albergo, sai. Il lavoro lo fanno in due, il capo e l’assistente. Il capo sono io. Non lavorerai per me ma sotto di me. Sei disposto a imparare?».

Martin rifletté. La prospettiva era allettante. Erano solo pochi mesi, e avrebbe avuto tempo per studiare. Poteva lavorare sodo e studiare intensamente.

«Il mangiare non è male, e avrai una stanza tutta per te», disse Joe.

Fu quest’ultimo particolare che lo convinse. In camera sua sarebbe potuto rimanere sveglio fino a tardi senza essere disturbato.

«Ma il lavoro è pesantissimo», aggiunse l’altro.

Martin si accarezzò con aria significativa i muscoli possenti delle braccia. «Mi sono venuti con il lavoro», disse.

«Allora vediamo». Per un istante Joe si portò la mano al capo. «Accidenti, mi gira la testa. Non riesco a vederci. Ieri sera ci ho dato dentro… altro che se ci ho dato dentro. Ecco le condizioni. Il salario per due è di cento dollari al mese più vitto e alloggio. Io ne tenevo sessanta e quaranta andavano al lavorante. Ma quello di prima conosceva il mestiere, mentre tu sei un pivello. Se ti prendo con me, all’inizio dovrò fare un bel po’ del tuo lavoro. Diciamo che puoi cominciare con trenta dollari, ma che potrai arrivare a quaranta. Sarò giusto con te. Non appena riuscirai a fare la tua parte ne prenderai quaranta».

«Vengo con te», dichiarò Martin porgendogli la mano, che l’altro gli strinse. «Ci sono anticipi – per il biglietto del treno e gli extra?».

«Ho fatto fuori tutto», rispose tristemente Joe indicando di nuovo la testa che gli doleva. «Tutto quello che ho è il biglietto di ritorno».

«E io sono al verde… quando avrò pagato la pensione».

«Non pagarla», lo consigliò Joe.

«Non posso. La devo a mia sorella».

Joe emise un lungo fischio che esprimeva perplessità e si lambiccò il cervello senza trovare una soluzione.

«Ho quello che basta per una bevuta», disse disperato. «Vieni, magari ci viene in mente qualcosa».

Martin rifiutò.

«Vai ad acqua?».

Questa volta Martin annuì e Joe proseguì con voce lamentosa. «Beato te. Io non posso proprio», aggiunse per giustificarsi. «Dopo aver lavorato come un demonio per tutta la settimana devo sbronzarmi. So non lo faccio mi viene voglia di ammazzarmi o di incendiare tutto. Ma sono contento che tu bevi solo acqua. Tieni duro».

Martin si rese conto dell’enorme distanza che lo separava da quell’uomo – una voragine dovuta alla cultura – ma non ebbe alcuna difficoltà a riaccostarsi a lui. Per tutta la vita era vissuto in un ambiente operaio e la solidarietà fra lavoratori era per lui come una seconda natura. Risolse il problema del trasporto troppo arduo per l’altro, tormentato dal mal di testa. Avrebbe spedito i bagagli a Shelly Hot Springs con il biglietto di Joe, e lui ci sarebbe andato in bicicletta. Erano più di cento chilometri, ma poteva viaggiare la domenica ed essere pronto per il lavoro il lunedì mattina. Sarebbe tornato subito a casa a fare le valigie. Non doveva salutare nessuno. Ruth e la famiglia trascorrevano l’estate in montagna, sul lago Tahoe.

Arrivò a Shelly Hot Springs la domenica sera, stanco e impolverato. Joe lo accolse con calore. Aveva lavorato tutto il giorno con un asciugamano umido intorno alla fronte dolente.

«C’era un accumulo di bucato della settimana scorsa perché ero stato via per prendere te», spiegò. «La tua roba è arrivata bene. È in camera tua. Accidenti quanto pesava! Che ci tieni dentro? Lingotti d’oro?».

Joe si sedette sul letto mentre Martin apriva il bagaglio. Il bagaglio consisteva in una cassa da imballaggio di cereali per la prima colazione che Higginbotham gli aveva ceduto per mezzo dollaro. Due maniglie di corda, fissate da Martin, l’avevano trasformata in un baule adatto al trasporto in treno. Con gli occhi sbarrati Joe vide uscire dalla cassa alcune camicie e diversi capi di biancheria, seguiti da parecchi strati di libri.

«Libri fino in fondo?», chiese.

Martin annuì e continuò a sistemarli su un tavolo di cucina, che era stato messo in camera al posto del trespolo con la bacinella.

«Cribbio!», esplose Joe, che cercava faticosamente di capire. Infine disse:

«Ma… non te ne frega niente delle ragazze?».

«No», fu la risposta. «Andavo molto a donne prima di attaccare con i libri. Ma dopo non ho più avuto tempo».

«E non ne avrai molto neanche qui. Tutto quello che si può fare è lavorare e dormire».

Martin sorrise pensando alle cinque ore di sonno che si concedeva ogni notte. La camera era situata sopra la lavanderia e si trovava nello stesso fabbricato del motore che pompava l’acqua, produceva l’energia elettrica e faceva funzionare le macchine per lavare. Il meccanico, che occupava la stanza vicina, passò per fare la conoscenza del nuovo compagno e aiutò Martin a sistemare una lampadina su un filo elettrico che partendo dal tavolo arrivava fin sopra il letto.

La mattina dopo Martin fu scaraventato fuori dalle coperte alle sei e un quarto, in tempo per la colazione delle sette meno un quarto. Nel fabbricato della lavanderia c’era una tinozza per i domestici, ed egli elettrizzò Joe facendo un bagno con l’acqua fredda.

«Accidenti, hai un bel fegato!», esclamò l’amico quando si sedettero a mangiare in un angolo della cucina dell’albergo.

Erano con loro il meccanico, il giardiniere, l’aiuto giardiniere e due o tre stallieri. La colazione fu frettolosa e tetra e vennero scambiate pochissime parole. Ascoltando quella conversazione Martin si rese conto di quanto fosse ormai diverso dai compagni. La loro limitatezza mentale lo deprimeva, ed era ansioso di allontanarsi. Trangugiò quindi il cibo, una pappa nauseabonda, con la stessa rapidità degli altri e fece un sospiro di sollievo uscendo dalla porta della cucina.

Era una piccola lavanderia a vapore perfettamente attrezzata, nella quale le macchine più moderne facevano tutto ciò che era possibile fare meccanicamente. Dopo avere ricevuto alcune istruzioni Martin divise i panni sporchi in grandi mucchi, mentre Joe metteva in movimento la lavatrice e preparava nuove dosi di detersivo, fatto con composti chimici così corrosivi che il lavandaio era costretto ad avvolgersi la bocca, gli occhi e il naso con asciugamani bagnati che gli davano l’aspetto di una mummia. Finito il suo compito, Martin aiutò a strizzare la biancheria infilandola in un tamburo che ruotava a una velocità di diverse migliaia di giri il minuto, spremendo tutta l’acqua dai panni con la forza centrifuga. Poi cominciò ad alternarsi fra l’essiccatoio e la centrifuga, utilizzando il tempo restante per stendere calze e pedalini. Il pomeriggio si trasferirono al mangano, l’uno ammucchiando la roba e l’altro infilandola nella macchina mentre aspettavano che si scaldassero i ferri. Fino alle sei furono impegnati a stirare. A questo punto Joe scosse la testa dubbioso.

«Siamo un bel po’ indietro», disse. «Dovremo andare avanti dopo cena».

Lavorarono fino alle dieci sotto il bagliore della luce elettrica fino a che l’ultimo capo non fu stirato e ripiegato, pronto per la distribuzione. Era una calda notte californiana e benché avessero spalancato le finestre la stanza era una fornace a causa degli incandescenti fornelli accesi per riscaldare i ferri. Pur essendo rimasti in canottiera e avendo le braccia nude, Martin e Joe sudavano e boccheggiavano.

«Come assestare il carico ai tropici», disse Martin mentre salivano le scale.

«Vai bene», rispose Joe. «Impari in fretta, sei in gamba. Di questo passo rimarrai a trenta dollari solo un mese. Il secondo andrai a quaranta. Ma non dirmi che non hai mai stirato. A me non la fai».

«Mai stirato uno straccio in vita mia fino a oggi», protestò Martin.

Entrando in camera fu sorpreso dalla spossatezza che sentiva, dimenticando di essere rimasto in piedi a lavorare per quattordici ore. Fissò la sveglia alle sei, sottrasse cinque ore e calcolò che sarebbe potuto stare sveglio a leggere fino all’una. Toltesi le scarpe per alleviare il gonfiore dei piedi si sedette al tavolo con i libri. Aprì il Fiske al punto in cui lo aveva lasciato due giorni prima e cominciò a leggere, ma ebbe difficoltà a capire il primo capoverso e fu costretto a ripeterlo. Quindi si risvegliò dolorante per i muscoli irrigiditi e infreddolito dal vento delle montagne che aveva cominciato a soffiare dalla finestra aperta. Guardò l’orologio: segnava le due. Aveva dormito per quattro ore. Si tolse i vestiti e si infilò a letto, precipitando nel sonno non appena toccato il guanciale.

Anche il martedì fu una giornata faticosa e senza un attimo di sosta. Martin rimase ammirato per la velocità con cui si muoveva Joe, che sul lavoro era un demonio. Teneva un ritmo infernale e non c’era momento durante quelle lunghe ore in cui non cercasse di guadagnare tempo. Si concentrava su ciò in cui era impegnato e sul modo per risparmiare qualche minuto, facendo notare a Martin come potesse eseguire in tre movimenti ciò che faceva in cinque, e in due le cose che fino ad allora aveva svolto in tre. «Eliminazione del moto superfluo», lo definì Martin, osservando il compagno e cercando di imitarlo. Era capace di operare anche lui con abilità e si era sempre vantato di essere in grado di fare da solo tutto il compito che gli era stato assegnato e di non essere superato da nessuno nel ritmo di lavoro. Per questo motivo si concentrò con un’attenzione non minore di quella del collega, ascoltando con grande interesse i consigli e i suggerimenti che l’altro gli dava. «Spianava» colletti e polsini, stendendo in modo uniforme l’amido dove la stoffa era doppia in modo da evitare bolle nella fase della stiratura, a una velocità che suscitò le lodi di Joe.

Non c’era mai momento in cui non ci fosse qualcosa da fare. Joe non si dava tregua, anticipava i tempi e saltava da un’attività all’altra. Inamidavano duecento camicie bianche afferrandole una per una con un unico gesto che faceva sporgere polsi, colletto, sprone e petto dalla mano destra ruotante. Mentre la sinistra tratteneva le falde per impedire che finissero nella tinozza, la destra si immergeva in un amido così caldo che per poterlo stendere dovevano infilare in continuazione le mani in un secchio di acqua fredda. Quella sera lavorarono fino alle dieci e mezza inamidando i «capi di lusso», delicati indumenti da signora pieni di trine e merletti.

«Viva i tropici, dove si va senza vestiti», rise Martin.

«Io sarei disoccupato», rispose Joe con tono serio. «So fare solo questo mestiere».

«Ma lo sai fare bene».

«Per forza. Ho cominciato al Contra Costa di Oakland, quando avevo undici anni, a preparare i panni per il mangano. Ne sono passati diciotto, di anni, e non ho mai fatto niente altro. Ma questo posto è il più faticoso che abbia avuto. Ci vorrebbe almeno un altro ad aiutarci. Lavoriamo anche domani sera. Il mercoledì usiamo sempre il mangano per i colli e i polsi».

Martin fissò la sveglia, si accostò al tavolo e aprì il Fiske. Non riuscì a finire il primo capoverso. Le righe gli ballavano davanti agli occhi confondendosi. Camminò avanti e indietro picchiandosi violentemente la testa con i pugni ma senza riuscire a vincere la sonnolenza. Appoggiò il libro aperto in piedi davanti al viso reggendosi le palpebre con le dita e si addormentò con gli occhi spalancati. A questo punto cedette e senza quasi rendersi conto di ciò che faceva si spogliò e andò a letto. Dormì per sette ore di un sonno pesante e animalesco e si svegliò per il suono della sveglia con la sensazione di non aver riposato a sufficienza.

«Hai letto molto?», gli chiese Joe.

Martin scosse il capo.

«Non importa. Stasera dobbiamo manovrare il mangano, ma giovedì smettiamo alle sei. Così avrai tempo».

Quel giorno Martin lavò a mano indumenti di lana in una grande tinozza con un forte detersivo, aiutandosi con un mozzo di ruota montato su un’asta che si immergeva, attaccata con una molla a una leva posta in alto.

«Una mia invenzione», disse Joe con orgoglio. «È meglio dell’asse e delle nocche delle mani e inoltre ti fa risparmiare quindici minuti alla settimana, e quindici minuti non sono da buttar via in questo casino».

Anche passare colli e polsi al mangano era stata un’idea di Joe, che vi si dilungò quella sera mentre lavoravano alla luce elettrica.

«È una cosa che non si fa in nessuna lavanderia, tranne che in questa. Ed è necessaria se si vuole finire sabato pomeriggio alle tre. Però riesce se la si fa bene. Ci vuole il calore giusto e la pressione giusta, e bisogna passarli per tre volte. Guarda questo!», esclamò sollevando un polsino. «Non si poteva far meglio a mano o con la pressa».

Giovedì Joe era su tutte le furie. Era arrivato un carico di «capi di lusso» da inamidare.

«Me ne vado», annunciò. «Non ci sto. Me ne vado senza aspettare un secondo. A che serve lavorare come un mulo tutta la settimana e cercare di guadagnare dei minuti, quando poi mi arrivano all’improvviso con un carico supplementare di roba da inamidare? Questo è un paese libero e io dirò a quel grasso olandese che cosa penso di lui. E non glielo dico con tanti giri di parole. Glielo voglio proprio spiattellare in faccia. Tutti questi panni in più!

«Questa sera si lavora», aggiunse dopo un istante di silenzio venendo a più miti consigli e rassegnandosi al destino.

Quella sera Martin non lesse nulla. Per una settimana non vide giornali e, stranamente, non ne sentì nemmeno il bisogno. Aveva perso ogni interesse per le notizie di attualità. Era troppo stanco e snervato per avvertire curiosità per qualunque cosa, anche se aveva pensato di partire in bicicletta per Oakland il sabato pomeriggio se fossero riusciti a finire per le tre. Erano più di cento chilometri e gli altri cento che avrebbe dovuto percorrere per tornare all’albergo la domenica pomeriggio non sarebbero stati un gran riposo per la seconda settimana di lavoro. Sarebbe stato più comodo andare in treno, ma il biglietto di andata e ritorno era due dollari e mezzo, e si era proposto di risparmiare.

XVII

Martin imparò molte cose. Nel corso della prima settimana lui e Joe finirono duecento camicie bianche in un pomeriggio. Joe manovrava la pressa, una macchina alla quale era agganciato un ferro rovente con una barra d’acciaio che lo teneva schiacciato. Con questo strumento stirava lo sprone, il colletto e i polsi, metteva questi ultimi ad angolo retto con la camicia e dava il tocco finale al petto. Non appena finiva le camicie le gettava su una rete che si trovava fra lui e Martin, il quale le prendeva e le «terminava», stirando tutte le parti non inamidate.

Era un lavoro sfibrante che veniva eseguito per ore e ore a grande velocità. Sulle ampie verande dell’albergo uomini e donne in leggeri abiti bianchi sorseggiavano bevande ghiacciate cercando di mantenersi freschi. Ma nella lavanderia l’aria era rovente. L’enorme fornello diventava rosso e bianco per la temperatura, mentre i ferri emettevano nuvole di vapore muovendosi sulla stoffa umida. Il calore di questi attrezzi era diverso da quello dei ferri da stiro casalinghi. La familiare prova del tocco con un dito bagnato era inutile perché la temperatura che avesse consentito un controllo di questo tipo sarebbe stata troppo bassa per le esigenze di Joe e Martin. La gente del mestiere misurava la temperatura avvicinando il ferro alla guancia e valutandone il calore secondo criteri ignoti che Martin, pur ammirando, non era in grado di capire. Quando il nuovo ferro era troppo caldo, lo si raffreddava attaccandolo a una verga di ferro e immergendolo in acqua gelida. Anche in questo caso occorreva una valutazione sottile e precisa. Un secondo di troppo nel liquido refrigerante avrebbe significato la perdita delle qualità nella stiratura che solo la giusta temperatura è in grado di garantire, e Martin scoprì, con grande meraviglia, di avere acquisito la capacità di compiere questa operazione con un’esattezza infallibile, come una macchina.

Non ebbe però il tempo per essere fiero di questa scoperta, perché tutta la sua attenzione doveva concentrarsi sul lavoro. Trasformatosi in una macchina intelligente, sempre all’erta con le mani e con la testa, tutte le sue doti personali erano messe al servizio di quell’attività. Nel cervello non c’era più posto per i grandi problemi universali dell’uomo. Tutte le vie d’accesso alla mente erano sbarrate e chiuse ermeticamente. La camera di risonanza dell’anima era ridotta a un angolo striminzito, a una torre di comando che muoveva i muscoli delle braccia, le spalle e le dieci agili dita, mentre il rapido ferro spinto lungo il suo sbuffante percorso da gesti ampi e decisi, perfettamente calcolati – non un centimetro di più né un centimetro di meno – frusciava su una marea di maniche, fianchi, schiene e falde, finché le camicie finite venivano gettate, senza gualcirle, sull’asse destinata ad accoglierle. E il lancio non era ancora finito che già l’attenzione era rivolta a un’altra camicia. E così di seguito per ore e ore, mentre fuori tutti boccheggiavano sotto il sole della California. Ma non c’erano svenimenti nella stanza surriscaldata. I turisti delle fresche verande avevano bisogno di abiti puliti.

Fiumi di sudore uscivano dal corpo di Martin. Beveva enormi quantità d’acqua, ma la calura delle giornate e dei suoi sforzi era tale che gli correva in tutti gli interstizi e gli usciva da tutti i pori. In mare il lavoro che aveva svolto gli aveva sempre lasciato, tranne che in rare occasioni, ampie possibilità di riflettere e meditare. Il comandante della nave aveva avuto il dominio assoluto sul suo tempo; ma il direttore dell’albergo era diventato padrone anche della sua anima. Non aveva altri pensieri che non fossero per quella fatica che lo snervava e annichiliva. Null’altro gli veniva in mente. Non aveva coscienza di amare Ruth, la quale non esisteva neppure più, perché il suo cervello in tensione non trovava neanche il tempo di ricordarla. Solo quando strisciava a letto la sera o quando faceva colazione la mattina la ragazza gli si ripresentava in fuggevoli ricordi.

«È un inferno, vero?», notò una volta Joe.

Martin annuì con una punta di irritazione. Era un’osservazione banale e superflua. Non parlavano durante il lavoro. La conversazione faceva perdere loro il ritmo, come avvenne anche quella volta, costringendolo a fare un passaggio in meno con il ferro e a recuperarlo con due movimenti supplementari, grazie ai quali poté riprendere la cadenza.

Azionavano la lavatrice il venerdì mattina. Due volte la settimana dovevano passare la biancheria dell’albergo: lenzuola, federe, coperte, tovaglie e tovaglioli. Finito questo compito si dedicavano ai «capi di lusso» da inamidare. Era un lavoro lento, meticoloso e delicato, che Martin non imparò con altrettanta facilità. Inoltre non poteva rischiare, perché gli errori si pagavano cari.

«Lo vedi questo?», gli chiese Joe sollevando un sottilissimo copribusto che avrebbe potuto essere racchiuso nel pugno di una mano. «Se lo bruci ti costa venti dollari di salario».

Martin evitò il pericolo diminuendo la tensione muscolare, anche se fu costretto a una straordinaria concentrazione nervosa che lo portava a solidarizzare in silenzio con le imprecazioni dei compagni, mentre lui era costretto a faticare e a soffrire senza battere ciglio su quelle belle cose, indossate da donne che non devono farsi il bucato da sé. I «capi di lusso» diventarono un incubo per Martin, oltre che per Joe, perché sottraevano loro minuti guadagnati con tanta fatica. Ci lavorarono per tutta la giornata, con un’interruzione alle sette per passare al mangano la biancheria dell’albergo, riprendendo alle dieci quando i clienti erano a dormire e continuando fino a mezzanotte, all’una, alle due. Smisero alle due e mezzo.

Sabato mattina furono di nuovo impegnati con i capi di lusso e nel completamento di altre attività rimaste in sospeso, e alle tre del pomeriggio posero termine alla loro settimana lavorativa.

«Non vorrai andare a Oakland in bicicletta dopo tutto quello che hai fatto?», gli chiese Joe mentre, seduti sui gradini, si facevano una gloriosa fumata.

«Devo», fu la risposta.

«Che vai a fare?… Una ragazza?».

«No, devo cambiare i libri alla biblioteca e voglio risparmiare i due dollari e mezzo del treno».

«Perché non li mandi con il corriere espresso? Costa un quarto di dollaro per viaggio».

Martin pensò che non era una cattiva idea.

«E domani ti riposi», proseguì l’altro. «Ne hai bisogno. Ne ho bisogno anch’io. Sono distrutto».

Lo si vedeva. Indomabile, sempre in movimento, teso tutta la settimana a guadagnare secondi e minuti, a colmare i ritardi e ad abbattere gli ostacoli, fonte di irresistibile energia, motore umano di potenza straordinaria, diavolo scatenato sul lavoro, ora che aveva completato il suo compito settimanale era sull’orlo del crollo. La sua bella faccia, estenuata e strapazzata, si era come disfatta in un’espressione di grande spossatezza. Aspirava la sigaretta automaticamente e parlava con voce spenta e monotona. Tutta la grinta e la determinazione erano svanite. La soddisfazione era offuscata dalla tristezza.

«E la prossima settimana ricomincia tutto daccapo», disse mestamente. «E a che serve poi tutto questo? Qualche volta vorrei essere un vagabondo. Non lavorano e campano lo stesso. Cribbio! Sento il bisogno di un bicchiere di birra, ma non riesco a trovare la voglia di tirarmi su per arrivare fino al paese. Sei uno scemo se ti muovi da qui, quando puoi mandare quei libri con il corriere».

«Ma che ci sto a fare qui tutta la domenica?», chiese Martin.

«Ti riposi. Non sai neanche tu quanto sei stanco. Beh, io la domenica sono così a terra che non riesco neanche a leggere i giornali. Una volta mi sono ammalato di febbre tifoidea. Due mesi e mezzo di ospedale. Niente lavoro per tutto questo tempo. È stato bellissimo.

«Bellissimo», ripeté un minuto dopo con aria trasognata.

Dopo aver fatto un bagno Martin scoprì che il suo capo era scomparso. Pensò che con ogni probabilità era uscito a farsi una birra, ma gli ottocento metri che avrebbe dovuto percorrere per raggiungerlo al villaggio gli parvero troppi. Si sdraiò sul letto senza scarpe cercando di raccogliere le idee. Non allungò la mano per prendere un libro. Era troppo stanco per riuscire a dormire e, intorpidito dalla fatica, rimase disteso senza quasi pensare fino all’ora di cena. Joe non comparve neanche allora e Martin ne capì il perché quando sentì dire dal giardiniere che probabilmente se ne stava attaccato al banco del bar. Andò subito a letto e la mattina dopo si sentì riposato. Poiché Joe non c’era ancora, Martin si procurò un giornale e si allungò in un posticino tranquillo all’ombra degli alberi. Passò la mattinata senza sapere neanche lui come. Non si assopì e non fu disturbato da nessuno, ma non riuscì a completare la lettura del giornale. Tornò nello stesso luogo nel pomeriggio, dopo il pranzo, e vi si addormentò.

Trascorse così la domenica e il lunedì mattina riprese a lavorare pieno di forza alla divisione dei capi di biancheria, mentre Joe, con un’asciugamano legato intorno alla testa, manovrava la lavatrice e mescolava il detersivo accompagnando tutto ciò che faceva con una sequela di sospiri e imprecazioni.

«Non posso proprio farne a meno», spiegò. «Quando viene il sabato sera devo andare a bere».

Passò un’altra settimana, una nuova grande battaglia che continuava ogni notte alla luce elettrica e raggiungeva il culmine alle tre del sabato pomeriggio, quando Joe gustava il suo momento di stanco trionfo prima di trascinarsi al paese per dimenticare. La domenica di Martin fu uguale alla precedente. Dormì all’ombra degli alberi, scorse faticosamente le pagine del giornale e passò molte ore sdraiato supino senza fare nulla e senza pensare a nulla. Era troppo intontito per pensare, anche se capiva che si detestava per questo. Aveva ribrezzo per se stesso, come se avesse vissuto un’esperienza degradante o commesso un atto infame. Ogni palpito divino era scomparso in lui. Insensibile al pungolo dell’ambizione aveva perso la vitalità che potesse risvegliarlo. Era morto. L’anima sua era morta. Non era che un animale, una bestia da soma. Non vedeva alcuna bellezza nella luce del sole che filtrava tra il verde delle foglie, né sentiva l’azzurra volta del cielo comunicargli come un tempo i segni della grandezza del cosmo e i segreti che fremevano nel momento della rivelazione. La vita era insopportabilmente tetra e stupida e lasciava in bocca un sapore amaro. Una cortina nera copriva il lucido specchio della vista interiore, e la fantasia giaceva malata in una camera oscurata nella quale non entrava alcun raggio di luce. Invidiava Joe che giù al villaggio imperversava attaccato al banco del bar, con il cervello che gli girava per effetto dell’alcool, stupidamente felice per cose stupide, immerso in un’ubriachezza trionfante e bizzarra in cui dimenticava il lunedì mattina e la settimana di micidiale fatica che lo attendeva.

Passò la terza settimana: Martin odiava se stesso e la vita. Era oppresso da un senso di fallimento. I direttori di giornali avevano ottimi motivi per rifiutare i suoi scritti. Ora lo capiva con chiarezza e rideva di se stesso e dei propri sogni. Ruth gli aveva restituito per posta le Liriche del mare. Lesse con apatia la lettera di lei. Faceva del suo meglio per dirgli che le piacevano e che erano belle. Ma non sapeva né mentire, né fingere di non vedere la verità. Capiva che erano un fallimento e quella sentenza si leggeva fra le righe fredde e sbrigative della lettera. Aveva ragione e Martin ne fu perfettamente convinto riguardando le poesie. Aveva smarrito la capacità di provare meraviglia di fronte alla bellezza, e nel leggere quelle composizioni si chiedeva che mai avesse avuto in testa mentre le scriveva. Le audacie linguistiche gli parvero grottesche, le espressioni felici lo sbalordivano per la loro mostruosità e tutto gli sembrava assurdo, irreale e impossibile. Le avrebbe bruciate subito se avesse avuto la voglia di accendere il fuoco. C’era la sala delle caldaie, ma pensava che non meritassero neppure lo sforzo necessario per portarle fino allo sportello della fornace. Tutta l’energia che aveva era impiegata a lavare i panni di altri. Per sé non gli restava nulla.

Decise che quando fosse arrivata la domenica avrebbe risposto alla lettera di Ruth, costasse quel che costasse. Ma sabato pomeriggio, dopo aver finito il lavoro e fatto un bagno, fu sopraffatto dal desiderio di dimenticare. «Magari vado giù a vedere come se la passa Joe», disse fra sé, sapendo nel momento stesso in cui la formulava che era una bugia, ma incapace di costringersi a riconoscerla come tale. E anche se fosse riuscito a compiere questo sforzo si sarebbe rifiutato di ammettere che mentiva, perché voleva soprattutto dimenticare. Si avviò verso il villaggio lentamente e senza entusiasmo, e accelerò il passo inconsciamente quando fu vicino al bar.

«Pensavo che tu andavi ad acqua», fu la frase che Joe gli rivolse a mo’ di saluto.

Martin non si degnò di dare spiegazioni, ma ordinò whiskey e si riempì il bicchiere fino all’orlo prima di passare la bottiglia.

«Non tenertela tutta la notte», disse con tono rude.

Poiché l’altro se la prendeva comoda Martin non volle aspettare che finisse e dopo avere ingollato il bicchiere in un fiato lo riempì di nuovo.

«Ora posso aspettare il mio turno», gli disse deciso, «però muoviti».

Joe si affrettò a versare e bevvero insieme.

«È stato il lavoro, vero?», chiese Joe.

Martin si rifiutò di affrontare quell’argomento.

«È un vero inferno», continuò l’altro, «però mi dispiace vederti lasciare la preziosa acqua, Mart. Beh, alla salute!». Martin continuò a bere in silenzio, ringhiando ordini e inviti e intimorendo il barista, un effeminato giovanotto di campagna con acquosi occhi azzurri e la scriminatura nel mezzo.

«È uno scandalo come ci fanno sgobbare, poveri cristi», osservò Joe. «Se non mi sbronzassi mi verrebbe da scoppiare e gli brucerei tutta la baracca. La mia ciucca è l’unica cosa che li salva, te lo dico io!».

Martin non rispose. Dopo qualche bicchiere sentì la testa girargli per l’ubriachezza. Ah, quello era vivere, il primo soffio di aria pura che avesse respirato in tre settimane. Tornò a sognare. La fantasia uscì dalla camera oscura e lo invitò a seguire la sua forma luminosa. Lo specchio della vista interiore tornò a splendere come una lastra d’argento e a brulicare di immagini abbaglianti. Aveva riacquistato la capacità di provare meraviglia di fronte alla bellezza e sentiva rinascere in sé l’energia. Cercò di comunicarlo a Joe, ma il compagno aveva visioni diverse dalle sue, piani infallibili che gli avrebbero consentito di sfuggire alla schiavitù di quel lavoro infame e di diventare proprietario di una grande lavanderia meccanica.

«Te lo dico io, Mart, non ci saranno bambini a lavorare nella mia lavanderia – ci puoi giurare. E non ci sarà anima viva a sgobbare dope le sei di sera. Senti quello che ti dico! Ci saranno macchine e lavoratori in numero sufficiente per fare tutto in un orario decente e tu, Mart, sai che farai? Sarai il direttore di tutta la baracca, capito? E sai qual è il mio piano? Adesso mi metto anch’io ad andare ad acqua, risparmio per due anni… risparmio e poi…».

Martin si era allontanato lasciandolo ad esporre il programma al barista, finché anche questo degno gentiluomo fu chiamato a servire due contadini che entrando avevano accettato l’invito di Martin. Egli offrì da bere a tutti con grande generosità, ai braccianti, a uno stalliere, all’aiuto giardiniere dell’albergo, al barista e a un vagabondo di passaggio che era sgusciato dentro come un’ombra e come un’ombra si era appostato all’estremità del bancone.

XVIII

Lunedì mattina Joe gemette spingendo fino alla lavatrice il primo carrello di panni.

«Senti», cominciò.

«Chiudi il becco», ringhiò Martin.

«Scusa, Joe», disse a mezzogiorno quando smisero per il pranzo.

All’altro vennero le lacrime agli occhi.

«Non importa vecchio mio», disse. «È un inferno e non possiamo farci niente. Sai, tu mi piaci molto. È per questo che ci sono rimasto male. Mi sei stato simpatico subito».

Martin gli strinse la mano.

«Andiamocene», suggerì Joe. «Piantiamo tutto e andiamo a fare i vagabondi. Non ci ho mai provato ma dev’essere facilissimo. Non si fa nulla tutto il giorno, pensa, nulla di nulla. Una volta sono stato malato in ospedale, con la febbre tifoidea, ed è stato bellissimo. Avrei voglia di ammalarmi di nuovo».

La settimana procedette faticosamente. L’albergo era pieno ed erano sommersi da capi di lusso da inamidare. Erano capaci di imprese epiche. La sera combattevano fino a tardi sotto la luce elettrica, ingollavano un pasto in fretta e furia e arrivarono persino a lavorare per una mezz’ora prima di colazione. Martin non faceva più il bagno freddo.

Era perennemente assorbito da una frenetica attività svolta sotto la magistrale guida di Joe, che, conscio della sua grande abilità nel guadagnare minuti preziosi e nell’evitare di perderli, li contava con la passione con cui l’avaro passa in rassegna le monete d’oro, girando a un ritmo forsennato come una macchina impazzita e aiutato soltanto da quell’altro meccanismo che un tempo credeva di essere un uomo e rispondeva al nome di Martin Eden.

Solo in rari momenti Martin riusciva a pensare. La casa in cui un tempo aveva avuto dimora la sua ragione aveva la porta chiusa e le finestre sbarrate, ed egli ne era diventato lo spettrale guardiano. Non era che un’ombra, aveva ragione Joe. Erano due ombre che si muovevano in un limbo di eterna fatica. O era un sogno? Qualche volta nell’umido e sfrigolante calore dei pesanti ferri che passavano e ripassavano sui candidi indumenti gli veniva il sospetto che potesse essere un incubo. Prestissimo, o magari fra un migliaio d’anni, si sarebbe ridestato nella cameretta con il tavolo macchiato d’inchiostro e avrebbe ripreso a scrivere dal punto in cui si era interrotto il giorno prima. O forse era un sogno anche questo e il risveglio sarebbe avvenuto al cambio del turno di guardia, quando sarebbe stato sbalzato dalla cuccetta rollante nel castello di prua e costretto a salire sul ponte sotto il cielo stellato dei tropici e alla fresca brezza degli alisei che gli penetrava nella carne.

Arrivò il sabato, con la sua vacua vittoria delle tre.

«Magari vado in paese per una birra», disse Joe con la voce curiosa e monotona che contrassegnava il tracollo del fine settimana.

Improvvisamente Martin parve risvegliarsi. Aprì la borsa degli attrezzi e lubrificò la bicicletta, mettendo grasso sulla catena e regolando i cuscinetti. Joe era a metà della via che portava al bar quando fu superato da Martin che piegato sul manubrio e spingendo sui pedali con un ritmo regolare si preparava ad affrontare cento chilometri di strade, di salite e di polvere. Quella notte dormì a Oakland e la domenica rifece il percorso in senso inverso. Il lunedì mattina, stanco ma soddisfatto di non aver bevuto, iniziò una nuova settimana di lavoro.

Passò così la quinta settimana, e poi la sesta, durante le quali visse e lavorò come una macchina, conservando soltanto un barlume di lucidità e un briciolo di coscienza che lo spingevano, a ogni fine settimana, a bruciare le energie rimaste in quei duecento chilometri. Non era riposo. Era una forma più raffinata di fatica meccanica che contribuì a cancellare quel residuo di aspirazioni della sua esistenza precedente. E alla fine della settima settimana, controvoglia ma incapace di resistere, scese giù al villaggio con Joe ad annegare la vita e a ritrovare la vita fino al lunedì mattina.

Nelle settimane seguenti riprese a macinare quei duecento chilometri il sabato e la domenica, cancellando l’istupidimento di una fatica immane con uno sforzo ancora più grande, ma dopo tre mesi scese di nuovo al paese con Joe. Dimenticò, tornò a vivere e, vivendo, vide, con chiarezza allucinante, la bestialità dell’esistenza che conduceva – non per il bere, ma a causa del lavoro. L’alcol non era la causa, ma la conseguenza di quell’attività inumana, che sopravveniva inevitabilmente come la notte segue il giorno. Diventare un animale da soma non era la premessa per salire alle vette, gli sussurrò il whiskey, ed egli annuì in segno di approvazione. Il liquore era saggio: rivelava i propri segreti.

Chiese carta e penna e dopo avere ordinato da bere per tutti si accostò al banco del bar a scrivere, mentre tutti intorno a lui brindavano alla sua salute.

«È un telegramma, Joe», disse. «Leggilo».

Joe lo sbirciò con un ghigno incuriosito da ubriaco, ma ciò che vide sembrò fargli recuperare la lucidità. Lo fissò con aria di rimprovero mentre le lacrime gli rigavano le guance.

«Non vorrai piantarmi in asso, Mart?», chiese disperato. Martin accennò di sì con la testa e chiese a uno degli avventori di fargli quel telegramma all’ufficio postale.

«Un momento», borbottò Joe con la voce impastata. «Lasciami pensare». Rifletteva aggrappato al banco del bar non riuscendo a reggersi sulle gambe malferme, mentre l’amico lo sosteneva circondandolo con il braccio.

«Scrivi “due lavandai”», disse bruscamente. «Da’ qua, lo correggo io».

«Ma tu perché te ne vai?», chiese Martin.

«Per lo stesso motivo».

«Io posso imbarcarmi. Tu no».

«No», rispose «ma posso benissimo vivere da vagabondo».

Martin lo guardò un istante con occhi penetranti ed esclamò:

«Per Dio, se hai ragione! Meglio fare il vagabondo che ammazzarsi per il lavoro. Almeno vivi. E starai meglio di quanto non sia stato finora».

«Una volta sono stato in ospedale», riprese Joe. «È stato bellissimo. Febbre tifoidea… te l’avevo detto?».

Mentre Martin modificava il testo del telegramma in «due lavandai», Joe continuava:

«Quando ero in ospedale non mi veniva voglia di bere. Strano, eh? Ma quando lavoro tutta la settimana come un animale devo sbronzarmi. Hai mai notato che i cuochi bevono come spugne?… e anche i fornai? È il lavoro. Lo devono fare. Dài, voglio pagare la metà del telegramma».

«Giochiamocela», propose Martin.

«Forza, da bere per tutti», esclamò Joe scuotendo i dadi e rovesciandoli sul piano bagnato del bancone.

Lunedì mattina Joe era pieno di eccitazione. Non si lamentava più del mal di testa e aveva perso l’interesse nel lavoro. Si fece sfuggire una grande quantità di occasioni per guadagnare tempo soffermandosi ad osservare dalla finestra gli alberi e il cielo illuminato dal sole.

«Guarda che spettacolo!», esclamava. «Ed è tutto mio! E gratis. Posso sdraiarmi sotto quegli alberi e dormire per mille anni se mi viene voglia. A che serve aspettare ancora? Lì fuori c’è il paese del dolce far niente e io ho già il biglietto… ed è un biglietto di sola andata, cribbio!».

Qualche minuto più tardi, mentre riempiva il carrello di panni sporchi destinati alla lavatrice, Joe scorse la camicia del direttore dell’albergo. La riconobbe dalle iniziali e in uno slancio di entusiasmo per la libertà ritrovata la gettò sul pavimento e la calpestò.

«Vorrei che ci fossi dentro tu, porco di un olandese!», urlò. «Qui dove ti ho messo! Prendi questo! E questo! E questo! Accidenti a te! Tenetemi, voi! Tenetemi!».

Martin si mise a ridere e lo riportò a lavorare. Martedì sera arrivarono i due nuovi lavandai e il resto della settimana se ne andò per istruirli nelle procedure. Joe se ne stava seduto a spiegare come si faceva, ma non lavorava più.

«Non alzo un dito», dichiarò. «Non alzo un dito. Possono licenziarmi se vogliono, ma se lo fanno li pianto in quattro e quattr’otto. Basta lavoro per me, grazie mille. D’ora in poi viaggerò gratis sui carri merci e me ne starò spaparanzato al sole. Datevi da fare, schiavi! Forza! Sgobbate e sudate! Sgobbate e sudate! Quando sarete morti, marcirete come me, e allora, che ve ne frega di come vivete?… Eh? Spiegatemelo un po’… A che serve?».

Sabato ritirarono la paga e giunse il momento dell’addio.

«Non è che posso chiederti di cambiare idea e di girovagare con me?», chiese Joe con aria poco convinta.

Martin gli strinse la mano e Joe gliela tenne per un momento nella sua dicendo:

«Ti rivedrò un’altra volta, Mart, prima di morire. Parola mia. Me lo sento nelle ossa. Ciao, Mart, e fa’ il bravo. Mi piaci un sacco, sai».

Rimase solo in mezzo alla strada a guardare finché Martin non sparì dietro la curva.

«È un bravo tipo, quel ragazzo lì», mormorò. «Un bravo tipo».

Poi si avviò con passo pesante giù per la strada verso la cisterna dell’acqua, dove una mezza dozzina di carri ferroviari vuoti attendevano su un binario morto di essere agganciati a un treno merci.

XIX

Di ritorno a Oakland, Martin vide spesso Ruth e la sua famiglia, che nel frattempo avevano finito la villeggiatura. Dopo il conseguimento della laurea lei non era più impegnata a studiare, e lui aveva perso ogni voglia di scrivere dopo quell’esperienza che gli aveva tolto qualsiasi stimolo intellettuale. In tal modo poterono stare assieme come non era mai avvenuto prima di allora e accrescere in breve tempo la loro intimità.

In un primo momento Martin non aveva fatto altro che riposare. Dormiva molto e passava lunghe ore senza fare nulla immerso in pensieri e meditazioni, come qualcuno che si stia riprendendo dopo una terribile prova. Ebbe i primi segni di risveglio accorgendosi di provare un interesse più vivo nei giornali, preludio alla ripresa della lettura di facili romanzi e poesie. Infine, qualche giorno dopo, ricominciò a immergersi nello studio del Fiske, da tempo trascurato. Le grandi capacità di recupero della gioventù, assistite dallo splendido corpo e dalla perfetta salute, gli diedero nuovo slancio.

Ruth non nascose la propria delusione quando egli le annunciò che avrebbe cercato un altro imbarco non appena si fosse sentito di nuovo in forze.

«Perché vuole farlo?», chiese.

«Ho bisogno di soldi», rispose. «Devo mettere da parte abbastanza per il successivo assalto ai direttori delle riviste. Il denaro è fondamentale nella guerra… nel mio caso ci vogliono denaro e pazienza».

«Ma se le servivano soldi perché non è rimasto nella lavanderia?».

«Perché mi sarei abbrutito. Era un genere di lavoro che spingeva al bere».

Lo fissò inorridita.

«Lei vuol dire che…?», cominciò con un tremito nella voce.

Gli sarebbe stato facile allontanare quel sospetto, ma era naturalmente portato alla sincerità e ricordò il vecchio proposito di essere franco, qualunque cosa avvenisse.

«Sì», rispose. «Anch’io. Parecchie volte».

Lei si scostò da lui rabbrividendo.

«Non ho conosciuto nessun uomo che lo abbia fatto… che lo abbia mai fatto».

«Perché non hanno mai lavorato allo Shelly Hot Springs», disse Martin con un riso amaro. «Il lavoro è una buona cosa. È necessario per la salute dell’uomo, ce lo dicono tutti i predicatori, e sa il cielo che non mi ha mai spaventato. Ma ci sono cose nelle quali è male eccedere: una di queste è quella lavanderia. Ecco perché vado in mare per un altro viaggio. Sarà l’ultimo, credo, perché quando tornerò riuscirò a sfondare nelle riviste. Ne sono certo».

Ruth espresse in silenzio la sua disapprovazione, ed osservandola mestamente lui comprese come le fosse impossibile capire ciò che quell’esperienza aveva significato per lui.

«Un giorno scriverò un saggio sull’argomento, intitolato La degradazione del lavoro o La psicologia del bere nella classe operaia, o qualcosa del genere».

Non l’aveva mai sentita così lontana dal giorno del loro primo incontro. La confessione di Martin, fatta con franchezza e con spirito di ribellione, l’aveva disgustata. E tuttavia Ruth era più sconvolta dalla ripugnanza provata che da ciò che l’aveva provocata, perché le rivelava quanto si fosse avvicinata a lui e, una volta accettato questo fatto, si era aperta la via a un’intimità ancora maggiore. Provò anche pietà e un ingenuo impulso di redimerlo. Avrebbe salvato questo rozzo giovane che veniva da tanto lontano. Lo avrebbe sottratto agli effetti nefasti dell’ambiente in cui era vissuto, salvandolo dalle sue inclinazioni contro la volontà stessa di lui. Credeva che tutte queste aspirazioni fossero dovute a un impulso magnanimo; non immaginava che nascessero dalla gelosia e dal desiderio d’amore.

Fecero molti giri in bicicletta nelle belle giornate d’autunno e si fermavano sulle colline a declamare poesie, alternandosi nella lettura di versi nobili ed eletti che ispiravano pensieri elevati. La rinuncia, il sacrificio, la pazienza, l’industriosità e le alte aspirazioni erano i principi che lei indirettamente predicava e vedeva realizzati nel padre, nel signor Butler e in Andrew Carnegie, il povero figlio di emigranti diventato grande benefattore.

Martin osservava tutto ciò con piacere e gratitudine. Ora seguiva più chiaramente i processi mentali di lei; quell’anima non era più per lui un meraviglioso mistero. Intellettualmente erano alla pari. I punti di dissenso non influivano sul suo amore, che sentiva più forte che mai. L’amava per quello che era, e persino la debolezza fisica aveva un fascino particolare agli occhi di lui. Aveva letto dell’infermità di Elizabeth Barrett, che per anni era rimasta confinata a letto fino al giorno luminoso in cui per fuggire con Browning si era sollevata in posizione eretta, con i piedi fermi sulla terra, libera sotto il cielo infinito; e ciò che aveva fatto Browning poteva farlo anche lui, Martin, per Ruth. Ma era necessario che lei lo amasse. Il resto sarebbe stato facile. Le avrebbe dato forza e salute. E nelle vaghe immagini della loro vita futura vedeva, su un solido sfondo fatto di lavoro, agiatezza e benessere, se stesso e l’amata impegnati a leggere e a discutere di poesia, con Ruth che gli declamava i versi reclinata su una moltitudine di cuscini disposti sul pavimento. Era quella la chiave dell’avvenire, la visione che si ripeteva in continuazione. Talvolta lei appoggiava la testa sulla spalla di lui, che leggeva tenendole un braccio intorno alla vita. Talaltra si immergevano insieme nella bellezza della pagina stampata. E poiché Ruth amava la natura, la fantasia di Martin variava generosamente lo scenario di quelle letture, ambientandole in valli chiuse da ripide pareti di roccia, in prati sulle montagne, ai piedi di grigie dune sabbiose di fronte alle onde del mare, su un’isola vulcanica dei tropici con una cascata la cui nebbiolina oscillava e tremava verso l’oceano a ogni refolo di vento. E ogni volta, in primo piano, signori supremi della bellezza, erano lui e Ruth fermi in un’eterna lettura, e ogni volta dietro quel fondale di natura che li copriva come un velo erano il lavoro, il successo e il denaro, che li affrancavano dal mondo e da tutti i suoi tesori.

«Vorrei raccomandare alla mia bambina di essere prudente», l’ammonì un giorno la madre.

«So a che cosa alludi. Ma è impossibile. Lui non è…».

Ruth era arrossita; era il verginale imbarazzo di colei che è costretta ad affrontare per la prima volta i temi sacri della vita da una madre considerata anch’ella come un essere venerato.

«Adatto a te», concluse la madre in sua vece.

Ruth annuì.

«Non volevo dirlo, ma hai ragione. È rozzo, brutale, forte… troppo forte. Non ha…».

Esitò e non riuscì a proseguire. Era un’esperienza nuova, parlare di queste faccende con la mamma. Ancora una volta la madre completò il suo pensiero.

«Non ha un passato limpido… è questo che volevi dire?».

E ancora una volta Ruth accennò di sì con il capo arrossendo.

«Proprio così», disse. «Non è stata colpa sua, ma si è molto mescolato…».

«Alla feccia?».

«Sì, alla feccia. E mi fa paura. Qualche volta sono proprio spaventata, quando parla così liberamente e tranquillamente delle cose che ha fatto come se non importassero. Ma importano, non è vero?».

Si sedettero e si abbracciarono, e durante la pausa della conversazione la madre le carezzò la mano aspettando che continuasse.

«Però mi interessa molto», proseguì. «In un certo senso è il mio protetto. E poi è il mio ragazzo, anche se non è proprio un amico in senso stretto; piuttosto è un amico e un protetto allo stesso tempo. Qualche volta, quando mi fa paura, mi pare un bulldog che ho preso per svago, come hanno fatto alcune ragazze dell’università, che tira con forza il laccio, mostra i denti e minaccia di liberarsi dal guinzaglio».

La madre continuava a tacere.

«Mi interessa, immagino, come un cane. Ha molte buone qualità, intendiamoci. Ma ci sono parecchie cose di… di tutt’altra natura che non vorrei avesse. Come vedi, ho riflettuto anch’io. Impreca, fuma, beve, ha fatto a pugni (me lo ha detto lui; e ha detto anche che gli piace). È tutto ciò che non dovrebbe essere l’uomo… l’uomo che vorrei per…», e qui abbassò la voce a un sussurro, «… marito. E poi è forte. Il mio principe deve essere alto, snello e bruno – pieno di grazia e di fascino. No, non c’è pericolo che mi innamori di Martin Eden. Sarebbe la disgrazia peggiore che potrebbe capitarmi».

«Ma non era questo che volevo dire», fraintese la madre. «Hai pensato a lui? Per te è un partito inaccettabile da ogni punto di vista, ma se dovesse innamorarsi di te?».

«Lo è già», esclamò la ragazza.

«Era da prevedersi», disse con dolcezza la signora Morse. «Come si può evitarlo, conoscendoti?».

«Olney mi detesta», disse Ruth con calore. «E io non lo posso soffrire. Quando lo vedo mi ribolle il sangue nelle vene e sento la voglia di trattarlo male. E se per caso riesco a rimanere calma è lui ad essere odioso con me. Invece sono felice con Martin Eden. Nessuno mi ha mai amata, voglio dire nessun uomo, come lui. Sai che cosa voglio dire, mammina. È dolce sentire che si è una vera donna». Nascose il viso nel grembo della madre singhiozzando. «Penserai che sono una ragazza incosciente, ma sono sincera e ti dico solo quello che sento».

La signora Morse provava un misto di mestizia e di felicità. La sua bambina, ormai laureata in lettere, non c’era più: al suo posto era sbocciata la donna. Il piano era riuscito. Quel preoccupante vuoto nella natura di Ruth era stato colmato senza rischi o pericoli. Questo rozzo marinaio era stato lo strumento attraverso il quale Ruth, pur non amandolo, era diventata cosciente della propria femminilità.

«Gli tremano le mani», proseguiva Ruth con il volto sempre nascosto per la vergogna. «È divertente e ridicolo, e me ne dispiace per lui. E quando lo vedo con le mani così tremanti e gli occhi lucidi, gli faccio la ramanzina per la vita sbagliata che conduce e gli do consigli su quello che deve fare per correggersi. Lui mi adora, lo so. Gli occhi e le mani non mentono. Al solo pensarci sento che sono maturata, e capisco che ormai ho qualcosa che è mio, proprio mio, che mi rende uguale alle altre ragazze… e alle giovani donne. E capisco anche che prima non ero come loro e che questo ti preoccupava. Cercavi di non farmi sapere il tuo cruccio, ma io me n’ero accorta e volevo… «metterci una pezza», come direbbe Martin Eden».

Fu un momento magico per madre e figlia, che continuarono a discorrere con gli occhi umidi nella luce incerta del crepuscolo, Ruth trascinata dal candore e dalla franchezza, la madre tesa ad ascoltarla con comprensione e a darle saggi consigli.

«Ha quattro anni meno di te», diceva, «e non ha né arte né parte. Non ha né un posto fisso né uno stipendio sicuro. È uno scriteriato. Il buon senso dovrebbe suggerirgli, amandoti, di fare qualcosa che possa dargli il diritto di sposarti invece di perdere il tempo con quei racconti e con i suoi sogni infantili. Ho paura che Martin Eden non diventerà mai adulto. Rifugge dalla responsabilità della scelta di un’occupazione, come invece fecero, quando fu il momento, tuo padre e le persone di nostra conoscenza, per esempio il signor Butler. Temo che Martin Eden non sarà mai in grado di guadagnarsi da vivere. Purtroppo, considerando come è fatto il mondo, per essere felici ci vogliono i soldi – oh, non un grande patrimonio, ma il denaro sufficiente a una ragionevole agiatezza. Ti… ti ha mai parlato?».

«Non mi ha detto una parola. Non ci ha mai neanche provato, ma se lo facesse lo fermerei subito perché non l’amo».

«Ne sono contenta. Non vorrei vedere mia figlia, la mia sola figlia che è così innocente e pura, finire nelle mani di uno come quello. Al mondo ci sono molti uomini per bene, che sono onesti, e sinceri e concreti. Abbi pazienza. Un giorno ne troverai uno che amerai e che ti amerà, e con lui sarai felice come tuo padre e io siamo stati felici insieme. E c’è una cosa che devi sempre ricordare…».

«Sì, mamma».

La signora Morse disse con voce bassa e dolce: «I bambini».

«Ci ho… ci ho pensato», confessò Ruth rammentando i pensieri impuri che l’avevano tormentata in passato, con il viso di nuovo rosso per la vergogna di dover parlare di queste cose.

«I tuoi figli non possono avere come padre il signor Eden», continuò la signora Morse in tono deciso. «Devono avere genitori che abbiano avuto una vita pura, e temo che quella di lui non lo sia stata. Tuo padre mi ha detto delle abitudini dei marinai e… e tu capisci».

Ruth strinse la mano della madre in segno di assenso, convinta di avere capito, anche se in realtà aveva una vaga idea di qualcosa di remoto e terribile che non era in grado di immaginare.

«Sai che non faccio nulla senza dirtelo», cominciò. «… Solo che qualche volta devi farmi domande, come prima. Volevo parlartene, ma non sapevo come. È falso pudore, lo so, ma tu deve rendermi la cosa più facile. Qualche volta fammi domande, come prima, dammi la possibilità di spiegare.

«Sei anche tu una donna, mamma!», esclamò infine esultante, dopo che, essendosi entrambe alzate, ebbe afferrato le mani della madre per rimanere di fronte a lei nella luce crepuscolare, con la curiosa e dolce consapevolezza di essere uguale a lei. «Non ti avrei mai visto così se non ci fossimo parlate. Mi sono dovuta accorgere che ero una donna per capire che lo sei anche tu».

«Siamo due donne», disse la madre attirandola a sé e baciandola. «Siamo due donne», ripeté mentre uscivano dalla stanza abbracciate alla vita e con l’animo colmo di felicità per quella rivelazione.

«La nostra ragazzina è diventata una donna», disse orgogliosamente la signora Morse al marito un’ora più tardi.

«Ciò significa», disse lui dopo aver fissato a lungo la moglie, «ciò significa che è innamorata».

«No, ma è amata», replicò la moglie sorridendo. «L’esperimento è riuscito. Finalmente si è svegliata».

«Allora dovremo liberarci di lui». Il tono del signor Morse era quello spiccio e brusco dell’uomo d’affari.

La moglie scosse la testa. «Non è necessario. Ruth dice che fra qualche giorno si imbarcherà. Quando tornerà, lei non ci sarà. La manderemo dalla zia Clara. E poi un anno sulla costa atlantica, con il cambiamento di clima, persone, mentalità e tutto il resto, è proprio quello che ci vuole».

XX

In Martin era rinato il desiderio di scrivere. Racconti e poesie gli pullulavano dal cervello senza sforzo ed egli prendeva appunti che gli sarebbero serviti in futuro, quando avrebbe dato loro espressione. Ma non scriveva. Era la sua piccola vacanza: aveva deciso di consacrarla al riposo e all’amore e in entrambi i campi faceva grandi progressi. In breve tempo riacquistò la sua traboccante vitalità e ogni volta che si incontrava con Ruth la ragazza sentiva come un trauma l’impatto con la forza e la potenza di lui.

«Sta’ attenta», l’avvertì ancora una volta la madre. «Temo che tu veda troppo spesso Martin Eden».

Ma Ruth rise fiduciosa. Era sicura di se stessa e d’altronde, di lì a qualche giorno, Martin sarebbe stato in mare. Poi, al suo ritorno, lei sarebbe stata ancora sulla costa orientale in visita ai parenti. E tuttavia c’era qualcosa di magico nella forza e nella vitalità di Martin. Egli aveva saputo di quel progettato viaggio nell’Est e capiva che doveva affrettare i tempi, ma non sapeva come corteggiare una ragazza di quella fatta. Era inoltre frenato dall’avere spesso frequentato in passato ragazze e donne del tutto diverse da lei, tanto esperte dell’amore, della vita e delle schermaglie fra i sessi quanto lei ne era ignara. La sua sbalorditiva innocenza lo atterriva, gelandogli sulle labbra le parole ardenti e convincendolo, nonostante tutto, di essere indegno di lei. Era anche trattenuto dal fatto di non essere mai stato innamorato prima di allora. Nel suo intenso passato, era stato attratto da molte donne alcune delle quali lo avevano anche affascinato, ma non aveva mai provato che cosa volesse dire amare. Gli era stato sufficiente chiamarle con un fischio e un cenno noncurante e imperioso perché accorressero a lui. Si era trattato di avventure, diversioni, piccoli episodi privi di importanza. E ora, per la prima volta, era lui a supplicare, pieno di tenerezza, di timori e di dubbi, lui che non conosceva i modi e le parole dell’amore, e che era sbigottito dalla cristallina innocenza dell’amata.

Nel processo che lo aveva portato a conoscere il mondo multiforme e le sue incessanti mutazioni aveva appreso una norma di condotta secondo la quale quando si è impegnati per la prima volta in un gioco sconosciuto si deve attendere la prima mossa dell’avversario. Infinite volte questa regola gli era stata preziosa e lo aveva preparato ad essere un buon osservatore. Sapeva come tenere d’occhio ciò che gli era ignoto e aspettare che si rivelasse una debolezza dell’interlocutore, un’apertura in cui penetrare. Era come rimanere in guardia negli scontri di pugilato in attesa di un varco nella difesa dell’altro. E quando questo si presentava Martin sapeva bene come cogliere l’occasione, e picchiare sodo.

E così rimaneva fermo davanti a Ruth, che osservava con attenzione, desideroso di comunicarle il suo amore e timoroso di farlo. Aveva paura di turbarla e non si sentiva sicuro di sé. E tuttavia, pur non rendendosene conto, seguiva la via migliore. L’amore era venuto al mondo prima della parola e in quei suoi primordi aveva appreso modi e forme che non aveva mai dimenticato. Era in questa maniera antica e primitiva che Martin corteggiava Ruth. All’inizio non si era accorto di farlo, anche se in seguito lo intuì. Il contatto fra la mano di lui e quella di lei significava molto più di qualunque parola che egli potesse pronunciare, e lo scontro fra la forza di lui e la fantasia di lei sprigionava più incanto delle poesie d’amore e dei discorsi appassionati di infinite generazioni di amanti. Qualsiasi cosa lui avesse espresso a parole avrebbe colpito in parte l’intelletto di lei: ma il tocco della mano, quel fuggevole contatto, si rivolgeva all’istinto. Se l’intelletto della ragazza era giovane e ingenuo, il suo istinto era vecchio come il genere umano. Il suo istinto era stato giovane quando l’amore era giovane e adesso era più saggio delle convenzioni, delle opinioni e di tutte le cose appena nate. Ecco perché l’intelletto di Ruth non reagiva. Non veniva stimolato e la ragazza non capiva la potenza dell’incessante appello che Martin rivolgeva alla sua natura amorosa. Del resto che egli l’amasse era chiaro come il giorno e Ruth consciamente si beava nel contemplare le manifestazioni dell’amore di lui – gli occhi illuminati da una luce tenera, le mani tremanti e l’inequivocabile e cupo rossore che traspariva oscuramente dalla pelle abbronzata. Lei andava anche più in là, eccitandolo cautamente ma facendolo in modo così delicato che Martin non lo sospettò mai, e con tanto candore da non rendersene nemmeno conto ella stessa. Fremeva a queste prove di un potere che la proclamava donna e provava un piacere sottilmente femminile nel tormentarlo e nel prendersi gioco di lui.

Reso muto dall’inesperienza e dall’eccesso di ardore, goffo e maldestro nel corteggiamento, Martin continuava i suoi approcci con contatti fisici. Il tocco della mano di lui le riusciva gradito, la riempiva di un delizioso brivido di piacere. Martin non lo sapeva, ma capiva che non le era sgradevole. Non che si toccassero spesso la mano, tranne quando si incontravano e al momento del congedo; tuttavia nel manovrare le biciclette, nel legarvi i libri di poesia che portavano con sé sulle colline e nel leggere uno accanto all’altra la medesima pagina c’erano altre occasioni in cui le mani si sfioravano. E c’erano anche casi in cui i capelli di lei solleticavano il viso di lui e la spalla di lui aderiva a quella di lei mentre si piegavano insieme a godere della bellezza contenuta in un libro. Ruth sorrideva fra sé dell’impulso capriccioso, sbucato dal nulla, che le suggeriva di arruffargli i capelli; mentre lui avrebbe desiderato ardentemente, quando si erano stancati di leggere, di appoggiarle la testa sul grembo e di sognare con gli occhi chiusi di ciò che il futuro aveva in serbo per loro. In passato, nei picnic domenicali allo Shellmound Park e allo Schuetzen Park, aveva spesso posato il capo in tal modo, giungendo persino ad addormentarsi profondamente, mentre le ragazze gli riparavano il volto dal sole e guardandolo si scioglievano d’amore per lui e si stupivano della noncuranza con cui egli accettava la loro passione. Fino ad allora appoggiare la testa sul grembo di una ragazza era stata la cosa più facile del mondo, ma adesso quello di Ruth era per lui inaccessibile. E tuttavia, proprio in quella reticenza stava la forza del suo approccio. Il silenzio di lui la rassicurava. Pur essendo timida e suscettibile non si accorse mai della pericolosa piega presa dal loro rapporto. In modo sottile e quasi senza accorgersene Ruth si era accostata sempre più a lui ed egli, consapevole di quella vicinanza, avrebbe voluto osare ma temeva di farlo.

Una volta ne ebbe il coraggio, un pomeriggio in cui la trovò nel soggiorno semibuio in preda a una tremenda emicrania.

«Non c’è rimedio», disse lei rispondendo alle sue domande. «Inoltre non posso prendere le polverine contro il mal di capo. Il dottor Hall me lo ha proibito».

«Penso di conoscere il modo di farglielo passare», rispose Martin, «e senza medicine. Non ne sono sicuro, naturalmente, ma posso provare. È un semplice massaggio. L’ho appreso per la prima volta dai giapponesi, che fanno grande uso di massaggi. E poi l’ho rivisto, con alcune variazioni, presso gli hawaiani, che lo chiamano lomi-lomi. Riesce a ottenere quasi gli stessi risultati dei farmaci, e persino a guarire casi in cui essi non hanno avuto efficacia».

Poco dopo che le mani di lui ebbero cominciato a strofinarle la testa lei emise un profondo sospiro.

«Che bello!», disse.

Mezz’ora più tardi parlò di nuovo per chiedergli: «Non è stanco?».

Era una domanda inutile, perché era evidente quale sarebbe stata la risposta. Quindi Ruth si abbandonò alla sonnolenta contemplazione del grande sollievo che quella forza le portava. Le parve che dai polpastrelli delle dita di lui uscisse un flusso vitale che scacciava il male, finché con l’attenuarsi del dolore lei si assopì, e Martin se ne andò.

Quella sera la ragazza lo chiamò al telefono per esprimergli la sua gratitudine.

«Ho dormito fino all’ora di cena», disse. «Mi ha guarita completamente, signor Eden, e non so come ringraziarla».

Lui era così eccitato e felice che le rispose con frasi sconnesse, mentre davanti agli occhi, per tutta la durata della conversazione telefonica, gli danzò l’immagine di Browning e dell’inferma Elizabeth Barrett. Ciò che era avvenuto una volta poteva verificarsi di nuovo, e lui, Martin Eden, avrebbe ripetuto il miracolo per Ruth Morse. Tornò in camera sua e al volume della Sociologia di Spencer disteso aperto sul letto. Ma non riuscì a leggere. I tormenti d’amore ebbero la meglio sulla sua volontà, finché, nonostante tutto, si ritrovò seduto davanti al tavolino macchiato d’inchiostro. Il sonetto che scrisse quella notte fu il primo di un ciclo d’amore che portò a termine nel giro di due mesi. Nel comporli aveva in mente i Love-sonnets from the Portuguese della Barrett Browning, e scrisse nelle migliori condizioni per le grandi creazioni, all’apice della tensione esistenziale, in preda a una dolce follia d’amore.

Dedicava le molte ore in cui non era con Ruth al Ciclo d’amore, alle letture casalinghe e alle visite alle biblioteche, dove consultava le riviste esaminandone i contenuti e la politica editoriale. Il tempo che trascorreva con Ruth lo faceva impazzire per il venir meno delle speranze, che sentiva tanto più vane quanto più erano grandi. Una settimana dopo la guarigione dall’emicrania, Norman, appoggiato da Arthur e Olney, propose un giro in barca al chiaro di luna. Dal momento che Martin era l’unico in grado di governare un’imbarcazione fu richiesta la sua collaborazione. Ruth si sedette vicino a lui a poppa, mentre i tre giovanotti stavano al centro, assorbiti in una verbosa discussione su questioni riguardanti le associazioni universitarie.

Non era ancora sorta la luna e nel fissare la volta stellata del cielo, in silenzio accanto a Martin, Ruth avvertì un improvviso senso di solitudine. Lo guardò. Un soffio di vento faceva piegare la barca finché il ponte fu quasi a pelo dell’acqua mentre lui, con una mano al timone e l’altra alla scotta di maestra, orzava leggermente, scrutando contemporaneamente davanti a sé per scorgere la non lontana riva settentrionale. Non si era accorto dello sguardo di lei, che l’osservava intensamente, riflettendo sulla strana conformazione di quella mente che induceva un giovane dotato di tante qualità a perdere il tempo a scrivere racconti e poesie destinati alla mediocrità e al fallimento.

Gli occhi di lei seguivano la linea del forte collo, appena visibile alla luce delle stelle, e della solida testa, e le tornò il vecchio impulso di appoggiarvi le mani, attratta da quella forza che pure la spaventava. Avvertì più acutamente il senso della solitudine e si sentì stanca. A causa dell’inclinazione della barca era in una posizione scomoda e rammentò il mal di capo che egli aveva lenito e la riposante calma che era in lui. Era seduto accanto a lei, vicinissimo a lei, e la barca parve spingerla ancor più contro di lui. Le venne allora il desiderio di appoggiarsi a quell’uomo, di affidarsi alla sua forza – un desiderio vago e indistinto che, persino quando le si fu chiarito nella mente, continuò a dominarla inducendola a piegarsi sempre più verso di lui. O era l’inclinazione della barca? Non lo sapeva. Non l’avrebbe saputo mai. Sapeva solo di essere sorretta da lui e che quel sostegno tranquillo e sicuro aveva su di lei un effetto straordinario. Forse era colpa della barca, ma lei non fece nulla per spostarsi. Rimase appoggiata leggermente ma costantemente alla spalla di lui, continuando a farlo anche quando egli mutò posizione per consentirle di stare più comoda.

Era una pazzia, ma Ruth si rifiutò di considerarla tale. Non era più se stessa ma una donna bisognosa di affetto e tuttavia appagata da quel semplice contatto. Non sentiva più la stanchezza. Martin non parlava. Se lo avesse fatto avrebbe dissolto quell’incanto, che fu invece prolungato dalla reticenza di lui nell’esprimerle il suo amore. Egli era in preda alle vertigini e allo sbigottimento, e non riusciva a capire che cosa stesse accadendo. Era una cosa tanto bella che non poteva che essere il prodotto di un delirio dei sensi. Soffocò il folle desiderio di lasciar andare scotta e timone per stringerla fra le braccia. Intuì che sarebbe stata una mossa sbagliata e fu contento che l’avere le mani occupate gli impedisse di cedere alla tentazione. Orzò invece la barca con minore delicatezza, togliendo vergognosamente vento alla vela per prolungare il bordo fino alla riva settentrionale. L’arrivo in prossimità della spiaggia lo avrebbe infatti costretto a virare, ponendo fine al contatto. Veleggiava con abilità, rallentando la velocità dell’imbarcazione senza farlo notare a quelli che erano infervorati nella discussione e ringraziando mentalmente le più ardue esperienze di navigazione che avevano reso possibile quella notte meravigliosa, dandogli la capacità di dominare il mare, la barca e il vento e l’occasione di navigare accanto all’amata, appoggiata dolcemente sulla sua spalla.

Quando la prima luce della luna che era spuntata toccò la vela, illuminando l’imbarcazione di una luce perlacea, Ruth si staccò da lui. E sentì, mentre si muoveva, che anche lui si allontanava. L’impulso ad evitare di essere scoperti fu simultaneo in entrambi. L’episodio aveva avuto un carattere di tacita e segreta intimità. Ruth rimase seduta staccata da lui con le guance in fiamme, chiaramente consapevole del significato di ciò che era avvenuto. Si era resa colpevole di qualcosa che non avrebbe voluto fosse visto dai fratelli e da Olney. Perché? Non aveva mai fatto nulla di simile in vita sua, pur essendo andata altre volte con giovanotti in barca a vela al chiaro di luna. Era sopraffatta dalla vergogna e dal mistero della sua prorompente femminilità. Lanciò un’occhiata a Martin che era impegnato a far virare la barca per cominciare l’altro bordo: l’avrebbe odiato per come l’aveva indotta a fare una cosa così sfacciata e vergognosa. Proprio lui! Forse aveva ragione la mamma, si vedevano troppo spesso. Decise che una cosa del genere non sarebbe avvenuta mai più, e che in futuro lo avrebbe incontrato meno spesso. Accarezzò l’insensata idea di avere con lui una spiegazione la prima volta in cui sarebbero rimasti soli insieme e di dirgli una bugia, di parlargli con indifferenza del malessere che l’aveva colta poco prima del sorgere della luna, ma si ricordò che si erano staccati spontaneamente l’uno dall’altra prima dell’arrivo di quella luce rivelatrice e capì che egli si sarebbe accorto che stava mentendo.

Nei frenetici giorni che seguirono Ruth non fu più se stessa ma una creatura strana ed enigmatica, ostinata nei giudizi e riluttante a riflettere, che si rifiutava di scrutare nel futuro e di pensare a sé e a ciò che l’attendeva. Si sentiva travolta da un mistero che l’atterriva, l’affascinava e la riempiva di continuo stupore. Aveva però un’idea certa, che le dava sicurezza. Non avrebbe mai permesso a Martin di rivelarle il suo amore. Finché ci fosse riuscita tutto sarebbe andato bene. Dopo pochi giorni egli si sarebbe imbarcato. E anche se Martin le avesse parlato tutto sarebbe andato bene, perché lei non lo amava. Naturalmente sarebbe stata un’ora dolorosa per lui, oltre che imbarazzante per lei, perché sarebbe stata la prima dichiarazione che riceveva. Fremette di piacere a quel pensiero. Era una vera donna e un uomo era pronto a chiederle di sposarlo. Era una prospettiva che andava dritta al cuore della sua femminilità. Il tessuto della sua esistenza, la sua stessa essenza, vibravano e tremavano. Quel pensiero le palpitava nella mente come una farfalla attratta dalla fiamma. Arrivò al punto di immaginare la proposta di Martin, formulata con parole che lei stessa gli metteva sulla bocca, e a ripetere le frasi con cui, rifiutandolo, addolciva la ripulsa con la gentilezza e lo esortava a vivere in modo genuino e nobile. Soprattutto, doveva smettere di fumare sigarette. Avrebbe insistito su questo punto. E tuttavia, no, non doveva neppure permettergli di parlare. Poteva fermarlo, come aveva detto alla mamma. Con il viso in fiamme allontanò dalla propria mente la scena che aveva immaginato. La prima proposta di matrimonio sarebbe stata fatta in un momento più adatto e da un corteggiatore più degno.

XXI

Venne una bellissima giornata autunnale, calda e dolce, piena dei fremiti del mutare della stagione, illuminata dal pallido sole dell’estate di San Martino californiana e mossa da lievi brezze che non turbavano l’immobilità dell’aria. Sottili foschie violette, che non erano vapori ma leggeri manti di colore, si nascondevano nei recessi delle colline. San Francisco era posata sulle sue alture come una nuvola di fumo e la baia ai suoi piedi era una macchia corrusca di metallo fuso in cui le imbarcazioni erano immobili o trasportate dalla lenta marea. Il lontano Tamalpais, appena visibile nell’argentea nebbiolina, si ergeva massiccio sul Golden Gate, che si stendeva nella pallida luce dorata del sole al tramonto. Al di là di esso il Pacifico, nella sua indistinta vastità, raccoglieva sul proprio orizzonte masse di nubi che si dirigevano verso terra, presagio del primo infuriare dell’inverno.

Benché prossima alla fine l’estate resisteva, nascondendosi fra le colline, accentuando le tonalità violacee delle vallate, intessendo un sudario di nebbia con i declinanti ardori e i desideri ormai appagati, spirando nella quieta contentezza di essere vissuta e di averlo fatto bene. Fra le alture, sul loro poggio preferito, Martin e Ruth si sedettero a fianco a fianco, ed egli le declamò i sonetti d’amore della donna che aveva amato Browning come a pochi uomini è stato concesso di essere amati.

Ma la lettura languiva. Troppo forte, intorno a loro, era il fascino di quella fuggevole bellezza. Lo splendido anno moriva come era vissuto, con una voluttà intensa e innocente, mentre l’aria, carica dell’inebriante felicità dei ricordi, penetrava in loro languida e irreale, indebolendo le fibre della risoluzione e nascondendo il volto della moralità, o del buon senso, con il velo di una caligine violacea. Martin si sentiva struggere di tenerezza e quando vaganti fantasmi di brezza mossero i capelli di lei che gli sfiorarono il viso, la pagina che leggeva cominciò a ballargli davanti alla vista.

«Credo che lei non ricordi una parola di quello che ha letto», gli disse Ruth quando lui perse il segno.

Martin la guardò con occhi ardenti e stava per impappinarsi quando gli venne alle labbra una pronta risposta.

«Penso che neanche lei ricordi nulla. Di che cosa parlava l’ultimo sonetto?».

«Non lo so», disse lei con una risata sincera. «L’ho già dimenticato. Non leggiamo più. È una giornata così bella».

«Per qualche tempo non potremo tornare sulle colline», disse Martin con tono grave. «C’è una tempesta che si addensa sul mare».

Il libro gli sfuggì dalle mani e cadde al suolo, ed essi rimasero seduti in silenzio senza far nulla, guardando quella fantastica baia con occhi che non vedevano la realtà perché persi dietro ai sogni. Ruth lanciò un’occhiata obliqua al collo di lui. Non voleva appoggiarsi a quell’uomo, ma si sentiva attratta da una forza che era fuori di lei, più forte della gravitazione, inevitabile come il destino. I due corpi erano a brevissima distanza e si toccarono senza che Ruth lo volesse. La spalla di lei sfiorò quella di lui con la leggerezza con cui la farfalla si posa sul fiore, e avvertì dall’altra parte un contatto altrettanto lieve. Tuttavia Ruth lo sentì e fu scossa da un tremito. Avrebbe avuto il tempo di ritrarsi, ma ormai era diventata un automa. Le sue azioni sfuggivano al controllo della volontà – non pensava neppure al controllo e alla volontà in quella dolce follia che si era impadronita di lei. Il braccio di lui cominciò a scivolarle dietro avvolgendola e lei ne seguiva il lento movimento in un tormento sublime. Attendeva senza sapere cosa, con il respiro ansimante, le labbra secche e brucianti, le tempie che rimbombavano e un’ansia febbrile nel sangue in tumulto. Il braccio che la cingeva si sollevò e l’attirò verso di lui con moto lento e carezzevole. Lei non poté più aspettare: con uno stanco sospiro e un movimento impulsivo, spontaneo, spasmodico, in cui mise tutta se stessa, gli posò il capo sul petto. Martin chinò la testa rapidamente, e mentre le labbra di lui si avvicinavano, quelle di lei gli volarono incontro.

Questo deve essere l’amore, pensò Ruth nell’unico momento di razionalità che le fu concesso. Se non era amore era un atto vergognoso. E dunque doveva essere amore. Amava l’uomo le cui braccia la circondavano e le cui labbra premevano le sue. Si strinse più forte a lui rannicchiando il corpo. E un attimo dopo, sciogliendosi dall’abbraccio, si sollevò all’improvviso e posò le mani, esultante, sul collo abbronzato di Martin Eden. Tale fu la felicità nell’appagamento di quel desiderio che emise un lieve gemito, lasciò cadere le mani e rimase semisvenuta nelle sue braccia.

Non una parola era stata pronunciata, e non una parola venne detta per molto tempo. Due volte egli si chinò a baciarla, e ogni volta le labbra di lei incontrarono quelle di lui timidamente mentre il suo corpo si raggomitolava felice. Ruth si aggrappava a lui incapace di staccarsi, ed egli rimaneva seduto sostenendola in parte con le braccia e fissando con occhi che non vedevano la massa indistinta della grande città al di là della baia. Una volta tanto il suo cervello non aveva visioni, ma solo colori, luci e fiamme che pulsavano caldi come il giorno e come il suo amore. Si piegò su di lei e sentì che parlava.

«Da quanto tempo mi ami?», sussurrò lei.

«Fin dall’inizio, dal primo momento in cui ho posato gli occhi su di te. Sono stato subito pazzo di te e in tutto questo tempo la mia pazzia è aumentata. Ora sono al massimo della follia, sono quasi privo di senno per la gioia che ho provato».

«Sono contenta di essere una donna, Martin… caro», disse lei dopo un lungo sospiro.

Lui la strinse ripetutamente fra le braccia e quindi chiese:

«E tu? Quando te ne sei accorta?».

«Oh, l’ho sempre saputo, fin quasi dall’inizio».

«E io che ero cieco come una talpa!», esclamò lui con una vena di irritazione nella voce. «Non l’avrei mai immaginato fino a poco fa, quando… quando ti ho baciata».

«Ma non intendevo questo». Ruth si staccò leggermente da lui e lo guardò. «Volevo dire che ho saputo che tu mi amavi quasi fin dall’inizio».

«E tu?», insistette lui.

«Mi è venuto all’improvviso». Lei parlava molto lentamente, con gli occhi caldi, dolci e teneri e un lieve, persistente rossore sulle guance. «Me ne sono accorta solo quando… mi hai abbracciata. E fino a poco fa non mi sarei mai immaginata di sposarti, Martin. Come sei riuscito a farti amare da me?».

«Non lo so», disse ridendo, «se non amandoti, perché io ti ho amata tanto da sciogliere un cuore di pietra e non solo quello di una donna come te, viva e palpitante».

«È così diverso da quello che pensavo fosse l’amore», osservò lei, divagando.

«E come pensavi che fosse?».

«Non pensavo che fosse così». In quel momento lei lo stava guardando negli occhi, ma abbassò lo sguardo riprendendo a parlare: «Vedi, non sapevo come fosse».

Egli riprese ad attirarla verso di sé, ma lo fece solo con il braccio che la cingeva, perché temeva di essere troppo avido. Sentì tuttavia che il corpo di lei cedeva e ancora una volta si trovò a circondare quel corpo con le braccia e a premerle le labbra con le sue.

«Che cosa diranno i miei?», chiese lei improvvisamente preoccupata durante una delle pause.

«Non lo so. Possiamo scoprirlo molto facilmente quando ne avremo voglia».

«E se la mamma si oppone? Ho una gran paura a dirglielo».

«Lascia che glielo dica io», propose lui generosamente. «Penso di non piacere a tua madre, ma posso conquistarla. Chi riesce a vincere te può fare tutto. E se non…».

«Sì?».

«Continueremo a volerci bene. Ma non c’è pericolo di non persuadere tua madre a lasciarci sposare. Ti ama troppo».

«Non vorrei spezzarle il cuore», disse Ruth pensosamente.

Avrebbe voluto risponderle che i cuori delle madri non si spezzano così facilmente, ma le disse: «E l’amore è la cosa più grande del mondo».

«Sai, Martin, qualche volta ho paura di te. Anche adesso sono spaventata, quando penso a te e a quello che sei stato. Devi essere molto, molto buono con me. Ricordati che, dopo tutto, sono solo una bambina. Non ho mai amato prima».

«Neanch’io. Siamo tutti e due bambini. E siamo più fortunati di tanti altri, perché abbiamo trovato in questo modo il nostro primo amore».

«Ma è impossibile!», esclamò lei sciogliendosi dal suo abbraccio con un movimento rapido e impetuoso. «Per te è impossibile. Tu sei stato marinaio, e i marinai, così ho sentito dire, sono… sono…».

Le venne meno la voce e tacque.

«Sono portati ad avere una moglie in ogni porto?», terminò lui. «È questo che vuoi dire?».

«Sì», rispose lei con un filo di voce.

«Ma quello non è amore». Martin parlava con tono autorevole. «Sono stato in molti porti, ma non ho mai provato un briciolo d’amore fino a quando non ti ho visto quella prima sera. Sai che dopo averti salutata ed essere venuto via fui quasi arrestato?».

«Arrestato?».

«Sì. Un poliziotto pensava che fossi ubriaco; e lo ero… d’amore per te».

«Ma tu hai detto che eravamo bambini, e io ho detto che per te era impossibile, e adesso stiamo divagando».

«Ho detto di non avere mai amato nessuno al di fuori di te», rispose lui. «Sei tu il mio primo, il mio unico amore».

«Ma sei stato marinaio», obiettò lei.

«Ciò non toglie che tu sia il mio primo amore».

«E ci sono state donne… altre donne… oh!».

E con grande sorpresa di Martin Eden, Ruth scoppiò in un uragano di lacrime che cessò solo dopo molti baci e molte carezze. E in tutto quel tempo gli risuonò nella mente il verso di Kipling: «La moglie del colonnello e Judy O’Grady nell’intimo sono sorelle». Decise che era vero, benché i romanzi che aveva letto lo avessero indotto a credere il contrario. Si era fatto l’idea, in seguito a quelle letture, che nelle classi elevate solo le proposte formali venivano accettate. Era normale che nei ceti bassi, da cui proveniva, ragazzi e ragazze rivelassero i loro sentimenti con il contatto diretto, ma gli era parso inconcepibile che i nobili personaggi che vivevano in un mondo superiore facessero all’amore in quel modo. Eppure i romanzi avevano torto. Ne aveva avuto la prova. Gli stessi abbracci e le stesse carezze privi di parole che erano stati efficaci con le ragazze della classe operaia, lo erano stati altrettanto con quelle degli strati sociali più alti. Dopo tutto erano fatte tutte della stessa carne, erano sorelle nell’intimo; se avesse ricordato quello che aveva scritto Spencer anch’egli sarebbe potuto arrivare alla medesima conclusione. Tenendo Ruth fra le braccia per calmarla, trovò una grande consolazione al pensiero che la moglie del colonnello e Judy O’Grady nell’intimo si somigliavano molto. Ciò lo avvicinò a Ruth, che così era alla sua portata. Quella carne adorata era come la carne di tutti, come la sua. Non c’erano ostacoli al loro matrimonio. L’unica differenza era la classe sociale, ma si trattava di un elemento estrinseco, che poteva essere rimosso. Aveva letto che uno schiavo era salito alla dignità di senatore romano. E allora egli poteva elevarsi fino a Ruth. Sotto la sua purezza, la sua sacralità e la sua cultura, sotto l’eterea bellezza dell’anima lei diventava, in ciò che era squisitamente umano, come Lizzie Connolly, e come tutte quelle del suo ceto. Ciò che era possibile a loro lo era anche per lei. Poteva amare, odiare, e magari avere attacchi isterici; e certamente poteva essere gelosa, come lo era in quel momento in cui era scossa dai singhiozzi fra le sue braccia.

«E poi sono più vecchia di te», osservò improvvisamente aprendo gli occhi e alzando lo sguardo verso di lui, «di tre anni».

«Zitta, sei solo una bambina e io ho quarant’anni più di te in fatto di esperienza».

In verità erano entrambi bambini nel campo dell’amore: dei bambini avevano l’ingenuità e l’immaturità nell’espressione dei loro sentimenti, nonostante lei avesse una solida preparazione universitaria e lui avesse la testa piena di nozioni scientifico-filosofiche e dei fatti concreti della vita.

Rimasero seduti nel declinante splendore del giorno parlando come parlano tutti gli innamorati, stupiti del prodigio dell’amore e del destino che così curiosamente li aveva fatti incontrare e ostinatamente convinti di amarsi come mai nessun altro aveva amato prima. Tornarono più volte, ossessivamente, a ripetere le loro prime impressioni e a cercare invano di analizzare con precisione la qualità e la quantità dei reciproci sentimenti.

Le masse di nubi dell’orizzonte occidentale erano intrise dai raggi del sole che tramontava e l’arco del cielo si tingeva di rosa mentre lo zenit brillava dello stesso colore caldo. Quella rosea luce li investì e li avvolse mentre Ruth cantava Addio, dolce giornata. Cantava piano, cullata nelle braccia di lui, le mani nelle mani e i cuori che battevano all’unisono.

XXII

La signora Morse non dovette fare ricorso alla propria intuizione di madre per leggere ciò che era successo sul viso di Ruth quando tornò a casa. Quel rossore che non voleva sparire dalle guance diceva già molto, ma più eloquenti ancora erano i grandi occhi che nella loro luminosità erano il lampante riflesso di una felicità interiore.

«Che cosa è accaduto?», chiese a Ruth dopo avere atteso che la figlia fosse andata a letto.

«L’hai capito?», rispose Ruth con le labbra tremanti.

La madre non disse nulla, ma la circondò con un braccio carezzandole dolcemente la testa.

«Lui non ha parlato», sbottò la ragazza. «Non volevo che avvenisse, e non lo avrei lasciato parlare… solo che non ha parlato».

«Ma se non ha parlato, non sarebbe dovuto capitare niente, non ti pare?».

«Eppure è capitato lo stesso».

«In nome del cielo, bambina mia, che cosa stai dicendo?», esclamò la signora Morse, sbigottita. «Non credo di avere ancora capito che cosa è avvenuto, dopo tutto. Che cosa è avvenuto?».

Ruth guardò la madre sorpresa.

«Ma credevo che lo avessi capito. Ci siamo fidanzati, Martin e io».

La signora Morse ebbe un riso di contrariata incredulità.

«No, non ha parlato», spiegò Ruth. «Mi ha amata, ed è stato tutto. Io sono rimasta sorpresa come tu lo sei ora. Non ha detto una parola. Mi ha abbracciata e… io non sono stata più me stessa. Mi ha baciata e io l’ho baciato. Non potevo evitarlo. Lo dovevo fare. E allora ho capito che l’amavo».

Si fermò aspettando con ansia la consolazione di un bacio materno, ma la signora Morse rimase chiusa in un freddo silenzio.

«È una faccenda terribile, lo riconosco», riprese Ruth con voce sempre più bassa. «E non so come potrai mai perdonarmi. Ma non potevo farne a meno. Non pensavo affatto di amarlo fino a quel momento. E tu devi dirlo al papà».

«Non sarebbe meglio non parlarne con tuo padre? Vorrei vedere io Martin Eden, parlargli e spiegargli. Capirà e ti lascerà libera».

«No! no!», esclamò Ruth rizzandosi a sedere sul letto.

«Non voglio essere lasciata libera. L’amo e l’amore è una cosa dolcissima. Ho intenzione di sposarlo… naturalmente se me lo permetterete».

«Abbiamo altri piani per te, cara, tuo padre e io… oh, non che abbiamo scelto l’uomo per te, questo no. I nostri progetti non vanno al di là del desiderio che tu sposi un uomo del tuo ambiente sociale, un gentiluomo buono e degno, che tu stessa sceglierai quando avrai trovato quello che ami».

«Ma io amo già Martin», protestò lei con voce quasi di pianto.

«Non vogliamo influenzare in alcun modo la tua scelta; ma sei nostra figlia e ci sarebbe insopportabile vederti fare un matrimonio come questo. Lui non ha altro da offrirti che rozzezza e volgarità in cambio di tutto ciò che in te è fine e delicato. Non è alla tua altezza in nulla. Non è in grado di mantenerti. Non abbiamo sciocche aspirazioni di grande ricchezza, ma l’agiatezza è fuori discussione, e nostra figlia dovrebbe almeno sposare un uomo in grado di assicurargliela, e non un avventuriero squattrinato, marinaio, cowboy, contrabbandiere e il cielo sa che altro, il quale, come se tutto ciò non bastasse, è anche incosciente e irresponsabile». Ruth rimaneva in silenzio. Riconosceva che era tutto vero. «Perde il tempo a scrivere tentando di raggiungere quello che a volte riesce ai geni e agli uomini straordinari che hanno avuto un’istruzione superiore. Uno che pensa al matrimonio dovrebbe prepararsi a questo passo. Lui no. Come ho detto prima, e so che sei d’accordo con me, è un irresponsabile. Ma è naturale che sia così. Tutti i marinai lo sono. Non ha mai imparato a fare economie e a moderarsi. È stato segnato da questi anni di eccessi. Naturalmente non è colpa sua, ma questo non può cambiare la sua natura. E hai pensato agli anni licenziosi che inevitabilmente ha trascorso? Ci hai pensato, figlia mia? Tu sai che cosa vuol dire sposarsi».

Ruth rabbrividì e si strinse alla mamma.

«Ci ho pensato». Fece una lunga pausa per formulare le proprie idee. «Ed è terribile. Se ci penso mi sento male. Ti ho detto che è una faccenda terribile, il mio amore per lui; ma non posso evitarlo. Potevi impedirti di amare il papà? Lo stesso è per me. C’è qualcosa in me, in lui – fino a oggi non me n’ero mai accorta – c’è qualcosa che mi spinge ad amarlo. Non avrei mai pensato di innamorarmi di lui, eppure è avvenuto», concluse con un debole trionfo nella voce.

Parlarono a lungo inutilmente, trovandosi infine d’accordo che avrebbero atteso per un tempo imprecisato senza prendere alcuna iniziativa.

Alla stessa conclusione giunsero più tardi, nel corso della stessa serata, la signora Morse e il marito, dopo che lei gli ebbe onestamente confessato il fallimento dei suoi piani.

«Non poteva essere altrimenti», fu il commento del signor Morse. «Questo marinaio è stato il solo uomo con cui lei abbia avuto contatti. Presto o tardi si sarebbe comunque svegliata; e quando è accaduto ecco pronto per lei il marinaio, e naturalmente Ruth si è subito innamorata di lui, o pensa di esserlo, che poi è la stessa cosa».

La signora Morse si impegnò a fare una lenta e indiretta opera di persuasione nei confronti di Ruth, invece che di contrastarla apertamente. Avrebbe avuto molto tempo a disposizione, perché Martin non era in condizione di potersi sposare.

«Lasciamo che lo veda tutte le volte che vuole», fu il suo parere. «Scommetto che più lo conoscerà, meno lo amerà. E diamole molte occasioni per fare confronti. Impegnamoci a farle venire in casa altri giovani. Ragazze e giovanotti, e giovanotti di ogni tipo, uomini in gamba, uomini che hanno fatto qualcosa o che stanno facendo cose, uomini del suo ceto, gentiluomini. Avrà così la possibilità di fare paragoni e di capire chi è lui veramente. Dopo tutto è un ragazzo di appena ventun’anni, mentre Ruth non è più una bambina. È una cotta giovanile, per lui e per lei. Passerà a tutti e due».

E così fu fatto. All’interno della famiglia si accettò il fidanzamento fra Ruth e Martin senza che ne venisse dato l’annuncio ufficiale, perché si pensava che non sarebbe mai stato necessario farlo. Si decise inoltre implicitamente che sarebbe stato un lungo fidanzamento. Non chiesero a Martin né di cercarsi un lavoro né di smettere di scrivere, perché non avevano intenzione di incoraggiarlo a migliorarsi. Ed egli li aiutò e li favorì nei loro disegni ostili, perché mettersi a lavorare era lontanissimo dai suoi pensieri.

«Voglio sapere se approvi quello che ho fatto!», disse a Ruth qualche giorno dopo. «Ho deciso che restare a pensione presso mia sorella era troppo dispendioso e ho scelto una soluzione più economica. Ho preso in affitto una camera a North Oakland, sai, è un quartiere periferico, e ho comprato un fornello a petrolio per cucinare».

Ruth ne fu lieta e mostrò una soddisfazione particolare per il fornello a petrolio.

«È così che ha cominciato il signor Butler», disse.

In cuor suo Martin avvertì un senso di irritazione al nome di quel degno gentiluomo, e proseguì: «Ho messo francobolli a tutti i miei manoscritti e li ho rispediti ai direttori. Poi oggi ho fatto trasloco e domani comincio a lavorare».

«Hai un posto!», esclamò lei rivelando in tutti i modi la felicità che quella sorpresa le aveva provocato, rannicchiandosi contro di lui, stringendogli la mano, sorridendo. «E non me lo dicevi! Che lavoro è?».

Lui scosse la testa.

«Voglio dire che comincio a lavorare ai miei scritti». Il viso di lei si rannuvolò ed egli continuò senza fermarsi. «Non devi giudicarmi male. Questa volta non mi presento con capolavori ambiziosi, ma con proposte prosaiche e concrete. È meglio che tornare in mare e potrò guadagnare più di quanto possa ottenere a Oakland da un impiego non qualificato.

«Vedi, questa vacanza che mi sono preso mi ha fatto riflettere. In questo periodo non mi sono ammazzato di studio e non ho composto nulla, almeno non cose destinate ad essere pubblicate. Tutto quello che ho fatto è stato amarti e pensare. Ho letto un po’, ma faceva parte di questo processo di riflessione, e si trattava soprattutto di riviste. Sono giunto a certe conclusioni su me stesso, sul mondo, sul mio posto in questa società e sulle mie possibilità di conquistarmi una posizione degna di te. Ho anche letto la Filosofia dello stile di Spencer, e ho scoperto che cosa non andava in me, o meglio in quello che scrivevo; che non è molto diverso, fra l’altro, da ciò che si pubblica ogni mese nelle riviste. E il risultato di tutto ciò – dei miei pensieri, delle mie letture e del fatto che ti amo – è che produrrò scritti di taglio giornalistico. Lascerò perdere la grande poesia e farò lavoretti per il grosso pubblico – racconti umoristici, brevi commenti, articoli di attualità, poesie comiche e versi salottieri – tutta la robaccia di cui sembra esserci tanta richiesta. Poi ci sono le associazioni dei collaboratori dei giornali, quelle degli autori di racconti per i periodici e quelle dei supplementi domenicali. Posso benissimo produrre il ciarpame che occorre loro e in tal modo guadagnare l’equivalente di un discreto stipendio. Sai che ci sono giornalisti indipendenti che guadagnano fino a quattrocento o a cinquecento dollari il mese? Non pretendo di diventare come loro, ma posso arrivare a un reddito dignitoso e avere in tal modo quella libertà che non mi sarebbe possibile con nessun altro impiego.

«Avrò così tempo a disposizione per lo studio e per gli scritti a cui tengo. Nei ritagli di questa attività di routine cercherò di mettere mano a opere più valide, per le quali occorre un’adeguata preparazione. Sono sbalordito dai progressi che ho fatto. La prima volta in cui ci ho provato non ho trovato altro su cui scrivere se non alcune banali esperienze che non avevo neppure ben capito e che non ero in grado di apprezzare. Nella mente non avevo nulla, proprio nulla. Non possedevo neppure le parole con cui esprimere i pensieri. Le mie esperienze erano tanti quadri privi di senso. Ma cominciando ad allargare le conoscenze e il vocabolario, vidi in quegli episodi qualcosa di più che non semplici quadri. Li richiamai alla mente, e ne trovai l’interpretazione. Fu così che cominciai a scrivere opere valide, Avventura, Gioia, Il vaso, Il vino della vita, La strada della lotta, il Ciclo d’amore e le Liriche del mare. Ne scriverò altre e migliori, ma lo farò nel tempo libero. Ora voglio restare con i piedi per terra. Prima lavoro mercenario e reddito e dopo capolavori. Giusto per dimostrartelo ieri sera ho scritto cinque o sei storielle per i settimanali umoristici; e mentre stavo andando a letto mi è venuto in mente di provare a comporre una strofetta comica… e nel giro di un’ora ne avevo scritte quattro. Dovrebbero valere un dollaro ciascuna. Ecco qui quattro dollari per qualche osservazione senza pretese prima di andare a letto.

«Naturalmente sono tutte cose che non valgono niente, frutto di un’attività sordida e grigia; ma non più sordida e grigia di quella di chi tiene la contabilità a sessanta dollari il mese, sommando infinite colonne di cifre senza senso fino alla morte. Inoltre questo lavoro mercenario mi permette di mantenere i contatti con l’ambiente letterario e mi lascia il tempo per cercare di scrivere opere più importanti».

«Ma a che ti servono queste opere più importanti, questi capolavori?», chiese Ruth. «Non riesci a venderli».

«Oh, sì, ci riuscirò», cominciò Martin, ma lei lo interruppe.

«Di tutti quegli scritti che hai ricordato prima, e che ritieni validi… non sei riuscito a venderne uno. Non possiamo sposarci con i soldi di capolavori che non si vendono».

«Allora ci sposeremo con quello che ci danno poesiole che si vendono», rispose lui deciso, mettendole un braccio attorno alle spalle e attirando a sé quell’amata assai riluttante.

«Senti questa», continuò con tono di allegria forzata. «Non è arte, ma vale un dollaro.

«In casa è arrivato

E a quattrini ha bussato

Con gran faccia tosta.

Non ha avuto una crosta

E se n’è andato mogio,

Guardando l’orologio».

La vivace cadenza che aveva dato alla filastrocca contrastava con l’espressione sconfortata che aveva quando finì. Non era riuscito a strappare neppure un sorriso a Ruth, che lo guardava con un viso serio e preoccupato.

«Forse vale un dollaro, ma è il dollaro che si dà al buffone, il compenso che si riceve per rendersi ridicoli. Non vedi, Martin, quanto tutto questo sia umiliante? Voglio che l’uomo da me amato faccia un mestiere più degno di quello del comico che racconta barzellette e canta canzoncine».

«Vuoi che sia come… il signor Butler?».

«So che non ti piace», cominciò a dire Ruth.

«Il signor Butler mi sta bene», l’interruppe lui, «ma non mi va di avere lo stomaco rovinato come lui. Quanto a me non vedo alcuna differenza fra lo scrivere storielle o canzoni comiche e battere a macchina, scrivere sotto dettatura e tenere libri contabili. Sono tutti mezzi per raggiungere un fine. Tu mi suggerisci di cominciare a lavorare in un ufficio per diventare avvocato di successo o uomo d’affari. Io mi propongo invece di iniziare come autore di testi dozzinali per arrivare a essere uno scrittore valido».

«C’è una differenza».

«Quale?».

«Che le tue opere valide, quelle che tu consideri di qualità, non riesci a venderle. Ci hai provato – e lo sai – ma i direttori non vogliono comprarle».

«Dammi tempo, cara», disse lui supplichevole. «Questo lavoro da scribacchino è solo un espediente, che io non prendo sul serio. Dammi due anni. In questo periodo mi farò conoscere e i direttori saranno contenti di comprare i miei scritti migliori. So quel che dico; ho fiducia in me stesso. So quello che ho dentro di me; so che cos’è la letteratura, adesso; so quali porcherie si producono da parte di uomini mediocri; e so che nel giro di due anni sarò avviato sulla strada del successo. Il mondo degli affari non fa per me; non ne ricaverei mai nulla di buono perché non mi piace. Lo considero noioso, stupido, avido e infido. In ogni caso non ci sono portato. Non riuscirei mai a essere più che un semplice impiegato; e come potremmo essere felici con un misero stipendio di contabile? Per te desidero il meglio che ci sia al mondo, e sono disposto a rinunciarvi solo se troverò qualcosa di ancora migliore. E l’otterrò, puoi esserne certa. I guadagni di un autore famoso farebbero impallidire il signor Butler. Un best-seller frutta fra i cinquantamila e i centomila dollari – più o meno; e comunque cifre di questo genere».

Ruth rimase in silenzio; era chiaramente delusa.

«Beh?», chiese lui.

«Avevo altri piani e altre speranze. Avevo pensato, e lo penso ancora, che la cosa migliore sarebbe che tu imparassi la stenografia – visto che a macchina sei già capace di scrivere – e che entrassi nello studio di papà. Hai una bella testa e sono certa che diventeresti un ottimo avvocato».

XXIII

Il fatto che Ruth avesse scarsa fiducia nelle sue qualità di scrittore non aveva diminuito o modificato l’opinione di Martin su di lei. Durante la vacanza che si era concesso aveva passato molto tempo ad analizzarsi e aveva quindi fatto diverse scoperte su se stesso. Aveva capito di amare la bellezza ancor più della celebrità e di essere attratto dalla fama soprattutto per amore di Ruth. Solo per questo motivo voleva raggiungere la notorietà. Desiderava essere grande agli occhi del mondo, «farcela», come ripeteva a se stesso, affinché la donna che adorava fosse fiera di lui e lo considerasse un uomo degno.

Quanto a lui, amava appassionatamente la bellezza e si sentiva ricompensato a sufficienza dalla gioia di servirla. Ma più della bellezza amava Ruth. L’amore, che considerava la cosa più bella del mondo, aveva operato in lui una rivoluzione, trasformando un rozzo marinaio in uno studioso e in un artista; e dunque per lui era ancora più grande della cultura e dell’arte. Aveva già scoperto di avere capacità superiori a quelle di Ruth, dei suoi fratelli e di suo padre. Nonostante lei avesse avuto tutti i vantaggi di un’istruzione universitaria, nonostante la laurea in lettere, egli la sovrastava ormai dal punto di vista intellettuale; quell’anno di studio matto e disperatissimo gli aveva dato una padronanza nelle faccende del mondo, dell’arte e della vita che lei non avrebbe mai potuto sperare di possedere.

Si era accorto di tutto ciò, ma non per questo il suo amore per lei era venuto meno, né quello di Ruth per lui. Era un sentimento troppo fine e nobile, e lui lo viveva con troppa lealtà, perché potesse essere macchiato dalle critiche. Che rapporto esisteva fra il legame che li univa e i dissensi che li separavano in materia di arte, di correttezza del comportamento, di Rivoluzione francese e di suffragio universale? Questi erano processi mentali, ma l’amore era al di là della ragione. Non poteva sminuire una cosa degna solo di venerazione, che si trovava sulle vette delle montagne, lontano dalle pianure della ragione. Era una condizione sublimata dell’esistenza, il vertice della vita, cui si giungeva raramente. Le teorie dei suoi filosofi preferiti gli avevano rivelato le basi biologiche del fenomeno; e tuttavia grazie a una sofisticata interpretazione di quelle posizioni era arrivato alla conclusione che l’organismo umano conseguiva il suo fine più alto nell’amore, il quale non doveva essere messo in dubbio, ma accettato come la massima ricompensa della vita. Considerava quindi l’innamorato come la più felice di tutte le creature, ed era per lui una grande gioia pensare al «folle amante divino» che si ergeva al di sopra di tutte le cose della terra, della ricchezza e della saggezza, dell’opinione pubblica, dell’applauso e della vita stessa, e che moriva «per un bacio».

In buona parte Martin era già pervenuto a queste idee, che in seguito perfezionò. Nel frattempo lavorava senza sosta, tranne quando andava a trovare Ruth, e viveva spartanamente. Pagava una pigione di due dollari e mezzo il mese per la cameretta che aveva affittato presso una donna portoghese, Maria Silva, una terribile vedova che lavorava sodo e aveva un pessimo carattere, impegnata ad allevare in qualche modo una folta nidiata di bambini e ed annegare il dolore e la fatica, a intervalli irregolari, in un bottiglione di vino aspro e leggero comprato per quindici centesimi all’emporio all’angolo. Dopo aver provato per lei una certa antipatia a causa della sua lingua tagliente, Martin cominciò ad ammirarla per la coraggiosa battaglia che combatteva. Il suo piccolo alloggio aveva solo quattro locali, che si riducevano a tre considerando quello occupato da Martin. Il salotto, ravvivato da un tappeto a colori vivaci e rattristato da un cartoncino listato a lutto e dal ritratto di uno dei numerosi bambini che aveva perso, era tenuto esclusivamente per ricevere la gente. Le persiane erano sempre abbassate e la sua scalza tribù non poteva mai penetrare nel sacro recinto tranne che nelle grandi occasioni. Si mangiava in cucina, dove oltre che cucinare la vedova lavava, inamidava e stirava tutti i giorni salvo la domenica; le sue entrate dipendevano soprattutto dal bucato che le sue più fortunate vicine le mandavano da lavare. Restava la camera da letto, piccola come quella occupata da Martin, in cui si ammassavano per dormire la madre e i suoi sette figli. Martin, per il quale era una fonte di costante meraviglia come ciò fosse possibile, sentiva ogni notte, al di là del sottile muro divisorio, ogni particolare del rito del coricarsi, con le urla, i litigi, il chiacchiericcio soffocato e i sordi e ritmati rumori dei dormienti che assomigliavano al cinguettio degli uccelli. Un altro reddito veniva a Maria da due mucche, che mungeva la mattina e la sera, le quali brucavano abusivamente nei terreni abbandonati e nelle sottili strisce erbose ai lati dei marciapiedi, custodite sempre da qualcuno dei laceri bambini della donna, impegnati soprattutto a sorvegliare la strada per evitare l’arrivo improvviso delle guardie municipali.

In quella piccola stanza Martin abitava, dormiva, studiava, scriveva e sbrigava le faccende domestiche. Davanti all’unica finestra che dava sulla minuscola veranda d’entrata si trovava il tavolo da cucina che gli serviva da scrittoio, libreria e banco per la macchina per scrivere. Il letto, addossato alla parete posteriore, occupava due terzi dello spazio della camera. Il tavolo era fiancheggiato da una parte da un comò vistoso ma di qualità scadente, la cui sottile impiallacciatura si scrostava ogni giorno di più. Era collocato in un angolo, mentre a quello opposto, all’altro lato del tavolo, si trovava la «cucina», costituita da un fornello a petrolio collocato su una cassetta all’interno della quale erano riposte le stoviglie, da uno scaffale a muro per le provviste e da un secchio sul pavimento. Martin doveva prendere l’acqua dal lavello della cucina di Maria, perché in camera sua non c’era lavabo. Nei giorni in cui c’era molto vapore a causa della cottura si accentuavano le crepe nell’impiallacciatura del comò. Al di sopra del letto, attaccata a un paranco fissato al soffitto, era appesa la bicicletta. Dapprima Martin aveva cercato di tenerla nel seminterrato, ma la tribù dei Silva lo aveva costretto a fuggire da lì allentando i mozzi e forando le gomme. In seguito, aveva tentato di metterla nella minuscola veranda d’entrata fino a che una forte sciroccata non l’ebbe investita con raffiche di pioggia per tutta una notte. Fu infine costretto a portarla in camera e a sospenderla per aria.

Un piccolo armadio a muro conteneva i vestiti e i libri che aveva accumulato, per i quali non era riuscito a trovare posto sopra o sotto il tavolo. Insieme con quella della lettura aveva sviluppato l’abitudine di prendere appunti, e ne scriveva tanti che non ci sarebbe stato più spazio per lui in quel vano angusto se non avesse steso da una parete all’altra diversi fili della biancheria, su cui appendeva i fogli. E anche con questo espediente riusciva a muoversi nel locale solo con grande cautela. Non poteva aprire la porta senza prima chiudere il battente dell’armadio a muro, e viceversa. In nessun punto della stanza era possibile andare da una parete all’altra mantenendo una linea retta. Per arrivare dalla porta alla testata del letto bisognava procedere seguendo un percorso a zigzag che al buio era impossibile coprire senza urtare da nessuna parte: superata la difficoltà delle porte doveva virare bruscamente a destra per evitare la cucina; quindi a sinistra per scansare i piedi del letto; poiché una curva troppo larga lo avrebbe spinto contro l’angolo del tavolo, accompagnava la virata con un balzo che lo portava sulla destra lungo una specie di passaggio i cui argini erano il letto da una parte e il tavolo dall’altra. Quando l’unica sedia della camera si trovava al suo solito posto davanti allo scrittoio il passaggio non era più percorribile. Se non veniva usata, era quindi collocata sul letto, benché a volte, cucinando, vi si sedesse sopra a leggere un libro; lo faceva spesso in attesa che l’acqua bollisse e giunse persino al punto di proseguire per uno o due capoversi mentre la bistecca terminava di friggere. L’angolino che costituiva la cucina era così piccolo che Martin era in grado di prendere tutto quello che gli occorreva senza alzarsi. In effetti gli conveniva far da mangiare rimanendo seduto, perché tirandosi su quasi non sapeva dove mettere i piedi.

Oltre ad avere uno stomaco di ferro che gli permetteva di digerire anche i sassi, sapeva quali fossero gli alimenti più nutrienti ed economici. Il passato di piselli era un piatto frequente nella sua dieta, come le patate e i fagioli grandi e scuri, che cuoceva alla maniera messicana. Il riso, preparato come nessuna massaia americana è capace di fare, compariva sulla tavola di Martin almeno una volta il giorno. Poiché la frutta essiccata era meno costosa di quella fresca, di solito ne teneva una ciotola già cotta e pronta all’uso, che spalmava sul pane al posto del burro. Di tanto in tanto si concedeva il lusso di una lombata o di un osso da brodo. Prendeva il caffè, senza panna o latte, due volte il giorno, ma la sera beveva sempre tè; ambedue erano preparati in modo eccellente.

Doveva fare economie. La vacanza aveva consumato quasi tutto quello che aveva guadagnato alla lavanderia, ed era così lontano dal mercato cui erano diretti i prodotti del suo lavoro che sarebbero passate settimane prima di poter vedere i frutti di quell’opera di scrittore mercenario. Tranne che nei momenti in cui vedeva Ruth o faceva un salto a trovare la sorella, viveva come un recluso, riuscendo a svolgere ogni giorno una mole di attività che un uomo normale sarebbe riuscito a terminare in tre. Dormiva appena cinque ore e solo un uomo con una costituzione robusta come la sua sarebbe riuscito a rimanere inchiodato, giorno dopo giorno, al tavolo di lavoro per diciannove ore consecutive. Non perdeva un attimo. Sullo specchio aveva appuntato elenchi di definizioni e di pronunce dei vocaboli, che ripassava mentre si radeva, si pettinava e si vestiva. Ne aveva attaccati altri sulla parete sopra il fornelletto, che rileggeva mentre cucinava e rigovernava. Liste nuove sostituivano in continuazione le vecchie perché ogni parola strana o poco conosciuta che incontrava veniva immediatamente annotata per essere in seguito battuta a macchina e inserita, insieme con altre analoghe, in un foglietto da fissare al muro o allo specchio. A volte se le ficcava in tasca e le riguardava in strada quando non aveva nulla da fare oppure nei negozi in attesa di essere servito.

Andò anche più in là. Leggendo le opere di autori affermati si concentrava sui risultati che avevano raggiunto per individuare gli espedienti di cui si erano serviti – gli artifici narrativi, espositivi e stilistici, i punti di vista, i contrasti, gli epigrammi – che trascriveva in elenchi per poterli poi studiare. Non scimmiottava, ma cercava princìpi. Preparava liste di forme incisive e seducenti fino a che da molte espressioni simili tratte da autori diversi non era in grado di ricavare una formula generale che subito applicava per crearne di proprie originali, e valutarne gli effetti e la riuscita. Analogamente raccoglieva elenchi di frasi vigorose, frasi della lingua viva che corrodevano come un acido e bruciavano come il fuoco, o che brillavano di una luce calda e struggente nell’arido deserto del linguaggio comune. Cercava sempre il principio nascosto e sotteso. Voleva sapere come era fatta una cosa per poterla rifare egli stesso. Non si accontentava dello splendido volto della bellezza: la sezionava nel gremito laboratorio della sua stanzetta in cui gli odori della cucina si mescolavano agli urli selvaggi dei bambini Silva. E dopo averla sezionata e averne scoperto l’anatomia, acquisiva sempre più la capacità di ricrearla.

Doveva capire ciò che faceva. Non poteva lavorare ciecamente e al buio, senza sapere che cosa produceva e confidando che il caso e il lampo di genio gli consentissero di ottenere il giusto risultato. Non aveva la pazienza di attendere il colpo di fortuna: voleva conoscere cause e modi. Aveva una creatività cosciente grazie alla quale, ancor prima di cominciare una poesia o un racconto, l’opera completa gli si presentava alla mente insieme con i mezzi necessari a realizzarla. Quando ciò non avveniva il tentativo era destinato al fallimento. D’altro canto vedeva l’intervento del caso sotto forma di parole ed espressioni che dopo essergli pullulate nel cervello leggere e spontanee superavano le successive verifiche perché rispondevano a criteri di bellezza e di forza espressiva, recando inoltre con sé straordinarie e indescrivibili connotazioni. Di fronte a queste egli si inchinava pieno di meraviglia, consapevole che erano al di fuori del deliberato atto creativo dell’uomo. E per quanto sezionasse la bellezza alla ricerca dei principi che dietro di essa si celavano rendendola possibile, capiva che al suo interno rimaneva un imperscrutabile mistero che né lui né altri erano mai riusciti a penetrare. Sapeva benissimo, dal suo Spencer, che l’uomo non può mai arrivare alla conoscenza ultima di alcuna cosa, e che l’arcano della bellezza non era minore di quello della vita: le fibre della bellezza e della vita erano intrecciate fra loro, ed egli stesso non era che un frammento di quell’incomprensibile tessitura fatta di luce solare, polvere di stelle e meraviglia.

Fu proprio sotto l’influsso di questi pensieri che compose il saggio intitolato Polvere di stelle, in cui lanciava i suoi strali non contro i princìpi della critica, ma contro i critici più importanti. Era uno scritto brillante, profondo, meditato e pervaso da una grazia serena e lieve. Fu immediatamente respinto dalle riviste cui fu inviato, ma ciò non turbò Martin, che era soddisfatto di avere sgombrato la mente e di poter procedere sereno sulla sua strada. Aveva sviluppato l’abitudine di raccogliere ed elaborare lentamente i propri pensieri sui diversi temi per poi precipitarsi alla macchina per scrivere pieno di slancio creativo. Il fatto che queste opere non venissero pubblicate lo preoccupava poco. La loro composizione era l’atto culminante di un lungo processo mentale, la raccolta in un unico alveo di rivoli diversi e la sintesi generale di tutti i dati che gli occupavano il cervello. Scrivere un articolo come quello fu uno sforzo consapevole grazie al quale liberò la mente, predisponendola ad accogliere nuovi fatti e nuovi problemi. Era un procedimento simile a quell’abitudine diffusa per mezzo della quale uomini e donne tormentati da crucci reali o immaginari periodicamente rompono il loro lungo e tormentato silenzio e si «fanno sentire», tirando fuori tutto.

XXIV

Passavano le settimane. Martin rimase a corto di soldi e gli assegni degli editori erano più lontani che mai. Tutti i manoscritti importanti che gli erano stati restituiti erano stati inoltrati prontamente ad altri destinatari, e non migliore fortuna avevano avuto gli scritti commerciali. La piccola cucina non era più allietata da una certa varietà di cibi. Ridottosi a un sacco di riso semivuoto e a un paio di chili di prugne secche, per cinque giorni consecutivi e per tre volte al giorno dovette limitarsi a pasti di riso e prugne. Cominciò quindi a comprare a credito. Il droghiere portoghese che fino ad allora era stato pagato in contanti, si rifiutò di continuare a servirlo quando il conto fu arrivato all’impressionante importo di tre dollari e ottantacinque centesimi.

«Perché vedi», gli disse, «ma se tu niente lavoro, io niente soldi».

Martin non ebbe nulla da ridire. Non era possibile spiegargli come stavano le cose. D’altronde non era un sano principio commerciale fare credito a un robusto giovanotto di ceto operaio che era troppo pigro per cercarsi un lavoro.

«Tu trova lavoro, io do a te roba», lo rassicurò il droghiere. «Niente lavoro, niente roba. Così sono affari». E per dimostrargli che era solo una normale cautela commerciale e non il frutto di un pregiudizio aggiunse: «Tu bere, offrire la casa – noi amici lo stesso».

Martin bevve con gran disinvoltura per dimostrare che neanche lui aveva nulla contro la casa, e andò a letto senza cena.

Il negozio di frutta e verdura presso cui Martin si serviva era gestito da un americano i cui principi commerciali erano così poco saldi che permise al cliente di accumulare un debito di cinque dollari prima di smettere di vendergli la merce. Il fornaio si fermò a due dollari, il macellaio a quattro. Facendo la somma delle cifre di cui era debitore Martin scoprì che il credito complessivo di cui godeva in tutto il mondo ammontava a quattordici dollari e ottantacinque centesimi. Era in regola con i pagamenti per l’affitto della macchina per scrivere, ma calcolò di potere ottenere un rinvio di due mesi, per un totale di otto dollari. E con quello aveva esaurito ogni possibilità di credito.

L’ultimo acquisto presso il fruttivendolo era stato un sacco di patate, e per una settimana si nutrì di quell’alimento e di niente altro per tre volte al giorno. Un invito a pranzo da Ruth fu un corroborante per il suo corpo indebolito, anche se, con la morte nel cuore alla vista di tanto ben di Dio davanti a sé e nonostante il furioso appetito che sentiva, rifiutò di servirsi una seconda volta dai piatti di portata che passavano per la tavola. Di tanto in tanto, pur vergognandosi, passò a trovare la sorella all’ora di cena e mangiò fino a quando ebbe il coraggio di farlo – più di quanto non si fosse sentito di fare alla tavola dei Morse.

Giorno dopo giorno lavorava indefessamente e giorno dopo giorno il postino gli consegnava i manoscritti rifiutati, che si accumulavano in un mucchio sotto il tavolo, perché gli mancavano i soldi per i francobolli. Arrivò a non toccare cibo per quaranta ore in un periodo in cui non poteva andare a mangiare da Ruth, che era a San Rafael per una visita di due settimane a una zia, e non si sentiva il coraggio di passare dalla sorella. Come se ciò non bastasse il postino nel suo giro pomeridiano gli portò cinque manoscritti rifiutati. Martin allora si mise il soprabito e uscì diretto a Oakland. Quando tornò non l’aveva più, ma in tasca gli tintinnavano cinque dollari. Diede un acconto di un dollaro a ciascuno dei quattro negozianti e poté infine prepararsi una bistecca fritta con cipolle, una tazza di caffè e una ciotola di prugne secche bollite. Dopo cena si sedette al tavolo-scrivania e prima di mezzanotte completò un saggio cui diede il titolo di La dignità dell’usura, che gettò nel mucchio dopo averlo trascritto a macchina perché i cinque dollari gli erano volati via prima di avere il tempo di comprare i francobolli.

In seguito impegnò l’orologio, e poi anche la bicicletta, ma ridusse la somma disponibile per l’acquisto di generi alimentari perché volle procurarsi i francobolli per spedire tutti i manoscritti. Era deluso che nessuno volesse comprare le cose che aveva scritto con intenti commerciali. Confrontandole con quelle che si pubblicavano nei quotidiani, nei settimanali e nelle riviste da quattro soldi si accorgeva che erano migliori, molto migliori, della media; e tuttavia non si vendevano. Scoprì allora che spesso i giornali stampavano quello che veniva definito «materiale fatto in serie», e si procurò il recapito dell’organizzazione che lo forniva. Questa tuttavia gli rispedì ciò che le aveva inviato, accompagnandolo con il solito biglietto stampato nel quale gli si comunicava che i redattori della società producevano già tutti i testi in grado di soddisfare i richiedenti.

In uno dei grandi periodici per i giovani notò intere colonne di curiosità e aneddoti. Era un’altra possibilità. Ma i trafiletti che mandò gli vennero restituiti, e nonostante i ripetuti tentativi non gli riuscì mai di piazzarne uno. Più tardi, quando la cosa non aveva ormai più alcuna importanza per lui, seppe che i viceredattori e gli assistenti integravano lo stipendio scrivendo essi stessi quegli articoletti. I settimanali umoristici gli rimandarono le storielle e le poesiole comiche; d’altro canto i versi da salotto non trovarono spazio nelle riviste importanti cui erano stati destinati. C’erano poi i raccontini per i quotidiani. Sapeva che i suoi erano migliori di quelli che venivano pubblicati. Dopo essersi procurato l’indirizzo di due agenzie che lavoravano in questo campo le inondò con i suoi scritti, ma desistette quando si accorse di non esserne riuscito a collocare nemmeno uno dei venti che aveva composto. E tuttavia ogni giorno leggeva sui periodici decine e decine di novellette, nessuna delle quali era all’altezza delle sue. Avvilito, pensò di essere un povero illuso, privo della capacità di giudicare e pieno di sciocca esaltazione per la propria opera.

La disumana macchina editoriale continuava a funzionare con perfetta regolarità. Dopo avere allegato al manoscritto i francobolli per la risposta Martin lasciava cadere la busta nella cassetta delle lettere, e dopo tre settimane, o al massimo un mese, il postino saliva le scale e gliela restituiva. Era certo che all’altra estremità non vi fossero sulle poltrone degli esseri umani, ma solo ruote e ingranaggi ben oliati – perfetti meccanismi manovrati da automi. Giunse a momenti di disperazione durante i quali dubitò persino dell’esistenza dei direttori di giornali e riviste. Non aveva mai ricevuto un segno della loro presenza e dalla mancanza di giudizio dimostrata nel rifiuto di tutto ciò che egli scriveva sembrava plausibile concludere che fossero semplici miti, fabbricati e tenuti in vita da fattorini, tipografi e giornalisti.

Le ore trascorse con Ruth erano le sole felici che passava, ma non sempre lo erano. Lo rodeva una tormentosa irrequietezza, più angosciosa che in passato, prima di sapere dell’amore di lei; perché ora che possedeva il suo amore, possedere lei diventava più elusivo che mai. Le aveva chiesto due anni; il tempo volava e ancora non si vedeva nessun risultato. Inoltre aveva piena coscienza del fatto che Ruth non approvava ciò che lui faceva. Non glielo diceva esplicitamente, ma indirettamente glielo faceva capire in modo così chiaro ed evidente che era come se parlasse. Per lui non provava risentimento, ma disapprovazione; mentre donne meno dolci di lei avrebbero mostrato irritazione, lei era solo delusa. E lo era perché quell’uomo che si era proposta di forgiare, non voleva essere manipolato. Fino ad un certo punto lo aveva trovato malleabile come creta, ma in seguito lui aveva opposto resistenza, rifiutando di essere formato a immagine e somiglianza del padre e del signor Butler.

Ruth non capiva, o peggio fraintendeva, ciò che in lui era grande e sublime. Quest’uomo il cui carattere era così duttile che poteva adattarsi a vivere in qualunque angolo dell’esistenza umana, era da lei ritenuto ostinato e caparbio perché non le riusciva di modellarlo in modo che si adattasse al cantuccio in cui lei viveva, il solo che conoscesse. Non riusciva a seguire gli alti voli della sua mente, e quando il cervello di lui si elevava a una distanza per lei irraggiungibile, pensava che fosse stravagante. Con nessun altro Ruth aveva la stessa impressione. Era sempre in grado di seguire i ragionamenti del padre, della madre, dei fratelli e di Olney; e dunque, quando le capitava di non riuscire a capire Martin, pensava che fosse colpa di lui. È la vecchia tragedia dell’animo gretto e limitato che cerca di far da guida a chi è tanto più grande di lui.

«Tu ti inginocchi davanti all’altare della tradizione», le disse un giorno durante una discussione che ebbero su Praps e Vanderwater. «Ammetto che come autori da citare rappresentano il massimo: sono i due critici più eminenti degli Stati Uniti! Ogni insegnante di lettere del paese considera Vanderwater il decano della critica americana. E tuttavia quando leggo le sue cose mi sembrano la più perfetta e riuscita espressione del vuoto. Mah, è solo un bel sonnifero, grazie a Gelett Burgess. E Praps non è migliore. Per esempio il suo Hemlock Mosses è scritto benissimo. Non c’è una virgola fuori posto e ha un tono così nobile! È il critico più pagato degli Stati Uniti. Ma, santo cielo! Non è neppure un critico. In Inghilterra la critica è fatta meglio. Il fatto è che toccano il tasto della banalità, e lo fanno con eleganza, moralismo e compiacimento. Le loro recensioni mi fanno venire in mente le domeniche inglesi. Sono i portavoce dei luoghi comuni. Danno conferme ai professorini, e i professorini danno conferma a loro. Non c’è un barlume di originalità in quelle teste. Conoscono solo quello che è nella tradizione, e in effetti loro “sono” la tradizione. Nei cervelli deboli i valori costituiti si imprimono agevolmente come il nome della distilleria sulle etichette delle bottiglie di birra. Hanno la funzione di cogliere di sorpresa tutti i giovani che frequentano l’università e di scacciare dalla loro mente tutto ciò che potrebbe esservi di luminoso e originale per stamparvi il marchio delle istituzioni».

«Quando resto fedele alla tradizione», rispose lei, «sono certa di essere più vicina alla verità di te, con la tua rabbia iconoclasta da indigeno dei Mari del Sud».

«Sono stati quelli delle missioni a distruggere le immagini», disse lui ridendo. «Purtroppo ora tutti i missionari sono andati fra i pagani, e in patria non è rimasto nessuno che voglia frantumare queste vecchie cariatidi, il signor Vanderwater e il signor Praps».

«E anche i docenti dell’università», aggiunse Ruth.

Egli scosse il capo con vigore. «No; i professori delle discipline scientifiche possono vivere. Sono bravi. Ma sarebbe una buona azione rompere la testa ai nove decimi degli insegnanti di materie letterarie – petulanti pappagalli con un cervello piccolo così!».

Era un giudizio indubbiamente severo, ma per Ruth era come una bestemmia. Non poté fare a meno di paragonare i professori, la loro pulizia, la loro erudizione, i loro vestiti ben tagliati, la loro voce ben modulata, la loro aria colta e raffinata, con questo giovanotto quasi incredibile, che lei pur tuttavia amava, con i suoi abiti sempre sformati e i suoi muscoli sviluppati dal tremendo lavoro, il quale si infiammava nel parlare e sostituiva il freddo ragionamento con l’insulto e la calma sicurezza con frasi piene di slancio appassionato. Loro almeno avevano un discreto stipendio ed erano – sì, dovette sforzarsi di ammetterlo – erano gentiluomini; mentre lui non era in grado di guadagnare un soldo, e non era come loro.

Non tenne conto delle parole di Martin, né tornò sui suoi giudizi. Giunse alla conclusione che aveva torto, peraltro inconsciamente, confrontando fatti esteriori. Loro, i professori, davano giudizi letterari esatti perché avevano successo, mentre quelli di Martin erano sbagliati perché non sapeva vendere i suoi prodotti. Per usare le sue parole loro «ce la facevano» e lui no. E poi era logico che avesse torto, lui che ancora poco tempo prima si era trovato proprio in quella stanza, timido e impacciato al momento della presentazione, con le sue occhiate preoccupate per la paura di far cadere i soprammobili muovendo le spalle, con le sue domande su quanto tempo prima fosse morto Swinburne e con le sue boriose dichiarazioni di aver letto Excelsior e Il salmo della vita.

Così, involontariamente, Ruth confermò di venerare la tradizione, come egli aveva detto. Martin intuì quel che lei pensava, ma decise di non continuare la discussione. Non l’amava per quei giudizi su Praps, Vanderwater e i docenti di inglese, e stava cominciando a capire, in modo sempre più convinto, di avere capacità intellettive e conoscenze culturali cui lei non sarebbe mai arrivata e di cui ignorava persino l’esistenza.

Se Ruth considerava insensate le idee di lui in campo musicale, per quanto riguardava l’opera lirica lo trovava non solo ottuso, ma anche caparbio.

«Ti è piaciuto?», gli chiese una sera tornando a casa dal teatro.

Quella volta, dopo un mese di rigide economie sul mangiare, l’aveva portata a sentire un melodramma. Dopo aver atteso invano che egli ne parlasse, gli aveva posto la domanda ancora eccitata e tremante da ciò che aveva appena visto e sentito.

«Mi è piaciuta l’ouverture», rispose Martin. «Era splendida».

«Sì, ma l’opera vera e propria?».

«Era splendida anch’essa; o meglio, lo era l’orchestra, anche se mi sarebbe piaciuta di più se quei tipi che saltabeccavano qua e là avessero tenuto la bocca chiusa o fossero usciti dal palcoscenico».

Ruth rimase sbigottita.

«Non starai parlando della Tetralani o di Barillo, spero?», chiese.

«Tutti… tutta la tribù».

«Ma sono grandi artisti», protestò lei.

«Hanno rovinato la musica lo stesso, con le loro smorfie e i loro gesti artificiosi».

«Ma non ti piace la voce di Barillo?», domandò Ruth. «È il più bravo dopo Caruso, dicono».

«Naturalmente mi è piaciuto, e mi è piaciuta ancor più la Tetralani, che ha una voce squisita, o almeno così mi è parso».

«Ma, ma…», balbettò Ruth. «Allora non ti capisco. Ammiri la loro voce e dici che hanno rovinato la musica».

«Precisamente. Vorrei tanto sentirli in concerto, e ancor più vorrei non sentirli quando suona l’orchestra. Temo di essere un irriducibile realista. I grandi cantanti non sono grandi attori. Sentire Barillo cantare con voce d’angelo una romanza d’amore e la Tetralani rispondergli con suoni altrettanto angelici, e il tutto accompagnato dall’armonia di una musica scintillante e suggestiva, è emozionante, molto emozionante. Non solo lo ammetto, ma lo sostengo con convinzione. Ma tutti questi sentimenti spariscono se li guardo – se guardo la Tetralani, alta un metro e ottanta senza scarpe e pesante novanta chili, e Barillo con il suo metro e sessanta scarso, la faccia viscida e il torace di un fabbro basso e tozzo, e li vedo fare un duetto insieme, con le loro mossette, gli abbracci e le braccia lanciate in aria come i pazzi del manicomio, e poi mi si chiede di leggere in tutto ciò la rappresentazione di una scena d’amore fra una principessa bella e flessuosa e un giovane principe avvenente e romantico, – ecco, non posso proprio accettarlo. Non è verosimile. Non dirmi che qualcuno al mondo ha mai amoreggiato in questo modo. Senti, se io ti avessi fatto la corte così tu mi avresti preso a schiaffoni».

«Ma non capisci», protestò Ruth. «Ogni arte ha i propri limiti». (Stava cercando di ricordare una lezione che aveva sentito all’università sulle convenzioni delle forme artistiche.) «In pittura ci sono solo due dimensioni, ma si accetta l’illusione delle tre dimensioni, che l’arte del pittore cerca di trasfondere sulla tela. In letteratura ammettiamo tranquillamente l’onnipotenza dell’autore. Approviamo come perfettamente legittimo il resoconto fatto dallo scrittore dei pensieri nascosti dell’eroina pur sapendo benissimo, mentre leggiamo, che era sola nelle sue meditazioni e che né l’autore né altri erano in grado di percepire ciò che le passava per la mente. Lo stesso avviene nel teatro, nella scultura, nel melodramma e in qualunque forma d’arte. Si devono accettare cose che sono assurde».

«Sì, questo l’ho capito», rispose Martin. «Tutte le arti hanno le loro convenzioni». (Ruth fu sorpresa nel sentirgli usare questa parola, come se avesse studiato anche lui all’università e non avesse invece afferrato qua e là brandelli di cultura dalle disordinate letture dei libri della biblioteca pubblica.) «Ma anche le convenzioni devono essere credibili. Alberi dipinti su cartone e messi in piedi ai due lati del palcoscenico sono accettabili come foresta, perché si tratta di una convenzione con un grado sufficiente di realismo. Ma non possiamo permettere che ci facciano passare un paesaggio marino per un bosco, perché è contrario alla realtà percepita dai sensi. E così tu non potresti, o meglio non dovresti, accettare come una convincente rappresentazione dell’amore i deliri, i contorcimenti e le parossistiche piroette di quei due pazzi che abbiamo visto stasera».

«Credi di saperne di più di tutti gli intenditori di musica?».

«Niente affatto, per carità. Sostengo solo il mio punto di vista personale. E ti ho detto quello che penso per spiegarti come mai secondo me i lazzi da pachiderma di Madame Tetralani hanno rovinato la musica suonata dall’orchestra. Magari gli intenditori di musica avranno ragione, ma io sono io, e non voglio subordinare il mio gusto al giudizio espresso all’unanimità da tutti gli altri. Se una cosa non mi piace, non mi piace; e non c’è ragione che io debba fingere di aver gradito qualcosa solo perché la maggioranza dei miei simili l’ama, o vuol fare credere di amarla. Non sono capace di seguire la moda per quello che mi piace o che non mi piace».

«Ma per la musica ci vuole preparazione», osservò Ruth, «e nell’opera in particolar modo. Forse…».

«Non ho una preparazione adeguata?», l’interruppe lui.

Lei annuì.

«È proprio così», ammise lui. «Considero per me una gran fortuna non essere stato educato ad amare questa roba. Se lo fossi stato, questa sera avrei sparso anch’io lacrime di commozione, persuaso che i grotteschi balzi di quella straordinaria coppia erano un degno complemento delle loro bellissime voci e dello stupendo accompagnamento orchestrale. Hai ragione. È soprattutto una questione di preparazione. E io ora sono troppo vecchio. Voglio solo cose verosimili. L’illusione che non mi convince è come una colossale menzogna, ed è proprio questa l’impressione che ho avuto dall’opera di questa sera quando ho visto il piccolo Barillo che, preso da un raptus, afferra fra le braccia la mastodontica Tetralani (anch’essa in preda al delirio) e le dice tutta la sua adorante passione».

Ancora una volta Ruth valutò quelle opinioni sulla scorta dei fatti esteriori e nel rispetto della fedeltà alle istituzioni. Era mai possibile che egli avesse ragione e che tutta la società colta avesse torto? Chi era lui? Quelle parole e quei pensieri non l’impressionarono. Era troppo profondamente radicata nella tradizione per provare alcuna simpatia per le idee rivoluzionarie. Aveva una lunga consuetudine con la musica ed aveva amato l’opera fin da bambina, come tutte le persone del suo ambiente. E allora che diritto aveva Martin Eden, che solo da poco era uscito dal mondo del ragtime e delle canzoni del popolino, di trinciare giudizi sulla grande musica? Era irritata con lui e, nel camminargli accanto, si sentiva vagamente offesa. Nei momenti migliori, negli slanci di benevolenza, considerava quelle opinioni il frutto di un’improvvisa bizzarria, di uno spirito estroso e beffardo. Ma quando alla porta egli la prese fra le braccia e le diede il bacio della buona notte con il calore dell’innamorato, lei dimenticò tutto nell’effondersi dell’amore che sentì per lui. E più tardi, incapace di prendere sonno, si chiese perplessa, come spesso aveva fatto di recente, perché volesse bene a un uomo così strano e nonostante la disapprovazione della famiglia.

Il giorno dopo Martin Eden mise da parte gli scritti di carattere commerciale e scrisse di getto in un momento di febbrile creatività un saggio cui diede il titolo di La filosofia dell’illusione, che partì subito con il viatico di un francobollo: era destinato a riceverne molti altri e a fare molti viaggi nei mesi che seguirono.

XXV

Maria Silva era povera e della miseria conosceva tutti gli aspetti, mentre a Ruth quella parola dava solo il senso di un’esistenza sgradevole. Era tutto quello che sapeva sull’argomento. Era consapevole della condizione di Martin e l’associava alla fanciullezza di Abramo Lincoln, del signor Butler e di tutti gli uomini che avevano avuto successo. Inoltre, pur cosciente che la povertà era tutt’altro che piacevole, aveva la sana concezione borghese secondo la quale essa era salutare, perché agiva da potente stimolo spingendo al successo tutti gli uomini che non si fossero ridotti ad essere animali da soma senza un briciolo di speranza. Per questo motivo il venire a sapere che Martin era così malridotto da essere costretto a impegnare l’orologio e il soprabito non la turbò. Giunse persino a pensare che fosse un fatto positivo che prima o poi lo avrebbe spinto a venire a patti con la realtà e ad abbandonare la letteratura.

Ruth non vide mai la fame nel viso di Martin, che affilandosi accentuava il leggero infossamento delle guance. Notò invece con soddisfazione quel cambiamento che sembrava averlo ingentilito attenuando la volgarità della carne e quel vigore animalesco che era per lei fonte di attrazione e di ripulsa. A volte, mentre si trovava con lui, osservava nei suoi occhi un’insolita luminosità, che ammirava, perché lo faceva sembrare un poeta e uno studioso, come egli avrebbe voluto essere e come lei avrebbe desiderato che lui fosse. Tuttavia Maria Silva leggeva un ben diverso racconto in quelle guance scavate e in quegli occhi febbrili, di cui seguiva di giorno in giorno il cambiamento, riflesso del mutevole andamento delle sue fortune. Lo vedeva uscire di casa con il soprabito e tornare senza, benché la giornata fosse umida e fredda, e subito dopo osservava il viso di lui diventare più pieno e lo sguardo perdere il languore della fame. Allo stesso modo aveva visto sparire la bicicletta e l’orologio e ogni volta rifiorire lo spento vigore del suo pensionante.

Osservava anche le fatiche notturne misurandole dalla quantità di petrolio che bruciava nella lampada. Quanto lavorava! Molto più di lei, anche se sapeva che faceva un mestiere diverso dal suo. Si accorse con sorpresa che meno cibo aveva più lavorava. Di tanto in tanto, e quasi con noncuranza, gli faceva avere una pagnotta appena uscita dal forno quando pensava che la fame fosse diventata insopportabile, e mascherava il gesto dicendogli scherzosamente che il suo pane era migliore di quello che cuoceva lui. In altre occasioni gli mandava uno dei bambini con una grande scodella di minestra calda, chiedendosi fino all’ultimo se le era lecito toglierla dalla bocca dei figlioletti. E Martin le era molto grato, ben sapendo per esperienza personale che cosa fosse la vita dei poveri e comprendendo che quella era vera carità.

Un giorno, dopo avere saziato la prole con ciò che era rimasto in casa, Maria investì gli ultimi quindici centesimi in un bottiglione di vino da quattro soldi. Martin, venuto in cucina per prendere acqua, fu invitato a sedere e a bere con lei. Egli brindò così alla sua salute e a sua volta Maria bevve alla salute di lui. Poi lei fece un brindisi al successo della sua opera ed egli espresse, alzando il bicchiere, l’augurio che James Grant venisse a pagarle i soldi del bucato. Costui, un carpentiere che lavorava a giornata e non sempre regolava i suoi conti, doveva a Maria tre dollari.

Bevvero a stomaco vuoto quel vino aspro e giovane che andò loro subito alla testa. Pur così diversi, soffrivano entrambi di una miseria che era accentuata dalla solitudine, un vincolo che, per quanto tacitamente ignorato nella conversazione, li univa strettamente. La donna rimase sorpresa nel venire a sapere che Martin era stato nelle Azzorre, dove ella era rimasta fino all’età di undici anni. E lo fu ancor più quando apprese che era stato nelle isole Hawaii, dove lei era emigrata dalle Azzorre con la famiglia. Ma la sua meraviglia fu senza limiti quando egli le disse di essere stato a Maui, l’isola dove lei era diventata donna e si era sposata. E a Kahului, dove aveva conosciuto il marito, lui, Martin, era stato due volte! Sì, Maria ricordava le navi che trasportavano lo zucchero, e pensare che lui ci era stato imbarcato, – eh, sì, come era piccolo il mondo! E Waikuku! Anche lì? Aveva conosciuto il capo della piantagione? Sì, e aveva bevuto un paio di bicchieri con lui.

E così, rammentando il passato, annegarono la fame nel vino aspro e forte. A Martin il futuro non sembrò più così incerto. Vedeva il successo balenargli davanti agli occhi. Gli sarebbe bastato allungare la mano per afferrarlo. Scrutò poi la faccia profondamente segnata della donna che gli stava davanti, ricordò le minestre e le pagnotte appena sfornate che gli aveva dato e si sentì sciogliere da un senso di gratitudine che lo portò a uno slancio di generosità.

«Maria», esclamò all’improvviso. «Che cosa vorresti ricevere?». Lei lo guardò perplessa. «Che cosa vorresti avere ora, proprio in questo momento, se potessi?».

«Scarpe, scarpe per bambini – sette paia de scarpe».

«Le avrai», disse Martin, mentre la donna annuiva con aria grave. «Ma voglio che tu esprima un desiderio grande, qualcosa di molto importante».

Negli occhi di Maria brillò uno sguardo divertito. Aveva deciso di scherzare con lei, di cui pochi allora osavano prendersi gioco.

«Pensa bene», l’ammonì lui proprio mentre lei si accingeva a rispondere.

«Beh», rispose la donna. «Pensato bene. Me piace la casa, questa casa… io voglio, niente affitto da pagare, sette dollari al mese».

«L’avrai», le concesse lui, magnanimo, «e fra breve. Ma ora formula un desiderio veramente grande. Fa’ finta che io sia Dio. Io ti dico che avrai tutto quello che vuoi. Pensaci e parla. Io ti ascolto».

Maria rifletté con aria solenne per qualche secondo. «Mica ci avrai paura?», chiese a mo’ di avvertimento.

«No, no», rise lui. «Non ho paura. Avanti».

«Guarda che questo è proprio forte», l’ammonì lei di nuovo.

«Benissimo. Spara».

«Beh, allora…». Fece un lungo sospiro come un bambino, raccogliendo tutte le forze per chiedere il massimo che desiderava dalla vita. «Voglio fattoria, e stalla per il latte. Tante mucche, tanta terra, tanta erba. Me piace vicino a San Leandro; ci sta mia sorella. Così vendo el latte a Oakland e faccio un sacco de soldi. Joe e Nick non devono stare appresso alle mucche. Vanno a scuola, fanno i meccanici, lavorano in ferrovia. Sì, me piace la fattoria».

Si fermò e guardò Martin con gli occhi che le brillavano.

«L’avrai», rispose lui prontamente.

Lei annuì e toccò con le labbra il bicchiere di vino, alzandolo verso chi le concedeva un dono che sapeva non sarebbe mai stato fatto. Ma era stato fatto col cuore e fra sé lei lo capì e gli fu grata, proprio come se quel desiderio fosse già realtà.

«No, Maria», proseguì Martin; «Nick e Joe non dovranno più sbattersi qua e là a vendere il latte e i bambini potranno andare a scuola e avere le scarpe per tutto l’anno. Sarà una fattoria di prim’ordine – completa di tutto. Ci sarà la casa colonica per viverci e la scuderia dei cavalli e naturalmente la stalla delle mucche. Ci saranno polli, maiali, ortaggi, alberi da frutta e tutto il resto; e ci saranno abbastanza mucche da pagare uno o due braccianti. Allora non avrai altro da fare che badare ai bambini. E poi se troverai un brav’uomo, potrai sposarti e prendertela con calma, perché penserà lui alla fattoria».

Rientrando nella realtà da un futuro così dovizioso, Martin uscì di casa per portare al banco dei pegni il suo unico vestito buono. Era un gesto disperato, perché lo escludeva da ogni contatto con Ruth. Non ne aveva nessun altro presentabile e benché potesse ancora andare dal macellaio e dal fornaio, e persino di tanto in tanto dalla sorella, era inimmaginabile entrare nella dimora dei Morse vestito in modo così disdicevole.

Continuò la lotta scoraggiato e quasi senza speranza. Cominciava a sospettare che anche quella battaglia fosse stata perduta e che sarebbe dovuto andare a lavorare. In tal modo avrebbe soddisfatto tutti – il droghiere, la sorella, Ruth e persino Maria, alla quale doveva un mese di affitto arretrato. Era in ritardo di due mesi nei pagamenti del noleggio della macchina per scrivere e l’agenzia sollecitava con insistenza il pagamento, o la restituzione della macchina. Al colmo della disperazione, non in segno di accettazione della sconfitta ma per avere un po’ di tregua nella guerra con il fato in attesa di momenti migliori, sostenne un pubblico esame per l’assunzione nel servizio postale ferroviario. Con sua grande sorpresa fu il primo in graduatoria. Il posto era assicurato, anche se non sapeva quando sarebbe venuta la chiamata.

Fu a quel punto, proprio nel momento più nero, che la perfetta macchina editoriale si inceppò. Un ingranaggio doveva aver funzionato male, oppure si era esaurito il lubrificante, perché una mattina il postino gli recapitò una busta piccola e sottile. Martin diede un’occhiata all’angolo sinistro in alto e lesse il nome e l’indirizzo del «Transcontinental Monthly». Ebbe un tuffo al cuore e improvvisamente si sentì mancare, avvertendo contemporaneamente uno strano tremito alle ginocchia. Entrò barcollando in camera sua e si sedette sul letto tenendo in mano la busta ancora chiusa, e in quel momento capì come si potesse restare fulminati ricevendo una bellissima notizia.

E quella era una buona notizia. Poiché in quella piccola busta non c’era alcun manoscritto, doveva trattarsi della notifica che un suo scritto era stato accettato. Si ricordava quale fosse il racconto mandato al «Transcontinental»: era Il suono delle campane, una delle sue novelle dell’orrore, ed era di cinquemila parole giuste. E siccome le riviste di prim’ordine pagavano sempre al momento dell’approvazione, c’era un assegno. Due centesimi per parola… venti dollari ogni mille parole: doveva essere di cento dollari. Cento dollari! Nell’aprire la busta la massa dei suoi debiti gli si affollò nel cervello: 3,85 al droghiere; macellaio 4 dollari netti; fornaio 2 dollari; fruttivendolo 5; in totale 14,85. C’era poi l’affitto della stanza, 2,50, e un altro mese anticipato, 2,50; due mesi di macchina per scrivere, 8 dollari, e un mese di noleggio anticipato 4 dollari; in totale 31,85. Doveva infine aggiungere le somme che aveva ricevuto dal banco dei pegni, più l’interesse: orologio 5,50; bicicletta 7,75; vestito 5,50 (con un interesse del 60, ma che importava?) – con un totale complessivo di 56,10. Vide davanti a sé sospeso nell’aria e scritto con cifre luminose l’intero importo, che sottratto da quello che riceveva dava un resto di 43,90. Saldato ogni debito, riscattato ogni oggetto impegnato, gli sarebbe rimasta a tintinnare nelle tasche la regale somma di 43,90. E come se ciò non bastasse l’affitto già pagato di un mese della camera e della macchina per scrivere.

Nel frattempo aveva tirato fuori il foglio dattiloscritto e l’aveva aperto. Non c’era alcun assegno. Scrutò nella busta, la sollevò alla luce e non volendo credere ai suoi occhi la squarciò. Non c’erano assegni. Lesse la lettera scorrendo le righe e, saltando gli elogi che il direttore faceva del racconto, arrivò al punto più importante, al motivo per cui non era stato inviato l’assegno. Non lo trovò ma ciò che vide fu come una mazzata. Gli cadde la lettera dalle mani, gli si appannarono gli occhi e ricadde supino sul letto tirandosi addosso le coperte fino al mento.

Cinque dollari per il Suono delle campane… cinque dollari per cinquemila parole! Un centesimo ogni dieci parole invece di due centesimi a parola! E il direttore l’aveva pure lodato. Inoltre avrebbe ricevuto l’assegno solo dopo la pubblicazione. Erano tutte frottole, dunque, quei discorsi sul compenso minimo di due centesimi la parola e sul pagamento al momento dell’accettazione. Erano bugie che lo avevano tratto in inganno. Se l’avesse saputo non avrebbe mai intrapreso quella carriera. Sarebbe andato a lavorare – a lavorare per Ruth. Tornò con la mente al primo giorno in cui aveva tentato di scrivere e fu atterrito da quell’enorme spreco di tempo – e tutto per un centesimo ogni dieci parole. Ed erano fandonie anche le altre cose che si dicevano sui favolosi compensi degli scrittori. Quelle idee di seconda mano che si era fatto sulla condizione degli autori erano pure illusioni, e ne aveva avuto la prova.

L’elegante e dignitosa copertina del «Transcontinental», che si vendeva a venticinque centesimi la copia, ne faceva una rivista di prim’ordine. Era un periodico serio e rispettabile, che si pubblicava regolarmente da molto tempo prima della nascita di Martin. Sul frontespizio recava stampata, in ogni numero, la citazione di un grande scrittore, le parole di un astro della letteratura mondiale che proclamavano la nobile missione del «Transcontinental», dalle cui pagine erano balenati i primi lampi del suo genio immortale. E invece questo «Transcontinental» così alto e nobile, questa rivista animata da propositi così puri pagava cinque dollari per cinquemila parole! Martin si ricordò che il grande scrittore citato in copertina era morto di recente all’estero in estrema povertà – il che non era affatto sorprendente considerando quale principesco trattamento fosse riservato agli autori.

Eh sì, aveva abboccato all’amo, aveva preso come oro colato le menzogne dei giornali sugli scrittori e su ciò che guadagnavano, e in tal modo aveva buttato via due anni. Ma ora avrebbe sputato quell’esca: non avrebbe più scritto neppure una riga. Avrebbe fatto ciò che voleva Ruth – ciò che tutti si aspettavano da lui: si sarebbe trovato un lavoro. Quel pensiero gli rammentò Joe, che vagabondava nel paese del dolce far niente, ed emise un profondo sospiro di invidia. Reagiva in tal modo violentemente ai giorni e giorni di impegno intensissimo. Ma Joe non era innamorato, non aveva nessuna delle responsabilità dell’amore, e poteva permettersi di bighellonare nella terra dell’ozio. Lui, Martin, aveva qualcosa per cui valeva la pena di lavorare, e avrebbe lavorato. Avrebbe cominciato la ricerca di un’occupazione l’indomani mattina, di buon’ora. E avrebbe fatto sapere a Ruth di aver fatto ammenda degli errori del passato e di essere pronto a entrare nell’ufficio del padre.

Cinque dollari per cinquemila parole, dieci parole a un centesimo, era quello il prezzo dell’arte. La delusione e l’indignazione per quell’infamia ossessionavano i suoi pensieri e chiudendo gli occhi vedeva, scritto a lettere di fuoco, l’importo di «tre dollari e ottantacinque centesimi» che doveva al droghiere. Rabbrividì e sentì che le ossa gli dolevano. Gli dolevano anche i fianchi. E gli doleva la testa, gli doleva la fronte, gli doleva la nuca, gli doleva il cervello fino a scoppiargli, gli dolevano in modo insopportabile le arcate degli occhi, al di sotto delle quali, indelebilmente incisi nello sguardo, apparivano spietati quei «tre dollari e ottantacinque centesimi». Per sfuggire all’incubo aprì gli occhi, ma la bianca luce della stanza parve bruciargli le pupille, costringendolo a richiudere le palpebre e ad affrontare di nuovo la visione di quel numero tremendo.

Cinque dollari per cinquemila parole, dieci parole a un centesimo – non riusciva a togliersi dalla mente quel pensiero ossessionante, né a cancellare dalla vista la cifra di «3,85». Tuttora, davanti al suo sguardo pieno di meraviglia, questa sembrò trasformarsi in «2». Ah, pensò, questo è il fornaio. Gli apparve poi l’importo di «2,50». Rimase perplesso e cominciò a pensarci intensamente come se si trattasse di una questione di vita o di morte. Doveva due dollari e mezzo a qualcuno, questo era chiaro, ma a chi? Scoprirlo era il compito assegnatogli da un universo oppressivo e malevolo ed egli ripercorse gli infiniti meandri della mente aprendo ripostigli e bugigattoli pieni delle cianfrusaglie dei ricordi e dei brandelli della memoria, alla disperata ricerca della risposta. E dopo un tempo interminabile questa gli arrivò facile e senza sforzo: era la somma che doveva a Maria. Si volse sollevato verso i numeri, che continuavano a balenargli tormentosamente sotto le palpebre chiuse. Aveva trovato la soluzione, e adesso poteva riposare in pace. Ma no, ecco svanire i «2,50» e al loro posto fiammeggiare «8,00». E questo, che cos’era? Per scoprirlo doveva riprendere la tediosa esplorazione dei segreti del cervello.

Non seppe mai quanto fosse durato quel viaggio, ma dopo quello che gli parve un lasso di tempo enorme fu richiamato alla realtà dal rumore di qualcuno che bussava alla porta e da Maria che gli chiedeva se stesse bene. Rispose con un voce velata, che non riconobbe come la propria, che stava solo schiacciando un sonnellino. Rimase sorpreso nel notare che la stanza era piombata nel buio della notte. Aveva ricevuto la lettera alle due del pomeriggio e si accorse di star male.

Poi gli «8,00 dollari» ricominciarono ad ardergli sotto le palpebre, riducendolo di nuovo in schiavitù. Ma si era fatto furbo. Non era necessario percorrere le strade del cervello. Era stato uno sciocco. Tirò invece una leva con la quale la mente prese a girargli intorno, come una mostruosa ruota della fortuna, una giostra del ricordo, un’orbitante sfera della saggezza, in un vortice sempre più veloce che infine l’inghiottì, lanciandolo in un turbinoso volo nell’infinita tenebra del caos.

Quasi naturalmente si trovò davanti a un mangano nel quale immetteva polsini inamidati. Ma nel farlo notò che su di essi erano scritti alcuni numeri. Era un modo nuovo per riconoscere la biancheria, pensò, finché, avvicinandosi con lo sguardo, vide su uno di essi le cifre «3,85». Capì allora che era il conto del droghiere e che nel tamburo della macchina stavano girando i foglietti con l’indicazione dei suoi debiti. Gli venne un’idea geniale. Li avrebbe gettati a terra e così avrebbe evitato di pagarli. Detto fatto li buttò su un pavimento spaventosamente sporco stropicciandoli dispettosamente. E mentre il mucchio cresceva vide che i conti si moltiplicavano ma che recavano tutti la somma di due dollari e mezzo, la cifra che doveva pagare a Maria. Ciò voleva dire che Maria non avrebbe sollecitato il saldo e decise generosamente di dare i soldi solo a lei; e così cominciò a frugare disperatamente nel mucchio per tirare fuori il suo conto. Lo cercò disperatamente, per secoli, e non lo aveva ancora trovato quando entrò il direttore dell’albergo, il grasso olandese. Era rosso per la rabbia e gridò con una voce stentorea che echeggiò per tutto l’universo: «Ti dedurrò dal salario il costo di questi polsini!». Il mucchio diventò una montagna e Martin capì che avrebbe dovuto lavorare per mille anni per pagare il danno. E allora non gli rimase altro da fare che uccidere il direttore e incendiare la lavanderia. Ma l’enorme olandese gli sfuggì e anzi, afferratolo per il collo, si mise a scuoterlo avanti e indietro. Lo sbatteva sulle tavole per stirare, sulla caldaia, sui mangani e poi, entrando nella sala lavaggio, sulla centrifuga e sulla lavatrice. Martin si sentiva scuotere tanto che gli tremavano i denti e la testa gli faceva male. Era sorpreso dall’erculea forza dell’olandese.

E poi si ritrovò davanti al mangano, questa volta a tirar fuori i polsini; il direttore di una rivista, dall’altra parte, li rimetteva dentro. Ogni polsino era un assegno e Martin li esaminava tutti con ansia, ma erano tutti in bianco. Rimase lì un milione di anni, non lasciandone scappare nessuno per paura che gli sfuggisse quello compilato. Finalmente lo trovò. Con dita tremanti lo alzò contro luce. Era di cinque dollari. «Ah! Ah!», rideva il direttore all’altra parte del mangano. «E allora ti ammazzerò», disse Martin. Andò nella sala lavaggio a prendere l’accetta e trovò Joe che inamidava i manoscritti. Cercò di farlo smettere e quindi tentò di colpirlo con l’accetta. Ma l’arma gli rimase sospesa a mezz’aria e si ritrovò nella stireria in mezzo a una tormenta di neve. No, non erano falde di neve, ma assegni per grosse cifre, il più piccolo dei quali di mille dollari. Cominciò a raccoglierli e a metterli in ordine, riunendoli in mazzetti di cento che legava con una cordicella.

Alzò gli occhi da quel lavoro e vide Joe in piedi davanti a lui impegnato a lanciare in aria e a riprendere ferri da stiro, camicie inamidate e manoscritti. Di tanto in tanto allungava la mano per prendere un fascio di assegni che, unendosi agli altri oggetti, uscivano dal soffitto per entrare in un’orbita lunghissima. Martin cercò di colpirlo con l’ascia, ma Joe la prese e l’aggiunse all’enorme ruota delle cose che giravano. Poi afferrò Martin e fece volare anche lui. Oltrepassò il tetto tentando di prendere i manoscritti; quando tornò giù ne aveva le braccia piene, ma appena toccato il suolo risalì, e dopo il secondo giro ne fece un terzo e continuò a volare percorrendo infinite volte il cerchio completo. Sentiva in lontananza il gorgheggio di una voce infantile che cantava: «Un altro giro, Willie, un altro giro».

Recuperata l’accetta al centro di una Via Lattea di assegni, camicie inamidate e manoscritti si preparò, scendendo, a uccidere Joe. Ma non poté, perché alle due di notte Maria, avendo sentito gemiti attraverso il sottile muro divisorio, andò in camera sua a scaldarlo passandogli sul corpo ferri da stiro e a fargli impacchi di pezze umide sugli occhi indolenziti.

XXVI

Quella mattina Martin Eden non andò a cercare lavoro. Nel tardo pomeriggio, quando infine il delirio cessò, aprì gli occhi doloranti e li volse lentamente intorno alla stanza. La piccola Mary Silva, di otto anni, che aveva ricevuto dalla madre l’incarico di vegliarlo, lanciò un urlo non appena si accorse che aveva ripreso conoscenza. Maria, precipitatasi dalla cucina, gli appoggiò la mano callosa sulla fronte rovente e gli sentì il polso.

«Vuoi mangiare?», gli chiese.

Martin scosse la testa. Mangiare era l’ultimo dei suoi desideri e si stupì di aver mai provato fame in vita sua.

«Sto male, Maria», disse debolmente. «Che cosa ho? Lo sai?».

«Influenza», rispose la donna. «Fra due o tre giorni starai bene. Meglio non mangiare adesso. Presto mangiare, magari domani».

Martin ignorava cosa fosse l’infermità e quando Maria e la bambina lasciarono la stanza tentò di alzarsi e di vestirsi. Con un supremo sforzo di volontà, mentre la testa gli girava e gli occhi gli dolevano tanto da non riuscire a tenerli aperti, riuscì a scendere dal letto, ma poté solo restare appoggiato al tavolo in preda a un’indicibile spossatezza. Mezz’ora dopo riguadagnò il letto, dove si limitò a rimanere sdraiato con gli occhi chiusi e ad analizzare i vari dolori e le diverse sensazioni di debolezza che avvertiva. Maria entrò parecchie volte a cambiargli le pezze fredde sulla fronte. Per il resto lo lasciò tranquillo, intuendo che le chiacchiere lo avrebbero infastidito. Di ciò Martin le fu grato e mormorò fra sé: «Maria, avrai la fattoria, certo, certo».

Poi si ricordò degli avvenimenti del giorno prima, che gli parvero lontanissimi. Gli sembrò che fosse passato un secolo dal momento in cui aveva ricevuto la lettera del «Transcontinental», e da quello in cui aveva deciso di farla finita e di cominciare una nuova vita. Aveva tentato il colpo mettendocela tutta, e si ritrovava in quello stato. Se non fosse stato costretto alla fame non sarebbe stato colpito dall’influenza. Si era ridotto allo sfinimento e quindi non aveva avuto la forza sufficiente a combattere i germi dell’infezione che gli erano penetrati nell’organismo. Questa era la verità.

«A che pro scrivere tanti libri se ci si deve rovinare la vita?», si chiese parlando a voce alta. «Non sono adatto a questo ambiente. Mai più letteratura. Io sono fatto per un ufficio contabilità, per un libro mastro, per uno stipendio mensile e per una casetta insieme con Ruth».

Due giorni più tardi, dopo avere mangiato un uovo e due fette di pane tostato e bevuto una tazza di tè, chiese la posta, ma si accorse che gli occhi gli facevano ancora male a tal punto che gli era impossibile leggere.

«Guarda tu che cosa è scritto nelle lettere, Maria», disse. «Lascia perdere i plichi grandi. Buttali sotto il tavolo. Leggimi quelle nelle buste piccole».

«Non posso», rispose la donna. «Teresa sa. Lei andata a scuola».

E così Teresa Silva, di nove anni, aprì le lettere e gliele lesse. Ascoltò distrattamente una lunga filippica di quelli che gli avevano affittato la macchina per scrivere soffermandosi con la mente alle vie e alle procedure che avrebbe dovuto seguire per procurarsi un lavoro. Ma una frase che sentì lo richiamò bruscamente alla realtà.

«”Vi offriamo quaranta dollari per tutti i diritti di pubblicazione del vostro racconto”», leggeva Teresa compitando lentamente le parole, «”purché ci sia consentito di apportare le modifiche richieste”».

«Che rivista è?», urlò Martin. «Presto, fammi vedere!».

Ormai era in condizione di leggere e non si accorse del dolore. Era il «White Mouse» che gli offriva quaranta dollari, e la novella era Il gorgo, un altro dei suoi primi racconti dell’orrore. Rilesse più volte quel foglio. Il direttore gli diceva esplicitamente che il soggetto non era stato da lui trattato in modo adeguato, ma lo compravano perché era originale. Se avessero avuto l’autorizzazione a ridurlo di un terzo, l’avrebbero accettato e gli avrebbero fatto pervenire i quaranta dollari al ricevimento del consenso.

Chiese penna e inchiostro e scrisse al direttore che poteva tagliare anche i due terzi, se voleva, e di mandargli subito i quaranta dollari.

Spedita Teresa a impostare la lettera, Martin rimase sdraiato a riflettere. Allora era vero. Il «White Mouse» pagava all’accettazione del manoscritto. Nel Gorgo c’erano tremila parole. Tagliandone un terzo ne restavano duemila. Quaranta dollari volevano dire due centesimi la parola. Pagamento all’accettazione e il compenso era di due centesimi per parola: i giornali non avevano detto il falso. E pensare che aveva giudicato il «White Mouse» un periodico di terz’ordine! Era evidente che non conosceva le riviste. Infatti aveva un’alta opinione del «Transcontinental», che aveva la tariffa di un centesimo ogni dieci parole, e una pessima considerazione del «White Mouse» che dava compensi venti volte superiori e inoltre pagava all’accettazione.

Una cosa era certa: non appena si fosse rimesso non sarebbe andato a cercare un posto. Aveva in testa altri racconti validi quanto Il gorgo che, a quaranta dollari l’uno, gli avrebbero fruttato molto più di quello che poteva dargli qualunque impiego o professione. Proprio quando pensava di avere perso la battaglia, era arrivata la vittoria. Aveva superato l’iniziazione e adesso aveva la strada spianata. Al «White Mouse» avrebbe aggiunto altre riviste alla lista dei suoi datori di lavoro. Avrebbe accantonato i lavori commerciali, che d’altronde avevano rappresentato per lui una perdita di tempo perché non gli avevano fruttato neppure un dollaro. Si sarebbe dedicato al suo lavoro, al suo vero lavoro, e avrebbe tirato fuori il meglio che aveva dentro di sé. Avrebbe voluto che Ruth fosse con lui a condividere quella gioia e, nel prendere in mano le lettere rimaste sul letto, ne trovò una di lei. Gli rivolgeva un dolce rimprovero, chiedendogli che cosa mai lo avesse tenuto lontano da lei per un periodo così terribilmente lungo. Rilesse la lettera con animo adorante, accarezzando con gli occhi quella calligrafia e struggendosi d’amore per ogni tratto della penna, e alla fine baciò la firma.

Nella risposta le disse chiaro e tondo che non era andato a trovarla perché i suoi migliori vestiti erano al banco dei pegni. Le raccontò di essere stato malato ma di essere ormai guarito e aggiunse che nel giro di dieci giorni (il tempo occorrente a una lettera per arrivare fino a New York e tornare) avrebbe riscattato gli abiti e sarebbe stato da lei.

Ma Ruth non era disposta ad attendere dieci o quindici giorni. E poi il suo innamorato stava male. Il pomeriggio seguente, accompagnata da Arthur, arrivò con la carrozza dei Morse, provocando grande eccitazione fra i bambini Silva e tutti i monelli della via, e la costernazione di Maria. Prese a scappellotti i figli che si affollavano intorno ai visitatori nel minuscolo portico d’ingresso, ed esprimendosi in un linguaggio ancor più scorretto e impacciato del solito cercò di scusarsi del proprio aspetto. Le maniche arrotolate intorno alle braccia insaponate e un sacco di iuta bagnato alla vita rivelavano che cosa stesse facendo. Era così confusa che due giovani tanto importanti avessero chiesto del suo inquilino che si dimenticò di invitarli a sedere nel salotto buono. Per entrare nella camera di Martin attraversarono la cucina, piena del calore, dell’umidità e del vapore del grande bucato che stava lavando. In preda all’emozione, Maria incastrò una nell’altra la porta della stanza e quella dell’armadio a muro e per cinque minuti vampate di caldo impregnate di odore di detersivo e di sporco penetrarono nella camera del malato.

Piegandosi a destra, a sinistra e poi di nuovo a destra Ruth riuscì a percorrere lo strettissimo passaggio fra il tavolo e il letto e ad arrivare al capezzale di Martin, mentre Arthur allargò troppo provocando la fragorosa caduta delle pentole e dei tegami accatastati nell’angolo in cui Martin cucinava. Il fratello non rimase a lungo. Poiché l’unica sedia era occupata da Ruth egli, compiuto il suo dovere, uscì di casa e si fermò in piedi accanto alla porta d’ingresso, al centro dell’ammirazione dei sette giovanissimi Silva che lo scrutavano con la curiosità con cui avrebbero osservato un fenomeno da baraccone. Intorno alla carrozza si erano radunati i bambini di una dozzina di isolati in ansiosa attesa di una conclusione tragica e terribile. Le carrozze facevano infatti la comparsa nella via solo in occasione di nozze e di funerali e poiché non c’era stato né un matrimonio né un decesso doveva trattarsi di un evento del tutto nuovo per la loro esperienza, di cui volevano vedere la fine.

Martin moriva dalla voglia di vedere Ruth. Aveva una natura essenzialmente portata all’amore e un bisogno superiore al normale di essere amato e capito. Vedeva nella comprensione fra due persone un incontro fra due menti, non si era ancora accorto che l’affetto di Ruth era frutto del suo carattere riservato e gentile e che nasceva dalla dolcezza della sua natura più che dall’avere capito l’oggetto dei propri sentimenti. Così avvenne che mentre Martin, tenendole la mano, le parlava al colmo della felicità, l’amore che lei provava per lui la spinse a ricambiare la stretta e gli occhi le diventarono umidi e lucidi al pensiero che egli fosse così indifeso e alla vista dei segni della sofferenza scritti sul viso dell’innamorato.

Ma non lo seguì mentre lui le raccontava delle due opere accettate, della disperazione nel ricevere la comunicazione del «Transcontinental» e della felicità alla lettura di quella del «White Mouse». Udiva le parole che egli diceva e ne comprendeva il significato letterale, ma non partecipava a quella disperazione e a quella felicità. Non era capace di uscire da se stessa. Vendere racconti alle riviste non contava nulla per lei. Le importava solo il matrimonio. E tuttavia non ne era cosciente; come non lo era del fatto che la sua aspirazione che Martin si facesse una posizione nasceva dall’istinto della maternità, di cui era la premessa. Avrebbe arrossito se ciò le fosse stato detto in chiare lettere e avrebbe risposto indignata che il suo solo interesse era nell’uomo che amava e nel desiderio che si affermasse. E così mentre Martin le apriva tutto il suo cuore, inebriato dal primo successo conseguito nel lavoro che aveva scelto, Ruth ne percepiva solo il senso superficiale, inorridita dallo spettacolo che quella stanza le presentava.

Per la prima volta vedeva la sordida faccia della povertà. I poveri amanti le erano sempre parsi romantici, ma non aveva la più pallida idea di come vivessero quei poveri amanti. Non aveva immaginato che potesse essere così. Gli occhi le andavano in continuazione dal volto di lui alla camera. L’umido sentore dei panni sporchi, che era entrato dalla cucina insieme con lei, era disgustoso. Martin doveva esserne impregnato se quella tremenda donna faceva il bucato tanto spesso. La degradazione era contagiosa e nel volgere lo sguardo su Martin le parve di vedere su di lui l’impronta di quell’ambiente. Non lo aveva mai visto non perfettamente rasato e la barba di tre giorni le faceva provare repulsione per quel viso, perché non solo gli dava lo stesso aspetto sporco e scuro che vedeva nel volto dei Silva, ma accentuava anche quella sua forza animalesca che tanto detestava. Ed eccolo qui, incoraggiato nella sua follia da quelle due opere accettate di cui le parlava con tanto orgoglio. E pensare che sarebbe bastato ancora un breve lasso di tempo perché lui si arrendesse e si cercasse un lavoro. Ora invece avrebbe continuato a scrivere e a fare la fame ancora per parecchi mesi.

«Che cos’è questa puzza?», chiese all’improvviso Ruth.

«È il bucato di Maria, suppongo», rispose lui. «Io mi ci sto abituando».

«No, no, non intendo questo. È qualcos’altro. Un odore stantio e sgradevole».

Martin annusò l’aria per qualche secondo. «Non sento niente altro, a parte il ristagno del tabacco», esclamò.

«Proprio questo. È terribile. Perché fumi tanto, Martin?».

«Non lo so, tranne che fumo più del consueto quando sono solo. È da tanto tempo che lo faccio. Ho cominciato quando ero ancora un ragazzino».

«È un brutto vizio. Lascia cattivo odore dappertutto».

«È colpa del tabacco che uso. Posso permettermi solo quello più a buon mercato. Ma abbi pazienza fino a quando avrò ricevuto questo assegno di quaranta dollari. Allora prenderò una marca con un aroma che piace anche agli angeli del cielo. Non è andata male con due accettazioni in tre giorni, non ti pare? Con questi quarantacinque dollari pagherò quasi tutti i debiti».

«Ma sono due anni di lavoro».

«No, meno di una settimana. Per favore, passami quell’agenda sull’angolo lontano del tavolo, il libro dei conti con la copertina grigia». L’aprì e cominciò a girare le pagine rapidamente. «Sì, avevo ragione. Quattro giorni per Il suono delle campane e due giorni per Il gorgo. Il che fa quarantacinque dollari per una settimana di lavoro e centottanta dollari per un mese. È più di qualunque stipendio che io possa ottenere. Aggiungi che sono soltanto all’inizio. Mille dollari al mese sono il minimo che vorrei per poterti comprare tutto ciò che desidero tu abbia. Una paga di cinquecento dollari il mese sarebbe troppo modesta. Questi quarantacinque dollari sono appena il primo passo. Aspetta che mi metta in moto e mi vedrai: sarò come una vaporiera».

Lei fraintese quell’immagine e tornò a parlare di sigarette.

«Adesso fumi già più del dovuto, e la marca di tabacco non c’entra. È il fumare in se stesso che non è bello, qualunque sia la marca che usi. Sei una ciminiera, un vulcano, una caldaia ambulante, e questa è una cosa bruttissima, Martin, tesoro, e lo sai benissimo anche tu».

Ruth si chinò verso di lui con lo sguardo supplichevole e nel fissare quel viso delicato e quegli occhi limpidi e puri, Martin fu colpito, come già in passato, dalla propria inadeguatezza.

«Vorrei che tu non fumassi più», sussurrò lei. «Ti prego… fallo per me».

«Va bene», esclamò lui. «Faccio tutto quello che mi chiedi, amore, lo sai».

Lei fu presa da una grande tentazione. Ripetutamente aveva avuto modo di vedere quanto egli fosse generoso e accomodante, ed era sicura che se gli avesse chiesto di rinunciare a scrivere lo avrebbe ottenuto. Per un istante quelle parole furono sul punto di uscirle dalle labbra, ma non le pronunciò. Non ne ebbe il coraggio; non osò. Si piegò invece verso di lui e fra le sue braccia mormorò:

«E poi non è tanto per me che lo devi fare, Martin, quanto per te stesso. Sono sicura che il fumo ti fa male; inoltre non è bello essere schiavi di qualche cosa, soprattutto se è una droga».

«Di te sarò sempre schiavo», rispose lui sorridendo.

«In questo caso ascolta quello che ti ordino».

Lo guardò con aria maliziosa, anche se in cuor suo si pentiva di non avere avuto l’animo di chiedergli ciò che veramente le stava a cuore.

«Non vivo che per obbedire a Vostra Maestà».

«Ecco allora il mio Primo comandamento: Non dimenticare di raderti ogni giorno. Guarda come mi hai graffiato la guancia».

Tutto terminò in moine, risate e carezze. Ma Ruth aveva segnato un punto a suo favore e non poteva pretendere di ottenere subito una seconda vittoria. Come donna si sentì fiera di essere riuscita a farlo smettere di fumare. Un’altra volta lo avrebbe convinto a trovare un posto di lavoro: non le aveva forse detto che avrebbe fatto tutto ciò che lei gli avesse domandato?

Si alzò dal capezzale del letto per esplorare la stanza: esaminò il filo della biancheria steso in alto da cui pendevano i fogli di appunti, apprese il mistero del paranco usato per appendere la bicicletta al soffitto ed osservò con tristezza il mucchio dei manoscritti sotto il tavolo, che le ricordavano tutto il tempo perso da Martin in attività inutili. Ammirò il fornello a petrolio, ma si accorse che gli scaffali delle provviste erano vuoti.

«Non hai niente da mangiare, povero caro», osservò tenera e commossa. «Chissà che fame hai».

«Tengo le provviste nell’armadio e nella dispensa di Maria», mentì lui. «Così si mantengono meglio. Non temere, non soffro di fame. Guardami».

Tornata presso di lui gli vide piegare il braccio con il pugno stretto per tendere il bicipite, che si gonfiò sotto la manica della camicia in un ammasso muscoloso duro e possente. Quella vista le riuscì sgradita. I suoi sentimenti la rifiutavano. Ma i sensi, il sangue, ogni fibra, ne erano sconvolti e attratti, e, come già era avvenuto in passato, gli si appoggiò contro invece di ritrarsi. E mentre lui la stringeva forte fra le braccia che la stritolavano, la mente di lei, oppressa da preoccupazioni meschine, voleva resistergli, mentre il cuore della donna che batteva al ritmo della vita stessa, esultava per la felicità. In quegli attimi supremi capiva l’immensità del suo amore per Martin; sentire quelle forti braccia intorno a sé che la tenevano così stretta, che la soffocavano quasi con la violenza dell’ardore, le dava un’emozione così intensa che credeva di svenire. In momenti come quello giustificava il tradimento commesso nei confronti dei suoi modelli di vita, la violazione dei propri ideali e, soprattutto, la disobbedienza al padre e alla madre, i quali non volevano che sposasse quell’uomo. Il pensiero che la figlia amasse un uomo simile li sconvolgeva, come a volte sconvolgeva lei stessa, quando era lontana da lui e ragionava a mente fredda. Ma quando si trovava con lui l’amava – l’amava in mezzo ai tormenti e ai turbamenti, era vero; ma era pur sempre amore, ed era più forte di lei.

«Questa influenza non è nulla», le stava dicendo Martin. «Dà un po’ di disturbi e lascia un brutto mal di capo, ma è uno scherzo al confronto con la febbre tropicale».

«Hai avuto anche quella?», gli chiese lei distrattamente, rassicurata nelle sue perplessità dalla gioia che provava fra le braccia di lui.

Continuò a fargli domande oziose e a seguire languidamente quella conversazione finché una sua risposta la fece trasalire.

Aveva avuto quella febbre in una colonia segregata di trenta lebbrosi in una delle isole Hawaii.

«Ma perché ci sei andato?». Un’indifferenza così totale per la propria salute le sembrava criminale.

«Perché non lo sapevo. Non immaginavo che ci fossero i lebbrosi. Quando disertai dalla goletta mi diressi verso l’interno per nascondermi. Per tre giorni mi nutrii dei frutti che crescevano spontanei nella giungla, bacche di mirto tropicale, ohias e banane. Il quarto giorno trovai la pista – un semplice tratturo che saliva e si addentrava nell’interno. Era proprio quello che cercavo, e mostrava i segni di un passaggio recente. A un certo punto arrivava a uno sperone di roccia che era come una lama di coltello. In cima, il sentiero era largo appena qualche palmo e correva fra due precipizi di parecchie centinaia di metri. Un uomo con una buona scorta di munizioni sarebbe riuscito a difenderlo da solo anche contro centomila nemici.

«Era l’unica via per giungere al nascondiglio. Tre ore dopo aver trovato il tratturo arrivai infatti a una piccola valle di montagna incastrata fra picchi di lava. Tutta la zona era terrazzata a coltivazioni di colocasie e di alberi da frutto, e c’erano anche otto o dieci capanne di paglia. Ma non appena vidi gli abitanti capii dove ero capitato. Mi bastò un’occhiata».

«E tu che cosa hai fatto?», chiese Ruth con un filo di voce, affascinata e atterrita come Desdemona al racconto delle avventure di Otello.

«Non c’era nulla da fare. Il capo era un vecchio molto gentile e un po’ fuori di testa, ma comandava ancora come un re. Aveva scoperto la valletta e ci aveva fondato la colonia – il che è illegale. Però aveva armi e munizioni abbondanti, e quegli indigeni, abituati a sparare ai bovini e ai maiali selvatici, avevano una mira infallibile. No, non c’era via di scampo per Martin Eden. Ci rimasi per tre mesi».

«Come sei riuscito a fuggire?».

«Sarei ancora lì se non avessi conosciuto una ragazza del posto, per metà cinese, per un quarto bianca e per un quarto hawaiana. Era bella, poverina, e aveva anche una buona istruzione. La madre, che stava a Honolulu, era ricchissima. Fu grazie a lei che potei finalmente scappare. Non aveva paura di essere punita per avermi fatto fuggire perché era la madre che finanziava la colonia. Ma prima mi fece giurare di non rivelare mai l’esistenza di quel posto segreto; e io ho mantenuto la promessa. Infatti prima di ora non l’ho mai detto a nessuno. La ragazza aveva solo le prime tracce di lebbra. Aveva le dita della mano destra leggermente contorte e una macchiolina sul braccio. Tutto qui. Immagino che ormai sia morta».

«Ma non avevi paura? E non sei stato contento di venir via senza aver preso questo terribile male?».

«All’inizio ne ero terrorizzato», confessò Martin, «ma con il passare del tempo mi ci sono abituato. Ero così dispiaciuto per quella povera ragazza che quasi non sentivo la paura. Era di animo nobile, oltre che bellissima di aspetto, e i segni della malattia si vedevano appena; e tuttavia era condannata a restare lì e a condurre un’esistenza primitiva consumandosi lentamente. La lebbra è molto più terribile di quanto si possa immaginare».

«Poveretta», mormorò dolcemente Ruth. «È un miracolo che ti abbia lasciato andar via».

«Che vuoi dire?», chiese ingenuamente Martin.

«Deve averti amato», disse Ruth, sempre con grande dolcezza. «Non è vero? Sii sincero».

La forte abbronzatura di Martin si era attenuata con il periodo passato nella lavanderia e la vita segregata che aveva condotto prima che la fame e la malattia dessero al viso un pallore ancora più intenso; un’ondata di rosso colorò lentamente la sua pelle diventata chiara. Stava per parlare quando Ruth l’interruppe.

«Non importa, non rispondere; non è necessario», disse ridendo.

Ma a lui sembrò di sentire un suono metallico in quella risata e di scorgere nello sguardo una luce gelida, che in quel momento gli rammentò una tempesta incontrata nel Pacifico settentrionale. Se la vide sorgere improvvisa davanti agli occhi – una burrasca notturna sotto il cielo sereno illuminato dalla luna piena, con le enormi ondate che scintillavano fredde alla luce lunare. Poi gli apparve la ragazza nel rifugio dei lebbrosi e si ricordò che era stato per amore che lo avevo lasciato andare.

«Aveva un animo nobile», rispose semplicemente. «Mi ha dato la vita».

Fu tutto quello che disse di quella vicenda, ma sentì Ruth soffocare in gola un singhiozzo e vide che volgeva il viso per guardare fuori dalla finestra. Quando si girò di nuovo verso di lui il volto aveva un’espressione composta e dagli occhi era scomparso ogni segno di tempesta.

«Sono una sciocca», disse in tono lamentoso, «ma non posso farci nulla. Ti amo tanto, Martin, ti amo, ti amo. Con il tempo diventerò più tollerante, ma ora non posso fare a meno di essere gelosa di questi fantasmi del tempo andato, e sai bene che il tuo passato ne è pieno.

«È inevitabile», aggiunse prevenendo le proteste di lui. «Non potrebbe essere altrimenti. Vedo il povero Arthur che mi fa segno di andare. È stanco di aspettare. Ciao, caro».

«C’è un preparato venduto in farmacia per chi vuole smettere di fumare», esclamò quand’era già sulla porta, «te lo mando».

La porta, appena chiusa, si riaprì un attimo.

«Ti amo, ti amo», gli sussurrò; e questa volta se ne andò davvero.

Maria l’accompagnò fino alla carrozza seguendola con occhi adoranti ma pronti a notare il tessuto e il taglio dei vestiti di Ruth (un taglio insolito che produceva effetti di una bellezza misteriosa). La folla dei ragazzini delusi seguì con lo sguardo la carrozza fino a quando non scomparve alla vista, trasferendo poi l’attenzione su Maria, di colpo diventata la persona più importante della via. Fu uno dei figli a distruggerne il prestigio osservando che quei visitatori straordinari erano venuti per il suo pensionante, e non per lei. Dopo questo episodio Maria ripiombò nella mediocrità mentre Martin cominciò a notare di essere tenuto in rispetto e considerazione dalle bande dei bambini del quartiere. Egli salì anche molto nella stima di Maria e avrebbe potuto raddoppiare il proprio credito presso il droghiere portoghese se questi avesse visto quell’arrivo in carrozza.

XXVII

Finalmente Martin fu baciato dalla buona sorte. Il giorno successivo alla visita di Ruth ricevette un assegno di tre dollari da una rivista scandalistica di New York a pagamento di tre strofette. Due giorni dopo un giornale di Chicago accettò il suo Cercatori del tesoro con la promessa di un pagamento di dieci dollari alla pubblicazione. Era un compenso modesto, ma si trattava del primo articolo che aveva scritto, anzi del primo tentativo di tradurre su una pagina i propri pensieri. A coronamento di quel periodo felice il racconto avventuroso a puntate per ragazzi, sua seconda composizione, fu accettato prima della fine della settimana da un mensile per i giovani intitolato «Youth and Age». A dire il vero gli offrivano sedici dollari alla pubblicazione dell’opera, che era costituita da ventunmila parole, con un compenso di settantacinque centesimi ogni mille parole, ma era pur sempre il suo secondo esperimento in campo letterario ed egli stesso era consapevole di quanto fosse rozzo e ingenuo.

E tuttavia neppure quei primi tentativi erano contrassegnati dal marchio della mediocrità. Soffrivano, caso mai, delle tipiche esagerazioni del principiante, che usa il maglio per schiacciare una mosca e il coltello da macellaio per cesellare un cammeo. Per questo motivo Martin fu contento di vendere per un pezzo di pane quegli scritti immaturi. Sapeva quello che valevano, e non aveva neppure impiegato troppo tempo ad accorgersene. Aveva invece grande fiducia nelle sue opere posteriori. Si era sforzato di essere qualcosa di più di un semplice scrittore di novelle per i settimanali. Aveva cercato di acquisire gli strumenti più raffinati dell’arte senza comprimere lo slancio istintivo. Si era consciamente proposto di disciplinare la propria esuberanza evitando gli eccessi ma senza tradire il suo amore per la realtà, e la sua opera era rimasta realista nonostante lo sforzo per trasfondervi le immagini e le visioni della fantasia. Aspirava a un realismo appassionato, pieno di fede e di calore umano. Voleva descrivere la vita com’era, con tutto il suo residuo di irrequietezza e di spiritualità.

Dall’esperienza delle letture fatte aveva tratto la conclusione che esistevano due scuole narrative. L’una considerava l’uomo un dio ignorandone l’aspetto materiale; l’altra lo trattava come sostanza inerte priva di sogni e di afflato divino. Per Martin erravano gli uni e gli altri nella rigidità e nella limitatezza delle loro posizioni. C’era la possibilità di accostarsi alla verità con un compromesso, che però non era lusinghiero per i propugnatori della divinità dell’uomo e contestava la bruta ferocia della scuola che sosteneva la sua materialità. Nel racconto Avventura, accolto con disgusto da Ruth, Martin pensava di aver raggiunto in campo narrativo questo ideale di verità, che aveva esposto teoricamente nel saggio Dio e la zolla.

Tuttavia Avventura e tutte quelle che considerava la sue cose migliori non avevano ancora superato il giudizio severo dei direttori; d’altro canto, pur avendone vendute due, non giudicava le novelle dell’orrore opere di alto livello o fra le sue più riuscite. Scopriva adesso in loro un eccesso di immaginazione, pur temperato dalla concretezza della realtà grazie alla quale avevano acquistato spessore. Questo insinuarsi di elementi di realismo in narrazioni grottesche e fantastiche era per lui un trucco o, nel migliore dei casi, un abile espediente. La grande letteratura era lontana. C’era grande bravura, ma non vera arte nell’assenza degli autentici valori dell’uomo. Aveva avuto l’abilità di unire alla tecnica letteraria una parvenza di contenuto umano, e il gioco gli era riuscito nella mezza dozzina di racconti etichettati come novelle dell’orrore che aveva scritto prima di giungere ai vertici di Avventura, Gioia, Il vaso e Il vino della vita.

Usò i tre dollari ricevuti per le strofette per sopravvivere precariamente in attesa che arrivasse il denaro del «White Mouse». Diede il primo assegno al sospettoso droghiere portoghese che dopo avere ricevuto un dollaro come acconto del proprio debito gliene restituì due, equamente divisi da Martin fra il fornaio e il fruttivendolo. Non era ancora abbastanza ricco da potersi permettere acquisti di carne e quando venne il secondo assegno stava di nuovo riducendosi al lumicino. Era indeciso su come incassarlo. Non era mai stato in banca in vita sua, tanto meno per effettuarvi operazioni, ed aveva una gran voglia di entrare in uno dei grandi istituti di Oakland e di presentare allo sportello l’assegno da lui firmato in cambio di quaranta dollari in contanti. Un elementare buon senso gli suggeriva però di incassarlo presso il droghiere per impressionarlo e indurlo in seguito a concedergli un credito maggiore. Pur malvolentieri, Martin si convinse che questa era l’alternativa migliore: saldò quindi completamente il debito che aveva con lui e ne ebbe inoltre un bel mucchio di monete sonanti. Poté in tal modo pagare fino all’ultimo centesimo gli altri commercianti, riscattare il vestito e la bicicletta, versare un mese per il noleggio della macchina per scrivere e dare a Maria sia i soldi dell’affitto arretrato sia quelli del mese di anticipo. Dopo di ciò gli rimasero in tasca quasi tre dollari, che gli sarebbero serviti come riserva per i casi di emergenza.

Con questa piccola somma gli sembrava di essere immensamente ricco. Subito dopo avere recuperato l’abito era andato a trovare Ruth e lungo la strada non poté trattenersi dal far tintinnare il mucchietto di monete d’argento che teneva in tasca. Era rimasto tanto tempo senza soldi che non era capace di tenere le mani lontano da quel denaro, come un naufrago rimasto senza cibo che dopo il salvataggio non riesce a distogliere lo sguardo dalle provviste. Non era né avaro né pitocco, ma quei dollari e quei centesimi avevano per lui un valore particolare: significavano il successo, e le aquile impresse sul metallo erano per lui come simboli di vittoria.

A poco a poco cominciò a pensare che quello era il migliore dei mondi possibili. Certamente gli sembrava più bello di prima. Dopo che per settimane lo aveva visto triste e cupo, adesso, con quasi tutti i debiti pagati, tre dollari che gli ballavano in tasca e la sensazione di avere raggiunto il successo, era spuntato un sole caldo e luminoso, e persino un improvviso acquazzone che aveva sorpreso i passanti gli era parso un evento felice. Quando non mangiava il pensiero gli andava spesso alle migliaia di esseri umani che in tutto il mondo si trovavano nella sua stessa condizione; ora, con la pancia piena, la fame nel mondo non gli appariva più con la pregnanza di un tempo. Si dimenticò degli indigenti ed essendo innamorato gli vennero invece alla mente tutti coloro che erano investiti dal sentimento di amore. Pur senza volerlo, motivi di poesie amorose presero a turbinargli nel cervello. Distratto da quell’impulso creativo non si accorse della fermata e scese dal tram due isolati dopo l’incrocio.

A casa dei Morse trovò diverse persone. C’erano due cugine di San Rafael in visita a Ruth e altri che la signora aveva invitato con lo scopo dichiarato di intrattenerli ma con il fine segreto di mettere la figlia in contatto con molti giovani. Quel disegno era stato elaborato e intrapreso durante la forzata lontananza di Martin ed era ormai in piena attuazione. Si era preoccupata di invitare in casa uomini impegnati in attività ben definite. Così, oltre alle cugine Dorothy e Florence, Martin conobbe due professori universitari, uno di latino e l’altro di inglese; un giovane ufficiale appena tornato dalle Filippine che era stato compagno di scuola di Ruth; un giovane di nome Melville, segretario privato di Joseph Perkins, presidente della San Francisco Trust Company; e infine un cassiere di banca in carne e ossa, Charles Hapgood, un trentacinquenne di aspetto giovanile, laureato all’Università di Stanford, socio del Nile Club e dello Unity Club, politicamente conservatore e impegnato come portavoce del partito repubblicano durante le campagne elettorali – per farla breve, un giovane emergente sotto tutti gli aspetti. Fra le donne c’erano una pittrice specializzata in ritrattistica, una musicista professionista e un’altra che aveva conseguito il dottorato di ricerca in sociologia e godeva di una certa notorietà locale per la sua opera di organizzazione sociale nei quartieri poveri di San Francisco. Tuttavia le donne non avevano una parte importante nel piano della signora Morse. Avevano al massimo la funzione di utili accessori. Sua suprema preoccupazione era però che la casa fosse frequentata da uomini impegnati in attività professionali.

«Non ti scaldare durante la conversazione», ricordò Ruth a Martin prima che cominciasse il cimento delle presentazioni.

All’inizio egli era un po’ imbarazzato per l’opprimente consapevolezza della propria goffaggine, soprattutto nel portamento delle spalle, che erano ricadute nel vecchio vizio di pencolare pericolosamente verso gli arredi e i soprammobili. La sua confusione era inoltre accentuata dalla compagnia. Non era mai stato in contatto con tante persone di livello così elevato. Rimase affascinato da Hapgood, il cassiere di banca, e decise di sondarlo alla prima occasione. Sotto l’impaccio superficiale Martin nascondeva una forte personalità, e sentiva il bisogno di misurarsi con quegli uomini e con quelle donne per scoprire che cosa avessero appreso dagli studi e dal tipo di vita da cui lui era stato escluso.

Ruth andava spesso con lo sguardo verso di lui per controllare come si comportasse ed ebbe la lieta sorpresa di vedere che aveva stabilito rapporti cordiali con le cugine. Certamente non era preda dell’eccitazione e il fatto di essere seduto gli toglieva il problema del movimento delle spalle. Poiché le conosceva come ragazze sveglie e brillanti, sia pure in modo superficiale, Ruth non riuscì a capire le lodi che profusero nei confronti di Martin quella sera al momento di andare a letto. Il fatto era che quell’uomo, che aveva la fama di persona brillante e spiritosa presso quelli del proprio ceto sociale e che era l’anima delle compagnie che si riunivano per i balli e i picnic domenicali, non aveva trovato difficoltà in quell’ambiente grazie alle sue battute e alla sua gaiezza. Quella serata fu per lui un successo, che lo incoraggiò a seguire le sue naturali inclinazioni e lo confermò nell’impressione che poteva continuare senza paura nelle sue arguzie e nei suoi scherzi.

Più tardi le preoccupazioni di Ruth si dimostrarono giustificate. Martin si era messo a conversare con il professor Caldwell in un angolo bene illuminato e l’occhio severo di Ruth notò che, pur avendo smesso di tagliare l’aria con le mani, continuava a lanciare sguardi di fuoco, a parlare con troppa rapidità e troppo calore, ad animarsi esageratamente e ad arrossire in modo eccessivo nella foga della discussione. Mancava di decoro e di controllo e si comportava in modo del tutto diverso dal giovane docente d’inglese con cui discorreva.

Tuttavia Martin non si preoccupava delle apparenze. Aveva notato subito la prontezza intellettuale del suo interlocutore e ne ammirava la cultura. Per fortuna il professore ignorava quale opinione Martin avesse della maggioranza dei suoi colleghi. Martin voleva indurre l’altro a parlare del lavoro che faceva e ci riuscì dopo aver superato qualche resistenza. Egli non capiva perché parlare delle attività professionali fosse considerato sconveniente nelle conversazioni mondane.

«È assurda e ingiusta», aveva detto a Ruth qualche settimana prima, «questa avversione a parlare di lavoro. Perché mai gli uomini e le donne si riuniscono se non per scambiarsi quanto di meglio è in loro? E le cose migliori che hanno sono quelle che loro interessano, quelle con cui si guadagnano da vivere, quelle nelle quali si sono specializzati studiandole giorno e notte e vivendole persino nei sogni. Pensa che cosa succederebbe se il signor Butler, per rispettare questa convenzione sociale, ci venisse a dire le sue opinioni su Paul Verlaine, sul teatro tedesco o sui romanzi di D’Annunzio. Ci farebbe morire di noia. Da parte mia, se proprio devo ascoltarlo, preferisco sentirlo parlare di legge. È la cosa che sa meglio, e la vita è così breve che desidero il meglio da ogni uomo e da ogni donna che conosco».

«Ma ci sono argomenti di interesse generale che vanno bene per tutti», aveva obiettato Ruth.

«È qui che ti sbagli», aveva ripreso lui. «Tutte le persone che si trovano nella società e tutti i gruppi sociali – o piuttosto quasi tutte le persone e quasi tutti i gruppi sociali – imitano quelli che considerano i migliori fra loro. E chi sarebbero questi modelli perfetti? Quelli che non hanno nulla da fare, i ricchi oziosi. Normalmente costoro non sanno le cose conosciute da quelli che svolgono un’attività. Poiché l’ascolto di conversazioni basate su queste cose li annoierebbe, questi sfaccendati sostengono che discutere di queste cose significa parlare di “bottega”, e che ciò è sconveniente. Stabiliscono anche quali siano gli argomenti leciti: l’ultima opera lirica, i romanzi più recenti, le carte, il biliardo, i cocktail, le automobili, i concorsi ippici, la pesca alla trota, la pesca d’altura, la caccia grossa, le crociere sui panfili eccetera – e bada bene che su questi argomenti hanno una grande competenza. In sostanza questo è il parlar di «bottega» dei nullafacenti. E la cosa più strana è che molte persone intelligenti, e tutte quelle che passano per esserlo, permettono agli sfaccendati di imporre la loro volontà. Quanto a me voglio avere il meglio che ognuno ha in se stesso, anche se per te parlare di lavoro è segno di volgarità».

Ruth non aveva capito. Questo suo attacco alle tradizioni le era sembrato frutto di ostinazione.

Martin aveva dunque contagiato con le sue idee il professor Caldwell, invitandolo a dire con franchezza ciò che pensava. Nel passare vicino a loro Ruth sentì Martin che diceva:

«Certamente non sosterrà queste eresie all’Università della California?».

Il docente si strinse nelle spalle. «Dobbiamo tener conto dei contribuenti e dei politici, capisce. Lo stanziamento dei fondi si decide a Sacramento e quindi dobbiamo aver buoni rapporti con la capitale dello stato, il Consiglio di amministrazione dell’ateneo, la stampa del partito di maggioranza, e magari anche quella di opposizione».

«Questo mi è chiaro; ma lei personalmente?», insistette Martin. «Si sentirà un pesce fuor d’acqua».

«Penso di non riscuotere molte simpatie nella palude universitaria. Qualche volta ho la netta sensazione che quello non sia il mio ambiente e che mi troverei molto meglio a Parigi, fra i letterati dei bassifondi, in una grotta d’eremita, oppure in qualche gruppo molto bohémien a bere vino rosso – «nero come il vino dei terroni», dicono a San Francisco – a cenare nelle trattorie a poco prezzo del Quartiere latino e a sostenere a gran voce idee estremiste su tutti gli aspetti dell’esistenza. Spesso ho quasi la sicurezza di essere potenzialmente un radicale in tutto. Tuttavia ci sono tante questioni su cui ho dubbi e di fronte alla fragilità umana mi sorgono perplessità che mi impediscono di cogliere tutti gli aspetti del problema – e si tratta di problemi umani di grande importanza».

Mentre parlava a Martin salirono alle labbra le parole della Canzone dell’aliseo:

Sono fortissimo alla mezza,

Ma alla luce della luna

Gonfio il grembo alla vela.

Era quasi sul punto di canticchiare quelle parole; pensò che l’altro assomigliasse agli alisei, ai forti, freschi e costanti venti di nord-est. Era una persona equilibrata che ispirava fiducia, ma in un certo senso deludeva. Martin ebbe l’impressione che non dicesse mai interamente ciò che pensava, simile in questo agli alisei che davano spesso la sensazione di non dispiegare mai pienamente la loro forza quando soffiavano, ma di avere sempre riserve di potenzialità che non sarebbero mai state sfruttate. Martin esercitava con la massima intensità le proprie capacità visionarie. Il suo cervello era un magazzino di fatti e di fantasie di facile accesso, perfettamente ordinati e disposti. Tutto ciò che si verificava nella realtà rivelava per associazione antitesi o somiglianze, le quali generalmente assumevano la forma di visioni, in un processo automatico che accompagnava gli eventi concreti. Come il viso di Ruth in un momento di gelosia gli aveva fatto tornare alla mente una dimenticata tempesta scatenatasi alla luce lunare, e come il professor Caldwell gli faceva rivedere il vento del nord-est che spingeva i pennacchi bianchi delle onde su un mare violaceo, così, di volta in volta, accostamenti che lungi dall’essere sconcertanti nascevano dall’ansia del riconoscimento e della classificazione, evocavano nuove visioni che sfilavano davanti ai suoi occhi o venivano proiettate sullo schermo della sua coscienza. Queste immagini sorgevano dalle azioni e dalle sensazioni del passato, dai fatti e dalle impressioni di libri letti il giorno prima o qualche settimana fa – un’interminabile moltitudine di apparizioni che, nel sonno o durante la veglia, gli affollavano la mente.

E così, ascoltando le parole che fluivano facili e leggere dal professor Caldwell – la conversazione di un uomo colto e intelligente – Martin si rivide come era stato nel passato, quando era un bullo di periferia con cappello dalla tesa larga e rigida e giacca a doppio petto a taglio squadrato, e camminava con andatura di sfida dondolando le spalle, avendo come aspirazione suprema quella di fare il «duro» fino a dove i poliziotti lo permettevano. Non cercò di rimuovere questo ricordo o di trovare giustificazioni. In un certo periodo della sua vita era stato un duro di quartiere, capo di una banda che creava grattacapi alla polizia e terrorizzava i cittadini onesti e lavoratori. Ma i suoi ideali erano cambiati. Mentre osservava intorno a sé uomini e donne educati e ben vestiti, e respirava a pieni polmoni l’atmosfera di cultura e di raffinatezza che lo circondava, scorse quel fantasma della prima gioventù traversare la sala a larghi passi, con la sua tesa rigida e il taglio squadrato del vestito, l’aria di sfida e la faccia grintosa. E vide questa figura, questo teppista, arrivare fino al vero Martin, seduto a conversare con un professore di università, a lui sovrapporsi e in lui dissolversi.

Giacché, in fondo, non aveva mai trovato la sua vera collocazione. Si era adattato a tutti i luoghi in cui era capitato, ed era sempre piaciuto, perché sapeva il fatto suo nel lavoro come nello svago, era capace di far valere i propri diritti e incuteva rispetto. Ma non aveva mai messo radici. Si era adeguato a ogni circostanza in misura sufficiente a soddisfare chi gli stava vicino, ma non si era mai accontentato. Era sempre stato percorso da un senso di irrequietezza, aveva sempre sentito il richiamo di qualcosa che veniva da lontano e aveva continuato a viaggiare e a cercarlo fino a quando non aveva trovato i libri, l’arte e l’amore. Ed eccolo arrivato dove si trovava ora, il solo fra tutti i compagni di tante avventure che fosse riuscito a farsi accettare nella casa dei Morse.

Tuttavia quei pensieri e quelle visioni non gli impedivano di seguire attentamente i discorsi del professor Caldwell, indici di una cultura vasta e profonda che Martin accettava con interesse, ma non passivamente. Di tanto in tanto quella conversazione gli rivelava regioni e territori dello scibile che gli erano del tutto ignoti. Ciò nonostante, grazie alla lezione di Spencer, si accorgeva di possedere i presupposti di ogni conoscenza. Con il tempo avrebbe potuto scorgere le linee di quelle coste invisibili. E allora: «Terra in vista! Attenti alle secche!». Gli pareva di essere seduto ai piedi del cattedratico in un’attenzione tesa e reverente; ma ascoltando cominciò a scoprire una debolezza in quei giudizi – una debolezza così impalpabile e sfuggente che non se ne sarebbe neppure accorto se non fosse stata presente in ogni ragionamento. E quando infine capì di che cosa si trattava si sentì subito all’altezza del suo interlocutore.

Ruth arrivò accanto a loro proprio nel momento in cui Martin cominciava a parlare.

«Le dirò dove sbaglia, o meglio qual è il punto debole della sua posizione. Trascura l’aspetto biologico, che non ha alcuna parte nel sistema con cui lei spiega la realtà. Mi riferisco a un’interpretazione biologica delle cose che parta dalle fondamenta dell’esistenza – dal laboratorio, dalla provetta e dalla formazione della vita a partire dalla materia inorganica fino alle generalizzazioni più ampie di natura estetica e sociologica».

Ruth rimase sbigottita. Aveva seguito due corsi interi tenuti dal professor Caldwell e lo considerava il depositario di tutta la cultura universale.

«Non riesco a seguirla bene», disse Caldwell, perplesso.

Martin era sicurissimo di quello che gli aveva sentito dire.

«Cercherò di spiegarglielo», disse. «Ricordo di aver letto nella storia dell’Egitto l’affermazione secondo la quale non si poteva capire l’arte egizia senza prima avere studiato il paese».

«Giustissimo», disse il professore.

«E mi sembra», proseguì Martin, «che la conoscenza del paese, come di ogni altra questione, non si può avere se non si sa come vi è organizzata la vita e da che cosa è composta. Come possiamo comprendere leggi e istituzioni, religioni e costumi, senza avere un’idea non solo della natura degli esseri umani che li hanno creati, ma anche della materia di cui essi sono fatti? La letteratura ha forse un contenuto umano minore della scultura e dell’architettura egizie? C’è qualcosa nell’universo a noi noto che non sia soggetta alla legge dell’evoluzione? Oh, so che si è tracciato uno sviluppo delle diverse arti, ma mi sembra troppo meccanico. L’uomo ne è escluso. L’evoluzione degli utensili, dell’arpa, della musica, del canto e della danza è stata delineata in modo brillante; ma che si è fatto per descrivere l’evoluzione dell’essere umano stesso e lo sviluppo degli elementi fondamentali e intrinseci che erano in lui prima che costruisse il primo utensile o articolasse la prima nenia? Quella che io chiamo biologia è questo fattore, di cui lei non tiene conto. È la biologia nella sua accezione più ampia.

«So di avere fatto un’esposizione incoerente, ma ho cercato di dare un abbozzo dell’idea. Mi è balenata alla mente mentre lei parlava, ed è per questo che l’ho formulata in modo un po’ confuso. Lei stesso ha parlato della fragilità umana che impedisce a chi parla di prendere in considerazione tutti i fattori. In questo caso lei ignora – almeno così mi pare – il fattore biologico, proprio quello da cui sono nate tutte le arti, l’elemento determinante di tutte le azioni e di tutti i progressi dell’uomo».

Con grande sorpresa di Ruth, Martin non venne incenerito immediatamente dalla risposta del cattedratico, il quale invece reagì con un comportamento che le sembrò di grande indulgenza per la giovane età del suo oppositore. Il professor Caldwell rimase fermo e silenzioso per un buon minuto, durante il quale si limitò a giocherellare con la catena dell’orologio.

«Sa», disse infine, «che la stessa critica mi è già stata rivolta? Mi è stata fatta da un grand’uomo, Joseph Le Conte, uno scienziato evoluzionista. Ora è morto e pensavo di riuscire a scappare inosservato; e invece arriva lei e mi denuncia! Scherzi a parte, devo confessare in tutta serietà che forse c’è del vero nella sua affermazione – anzi ci sono elementi di grande interesse. Io ho un’impostazione troppo classica e non sono sufficientemente aggiornato nell’interpretare i vari settori della conoscenza scientifica: posso solo invocare a mia giustificazione il tipo di formazione che ho ricevuto e una certa indolenza che mi impedisce di addentrarmi in questa direzione. Mi crede se le dico che non sono mai stato in un laboratorio di fisica o di chimica? Proprio così. Le Conte aveva ragione, come lei signor Eden, almeno in una qualche misura che ancora non sono in grado di precisare».

Ruth si allontanò con Martin con un pretesto, e subito gli bisbigliò: «Non avresti dovuto monopolizzare in questo modo il professor Caldwell. Forse ci sono altri che vogliono conversare con lui».

«Ho sbagliato», ammise Martin con espressione contrita. «Ma ero riuscito a farlo parlare, e discuteva di argomenti così interessanti che non mi è venuto in mente. Sai che è l’uomo intellettualmente più brillante con cui abbia mai parlato? E ti dirò un’altra cosa. Una volta pensavo che tutti quelli che andavano all’università o che occupavano posti elevati in società fossero intelligenti e colti come lui».

«Lui è un’eccezione».

«Lo credo bene. Con chi vuoi che parli adesso? Ti prego, portami da quel tipo che fa il cassiere».

Martin conversò con lui per un quarto d’ora e Ruth non avrebbe potuto desiderare un comportamento migliore da parte del suo innamorato. Non una volta lo vide arrossire o lanciare occhiate infuocate; fu anzi sorpresa dalla calma e dall’equilibrio con cui discorreva. Tuttavia l’intera categoria dei bancari crollò nella stima di Martin, il quale per tutta la sera rimase sotto l’impressione che lavoro in banca e conversazione banale fossero intimamente legati. Trovò che l’ufficiale era un giovane semplice, sano e tranquillo, soddisfatto di avere raggiunto la posizione alla quale era arrivato grazie alla nascita e alla fortuna. Apprendendo che aveva completato il primo biennio di studi universitari, Martin si chiese dove fossero finite le cose che aveva imparato. Ciò nonostante preferiva ascoltare quell’uomo che i discorsi insulsi del bancario.

«Non ho nulla contro i luoghi comuni», disse più tardi a Ruth, «ma mi innervosisce il tono di presuntuosa superiorità e di magniloquenza con cui vengono detti, e la prolissità che li accompagna. Avrei potuto esporre a quel tale tutta la storia della Riforma nel tempo che ha impiegato e dirmi che il Partito laborista-unionista era confluito nei Democratici. Sceglie le parole con una lentezza che mi ricorda i giocatori di poker quando scoprono a poco a poco le carte che hanno in mano. Un giorno o l’altro ti dimostrerò quello che voglio dire».

«Peccato che non ti piaccia», rispose Ruth. «Il signor Butler ha una grande stima di lui. Dice che è onesto e fidato e che è come Pietro, sul quale si può costruire qualunque nuova banca».

«Non ne dubito, dal poco che ho visto e da quelle due o tre cose che gli ho sentito dire… Non mi sono fatto una grande opinione delle banche. Ti dispiace se ti parlo con franchezza, cara?».

«No, anzi mi interessa».

«Sì», proseguì Martin con sincerità, «non sono altro che un barbaro a contatto per la prima volta con la civiltà. E le mie impressioni forse suscitano la curiosità divertita delle persone istruite e civili».

«Che cosa pensi delle mie cugine?», chiese Ruth.

«Mi sono piaciute più delle altre donne. Sono ragazze spiritose e non si danno arie».

«Ma ti sono piaciute le altre donne?».

Martin scosse la testa.

«Quella specie di organizzatrice dei quartieri urbani ripete come un pappagallo le frasi fatte dei testi sociologici. Sono sicuro che se le aprissimo la testa non le troveremmo un solo pensiero originale. La pittrice di ritratti, poi, era noiosa come il mal di pancia! Sarebbe una moglie perfetta per il bancario. E quella musicista! Avrà una grande agilità delle dita, una tecnica perfetta e una grande espressività, ma non capisce niente di musica».

«Suona in modo straordinario», protestò Ruth.

«Sì, ha indubbiamente una grande competenza negli aspetti esteriori della musica, ma ne ignora l’intima essenza. Le ho chiesto che cosa significasse per lei (come sai questa è una cosa che mi interessa molto) e mi ha risposto che non lo sapeva, ma che l’adorava, che era la più grande di tutte le arti e che per lei era più che la vita stessa».

«Le hai spinte tu a parlare di lavoro», gli disse Ruth in tono accusatorio.

«Lo confesso. E se erano un disastro discorrendo della loro professione, chissà che cosa avrebbero detto su altri argomenti. Prima pensavo che in un ambiente come questo, in cui si hanno tutti i vantaggi della cultura…». Si arrestò per un istante, rivedendo la propria immagine con il cappello rigido e la giacca squadrata entrare dalla porta e attraversare la sala con passo tracotante. «Come dicevo, avevo sempre pensato che gli uomini e le donne del vostro ceto fossero colti, brillanti e intelligenti. Ma ora, da quel poco che ho potuto vedere, mi sembrano, nella maggioranza dei casi, un branco di nullità; e i rimanenti sono quasi tutti di una noia infinita. Solo il professor Caldwell è diverso. È un uomo di qualità superiore e ha un cervello straordinario».

Ruth si illuminò.

«Parlami di lui», disse impaziente. «Non degli aspetti più vistosi ed evidenti – conosco le sue doti – ma di quello che secondo te è negativo. Sono ansiosa di sentirlo».

«Forse mi metto in un brutto pasticcio». Martin finse scherzosamente di essere in imbarazzo. «Dimmi prima le tue opinioni. Magari tu vedi in lui solo quello che è bello».

«Ho seguito due corsi con lui e lo conosco da due anni; ecco perché muoio dalla voglia di conoscere qual è la tua prima impressione».

«Pensi che ne abbia una cattiva opinione? Ti dirò tutto. Ha ogni qualità che tu immagino gli attribuisci. Perlomeno è il miglior esemplare di intellettuale che io abbia conosciuto. Tuttavia ha una colpa inconfessata.

«Oh, no, no!», si affrettò ad aggiungere. «Nulla di meschino o di volgare. Voglio dire che mi dà l’impressione di essere andato al fondo delle cose e di esserne rimasto così terrorizzato che adesso cerca di convincersi di non avere visto nulla. Ma posso servirmi di una metafora più chiara. È un uomo che ha trovato la strada per giungere al tempio nascosto ma non l’ha seguita; forse ha scorto il tempio, ma in seguito si è sforzato di persuadere se stesso che era solo un’illusione ottica creata dalle foglie. Posso ricorrere a un’altra immagine. Non si è cimentato in cose in cui sarebbe potuto riuscire perché aveva attribuito loro scarso valore, e adesso se ne è pentito; e dopo essersi burlato delle soddisfazioni che ne avrebbe tratte si rammarica di avervi rinunciato».

«Io non lo vedo in questo modo», disse lei. «Fra l’altro non capisco che cosa tu voglia dire esattamente».

«Ho solo questa vaga sensazione», precisò Martin. «Non sono in grado di provarlo. È solo un’impressione, probabilmente sbagliata. Certamente tu lo conosci meglio di me».

Da quella serata in casa di Ruth Martin ricavò sentimenti confusi e contrastanti. Era rimasto deluso nelle sue aspettative delle persone che desiderava conoscere, ma contemporaneamente aveva riportato un successo incoraggiante. L’ascesa sociale era stata più facile di quanto non credesse. Aveva le qualità per emergere e inoltre (lo ammise senza falsa modestia) aveva doti superiori a quelle di coloro che aveva trovato in quella cerchia così elevata, con la sola eccezione, naturalmente, del professor Caldwell. Aveva un’esperienza della vita e dei libri migliore della loro e si chiedeva in quali fessure della loro personalità avessero smarrito l’istruzione che avevano ricevuto. Non sapeva però che quel paragone era assurdo, perché se da una parte egli aveva un vigore intellettuale raro, di cui non era ancora pienamente consapevole, dall’altra coloro che si dedicavano a sondare gli abissi dell’esistenza e a produrre pensieri profondi non frequentavano i salotti come quello dei Morse. Non si era reso conto che queste persone erano creature solitarie come le aquile che veleggiavano nell’alto dei cieli, molto al di sopra della terra e dei suoi formicai di vita associata.

XXVIII

Ma il successo aveva smarrito l’indirizzo di Martin e i suoi messaggeri non arrivavano più. Per venticinque giorni, comprese le domeniche e le giornate festive, lavorò senza sosta a La vergogna del sole, un lungo saggio di circa trentamila parole. Era un esplicito attacco al misticismo della scuola di Maeterlinck, diretto contro gli adoratori dei sogni dalla cittadella della scienza positiva, non privo per altro di una certa bellezza trasognata compatibile con la concretezza dei fatti accertati. Un po’ più tardi diede un seguito a questa offensiva con due scritti brevi, Gli adoratori dei sogni e La misura dell’io. E su questi saggi, lunghi e brevi, cominciò a pagare le spese di viaggio da una rivista all’altra.

Durante quei venticinque giorni vendette alcune composizioni commerciali per un compenso complessivo di sei dollari e cinquanta centesimi. Una storiella buffa gli aveva fruttato cinquanta centesimi e una seconda, indirizzata a un settimanale umoristico di grande prestigio, gli aveva portato un dollaro. Poi due poesie comiche gli avevano fatto guadagnare rispettivamente due e tre dollari. In conseguenza di ciò, avendo raggiunto il tetto massimo del credito presso i diversi negozianti (sebbene quello del droghiere fosse stato aumentato a cinque dollari), fu costretto a far rifare alla bicicletta e al vestito la strada del banco di pegni. Quelli della macchina per scrivere ripresero a sollecitare il pagamento e a far notare che il contratto di noleggio prevedeva versamenti anticipati.

Incoraggiato dalla buona accoglienza fatta ai suoi scritti minori, Martin ricominciò a dedicarsi alle opere di carattere commerciale. Forse poteva guadagnarsi da vivere in quel modo, dopo tutto. Ammucchiate sotto il tavolo c’erano ancora le venti novelle respinte dall’agenzia che forniva questo tipo di materiale ai giornali. Le rilesse per capire come non avrebbe dovuto scriverle e in tal modo riuscì ad elaborare una formula perfetta. Scoprì che la novella destinata ai quotidiani non doveva mai essere tragica, non doveva mai avere una conclusione infelice e non doveva mai contenere raffinatezze linguistiche, sottigliezze concettuali e autentica delicatezza di affetti. Doveva però avere, in grande quantità, sentimenti puri e nobili come quelli che, quando era giovanissimo, suscitavano uragani di applausi dal loggione – del tipo «Per Dio, per la Patria e per lo Zar» e «Sono povero ma onesto».

Prese queste precauzioni, Martin consultò una rubrica intitolata «The Duchess» per acquisire il tono giusto e cominciò a rimescolare i vari elementi seguendo la formula. Questa era costituita da tre parti: (1) due innamorati vengono separati; (2) si ritrovano grazie a un qualche evento; (3) rintocchi di campane per le nozze. Mentre la terza parte aveva caratteristiche fisse, la prima e la seconda consentivano un numero infinito di variazioni. Per esempio gli innamorati potevano essere separati per un equivoco, per una fatalità, per opera di rivali gelosi, per l’intervento di genitori severi, per l’astuzia dei loro tutori, per la malizia di parenti interessati eccetera; potevano ritrovarsi grazie al coraggio dell’uomo, al coraggio della donna, alla resipiscenza dell’uno o dell’altra, alla forzata confessione del tutore astuto, del parente maligno, del rivale geloso, alla confessione spontanea da parte degli stessi, alla scoperta di qualche inatteso segreto, all’appassionata perorazione dell’innamorato, al suo nobile sacrificio eccetera eccetera. Un trucco di grande efficacia era far sì che fosse la ragazza a proporre all’amato di sposarsi durante la scena del ritrovamento, e a poco a poco Martin scoprì altri stratagemmi scaltri e avvincenti. La scena finale con le campane nuziali era invece l’unica nella quale non erano consentite licenze: dovevano inevitabilmente squillare qualunque cosa avvenisse. La formula prescriveva infine una lunghezza minima di milleduecento parole e una massima di millecinquecento.

Prima di passare alla fase esecutiva, Martin elaborò una mezza dozzina di schemi di base che consultava sempre prima della composizione di una novella. Si trattava di tabelle simili ai prontuari usati dai matematici che potevano essere consultati dall’alto, dal basso, da destra e da sinistra ed erano costituite da serie orizzontali e verticali da cui si potevano trarre immediatamente migliaia di conclusioni diverse, tutte assolutamente esatte. In mezz’ora di lavoro con le tabelle Martin poteva quindi impostare una dozzina di queste novelle, che potevano poi essere messe da parte e completate con comodo. Scoprì che in questo modo poteva portare a termine una novella alla fine di una giornata di lavoro serio e impegnato in circa un’ora, prima di coricarsi. Come in seguito confessò a Ruth, era quasi in grado di farlo durante il sonno, perché il lavoro vero e proprio era costituito dalla elaborazione degli schemi; il resto era meccanico.

Non aveva alcun dubbio sull’efficacia di questa formula e una volta tanto capì di aver visto giusto nel mondo editoriale quando ebbe la certezza che le prime due che mandò sarebbero state accettate. Ed effettivamente, nel giro di dodici giorni, gli arrivarono due assegni, ciascuno dell’importo di quattro dollari.

Nel frattempo faceva nuove e allarmanti scoperte sulle riviste. Nonostante la pubblicazione sul «Transcontinental», l’assegno relativo al Suono delle campane non arrivava. Martin ne aveva bisogno e spedì un sollecito. Ricevette solo una lettera evasiva con l’invito a mandare altri lavori. In attesa di questo pagamento aveva saltato i pasti per due giorni fino a che non fu costretto ad impegnare nuovamente la bicicletta. Cominciò a scrivere regolarmente al «Transcontinental» due volte la settimana perché gli fossero mandati i suoi cinque dollari, ma solo di tanto in tanto gli arrivava qualche biglietto di risposta. Non sapeva che quella rivista, che conduceva da anni un’esistenza precaria, era una pubblicazione di quarto o di decimo ordine, priva di prestigio, con una diffusione incerta ottenuta in parte con richieste insistenti e fastidiose e in parte con appelli patetici, e con inserzioni pubblicitarie concesse in pratica a titolo di beneficenza. Ignorava anche che il «Transcontinental» era la sola fonte di sostentamento del responsabile editoriale e del direttore amministrativo, i quali riuscivano a sopravvivere cambiando continuamente sede per evitare di pagare l’affitto e saldando solo i conti a cui era impossibile sfuggire. Non avrebbe mai immaginato che i cinque dollari che gli spettavano erano stati presi dal direttore amministrativo per le spese di verniciatura della propria casa di Alameda, operazione eseguita da lui stesso in alcune sedute pomeridiane al termine del lavoro, perché non poteva permettersi di pagare i compensi minimi sindacali, e l’operaio che aveva assunto, un imbianchino che aveva accettato un salario inferiore a quello ufficiale, era caduto dalla scala procurandosi una frattura alla clavicola.

Non gli vennero pagati neppure i dieci dollari che gli spettavano per la vendita dei Cercatori del tesoro a un giornale di Chicago. L’articolo era stato pubblicato, come aveva accertato consultando lo schedario della biblioteca, senza esserne neppure informato dal direttore. Le sue lettere rimasero inevase. Per avere la certezza che erano state ricevute, inviò diverse raccomandate. Concluse che era stato vittima di un vero e proprio furto, di un ladrocinio commesso a sangue freddo: mentre lui soffriva la fame, gli veniva rubata la merce di cui disponeva, la cui vendita era il solo modo che aveva per guadagnarsi il pane quotidiano.

Il settimanale «Youth and Age» aveva pubblicato i due terzi del suo racconto a puntate di ventunomila parole quando cessò le pubblicazioni. Svanirono in tal modo le speranze di guadagnare i sedici dollari promessi.

A colmare la misura Il vaso, che considerava una delle cose migliori che avesse scritto, divenne inutilizzabile. Nella ricerca disperata di una rivista disposta ad accettarlo l’aveva mandato a «The Billow», un settimanale mondano di San Francisco. Il motivo principale che l’aveva spinto ad offrirlo a questo periodico era che avrebbe conosciuto subito l’esito della sua richiesta data la vicinanza della città con Oakland. Due settimane più tardi vide con grande gioia che l’ultimo numero, in vendita nelle edicole, conteneva il testo integrale del racconto, che era accompagnato da illustrazioni e collocato al posto d’onore. Tornò a casa con il cuore che gli batteva a mille e con l’ansia di sapere quanto gli avrebbero dato per una delle opere migliori che avesse mai scritto. La rapidità con cui era stato accettato e pubblicato era un ulteriore motivo di compiacimento. Il fatto che il direttore non l’avesse informato dell’accettazione aumentava la sorpresa. Dopo aver atteso per una settimana, per due settimane, per due settimane e mezzo, la disperazione ebbe la meglio dell’imbarazzo e scrisse al direttore di «The Billow» per comunicargli che l’ufficio amministrativo, probabilmente a causa di una svista, non aveva ancora provveduto a saldare le sue competenze.

Anche se non sono che cinque dollari, pensava Martin, mi permetteranno di comprare fagioli e zuppa di piselli in quantità tale da darmi la possibilità di scrivere cinque o sei racconti, magari altrettanto belli.

Immediata fu la replica del direttore, che Martin non poté fare a meno di ammirare.

«La ringraziamo», diceva, «del suo splendido contributo. Tutti i membri della redazione ne sono rimasti molto impressionati e, come ha visto, abbiamo deciso di pubblicarlo immediatamente al posto d’onore della rivista. Ci auguriamo di cuore che le illustrazioni siano state di suo gradimento.

«Nel rileggere la lettera ci è parso di capire che lei sia caduto nell’equivoco di ritenere che abbiamo l’abitudine di pagare i manoscritti non esplicitamente commissionati. Eravamo convinti, ricevendo il suo racconto, che questa prassi le fosse nota. Non possiamo che esprimere il nostro vivo rincrescimento per questo deprecabile malinteso e le confermiamo i sensi della nostra profonda stima. Ringraziandola ancora una volta per la sua cortese collaborazione e nella speranza di ricevere altri scritti in futuro, le inviamo ecc. ecc.».

C’era anche un poscritto nel quale si precisava che benché «The Billow» non fosse di regola inviato in omaggio, erano lieti di concedergli un abbonamento gratuito alla rivista per l’anno seguente.

Dopo quell’esperienza Martin scrisse a macchina in testa ad ogni manoscritto: «Per la pubblicazione secondo le vostre tariffe consuete».

Si consolò al pensiero che un giorno o l’altro quelle opere sarebbero state fornite alle condizioni da lui stabilite.

Gli era venuta in questo periodo la passione del perfezionismo, che lo spinse a riscrivere e a ritoccare La strada della lotta, Il vino della vita, Gioia, le Liriche del mare e altre opere giovanili. Come sempre, diciannove ore di lavoro giornaliero erano appena sufficienti a soddisfarlo. Scriveva a un ritmo prodigioso e leggeva a un ritmo altrettanto prodigioso, dimenticando nella frenesia di quell’attività le pene causategli dalla rinuncia al tabacco. Il prodotto che Ruth gli aveva fornito per combattere il vizio del fumo era stato accantonato, con la sua vistosa etichetta, nell’angolo più inaccessibile della credenza. Specialmente durante i lunghi periodi di fame soffrì per la mancanza di sigarette; e per quanto cercasse di reprimerla, la voglia era più intensa che mai. Considerava quello sforzo come il più arduo che avesse sostenuto, ma per Ruth non faceva altro che il suo dovere. Gli aveva portato il prodotto che gli avrebbe tolto il desiderio di fumare, comprato con i propri soldi, e dopo pochi giorni se ne dimenticò del tutto.

Le disprezzate e derise novelle che confezionava in serie ebbero però successo. Grazie a loro poté riscattare tutti gli oggetti portati al banco dei pegni, pagare buona parte dei conti e comprare pneumatici nuovi per la bicicletta. Con quei soldi poteva almeno mangiare e avere il tempo per dedicarsi alle opere più ambiziose; ma ciò che veramente lo confortava era l’assegno di quaranta dollari del «White Mouse». Con quel precedente confidava che le riviste più prestigiose facessero a uno scrittore sconosciuto come lui condizioni uguali, se non superiori. Il difficile era riuscire a entrare in queste riviste. Le sue cose migliori nel campo del racconto, del saggio e della poesia peregrinavano invano da una redazione all’altra, anche se ogni mese gli capitava di leggere, fra ciò che si pubblicava, pagine e pagine piatte, grigie e monotone. Se qualche direttore si fosse degnato almeno una volta di scendere dall’alto trono della sua superiorità, pensava Martin, per spedirmi una riga di incoraggiamento! Per quanto le mie opere siano insolite, per quanto non sia consigliabile, per motivi di prudenza, stamparle in quei periodici, non potevano non avere, a momenti, sprazzi di luce che non potessero essere notati. Spinto da queste riflessioni riprendeva in mano qualcuno dei suoi manoscritti, come Avventura, e lo rileggeva più volte nel vano tentativo di trovare una spiegazione a quel silenzio.

All’arrivo della dolce primavera californiana, il suo periodo di abbondanza giunse alla fine. Era preoccupato perché da parecchie settimane non aveva notizie dell’agenzia che forniva le novelle ai giornali. Quindi, un giorno, si vide restituire, attraverso la posta, dieci di quelle composizioni, accompagnate da una breve lettera nella quale si precisava che, a causa di un accumulo di materiale, l’organizzazione non avrebbe accettato nuovi manoscritti prima di qualche mese. Contando su quei dieci raccontini Martin aveva persino fatto qualche spesa straordinaria: negli ultimi tempi infatti l’agenzia gli aveva pagato cinque dollari per ciascuna opera e gliele aveva accettate tutte. Egli aveva dunque considerato quei dieci come già venduti e si era comportato come se avesse già in tasca cinquanta dollari. E invece all’improvviso era arrivata la crisi, durante la quale continuò a vendere i suoi primi scritti a pubblicazioni che li stampavano ma non pagavano, e a sottomettere le opere più mature a riviste che non erano disposte ad accettarle. Riprese anche i viaggi a Oakland fino al banco dei pegni. Alcune storielle e qualche poesia comica, finite in settimanali di New York, gli consentirono di tirare avanti in qualche modo. In questo stesso periodo apprese dai grandi periodici mensili e trimestrali, cui si era rivolto per informazioni, che raramente prendevano in considerazione il materiale non sollecitato; inoltre ciò che pubblicavano era per lo più scritto su commissione da specialisti che erano autorità nelle loro discipline.

XXIX

Fu un’estate difficile per Martin. I direttori editoriali e i lettori di manoscritti erano in ferie e le riviste, che di solito facevano avere una risposta nel giro di tre settimane, non diedero segni di vita per almeno tre mesi. L’aspetto positivo di questa stasi fu che poté risparmiare qualcosa sulle spese postali. Solo le pubblicazioni-pirata sembravano essere rimaste attive e a loro Martin indirizzò i suoi primi tentativi letterari quali I pescatori di perle, La carriera nella marina mercantile, La pesca delle tartarughe e I venti del nord-est. Per queste collaborazioni non ricevette mai un soldo. Riuscì però, grazie a un carteggio prolungatosi per sei mesi, ad arrivare a un compromesso, grazie al quale ricevette un rasoio di sicurezza come compenso della Pesca della tartarughe, mentre «The Acropolis», che aveva accettato di pagargli cinque dollari in contanti e il resto sotto forma di cinque abbonamenti annuali alla rivista, rispettò soltanto la seconda parte dell’accordo.

Per un sonetto su Stevenson ottenne due dollari da un editore di Boston che dirigeva una rivista nello stile di Matthew Arnold ma con scarsissimi mezzi. La peri e la perla, un’abile parodia poetica di duecento versi, appena terminata, incontrò subito il favore del direttore di un periodico di San Francisco che sosteneva gli interessi di una grande compagnia ferroviaria. Alla lettera di questi, che gli offriva in pagamento biglietti gratuiti sui treni della società, Martin rispose per chiedergli se potevano essere ceduti a terzi. Poiché tale cessione era impossibile, Martin chiese la restituzione della poesia, che gli fu rimandata con il rincrescimento del direttore. Fu immediatamente rispedita a un’altra rivista di San Francisco, «The Hornet», un pretenzioso mensile che era stato lanciato nell’orbita dei periodici di prima grandezza dal brillante giornalista che l’aveva fondato. Purtroppo tanta luce aveva cominciato ad affievolirsi molto tempo primo della nascita di Martin. Il direttore gli promise quindici dollari per la poesia, ma dopo che essa fu pubblicata parve dimenticarsene. Dopo che parecchi solleciti erano stati ignorati, Martin gli scrisse una lettera fortemente risentita, e finalmente ebbe una risposta; era firmata dal nuovo responsabile editoriale, il quale lo informava freddamente di non ritenersi responsabile degli errori del suo predecessore, e di non avere comunque una grande opinione di La peri e la perla.

Fu però «The Globe», una rivista di Chicago, quella che riservò a Martin il trattamento più crudele. Aveva evitato di offrire per la pubblicazione le Liriche del mare finché non vi fu costretto dalla fame. Dopo essere state rifiutate da una dozzina di riviste esse erano finite nella redazione del «Globe». La raccolta era composta da trenta liriche, che sarebbero state pagate un dollaro l’una. Il primo mese ne furono stampate quattro e gli fu regolarmente recapitato un assegno di quattro dollari; ma dando loro una scorsa si accorse con terrore che erano state massacrate. In alcuni casi erano stati modificati i titoli: per esempio Fine era diventato La finitura e Il canto della barriera lontana era stato trasformato in Il canto della barriera corallina. Un titolo era stato rimpiazzato da un altro del tutto diverso e senza alcun rapporto con la poesia in questione: Le luci della medusa era stato infatti cambiato in La via del ritorno. Ma lo scempio era soprattutto grave nel testo delle composizioni. Leggendole, Martin fu preso da un profondo sconforto: soffriva, gemeva e si metteva le mani nei capelli. Frasi, versi e strofe intere erano stati sostituiti. Non poteva credere che un direttore nel pieno possesso delle sue facoltà mentali potesse essersi reso personalmente colpevole di azioni così criminali: l’ipotesi più credibile era che le sue liriche fossero state affidate per tale operazione a un fattorino o a uno stenografo. Martin scrisse immediatamente al direttore, pregandolo di cessare la pubblicazione dei suoi versi, di cui chiese la restituzione. Inviò diverse lettere, umili, supplichevoli, minacciose, ma non ricevette risposta. Ogni mese il massacro continuava finché le trenta poesie non furono tutte pubblicate, e ogni mese gli perveniva un assegno relativo a quelle comparse nel numero corrente.

Nonostante le varie disavventure, il ricordo dei quaranta dollari del «White Mouse» lo incoraggiava a continuare, anche se fu costretto sempre più a comporre scritti di carattere commerciale. Scoprì un filone redditizio nei settimanali per gli agricoltori e nelle riviste di categoria, anche se scoprì che con i periodici religiosi sarebbe morto di fame. In un momento di crisi nera, con il vestito buono al banco dei pegni, ebbe un colpo di fortuna – o almeno così gli parve – in un concorso a premi indetto dal comitato provinciale del Partito repubblicano. Era diviso in tre sezioni, ed egli partecipò a tutte e tre, ridendo amaramente di essersi ridotto a tali espedienti per vivere. La sua poesia vinse un primo premio di dieci dollari, il testo della canzone per la campagna elettorale un secondo premio di cinque dollari e il saggio sui principi del Partito un primo premio di venticinque dollari. Ne fu molto soddisfatto, ma le cose cambiarono quando si trattò di incassare. Qualcosa era andato storto nel comitato provinciale e il denaro non arrivava, benché fra i membri vi fossero un senatore dello stato e un ricco banchiere. Mentre la questione era ancora in sospeso dimostrò la sua affinità con i principi del Partito democratico vincendo il primo premio per un saggio in una competizione analoga. Ricevette anche il compenso relativo di venticinque dollari, ma non ebbe mai i quaranta del primo concorso.

Costretto a ricorrere ad espedienti per vedere Ruth e avendo deciso che la lunga camminata da North Oakland alla casa della ragazza e ritorno gli facevano perdere troppo tempo, lasciò in pegno l’abito scuro al posto della bicicletta. Quest’ultima gli consentiva di fare del moto, gli faceva risparmiare ore preziose per il suo lavoro e gli permetteva ugualmente di vedere Ruth. Un paio di calzoni alla zuava e un vecchio maglione erano un accettabile costume da ciclista e questo gli dava la possibilità di fare con Ruth passeggiate pomeridiane in bicicletta. Inoltre non aveva più molte occasioni per incontrarla a casa sua, perché la signora Morse continuava la sua intensa campagna di ricevimenti. Le creature sublimi che vi aveva conosciute, e che solo poco tempo prima aveva vagheggiato, ora lo annoiavano. Avevano perso la loro superiorità. Le difficoltà di quel periodo, le delusioni e l’intensa applicazione nel lavoro lo avevano reso nervoso e irritabile e la conversazione di quegli individui lo esasperava. Non era eccessivamente egocentrico, ma non poteva evitare di confrontare la grettezza dei loro cervelli con la statura intellettuale degli autori dei libri che leggeva. A casa di Ruth non aveva mai conosciuto menti elevate, con l’eccezione del professor Caldwell, che però non aveva più rivisto. Quanto agli altri, erano limitati, insipienti, superficiali, dogmatici e ignoranti. Era soprattutto la loro ignoranza che lo sbalordiva. Che cosa era successo a quella gente? Che ne avevano fatto dell’istruzione ricevuta? Avevano avuto accesso agli stessi libri cui si era accostato lui. Come mai non avevano saputo trarne nulla?

Eppure sapeva che esistevano persone di grande intelligenza e di eccelso pensiero. Ne aveva avuto la prova dalle letture, letture che gli avevano dato una cultura molto più profonda di quella dei Morse. E sapeva anche che al mondo c’erano intelletti più alti di quelli che si incontravano in quella casa. Leggeva romanzi sulla società inglese in cui si trovavano uomini e donne in grado di conversare di politica e di filosofia. Leggeva di salotti delle grandi città, persino negli Stati Uniti, in cui si radunavano artisti e intellettuali. Aveva scioccamente creduto, in passato, che tutte le persone ben vestite di ceto superiore a quello operaio avessero cervello fine e sensibilità alla bellezza. Istruzione e classe sociale erano state per lui strettamente collegate ed era stato erroneamente indotto a credere che avere ricevuto una cultura all’università significasse averla fatta propria.

Avrebbe continuato ad elevarsi e sarebbe salito al di sopra di quel mondo. E in questa ascesa avrebbe trascinato con sé Ruth. L’amava intensamente ed era certo che lei avrebbe brillato dovunque. Come in precedenza si era accorto di avere incontrato grossi ostacoli nel proprio ambiente familiare, così ora capiva che anche lei era stata danneggiata dal suo. Non aveva avuto la possibilità di crescere intellettualmente. I libri nella biblioteca del padre, i quadri alle pareti, gli spartiti sul pianoforte erano un’ipocrita esibizione. Per la vera letteratura, la vera pittura, la vera musica, i Morse e quelli della loro specie erano morti. E più grande di queste arti era la vita stessa, di cui avevano un’ignoranza assoluta e irreparabile. Nonostante le tendenze unitarie e la maschera di conservatorismo illuminato, erano in ritardo di cinquant’anni nella scienza interpretativa: i loro processi mentali erano medievali e le loro idee sulle realtà ultime della vita e dell’universo lo avevano colpito perché impregnate dello stesso spirito metafisico che si trova nelle razze umane più ingenue e primitive come nella mente arcaica dell’uomo delle caverne – lo stesso che spinse il primo uomo-scimmia pleistocenico ad aver paura del buio; che spinse il primo frettoloso selvaggio ebreo a concepire la nascita di Eva dalla costola di Adamo; che spinse Cartesio a costruire un sistema idealistico dell’universo dalle proiezioni del proprio minuscolo io; e che spinse il famoso ecclesiastico britannico ad attaccare l’evoluzionismo in una satira così velenosa che gli conquistò un facile applauso, ma pose sul suo nome una macchia infamante nelle pagine della storia.

Così pensava Martin, e proseguendo nelle riflessioni gli venne in mente che la differenza fra quegli avvocati, ufficiali, uomini d’affari e impiegati di banca e i membri della classe operaia che aveva conosciuto stava solo nei cibi che mangiavano, negli abiti che indossavano e nei quartieri in cui vivevano. Certamente agli uni e agli altri mancava quel qualcosa in più che lui aveva trovato in se stesso e nei libri. I Morse gli avevano mostrato il meglio che quella cerchia sociale era in grado di produrre, e non ne era rimasto impressionato. Per quanto poverissimo, per quanto schiavo dello strozzino, sapeva di essere superiore a coloro che incontrava in quella casa; e quando l’unico abito buono non era impegnato si muoveva fra loro con l’incedere del vero signore, fremendo della stessa indignazione che proverebbe un principe costretto a vivere gomito a gomito con mandriani di capre.

«Lei odia e teme i socialisti», disse una sera al signor Morse durante la cena; «ma perché? Non sa nulla né di loro né delle dottrine che professano».

La conversazione aveva preso quella piega a causa della signora Morse, che si era lanciata in lodi sperticate del signor Hapgood. Il bancario era la bestia nera di Martin, i cui nervi venivano sempre messi alla prova quando si parlava di quella fucina di banalità.

«Sì», aveva detto, «Charley Hapgood è ciò che si dice un giovane emergente – così mi è stato detto. Ed è vero. Arriverà alla poltrona di Governatore prima di morire, e magari, perché no?, anche al Senato degli Stati Uniti».

«Che cosa glielo fa pensare?», aveva chiesto la signora Morse.

«L’ho sentito in un discorso elettorale. Diceva con tale abilità sciocchezze e luoghi comuni, ed era così convincente che i leader del partito non potranno che considerarlo un uomo sicuro e fidato, mentre le sue banalità sono così affini a quelle dell’elettore medio che… oh, si sa che chiunque è grato a chi gli presenta i suoi pensieri in forma gradevole e rivestiti di belle parole».

«Credo davvero che tu sia geloso del signor Hapgood», aveva cinguettato Ruth.

«Per carità!».

Lo sguardo inorridito sul viso di Martin aveva suscitato l’aggressività della signora Morse.

«Non vorrà dirmi che il signor Hapgood è uno stupido?», chiese in tono gelido.

«Non più del repubblicano medio», ribatté lui, «o del democratico medio, d’altronde. Sono tutti stupidi quando non sono scaltri, e pochi lo sono. I soli repubblicani saggi sono i milionari e quelli che consapevolmente li sostengono. Sanno da che parte sta il loro interesse e sono quindi coscienti delle scelte che hanno fatto».

«Io sono un repubblicano», disse il signor Morse in tono scherzoso. «Di grazia, come mi definirebbe?».

«Oh, lei è un naturale sostenitore del partito».

«Un sostenitore naturale?».

«Sì. Lei lavora con le imprese. Il suo reddito non è legato a uomini che maltrattano le mogli o a borseggiatori. Lei si guadagna da vivere con i padroni di questa società, e chiunque ci dia da mangiare diventa il nostro padrone. Sì, lei è un loro sostenitore naturale. Lei è interessato a promuovere gli interessi dei gruppi finanziari dei quali è al servizio».

Il volto del signor Morse era leggermente arrossito.

«Le confesso, signore, che lei parla come un gaglioffo socialista».

Fu allora che Martin fece quell’osservazione:

«Lei odia e teme i socialisti; ma perché? Non sa nulla né di loro né delle dottrine che professano».

«Le sue idee sembrano proprio socialiste», rispose il signor Morse, mentre Ruth lanciava occhiate ansiose ora all’uno ora all’altro e la signora Morse era raggiante per l’occasione che le si offriva di suscitare l’ostilità del suo signore e padrone.

«Dire che i repubblicani sono stupidi e sostenere che libertà, uguaglianza e fraternità sono miti privi di consistenza non fa di me un socialista», disse Martin con un sorriso. «Contestare Jefferson e gli utopisti francesi che ne hanno formato la mente non fa di me un socialista. Mi creda, signor Morse, lei è molto più vicino al socialismo di me, che ne sono nemico dichiarato».

«Ora lei si compiace di scherzare», fu tutto ciò che l’altro riuscì a dire.

«Niente affatto. Parlo molto seriamente. Lei crede nell’uguaglianza, e tuttavia lavora per le imprese, le quali ogni giorno non fanno altro che operare per seppellirla. Eppure lei mi definisce socialista perché nego l’uguaglianza e perché affermo proprio ciò che lei fa nella pratica. I repubblicani sono nemici dell’uguaglianza, anche se la maggioranza di loro combatte contro di essa servendosi di questa parola come slogan. Essi distruggono l’uguaglianza in nome dell’uguaglianza. Ecco perché ho detto che sono stupidi. Quanto a me sono un individualista. Credo che nella corsa vincano i più veloci e nella battaglia i più forti. Questa è la lezione che ho imparato dalla biologia, o che almeno credo di avere imparato. Come dicevo sono un individualista e l’individualismo è il nemico tradizionale ed eterno del socialismo».

«Ma lei frequenta le riunioni socialiste», obiettò il signor Morse.

«Certo, come una spia che osserva il campo avverso. Come si possono altrimenti seguire i movimenti del nemico? Inoltre in queste assemblee mi trovo bene. Che abbiano ragione o torto, sono splendidi combattenti e hanno letto i libri giusti. Ognuno di loro conosce la sociologia e tutte le altre scienze umane molto più di un normale capitano d’industria. Sì, sono stato a cinque o a sei delle loro riunioni, ma ciò non fa di me un socialista più di quanto l’aver ascoltato i comizi di Charley Hapgood abbia fatto di me un repubblicano».

«Non posso impedirmi di credere», disse il signor Morse debolmente, «che lei penda da quella parte».

Accidenti, pensò Martin, non ha capito nulla di quello che ho detto. Non ha compreso una parola. Dove sarà finita tutta l’istruzione che ha ricevuto?

E così, nel corso del suo sviluppo, Martin si trovò a faccia a faccia con la morale economica, ossia con quella di classe; e ben presto questa divenne per lui un mostro raccapricciante. Personalmente era un moralista intellettuale, e per lui più offensiva della pomposità dei luoghi comuni era la morale di quelli che lo circondavano, una morale che era un curioso pasticcio di economia, metafisica, sentimentalismo e spirito di emulazione.

In un ambiente più vicino al suo scoprì un saggio di questo strano e confuso pasticcio. Sua sorella Marian usciva con un giovane e industrioso meccanico di origine tedesca, il quale, dopo avere imparato bene il mestiere, aveva aperto una propria officina di riparazioni per i ciclisti. Aveva anche raggiunto una certa prosperità grazie alla rappresentanza di una marca minore di biciclette. La sorella era venuta a trovare Martin poco tempo prima per annunciargli il fidanzamento, e soffermandosi per qualche minuto gli aveva scherzosamente esaminato la mano per predirgli la fortuna. La volta successiva aveva portato con sé Hermann von Schmidt. Martin li accolse con tutti gli onori e si congratulò con loro in termini così semplici e cortesi da colpire sfavorevolmente la rozza mentalità del giovanotto. Questa cattiva impressione fu accentuata dalla lettura ad alta voce da parte di Martin della poesia con cui aveva commemorato la precedente visita di Marian. Erano versi di società, leggeri e delicati, cui egli aveva dato il titolo di La chiromante. Fu sorpreso, quando ebbe finito la lettura, di notare che sul viso della sorella non c’era alcuna espressione di piacere. I suoi occhi erano invece fissi ansiosamente sul fidanzato e Martin, seguendo quello sguardo, vide sulle fattezze irregolari del degno giovane solo una forte e profonda disapprovazione. Superato l’incidente i due presero rapidamente congedo e Martin si dimenticò dell’episodio, quantunque in quel momento fosse rimasto sorpreso che una donna, sia pure di ceto operaio, non fosse stata felice e lusingata dal fatto che su di lei era stata scritta una poesia.

Diverse sere dopo Marian tornò a trovare il fratello, questa volta da sola. Non perse tempo in preamboli e arrivò subito al punto, rimproverandolo con parole dolenti per quello che aveva fatto.

«Ma… cara», protestò lui, «parli come se ti vergognassi dei tuoi parenti, o almeno di tuo fratello».

«È proprio così», sbottò lei.

Martin fu sbalordito dalle lacrime di mortificazione che le vide negli occhi. Qualunque ne fosse la causa, era un dispiacere sincero.

«Marian, perché Hermann dovrebbe essere geloso del fatto che ho scritto una poesia su mia sorella?».

«Non è geloso», rispose fra i sighiozzi. «Dice che era una cosa indecente… oscena».

Martin emise un fischio di incredulità lungo e basso, e procedette a recuperare la copia in carta carbone della Chiromante per rileggerla.

«Non capisco», disse infine porgendole il manoscritto. «Leggila anche tu e indicami i punti in cui ti sembra oscena – è questa la parola che hai usato, non è vero?».

«Così ha detto lui, e se lo ha detto lui…», rispose Marian allontanando con un gesto il foglio, cui lanciò uno sguardo inorridito. «Dice che lo devi strappare. Dice che non vuole che su sua moglie ci siano delle cose scritte che tutti possono leggere. Dice che è una vergogna e che lui non vuole questa cosa qui».

«Ascolta, Marian, queste sono sciocchezze», cominciò Martin, ma improvvisamente si fermò. Davanti a lui c’era una ragazza infelice e vista l’inutilità di convincere lei o il marito, decise di cedere, anche se quella situazione era ridicola e assurda.

«Bene», esclamò, lacerando il manoscritto in diversi pezzi e gettandolo nel cestino. Era rassicurato dalla certezza che in quel momento il dattiloscritto originale si trovava nella redazione di una rivista di New York. Marian e il marito non l’avrebbero mai saputo e nessuno avrebbe subìto alcun danno da un’eventuale pubblicazione di quella graziosa e innocente lirica.

Marian allungò la mano verso il cestino ma si arrestò.

«Posso?», chiese umilmente.

Lui annuì, osservandola pensosamente mentre raccoglieva i frammenti del manoscritto e se li ficcava nella tasca della giacca – prova palpabile del successo della missione. Gli ricordava Lizzie Connolly, benché la sorella possedesse meno ardore e meno prorompente ostentazione di quella operaia, che Martin aveva visto due volte. E tuttavia si somigliavano molto nel vestire e nel portamento ed egli rise divertito al pensiero di che cosa sarebbe potuto avvenire se una di loro fosse comparsa nel salotto della signora Morse. Ma il sorriso gli svanì, ed egli si accorse di essere immerso in una grande solitudine. La sorella e la casa dei Morse erano pietre miliari nella strada che aveva percorso: le aveva distanziate entrambe. Si guardò intorno soffermandosi affettuosamente sui pochi libri che lo circondavano, i soli compagni che gli erano rimasti.

«Che cosa hai detto?», chiese riscuotendosi alla sorella, che aveva parlato.

Marian ripeté la domanda.

«Perché non mi metto a lavorare?», rispose usando le stesse parole di lei. Scoppiò in una risata un po’ forzata. «Che cosa ti ha detto di me quel tuo Hermann?».

Marian scosse la testa.

«Non mentire», le disse il fratello in tono imperioso. Lei annuì confermando in tal modo l’accusa.

«Bene. Di’ a questo tuo Hermann di badare agli affari suoi; il fatto che io scriva una poesia sulla ragazza che esce con lui è una faccenda che lo riguarda, ma su tutto il resto non deve mettere il becco. Chiaro?».

«E così tu non pensi che avrò successo come scrittore, vero?», continuò. «E credi che io non stia combinando niente di buono… e che sono caduto in basso, e che sono una vergogna per la famiglia, non è così?».

«Penso che è molto meglio se ti trovi un lavoro», disse lei in tono fermo, ed egli capì che era sincera. «Hermann dice…».

«Al diavolo Hermann!», esplose lui senza malanimo. «Voglio solo sapere quando ti sposerai. Cerca di chiedergli se si degnerà di permetterti di accettare un regalo da me».

Dopo che se ne fu andata rifletté su quell’episodio e un paio di volte rise amaramente al pensiero che la sorella e la fidanzata, i membri del proprio ceto e quelli del mondo di Ruth, improntavano la loro esistenza angusta e meschina a formule anguste e meschine – pecore che amavano il gregge e si conformavano alle regole di condotta che reciprocamente si davano, incapaci di essere se stessi e di vivere una vita autentica a causa delle norme puerili di cui si erano resi schiavi. Li chiamò a raccolta davanti a sé in un ideale corteo – Bernard Higginbotham a braccetto con il signor Butler, Hermann von Schmidt a fianco di Charley Hapgood – valutandoli e giudicandoli, singolarmente o a coppie, con i criteri morali e intellettuali appresi nei libri. Vanamente si chiedeva dove fossero le grandi anime, gli uomini e le donne superiori. Non ne trovava fra le menti superficiali, stupide e volgari che, evocate dalla visione, arrivavano fino alla stanzetta. Provò per loro un disgusto come quello che doveva aver sentito Circe per i suoi porci. E quando ebbe liquidato l’ultimo, e già pensava di essere rimasto solo, giunse un ritardatario inatteso che non era stato invitato. Martin lo guardò e vide il cappello con la tesa rigida, il taglio squadrato, la giacca a doppio petto e l’andatura tracotante del giovane teppista che ben conosceva.

«Eri come tutti gli altri, giovanotto», gli disse Martin in tono di scherno. «Avevi la loro stessa moralità e la loro stessa cultura. Non pensavi né agivi in modo autonomo. Le tue idee erano già confezionate, come gli abiti che indossavi; le tue azioni determinate dall’approvazione della massa. Eri il caporione del gruppo perché gli altri ti ammiravano come uno in gamba davvero. Tu facevi a botte e dominavi la banda non perché ti piacesse – in realtà la disprezzavi – ma perché gli altri ti approvavano. Le hai date a Faccia-di-Cacio perché non volevi cedere, e non volevi cedere in parte perché eri un selvaggio, in parte perché credevi ciò che tutti quelli intorno a te credevano: che la virilità si misura dalla furia spietata nel malmenare e ferire le altre creature. Animale che non sei altro, hai persino portato via le ragazze ai compagni, non perché le desiderassi, ma perché l’istinto di coloro che ti circondavano e foggiavano la tua moralità era quello del cavallo brado e del tricheco. Bene, dopo tanti anni che cosa ne pensi adesso?».

Come in risposta a questa domanda la visione subì una rapida metamorfosi. Svanirono la falda rigida e il taglio squadrato, sostituiti da vestiti più sobri; la grinta sparì dalla faccia, la durezza dagli occhi; il volto, addolcito e affinato, rifletteva una vita interiore in intima comunione con la bellezza e la cultura. Quell’apparizione era molto simile alla sua figura e nel riguardarla notò la lampada da studio che l’illuminava e il libro su cui era chino. Diede un’occhiata al titolo e lesse, La scienza estetica. Si sovrappose a quella visione, regolò il lume e riprese a leggere.

XXX

Un bel giorno d’autunno, una giornata dell’estate di San Martino simile a quella che li aveva visti dichiararsi l’amore l’anno precedente, Martin lesse a Ruth il Ciclo d’amore. Era pomeriggio e, come allora, erano saliti sulla loro altura preferita in mezzo alle colline. Di tanto in tanto lei lo aveva interrotto con esclamazioni di piacere; ora, dopo avere messo l’ultimo foglio del manoscritto accanto agli altri, egli attendeva il giudizio di lei.

Ruth non parlò subito, e alla fine lo fece con voce incerta perché esitava nell’esprimere la propria disapprovazione.

«Le trovo belle, molto belle», disse, «ma non riesci a venderle, vero? Capisci quello che voglio dire», aggiunse quasi scusandosi. «Questo lavoro letterario non rende. C’è qualcosa… forse il mercato è fatto così… che non ti consente di guadagnarti da vivere in questo modo. Per favore, caro, non fraintendermi. Sono lusingata, orgogliosa, felice che tu abbia scritto per me queste poesie – non sarei una vera donna se non lo fossi. Ma non rendono possibile il nostro matrimonio. Non capisci, Martin? Non credermi interessata. È l’amore, è il pensiero del nostro futuro che mi tormenta. È passato un anno intero da quando abbiamo capito che ci amavamo, e il giorno delle nozze non si è affatto avvicinato. Non giudicarmi sfacciata se parlo così di queste cose, perché ne va del mio cuore, di tutta me stessa. Perché non cerchi di trovare lavoro in un giornale, se sei così deciso a scrivere? Perché non diventare cronista… almeno per un po’?».

«Mi rovinerebbe lo stile», rispose lui con voce bassa e monotona. «Non immagini quanto abbia faticato per crearmene uno».

«Ma quelle novellette per i giornali», obiettò lei. «Hai detto anche tu che erano opere commerciali. Ne hai scritte molte, eppure non ti hanno rovinato lo stile».

«È una cosa diversa. Le buttavo giù in qualche modo al termine di un’intensa giornata consacrata allo studio dello stile. Ma il lavoro del giornalista è tutto di questo tipo dall’alba al tramonto, ed è l’unico che conti. È una vita turbinosa, legata al presente, senza passato e senza futuro e certamente priva di altre preoccupazioni che non siano il rispetto della forma giornalistica, che certamente non è letteratura. Diventare cronista adesso, proprio nel momento in cui il mio stile sta prendendo forma, si sta cristallizzando, equivarrebbe a un suicidio letterario. Quanto alle novellette, ognuna di loro, ogni parola che contenevano erano un insulto a me, al mio amor proprio, al mio rispetto per la bellezza. Ti assicuro che soffrivo. Ammetto il mio peccato. E in cuor mio sono stato contento quando quel filone si è chiuso, anche se in tal modo ho dovuto impegnare i vestiti. Ma che gioia provavo nello scrivere il Ciclo d’amore! Era la gioia della creazione nella sua forma più alta! E mi compensava di tutto».

Martin non sapeva che Ruth non capiva nulla della gioia della creazione. Era un’espressione che usava – era infatti da lei che l’aveva sentita la prima volta – e che aveva imparato all’università, ma personalmente la ragazza mancava di originalità e di creatività, e tutto lo sfoggio di cultura che faceva non era che la semplice ripetizione di cose che aveva sentito da altri.

«Non potrebbe aver avuto ragione la redazione nel modificare le tue Liriche del mare?», chiese. «Ricordati che un direttore deve avere una comprovata esperienza per ricoprire l’incarico».

«È così che non si cambia mai nulla», esclamò Martin, sopraffatto dall’irritazione che lo prendeva ogni volta che si parlava di quella categoria. «Ciò che esiste non è solo giusto, ma anche il meglio possibile. Le cose trovano la loro legittimazione nel semplice fatto di essere – di essere, bada bene, non soltanto nella situazione attuale, ma in qualunque condizione, come inconsciamente pensa la maggioranza delle persone. Naturalmente è l’ignoranza che li spinge a credere simili sciocchezze – un’ignoranza che equivale al processo mentale enidico descritto da Weininger. Pensano di pensare, queste creature con la mente vuota, e sono arbitri della vita dei pochi che veramente pensano».

Si fermò, nella fastidiosa consapevolezza di avere espresso concetti troppo difficili per la comprensione di Ruth.

«Non so proprio chi sia questo Weininger», ribatté lei. «E tu parli in modo così generico che non riesco a seguirti. Stavo dicendo che l’esperienza dei direttori…».

«E io ti dico», l’interruppe lui, «che l’esperienza più comune del novantanove per cento dei direttori è il fallimento. Come scrittori non hanno avuto successo. Non credere che preferiscano la fatica del lavoro d’ufficio, l’ossessione del numero di copie vendute e la tirannia del direttore amministrativo alla gioia dello scrivere. Ci hanno provato, ma hanno fatto fiasco. Ed è qui il paradosso di questo ambiente. In campo letterario ogni porta che apre la via al successo è custodita da questi cani da guardia, che sono autori mancati. La maggior parte dei direttori, dei vicedirettori, dei capiservizio dei periodici, e quasi tutti i lettori di manoscritti nelle riviste e nelle case editrici sono uomini che volevano scrivere e hanno fallito. E tuttavia proprio loro, i meno adatti al mondo a svolgere questa attività, sono quelli che decidono che cosa possa e che cosa non possa essere stampato – loro, che hanno dimostrato di non avere talento e di essere privi del fuoco divino, si ergono a giudici dell’originalità e del genio. E dopo di loro vengono i recensori, altri esempi di insuccesso. Non dirmi che non hanno mai nutrito il sogno della creazione e che non hanno mai fatto tentativi poetici o narrativi; ma non ci sono riusciti. Accidenti, le normali recensioni sono più nauseanti dell’olio di fegato di merluzzo. Sai già che cosa penso dei recensori e dei presunti critici. Esistono grandi critici, ma sono rari come le comete. Se non sfonderò come scrittore mi sarò preparato adeguatamente alla carriera di direttore editoriale. Almeno lì c’è il pane, e anche il companatico».

Ruth aveva seguito attentamente quel discorso e l’ostilità per le idee dell’innamorato fu rafforzata da una contraddizione che aveva scoperto nel suo ragionamento.

«Ma se le cose stanno così, Martin, se tutte le porte sono chiuse, come hai dimostrato in modo così convincente, come sono giunti al successo i grandi scrittori?».

«Sono riusciti nell’impossibile», rispose lui. «Hanno composto opere così ardenti e folgoranti da incenerire tutti gli oppositori. Ci sono arrivati compiendo un miracolo, vincendo una scommessa a mille contro uno. Ci sono arrivati perché erano gli indomabili giganti segnati dalle cicatrici della battaglia di cui parla Carlyle. Questo è ciò che devo fare io: riuscire nell’impossibile».

«E se fallisci? Devi considerare anche me, Martin».

«Se fallisco?». La fissò per un istante come se ciò che aveva detto fosse inconcepibile. Poi s’illuminò di uno sguardo acuto e divertito. «Se fallirò diventerò direttore editoriale, e tu sarai la moglie di un direttore editoriale».

Ruth si accigliò a quella facezia assumendo un’espressione deliziosamente corrucciata che lo spinse a passarle un braccio intorno alle spalle per rasserenarla con un bacio.

«Su, basta», protestò, sottraendosi con uno sforzo di volontà al fascino della forza che emanava da lui. «Ne ho parlato con papà e mamma con una determinazione che non avevo mai avuto nelle discussioni con loro. Ho imposto che mi ascoltassero. Sono stata molto disubbidiente. Ti sono ostili, come sai, ma ho ripetuto loro infinite volte che nutro per te un amore incrollabile, e alla fine il papà ha concesso che, se lo vuoi, puoi cominciare a lavorare subito nel suo ufficio. E ha poi aggiunto, di sua spontanea iniziativa, che ti darebbe, sin dall’inizio, una buona paga, sufficiente per sposarci e per prendere una villetta in cui abitare. È stato molto generoso, non ti pare?».

Oppresso da una sorda disperazione Martin emise un grugnito, facendo contemporaneamente il gesto meccanico di prendere tabacco e cartina (che non aveva più con sé) per arrotolarsi una sigaretta, mentre Ruth continuava:

«A dirla schietta – e non vorrei che ci rimanessi male – devo confessarti che opinione si è fatto in complesso di te: non gli piacciono le tue idee estremistiche, e pensa anche che tu sia pigro. Naturalmente io so che non è vero e che tu lavori moltissimo».

Neppure tu sai quanto, pensò Martin.

«E tu che ne dici delle mie idee? Pensi che siano così estremistiche?», chiese.

La fissò negli occhi in attesa della risposta.

«Le considero, come dire, sconcertanti», disse lei.

Era una frase eloquente ed egli si sentì così oppresso dalla tetraggine della vita che dimenticò quel sondaggio riguardante il lavoro nell’ufficio del padre. Mentre lei, dopo avere lanciato la proposta, rimaneva in attesa dell’occasione propizia per rinnovarla.

Non dovette aspettare a lungo. A sua volta, Martin voleva accertare quanta fede Ruth avesse in lui e, nel giro di una settimana, entrambi gli interrogativi ricevettero una risposta. Martin fece precipitare la situazione leggendole La vergogna del sole.

«Perché non fai il giornalista?», gli chiese alla fine Ruth. «Scrivere ti piace tanto, e sono certa che riusciresti. In questo campo potresti emergere e farti un nome. Ci sono diversi inviati speciali, che guadagnano molto e girano il mondo. Li mandano dappertutto, nel cuore dell’Africa, come Stanley, o a intervistare il Papa, o a esplorare il Tibet sconosciuto».

«Allora il mio saggio non ti è piaciuto?», ribattè lui. «Credi che abbia qualche possibilità nel giornalismo ma nessuna in letteratura?».

«No, no, mi è piaciuto. Si legge bene, ma credo che sia troppo difficile per i lettori. Almeno lo è stato per me. Sembra bellissimo, ma io non lo comprendo. Ha un gergo scientifico che è al di fuori delle mie possibilità. Sei troppo rigoroso, caro, devi convincertene, e quello che forse è intelligibile per te può non esserlo per tutti noi».

«Immagino che tu sia rimasta perplessa di fronte alla terminologia filosofica», fu tutto ciò che egli riuscì a dire.

Era ancora tutto eccitato dalla lettura di uno scritto che esprimeva le sue idee più mature e quel verdetto lo sbalordiva.

«Non importa se è stato formulato in modo insoddisfacente», insisté, «ma non ci hai trovato proprio niente… intendo, nei pensieri che conteneva?».

Lei scosse la testa.

«È così diverso da ogni cosa che ho visto finora. Leggo Maeterlinck e lo capisco…».

«Vuoi dire che capisci il suo misticismo?», esplose lui.

«Sì, e questo articolo, questo attacco che gli porti, non lo comprendo. Naturalmente se si vuole essere originali a tutti i costi…».

La fermò con un gesto di impazienza, senza però dire nulla. Poi improvvisamente si rese conto che Ruth stava parlando da qualche tempo.

«Dopo tutto lo scrivere per te è stato un trastullo», stava dicendo. «Ti sei divertito abbastanza ormai ed è ora che tu prenda la vita seriamente – la nostra vita, Martin. Finora hai vissuto solo per te stesso».

«Vuoi che mi metta a lavorare?», chiese.

«Sì. Il papà ti ha offerto…».

«L’ho capito», l’interruppe lui; «ma quello che voglio sapere è se tu hai perso la fiducia in me».

Lei gli strinse la mano senza parlare, con gli occhi velati di lacrime.

«Non in te, ma in quello che scrivi, caro», ammise con un filo di voce.

«Hai letto molte cose mie», proseguì Martin con brutalità. «Che cosa ne pensi? È roba da buttar via? Hai provato a confrontarle con le opere di altri?».

«Ma loro vendono, e tu… no».

«Questa non è una risposta. Credi che la letteratura non sia il mio mestiere?».

«Risponderò con franchezza». Chiamò a raccolta tutto il suo coraggio. «Non penso che tu sia nato per fare lo scrittore. Perdonami, caro. Hai voluto tu che te lo dicessi; e sai che conosco la letteratura più di te».

«Sì, hai una laurea in lettere», disse lui meditabondo, «e te ne dovresti intendere».

«Ma non è tutto qui», continuò dopo una pausa penosa per entrambi. «Solo io so che cosa ho dentro di me, e so che ce la farò. Non posso reprimere quello che sento di dover dire nella poesia, nella narrativa e nella saggistica. Ora non ti chiedo di avere fede nelle mie opere. Non ti chiedo di avere fede in me e in ciò che scrivo. Ti chiedo solo di amarmi e di avere fede nell’amore.

«Un anno fa ti ho pregato di aspettare due anni. Ne rimane ancora uno e giuro, sul mio onore e sull’anima mia, che prima che sia passato sarò arrivato al successo. Ricordi che cosa mi dicesti allora, sul fatto che dovevo seguire il mio apprendistato di scrittore? L’ho fatto, fino alla nausea, con il pensiero sempre fisso a te che mi aspettavi. Non mi sono mai tirato indietro. Sai che ho dimenticato che cosa significhi abbandonarsi al sonno con il cuore in pace? Milioni di anni fa mi addormentavo quando ne avevo voglia e mi svegliavo quando mi ero riposato a sufficienza, ma ora sobbalzo al suono della sveglia. E se mi accorgo che mi si chiudono gli occhi fisso la suoneria dopo poche ore, anche se una sosta così breve non basta a soddisfarmi; segnare l’ora del risveglio e spegnere la luce sono le ultime azioni che compio consapevolmente nel corso della giornata.

«Quando comincio ad avere le palpebre pesanti sostituisco il libro che sto leggendo con uno più leggero e quando sento che sto per assopirmi anche con questo mi batto la testa con i pugni per restare sveglio. Ho letto da qualche parte, in un racconto di Kipling, di un uomo che avendo paura di addormentarsi aveva sistemato vicino al proprio corpo nudo uno sperone, che lo ridestava di colpo quando ci cascava addosso sopraffatto dal sonno. Io faccio lo stesso. Guardo l’ora e decido di non togliere quel pungolo di ferro fino a mezzanotte, o all’una, o alle due, o alle tre. E così sono costretto a continuare fino all’ora stabilita. Per mesi questo sperone mi è stato compagno di letto. Sono arrivato a tal punto di disperazione che un riposo di cinque ore e mezzo mi sembra un lusso inammissibile, e l’ho ridotto a quattro. Soffro terribilmente per la mancanza di sonno. Ci sono volte in cui mi vengono giramenti di capo, altre in cui la morte, parente prossima della pausa notturna, ha per me un fascino irresistibile, altre ancora in cui sono ossessionato dai versi di Longfellow:

Fermo è il profondo mare;

Ogni cosa dorme lì sotto;

Un passo e tutto è finito,

Un salto, un tonfo e nulla più.

«Naturalmente ciò è assurdo, è il risultato del nervosismo e dell’eccesso di lavoro. Ma mi chiedo: perché l’ho fatto? L’ho fatto per te. Per accelerare l’apprendistato e arrivare prima al successo. Ora questa fase è terminata e so qual’è il mio bagaglio culturale. Giuro che imparo più io in un mese che un normale studente universitario in un anno. Te lo posso garantire. Non ti avrei confessato questo se non avessi avuto un bisogno così disperato di farti capire. Non lo dico per vantarmi. Lo si può misurare dal numero dei libri letti. Oggi i tuoi fratelli sono poveri ragazzini ignoranti al mio confronto, e sono arrivato a questo risultato lavorando come un mulo mentre loro dormivano. Molto tempo fa volevo diventare famoso, ma ora la gloria m’importa assai poco. Tutto quello che voglio sei tu. Ti bramo più del cibo, più dei vestiti, più della celebrità. Sogno di posarti il capo sul petto e di dormire per un miliardo di anni, e fra un anno questa visione diventerà realtà».

L’investiva con forza, un’ondata dopo l’altra, e proprio quando le due volontà cozzavano con più violenza lei si sentiva irresistibilmente attratta verso di lui. Quel magico flusso che era sempre emanato dalla sua persona fluiva ora dalla voce appassionata, dagli occhi lampeggianti e dal vigore vitale e intellettuale che ribolliva in lui. E in quel momento, per un istante, Ruth si accorse che la propria certezza si era spaccata, aprendo un varco attraverso il quale scorse il vero Martin Eden, splendido e invitto e, come un domatore di fronte a un animale indomabile, dubitò per un attimo di riuscir mai a piegare ai propri poteri il selvaggio spirito di quell’uomo.

«Ancora una cosa», proseguì lui implacabile. «Tu mi ami. Ma perché? La stessa cosa che mi spinge a scrivere è quella che ti attrae a me. Mi ami perché sono molto diverso dagli uomini che hai conosciuto e che avresti potuto amare. Non sono nato per la scrivania dell’ufficio contabilità, per le meschine lotte aziendali e per le diatribe legali. Se mi farai fare cose di questo tipo, se mi renderai come gli altri uomini, se mi costringerai a fare il loro lavoro, a respirare la loro aria, ad assumere una mentalità come la loro, avrai distrutto ciò che mi distingue, avrai distrutto me, avrai distrutto la persona che ami. Il desiderio di scrivere è ciò che in me è più vitale. Fossi stato una creatura banale non avrei avuto la voglia di scrivere, ma tu non mi avresti desiderato per marito».

«Ma tu dimentichi», l’interruppe lei scorgendo immediatamente in quelle parole l’occasione per fare un’osservazione a sostegno della sua tesi, «che ci sono stati strambi inventori che facevano morire di fame la famiglia inseguendo impossibili chimere come il moto perpetuo. Non c’è dubbio che le mogli li amavano e soffrivano con loro e per loro, ma non in virtù della loro passione per il moto perpetuo, bensì a dispetto di essa».

«È vero», rispose lui. «Ma ci sono stati anche inventori tutt’altro che eccentrici che hanno sofferto la fame cercando di realizzare cose pratiche, e la storia ci dice che qualche volta ci sono riusciti. Io certamente non voglio la luna…».

«Hai detto tu stesso che volevi “riuscire nell’impossibile”», intervenne lei.

«Ho parlato in modo figurato. Cerco di fare le stesse cose che sono riuscite ad altri prima di me: scrivere e vivere del mio lavoro di scrittore».

Il silenzio di lei lo spinse a continuare.

«Per te, dunque, il mio obiettivo è chimerico come quello del moto perpetuo?», chiese.

Lesse la risposta nel modo in cui lei gli stringeva la mano – la stessa amorevole pressione delle dita materne al bambino che si è fatto male. Per lei in quel momento egli era il figlio malato, l’uomo che aspirava a raggiungere l’impossibile.

Verso la fine del colloquio gli ricordò ancora l’avversione del padre e della madre.

«Ma tu mi ami?», le chiese lui.

«Sì! Sì!», gridò lei.

«E io amo te, non loro, e nulla di ciò che possono fare mi fermerà». Aveva un suono di trionfo nella voce. «Poiché ho fede nel tuo amore, non temo la loro ostilità. Tutto può andare storto in questo mondo, ma non l’amore. Esso andrà dritto alla meta se avrà la forza di proseguire e di non cadere lungo il cammino».

XXXI

Camminando lungo la Broadway, Martin si era imbattuto nella sorella Gertrude – un incontro imbarazzante ma utile. Era stata lei a vederlo per prima mentre attendeva il tram alla fermata dell’angolo e aveva notato i lineamenti magri e sparuti del viso del fratello e l’espressione tesa e preoccupata del suo sguardo. In effetti egli era alla disperazione dopo un infruttuoso colloquio con l’uomo del banco dei pegni al quale aveva sollecitato un prestito supplementare sulla bicicletta. Con l’arrivo del cupo clima autunnale aveva infatti impegnato il veicolo per non sacrificare l’abito scuro.

«Dammi il vestito nero», gli aveva detto il prestatore che ormai conosceva ogni suo avere. «Non dirmi che sei andato a impegnarlo da quell’ebreo, Lipka, perché se lo hai fatto…».

Era furioso e Martin si affrettò a spiegare:

«No, no; ce l’ho. Ne ho bisogno per un colloquio d’affari».

«Va bene», aveva risposto l’usuraio, rabbonito. «Lo voglio anch’io, per una questione d’affari, prima di darti altri soldi. Non penserai che lavori per la gloria?».

«Ma è una bicicletta che vale quaranta dollari ed è in buone condizioni», aveva obiettato Martin. «E lei in cambio mi ha concesso sette dollari. Anzi, meno di sette. Sei e un quarto; si è tenuto in anticipo l’interesse».

«Se ne vuoi di più portami il vestito», era stata la conclusione che aveva fatto uscire Martin da quel buco irrespirabile con una tale disperazione nell’animo che, riflettendosi chiaramente nello sguardo, aveva spinto alla pietà la sorella.

Subito dopo l’incontro il tram di Telegraph Avenue si fermò per raccogliere tutta la folla in giro per gli acquisti pomeridiani. Dal modo in cui lui le strinse il braccio per aiutarla a salire, la signora Higginbotham capì che non l’avrebbe seguita sulla vettura. Salita sul predellino si girò a guardarlo. Quel volto smunto le aveva dato una nuova fitta al cuore.

«Non vieni?», chiese.

Ridiscese e gli si avvicinò.

«Vado a piedi… voglio fare del moto», spiegò lui.

«Camminerò anch’io per qualche isolato», dichiarò lei. «Magari mi fa bene. In questi giorni non mi sono proprio sentita troppo arzilla».

Martin le lanciò un’occhiata e si accorse che quella dichiarazione era confermata dall’aspetto trascurato, dalla pinguedine, dalle spalle spioventi, dalle rughe incise profondamente nella faccia stanca e dall’andatura pesante e strascicata, ben diversa dal passo svelto ed elastico di chi è in buona salute.

«Faresti meglio a salire qui», le disse alla prima fermata a cui si era arrestata, a poca distanza dalla precedente, «sul prossimo tram».

«Accidenti!… Sono già stanchissima!», disse Gertrude con voce ansimante. «Non riesco quasi a tenerti dietro anche se hai scarpe così malandate. Con suole così consumate non ce la farai ed arrivare a North Oakland».

«A casa ne ho un paio migliore», rispose lui.

«Vieni a pranzo domani», gli disse di punto in bianco. «Non ci sarà mio marito. È a San Leandro per affari».

Martin scosse la testa ma non riuscì a cancellare l’espressione di famelica avidità che gli lampeggiò negli occhi a quell’accenno.

«Non hai un soldo Mart, ecco perché vai a piedi. Altro che moto!». Cercò di sbuffare in segno di disprezzo ma riuscì solo a fare una smorfia. «Su, vediamo un po’».

E dopo aver frugato nella borsa gli ficcò nella mano una moneta da cinque dollari. «Ho paura di essermi dimenticata del tuo ultimo compleanno, Mart», borbottò imbarazzata.

Le dita di Martin si chiusero istintivamente su quell’oro, anche se capiva che non avrebbe dovuto accettarlo ed era combattuto dall’incertezza. Quel pezzo di metallo significava cibo, sopravvivenza ed energia per il corpo e la mente, che gli avrebbero consentito di continuare a scrivere e forse – chissà? – di creare un’opera che gli avrebbe fruttato molte di quelle monete d’oro. La mente gli andò, in un ricordo bruciante, ai testi di due saggi che aveva appena completato. Li vedeva sotto il tavolo, in cima al mucchio dei manoscritti restituiti che non aveva potuto rispedire per mancanza di francobolli, e ne scorse i titoli che aveva battuto a macchina sul frontespizio – Gli alti sacerdoti del mistero e La culla della bellezza. Non li aveva ancora sottoposti all’attenzione di nessuno benché fossero quanto di meglio avesse fatto in quel genere. Se avesse avuto francobolli! Poi la sicurezza che infine avrebbe avuto successo, alleandosi alla fame, lo spinse a far scivolare rapidamente in tasca quel denaro.

«Ti ricompenserò cento volte, Gertrude», disse con la voce alterata da un groppo in gola e con gli occhi che gli si erano subito velati.

«Ricordati di quello che ti dico!», esclamò con improvvisa determinazione. «Prima della fine dell’anno ti metterò in mano un centinaio di questi dischetti gialli. Non ti chiedo di credermi. Devi solo aspettare e vedere».

Ma neanche lei aveva fiducia in lui. Non sapendo che cosa rispondergli per l’imbarazzo di non potergli credere, disse:

«So che hai fame, Mart. Ti si legge in faccia. Vieni a mangiare da me tutte le volte che vuoi. Ti mando uno dei bambini per dirti quando non c’è mio marito. E… Mart…».

Lui rimase in attesa, pur sapendo in cuor suo, dato che la conosceva così bene, che cosa stava per proporgli.

«Non pensi che sia ora di trovarti un lavoro?».

«Non credi che ce la farò?».

Lei scosse la testa.

«Non ci crede nessuno, Gertrude, tranne me». Parlava con voce carica di passione e di rabbia. «Ho già fatto cose valide, ne ho fatte parecchie, e presto o tardi le venderò».

«Come sai che sono buone?».

«Lo so…». Si arrestò, perché la sconfinata visione del panorama letterario e dell’intera storia della cultura, che gli si aprirono alla mente, gli fecero capire l’inutilità di ogni tentativo di esporle i motivi di quella fiducia. «Beh… perché sono migliori del novantanove per cento di quelle che si pubblicano sulle riviste».

«Vorrei che avessi più buon senso», rispose lei debolmente, ma fermamente convinta della correttezza delle proprie affermazioni. «Vorrei che avessi più buon senso», ripeté, «e che venissi a pranzo domani».

Dopo che l’ebbe aiutata a salire sul tram, Martin si precipitò all’ufficio postale dove investì in francobolli tre dei cinque dollari; e quando più tardi, nel corso della stessa giornata, avviandosi alla casa dei Morse, vi tornò per pesare parecchie buste lunghe e voluminose da spedire, li usò tutti nell’affrancatura, ad eccezione di tre da due centesimi.

Quella sera si rivelò fondamentale per Martin, perché dopo cena fece la conoscenza di Russ Brissenden. Martin non sapeva come mai si trovasse lì, di chi fosse amico e quali fossero i conoscenti che l’avevano portato con sé, e non provò neppure la curiosità di chiederlo a Ruth. All’inizio fu colpito dalla sua insipienza e superficialità e decise subito di ignorarlo. Un’ora più tardi giunse alla conclusione che Brissenden era anche maleducato, con quel suo modo di girare da una stanza all’altra scrutando i quadri e ficcando il naso fra i libri e le riviste, che prendeva dai tavoli o toglieva dagli scaffali. Sebbene fosse nuovo in quella casa si isolò infine dal resto della compagnia rannicchiandosi in una comoda poltrona a leggere attentamente un esile volume che aveva tolto dalla tasca e passandosi per tutto il tempo le dita fra i capelli con un movimento leggero. Martin non lo notò più durante la serata tranne una volta in cui lo vide impegnato a prendere in giro, con apparente successo, diverse giovani donne.

Uscendo dalla casa Martin raggiunse casualmente Brissenden a metà del vialetto che immetteva sulla strada.

«Ah, è lei?», disse Martin.

L’altro rispose con un grugnito sgarbato ma continuò a camminargli al fianco. Martin non fece più alcun tentativo di conversazione e per diversi isolati procedettero in perfetto silenzio.

«Vecchio trombone!».

Quell’esclamazione inattesa e virulenta fece trasalire Martin. Pur divertito, avvertiva per quel tipo una crescente antipatia.

«Perché va in un posto come quello?», ruggì improvvisamente il suo compagno di strada dopo un altro tratto percorso senza parlare.

«E lei?», ribatté Martin.

«Accidenti, non lo so. Almeno questa è la mia prima confessione. In ogni giornata ci sono ventiquattr’ore e devo pur passarle in qualche modo. Andiamo a bere qualcosa».

«D’accordo», ripose Martin.

Si pentì subito di avere accettato con tanta facilità. A casa l’aspettavano diverse ore di lavoro di scritti commerciali prima di andare a coricarsi, e a letto l’attendeva un volume di Weismann, per non parlare dell’Autobiografia di Herbert Spencer, che per lui aveva lo stesso avvincente interesse di un romanzo giallo. «Perché sprecare il tempo con un uomo che non gli piaceva?», pensava. E tuttavia era attratto non tanto dall’uomo o dalla voglia di bere, quanto da ciò che quell’invito comportava: le belle luci, gli specchi, il luccichio della cristalleria, i visi rosei e soddisfatti degli uomini, l’allegro ronzio delle voci umane. Ecco che cosa l’allettava: la conversazione di quelle persone ottimiste, che erano il ritratto del successo e amavano spendere i loro soldi in una sana bevuta fra uomini. Lui era solo, invece, quello era il suo problema: ecco perché aveva abboccato subito a quell’invito, con la stessa avidità con cui la sarda si butta su un panno bianco infilato sull’amo credendolo un’esca. Era dai tempi delle sbronze con Joe a Shelley Hot Springs che Martin non beveva in un bar, con la sola eccezione del bicchiere di vino che aveva accettato dal droghiere portoghese. Poiché la fatica mentale non produceva, come quella fisica, la voglia dell’alcol, non aveva sofferto per la rinuncia, ma proprio in quel momento gli era venuto il desiderio di un bicchierino, o meglio il bisogno di rivivere l’atmosfera dei locali in cui si servono liquori, come il «Grotto», in cui lui e Brissenden si abbandonarono al piacere di uno Scotch e soda seduti su comode e capaci poltrone di cuoio.

Conversarono. Parlarono di molte cose ordinando, a turno, diversi Scotch e soda. Martin, che reggeva molto bene l’alcol, si meravigliò della resistenza dell’altro, che di tanto in tanto lo sorprendeva anche per la lucidità e l’acutezza delle sue osservazioni. Non gli ci volle molto per concludere che Brissenden sapeva tutto ed era il secondo vero intellettuale che avesse conosciuto, notando, per altro, che possedeva ciò che invece mancava al professor Caldwell – e cioè il fuoco, il lampo dell’intuizione, la prontezza dell’intelligenza, la prorompente fiamma del genio. Le parole gli fluivano con la facilità dell’acqua sorgiva. Come gli stampi di una macchina le sue labbra sottili forgiavano frasi taglienti come lame, o modellavano, assumendo esse stesse una piega dolce e carezzevole, parole delicate e sublimi, piene di indicibile bellezza, cariche del mistero e dell’imperscrutabilità della vita; altre volte ancora risuonavano come una tuba da cui esca il fragore e il tumulto dei rivolgimenti del cosmo, frasi che rintoccavano di suoni argentini, che brillavano luminose come gli spazi stellari, che riassumevano le ultime conclusioni della scienza e che tuttavia esprimevano ancora qualcosa di più – l’accento poetico, la verità trascendente, realtà elusive che le parole non sono in grado di esprimere e che tuttavia emergevano nelle connotazioni sottili e inafferrabili della conversazione comune. Grazie a qualche prodigiosa capacità di visione egli riusciva a guardare al di là dei confini estremi dell’empiria, in una regione in cui non serviva la lingua ordinaria; e tuttavia in virtù di qualche miracolo insito nella natura divina del linguaggio, investendo le parole di tutti i giorni di significati sconosciuti, egli comunicava a Martin messaggi incomprensibili agli uomini normali.

Martin dimenticò la sua prima impressione di antipatia. Vedeva prendere corpo, davanti a sé, ciò che di meglio aveva trovato nei libri, una grande intelligenza, un uomo degno di essere guardato con rispetto. «Mi inchino umilmente ai tuoi piedi», disse più volte fra sé.

«Lei ha studiato biologia», esclamò alludendo a un’osservazione dell’altro.

Con sua grande sorpresa Brissenden scosse il capo.

«Ma lei fa affermazioni che trovano conferma solo nella biologia», insistette Martin mentre il suo interlocutore continuava a fissarlo con lo sguardo assente. «Le sue conclusioni sono coerenti con quelle di libri che deve aver letto».

«Sono lieto di sentirlo», rispose. «È consolante che la scarsa cultura che ho acquisito mi abbia consentito di trovare la scorciatoia per arrivare alla verità. Per conto mio non mi preoccupo mai di scoprire se ho ragione o no. Non ne vale la pena. L’uomo non sarà mai in grado di giungere alle realtà ultime».

«Lei è un discepolo di Spencer!», esclamò Martin trionfante.

«Non lo leggo dagli anni dell’adolescenza, e anche allora mi sono limitato alla sua Educazione».

«Vorrei riuscire ad acquisire la cultura con la stessa facilità», sbottò Martin mezz’ora più tardi. Per tutto quel tempo aveva analizzato con grande attenzione la struttura mentale di Brissenden. «Lei è assolutamente dogmatico, ed è proprio questo che mi sbalordisce, perché afferma in modo categorico le ultime scoperte cui la scienza è arrivata solo con un ragionamento a posteriori. Lei arriva fulmineamente alla verità, non attraverso una scorciatoia ma con un vero e proprio balzo. È in grado di intuire con la velocità della luce, grazie a qualche processo suprarazionale, la via che porta alla verità».

«Sì, questa era proprio la cosa che preoccupava Padre Joseph e Fratello Dutton», rispose Brissenden. «Oh, no», aggiunse, «non sono credente. È stato un felice scherzo della sorte che mi ha mandato a studiare in una scuola cattolica. E lei, dove ha imparato ciò che sa?».

E mentre gli raccontava la sua storia, Martin analizzava l’interlocutore in ogni particolare, dal viso allungato, magro e aristocratico appoggiato su spalle cascanti, al soprabito buttato su una sedia vicina con le tasche rigonfie e appesantite da molti libri. Il volto e le lunghe ed esili mani di Brissenden erano abbronzate dal sole – troppo abbronzate, pensò. Quel colorito bruno lo lasciava perplesso. Era evidente che Brissenden non era uomo che conduceva una vita all’aria aperta. Perché allora aveva una carnagione così scurita dal sole? C’era qualcosa di morboso e di significativo in quella pelle bruciata, pensò Martin tornando a studiare la faccia oblunga segnata da zigomi alti e da guance profondamente incavate e abbellita da un naso aquilino di una finezza e delicatezza quali non aveva mai visto. Non c’era nulla di speciale negli occhi, né piccoli né grandi, di un indefinito color castano; ma in essi covava una luce insolita, un’espressione ambigua e stranamente contraddittoria. Sprezzanti, indomiti e persino aspri, suscitavano allo stesso tempo un senso di pietà. Martin si accorse di averne compassione senza neppure saperne il perché. Ma in seguito lo capì.

«Oh, sono tisico», dichiarò con noncuranza Brissenden, poco dopo avere spiegato di essere stato in Arizona. «Ci sono rimasto un paio d’anni per il clima».

«Non ha paura ad avventurarsi qui, con un tempo simile?».

«Paura?».

Ripeté la parola senza alcuna enfasi particolare, e Martin lesse in quel viso ascetico che non c’era nulla di cui avesse paura. Aveva socchiuso gli occhi che ora parevano quelli di un’aquila e Martin rimase quasi senza fiato nel notare quel profilo affilato che sembrava il becco di un rapace e quelle narici dilatate, sfrontate, insolenti e aggressive. Splendido, disse fra sé, esaltato da quella magnifica figura. Ad alta voce declamò:

«Sotto i colpi di mazza del Fato,

Sanguina il capo mio, ma non si piega».

«Vedo che le piace Henley», disse Brissenden assumendo subito un’espressione di grande piacere e tenerezza. «Naturalmente dovevo aspettarmelo da lei. Ah, Henley! Che spirito coraggioso! Si distingue dai poetastri contemporanei – dai parolieri delle riviste – come un gladiatore da una banda di eunuchi».

«Le riviste non le piacciono», osservò Martin con un leggero senso di colpa.

«E a lei?».

«Io… io scrivo, o meglio cerco di scrivere per i periodici», balbettò Martin.

«Ho apprezzato la precisazione», rispose l’altro rabbonito. «Lei cerca di scrivere, ma non ci riesce. Rispetto e ammiro i suoi fallimenti. Ho capito che cosa lei scrive. Ho intuito subito che nelle sue opere c’è un ingrediente che le esclude dalle riviste. È roba scritta da uno con le palle, e i giornaletti non pubblicano queste cose. Loro vogliono brodaglia e acqua colorata, e ne ricevono a iosa, ma non da lei».

«Non sono così in alto da poter rinunciare a fare opere commerciali», controbatté Martin.

«Al contrario…», Brissenden si fermò e scrutò con occhio insolente i segni della povertà del suo interlocutore, la cravatta consunta, il colletto spiegazzato, le maniche lucide della giacca e il bordo liso di un polsino, soffermandosi infine sulle guance infossate di Martin. «Al contrario, la letteratura commerciale è così al di sopra di lei che non potrà mai sperare di arrivarci. Potrei insultarla invitandola a mangiare qualcosa con me».

Senza volerlo Martin si sentì avvampare in viso, mentre Brissenden rideva trionfante.

«Un vero uomo non può sentirsi offeso da un tale invito», concluse.

«Lei è un demonio», esclamò Martin irritato.

«Comunque, non l’ho invitata».

«Non ha osato».

«Oh, non ne sono sicuro. Glielo chiedo adesso».

Senza finire il discorso Brissenden si era sollevato sulla poltrona, come se avesse l’intenzione di dirigersi subito al ristorante.

«Bosco! Li ingoia vivi! Vivi!», declamò Brissenden imitando il presentatore di un mangiatore di serpenti famoso nella regione.

«Io potrei certamente divorarla vivo», disse Martin gettando a sua volta uno sguardo spavaldo su quella figura devastata dalla malattia.

«Solo che non ne valgo la pena, vero?».

«Al contrario», osservò Martin, «perché l’incidente non è tale da giustificare un simile gesto». Esplose in una sana e allegra risata. «Devo ammettere che si è fatto beffe di me, Brissenden. Il fatto che io abbia fame e che lei se ne sia accorto sono solo fenomeni naturali, che non devono provocare vergogna. Lei ha visto come io disprezzi lo stupido moralismo della massa; ma poco fa lei mi ha detto una frase pungente, anche se vera, e subito mi sono adontato in nome di quello stesso stupido moralismo».

«Si è sentito offeso», disse Brissenden.

«Certamente, un momento fa. Sa come sono i pregiudizi contratti in gioventù. Sono cose che ho acquisito allora e che adesso rovinano tutto quello che ho imparato in seguito. Sono gli scheletri che tengo nell’armadio».

«Ma adesso sono chiusi a chiave, no?».

«Certamente».

«Sicuro?».

«Sicuro».

«Allora andiamo a mangiare un boccone».

«Accetto», rispose Martin, cercando di pagare lo Scotch e soda che stavano bevendo con gli ultimi spiccioli dei suoi due dollari, ma vide che Brissenden con un’occhiataccia aveva costretto il cameriere a rimettere le monete sul tavolo.

Le intascò con una smorfia e sentì sulla spalla per un attimo il tocco amichevole della mano dell’altro.

XXXII

Subito dopo, il pomeriggio dell’indomani, Maria provò l’emozione di ricevere il secondo visitatore di Martin, ma questa volta non perse la testa e nell’attesa lo fece accomodare nello splendore del salotto buono.

«Spero che non ti dispiaccia questa improvvisata», esordì Brissenden.

«No, no, nient’affatto», rispose Martin stringendogli la mano, e si sedette sul letto dopo avere indicato all’amico l’unica sedia della camera. «Come hai saputo dove abitavo?».

«Ho telefonato ai Morse, ho parlato proprio con la signorina, ed eccomi qua». Frugandosi nella tasca della giacca ne estrasse un volumetto che gettò sul tavolo. «È un libro di poesie. Puoi tenerlo dopo averlo letto». E quindi aggiunse in risposta alle proteste di Martin: «A che mi servono i libri? Questa mattina ho avuto un’altra emorragia. Hai del whiskey? No, naturalmente non ne hai. Aspetta un minuto».

Si alzò e uscì. Martin ne osservò la lunga figura mentre scendeva i gradini esterni e, quando l’altro si girò a chiudere il cancelletto, notò con dolore come le spalle, che un tempo dovevano essere state larghe, si fossero ora incurvate sul petto devastato. Tirò fuori due bicchieri e si immerse nella lettura delle liriche, che costituivano l’ultima raccolta di Henry Vaughn Marlow.

«Niente scotch», annunciò Brissenden al ritorno. «Quel pezzente vende solo whiskey americano. Comunque adesso ne abbiamo una bottiglia».

«Mando uno dei ragazzini a prendere i limoni, così possiamo fare un ponce», propose Martin.

«Mi chiedo quanto possa rendere a Marlow un libro come questo», continuò alzando il volume che teneva in mano.

«Forse cinquanta dollari», fu la risposta. «Ma solo se ha fortuna e se riesce a persuadere un editore a rischiare per un’opera di questo genere».

«Allora non ci si può guadagnare da vivere con la poesia?», domandò Martin con il viso serio e un tono scoraggiato nella voce.

«Certamente no. Chi è tanto sciocco da avere tale speranza? I poetastri, sì. Bruce e Virginia Spring e Sedgwick, loro se la cavano bene. Ma i veri poeti… sai come vive Vaughn Marlow?… Insegna in una scuola della Pennsylvania dove si fanno corsi intensivi, e di tutti gli inferni della terra questo è il peggiore. Non vorrei essere al suo posto neppure con la garanzia di poter vivere per altri cinquant’anni. E tuttavia la sua opera si distingue dal pattume dei versificatori contemporanei come un rubino orientale da un mucchio di carote. E che recensioni riceve! Accidenti ai critici, manica di farabutti con un cervello di gallina!».

«Quelli che non sanno scrivere parlano troppo di quelli che scrivono», ammise Martin. «Sono rimasto sbalordito nel leggere la valanga di stupidaggini dette su Stevenson e sulla sua opera».

«Sciacalli e arpie!», ruggì Brissenden digrignando i denti. «Sì, conosco la razza… dall’alto della loro superiorità lo punzecchiano per la lettera a padre Damien, lo analizzano, lo soppesano…».

«Lo misurano con il metro del loro cervello meschino», intervenne Martin.

«Sì, ben detto… con la loro bocca bavosa gettano bile su tutto ciò che è Vero, Bello e Buono e infine gli battono la mano sulla spalla e gli dicono “Bravo, Fido”. Puah! “I meschini corvi maldicenti”, li ha definiti Richard Realf la notte in cui morì».

«Sono come i rospi che gracidano alle stelle», riprese Martin accalorandosi, «agli alti voli degli uomini grandi. Una volta ho scritto una satira su di loro… sui critici, o meglio sui recensori».

«Fammela vedere», lo supplicò Brissenden.

Martin disseppellì una copia in carta carbone di Polvere di stelle, che Brissenden lesse fregandosi le mani per la soddisfazione e con un tale divertimento che si dimenticò di bere il ponce.

«Mi sembra che sia anche tu un frammento di questa polvere di stelle, finito in un mondo di gnomi incapaci di vedere per via del cappuccio che hanno sugli occhi», commentò dopo averla finita. «Naturalmente è stata presa al volo dalla prima rivista cui l’hai inviata, vero?».

Martin sfogliò le pagine del suo brogliaccio.

«Per l’esattezza è stata respinta da ventisette».

Brissenden scoppiò in una lunga e cordiale risata, che però gli produsse un accesso di tosse.

«Senti, non dirmi che non ti sei mai cimentato nella poesia», ansimò. «Fammi vedere».

«Non leggere adesso», lo pregò Martin. «Ora voglio chiacchierare con te. Ti preparo il pacco e puoi portartelo a casa».

Brissenden se ne andò con il Ciclo d’amore e La peri e la perla, e tornando, il giorno dopo, lo salutò con un:

«Ne voglio ancora».

Non solo confermò a Martin che era un poeta, ma gli svelò anche di esserlo lui stesso. Eden si entusiasmò per le opere dell’amico e rimase sbalordito nell’apprendere che non aveva fatto nessun tentativo per pubblicarle.

«Morte agli editori!», fu la reazione di Brissenden alla proposta di Martin, che si era offerto di trovargliene uno. «Ama la Bellezza per se stessa», gli consigliò, «e lascia perdere le riviste. Torna al mare e alle navi… questo è il parere che ti do, Martin Eden. Che ci fai in queste marce e corrotte città piene di uomini? Sprechi ogni giorno che passi in questa cloaca cercando di prostituire la bellezza alle esigenze del reame editoriale. Com’era la frase che hai detto l’altro giorno? Ah, sì. “L’uomo, l’ultima delle effimere”. E tu, l’ultima delle effimere, vorresti la fama? Se l’ottenessi, ti si volgerebbe in veleno. In fede mia sei troppo semplice, troppo elementare e troppo razionale per gustare una sbobba così insipida. Spero che tu non venda mai un verso alle riviste. La bellezza è la sola padrona degna di essere servita. Rendile omaggio e manda all’inferno le moltitudini! Successo! Dove diavolo è il successo se non nel tuo sonetto su Stevenson, che è superiore ad Apparition di Henley, nel Ciclo d’amore, in quelle tue poesie marine?

«Non è il successo delle proprie azioni che dà gioia ma il farle. Non è necessario che tu mi dica nulla. Io ti ho capito. La bellezza ti fa male. È un dolore continuo, una ferita che non si risana, una lama di fuoco. Perché mercanteggi con le riviste? Fa della bellezza il tuo fine. Perché la vuoi trasformare in soldi? E comunque non ci riusciresti, e dunque non occorre che io me la prenda tanto. Potresti continuare a leggere riviste per mille anni senza trovarvi nulla che valga un verso di Keats. Lascia perdere la fama e il denaro, firma domani per la prima nave che ti capita e torna al tuo mare».

«Non per la gloria ma per l’amore», rise Martin. «L’Amore non sembra trovar luogo nel tuo cosmo, ma nel mio la Bellezza è la sua umile ancella».

Brissenden lo guardò pieno di ammirazione e di compatimento. «Sei così giovane, ragazzo mio, così giovane. Potresti volare alto, ma le tue ali sono fatte di una sostanza finissima e rivestite di pigmenti stupendi. Attento a non bruciarle. Ma che dico? Ti sei già scottato. Quel Ciclo d’amore è nato solo per esaltare qualche smorfiosa, ed è un peccato».

«Esalta l’amore oltre che la smorfiosa», rise Martin.

«La filosofia della follia», ribattè l’altro. «Così mi dicevo, perso nei sogni dell’hascisc. Ma attenzione. Queste città borghesi ti uccideranno. Pensa a quel covo di traditori dove ci siamo conosciuti, che è ancora poco definire marcio. È impossibile mantenere il proprio equilibrio mentale in un’atmosfera del genere. È degradante. Non ce n’è uno che si salvi… tutti, uomini e donne, non sono che tubi digerenti guidati dalla sensibilità intellettuale e artistica dei molluschi…».

Improvvisamente si interruppe e fissò Martin. Quindi ebbe una fulminea intuizione che gli permise di capire la situazione e il suo viso si coprì di inorridito stupore.

«E tu hai scritto quel magnifico Ciclo d’amore per lei, per quella femminuccia smorta e insignificante!».

La mano destra di Martin scattò immediatamente a stringergli la gola in una morsa di ferro e a scuoterlo così forte che gli sbattevano i denti. E tuttavia, fissandolo, vide che non c’era alcuna paura in quegli occhi, ma solo uno sguardo pieno di beffardo cinismo. Rientrando in sé Martin mollò la stretta al collo di Brissenden scaraventandolo sul letto.

Dopo avere ansimato e boccheggiato per qualche secondo a causa del dolore, Brissenden prese a sogghignare.

«Ti sarei stato eterno debitore se avessi spento questa fiammella che mi tiene in vita», disse.

«Ho i nervi a pezzi in questo periodo», si scusò Martin. «Spero di non averti fatto male. Su, ti faccio un altro ponce».

«Ah giovane greco!», proseguì Brissenden. «Mi chiedo se sei giustamente orgoglioso di questo tuo corpo. Hai una forza tremenda. Sei splendido come una pantera, come un giovane leone. Ebbene, pagherai cara questa forza».

«Che cosa vuoi dire?», chiese incuriosito Martin passandogli il bicchiere. «Tieni, manda giù questo, da bravo».

«A causa…», Brissenden sorseggiò il liquore e sorrise accennando che era di suo gradimento. «A causa delle donne. Ti tormenteranno fino alla morte, come hanno già fatto, a meno che io non abbia preso un abbaglio colossale. Ora è inutile che tu mi strangoli, perché voglio dire quello che penso. La tua è indubbiamente una bella cotta, ma, in nome della Bellezza, abbi più gusto la prossima volta. Che cosa vuoi aspettarti da una figlia della buona borghesia? Lasciali perdere. Scegliti una donna ardente e appassionata che ride della vita e si fa beffe della morte, e che ti ami con tutte le sue forze. Ce ne sono, di donne così e sono capaci di amare meglio di una pusillanime ragazzetta, cresciuta sotto la campana di vetro della vita borghese».

«Pusillanime?», protestò Martin.

«Proprio così, pusillanime; con la bocca piena del moralismo piccino che le è stato inculcato da anni e incapace di vivere. Ti vorranno bene, Martin, ma ameranno ancor più la loro meschina moralità. Tu hai bisogno di chi si abbandona alla vita in tutta la sua magnificenza, di anime grandi e libere, di farfalle con le ali di fuoco e non di minuscole e grigie falene. Oh arriverà anche il momento in cui ti stancherai di tutte le femmine, se avrai la sfortuna di vivere a lungo. Ma tu non vivrai. Non tornerai al mare e alle navi. Rimarrai a ciondolare in queste città appestate fino a quando non avrai le ossa marce, e allora morirai».

«Puoi farmi la lezioncina, ma non riuscirai a farmi rimangiare quello che ho detto», disse Martin. «Dopo tutto hai solo la saggezza del tuo temperamento, e la saggezza del mio temperamento non è meno rispettabile della tua».

Dissentivano sull’amore, sulle riviste e su molte altre cose, ma fra loro era nato un sincero affetto che Martin sentiva molto profondamente. Si vedevano tutti i giorni anche se in genere per non più di un’ora, che trascorrevano nell’angusta stanzetta di Martin. Brissenden non arrivava mai senza una bottiglia di whiskey e quando pranzavano insieme in centro beveva Scotch e soda per tutto il pasto. Pagava ogni volta il conto di entrambi e, grazie a lui, Martin apprese le raffinatezze della cucina, bevve il suo primo champagne e fece la conoscenza dei vini del Reno.

Brissenden era sempre un enigma. Nonostante la faccia ascetica era un epicureo fino alla radice dei capelli. Oltre a non temere la morte mostrava cinismo e amarezza per ogni aspetto dell’esistenza; e tuttavia al pensiero di morire amava la vita fino all’ultimo palpito. Era in preda alla frenesia di vivere, di fremere, «di crearmi un piccolo spazio nella polvere cosmica da cui sono venuto», come si espresse una volta egli stesso. Aveva provato le droghe e aveva fatto molte strane esperienze alla ricerca di nuove sensazioni. Come disse a Martin, una volta era arrivato al punto di non bere acqua volontariamente per tre giorni allo scopo di provare la grande gioia di estinguere una sete così intensa. Martin non seppe mai chi fosse né da dove venisse. Era un uomo senza passato, destinato alla tomba in un prossimo futuro e dominato nel presente da un’amara ansia di vivere.

XXXIII

A poco a poco Martin stava perdendo la battaglia. Per quanto economizzasse, i guadagni degli scritti commerciali non erano pari alle spese. Il giorno del Ringraziamento lo colse con l’abito scuro al banco dei pegni e non in grado, quindi, di accettare l’invito a cena dei Morse. Ruth fu addolorata quando seppe per quale motivo non poteva venire, e lui ne fu disperato. Le disse che sarebbe riuscito a venire, nonostante tutto; che sarebbe andato a San Francisco, alla sede del «Transcontinental» a incassare i cinque dollari che gli dovevano, con cui avrebbe riscattato il vestito.

Quella mattina chiese dieci centesimi in prestito a Maria. Li avrebbe domandati più volentieri a Brissenden, ma il suo bizzarro amico era scomparso. Non vedendolo da due settimane, Martin si tormentò invano il cervello per ricordare se per caso non lo avesse offeso. Quella cifra gli consentì di prendere il traghetto per San Francisco, e nel risalire Market Street rifletteva su che cosa gli restasse da fare se non fosse riuscito a ottenere i soldi. Non avrebbe avuto la possibilità di tornare a Oakland, perché a San Francisco non conosceva nessuno da cui potesse farsi anticipare altri dieci centesimi.

La porta della redazione era socchiusa e mentre si accingeva ad aprirla Martin si fermò sentendo una voce che dall’interno esclamava in tono deciso:

«Il problema non è questo, signor Ford». (Dalla sua corrispondenza con lui Martin aveva appreso che quello era il nome del direttore). «Il problema è se lei è disposto o no a pagare… a pagare in contanti, immediatamente. Non mi interessano le prospettive del «Transcontinental», né quale utile prevede di ricavarne l’anno prossimo. Quello che voglio è di essere pagato per ciò che faccio. E le dico già da adesso che il numero di Natale non andrà in macchina fino a che non avrò in mano i soldi. Buon giorno. Venga a trovarmi quando avrà i quattrini».

La porta fu spalancata e, dopo avere sfiorato Martin nell’uscire, un uomo con la faccia infuriata percorse il corridoio imprecando e stringendo i pugni. Martin decise di non andare dentro subito e rimase nell’atrio per un quarto d’ora. Quindi spinse l’uscio ed entrò. Era un’esperienza nuova, perché era la prima volta che si trovava in una redazione. In quell’ufficio evidentemente non si chiedevano i biglietti da visita, perché il fattorino annunciò a voce, in una stanza interna, che c’era un uomo che voleva vedere il signor Ford. Tornando il ragazzo richiamò Martin dal centro della stanza con un cenno della mano e lo condusse nell’ufficio privato dove il divino direttore officiava i suoi sacri misteri. La prima impressione del visitatore fu di una stanza ingombra e disordinata. Notò poi un uomo con basette di aspetto giovanile che lo guardava con curiosità da uno scrittoio a saracinesca dietro al quale era seduto. Martin fu sorpreso dall’espressione placida di quel volto. Era evidente che non era stato turbato dalla precedente discussione con quello della tipografia.

«Sono… sono Martin Eden», cominciò. («E voglio i miei cinque dollari», era ciò che avrebbe desiderato aggiungere).

Tuttavia, trattandosi del primo direttore che aveva conosciuto, preferì, anche considerando le circostanze, non affrontarlo in modo troppo brusco. Con sua grande sorpresa il signor Ford balzò in piedi esclamando: «Ma davvero?», e protendendosi con entrambe le braccia strinse con grande calore le mani di Martin.

«Non so dirle quanto sia lieto di vederla, signor Eden. Mi sono chiesto spesso che aspetto avesse».

Allontanandosi leggermente da lui posò gli occhi raggianti di felicità sul secondo vestito di Martin, che era anche il peggiore dei due, ormai irrimediabilmente logoro anche se i pantaloni avevano un’impeccabile piega ottenuta con il ferro prestatogli da Maria.

«Le confesso che la pensavo molto più anziano. Il suo racconto aveva una tale ampiezza di orizzonti e profondità di pensiero, era così vigoroso e maturo… Un vero capolavoro… Mi sono bastate poche righe per capirlo. Le dirò che la prima volta che l’ho letto… ma no, prima voglio farle conoscere i miei collaboratori».

Sempre discorrendo il signor Ford lo portò nell’ufficio della redazione, dove lo presentò al condirettore, signor White, un uomo magro e minuto con una mano stranamente gelata, come se soffrisse per il freddo, e con favoriti radi e lisci come la seta.

«E questo è il signor Ends, signor Eden. È il nostro direttore commerciale».

Martin si trovò a stringere la mano di un uomo calvo con uno sguardo inquieto e un viso abbastanza giovanile dal poco che se ne poteva vedere, perché era in gran parte ricoperto da una barba candida ben curata: era la moglie che ogni domenica provvedeva a questa operazione e a spuntargli anche i capelli sul collo.

I tre circondarono il visitatore, esprimendo tutti insieme la loro ammirazione, finché Martin ebbe l’impressione che lo facessero per vincere una scommessa su chi sarebbe stato il più bravo a guadagnare tempo.

«Spesso ci siamo chiesti perché non veniva a trovarci», disse il signor White.

«Non avevo i soldi del tram e vivo dall’altra parte della Baia», rispose seccamente Martin, deciso a dimostrar loro il suo assoluto bisogno di denaro.

Pensava che gli stessi laceri abiti che indossava fossero un segnale abbastanza eloquente della sua condizione. Ripetutamente, ogni qual volta se ne presentava l’occasione, accennò al motivo della visita, ma i suoi ammiratori facevano orecchi da mercante. Cantavano le sue lodi, gli dicevano che cosa avessero pensato del racconto leggendolo la prima volta, che giudizio ne avessero dato in seguito, che opinione ne avessero le loro mogli e gli altri familiari, ma non palesarono il minimo indizio di un’eventuale intenzione di pagarlo.

«Le ho detto come mi è capitato di leggere il racconto la prima volta?», disse il signor Ford. «No, ancora no, naturalmente. Arrivavo da New York e quando il treno si fermò a Ogden l’inserviente dell’ultimo turno portò a bordo il nuovo numero del “Transcontinental”».

Mio Dio! pensò Martin; tu puoi permetterti di viaggiare sui treni di lusso mentre io muoio di fame per i miserabili cinque dollari che mi devi. Fu preso da una grande rabbia. Il torto fattogli dai responsabili della rivista gli parve colossale, perché vivi erano in lui i ricordi di tutti quei cupi mesi, pieni di vane speranze, di stenti e di privazioni, e fortissimi avvertì i morsi della fame, che gli fecero venire in mente come non avesse mangiato nulla quella mattina, e poco anche il giorno precedente. In quel momento vide rosso. Quegli individui non erano neppure banditi: erano meschini ladruncoli. Con bugie e mezze promesse lo avevano derubato del suo racconto. Bene, avrebbe fatto loro vedere. Era assolutamente determinato a non lasciare l’ufficio fino a quando non avesse ricevuto il denaro. Si ricordò anche che, se non glielo avessero dato, non sarebbe potuto tornare a Oakland. Riuscì a controllarsi con uno sforzo, ma non poté impedire che la luce aggressiva che gli lampeggiava negli occhi li intimidisse e turbasse.

La loro conversazione divenne ancor più volubile. Il signor Ford ricominciò a narrare in che modo aveva letto la prima volta Il suono delle campane, mentre il signor Ends cercava di ripetergli quanto il racconto fosse piaciuto alla nipote, maestra in una scuola di Alameda.

«Vi dirò perché sono venuto», disse infine Martin. «Per ricevere il compenso del racconto che vi è piaciuto tanto. Mi pare che cinque dollari siano la cifra che prometteste di pagarmi alla pubblicazione».

Il signor Ford, i cui mobili lineamenti avevano immediatamente assunto un’espressione di sorridente disponibilità, cominciò a frugarsi addosso, ma si volse subito al signor Ends per dirgli che aveva dimenticato a casa il portamonete. Si vide chiaramente che il direttore commerciale ne fu contrariato; Martin notò che mosse di scatto il braccio quasi a proteggersi la tasca dei pantaloni, dove era evidente che teneva il denaro.

«Mi dispiace», disse il signor Ends, «ma ho pagato la tipografia meno di un’ora fa e non ho più spiccioli. È stata un’imprudenza da parte mia rimanere a corto di contanti, ma era una fattura non ancora in scadenza e la richiesta del tipografo, di concedergli un anticipo sul pagamento come favore personale, mi ha colto di sorpresa».

Entrambi volsero uno sguardo pieno di speranza verso il signor White, che si strinse nelle spalle con un sorriso. Lui, comunque, aveva la coscienza a posto. Era venuto al «Transcontinental» per conoscere la letteratura periodica, e invece era diventato soprattutto un esperto di problemi finanziari. Anche se la rivista gli doveva quattro mesi di stipendio, capiva benissimo che il tipografo doveva essere accontentato prima del condirettore.

«È una sfortuna, signor Eden, che lei sia venuto proprio in un momento come questo», ricominciò il signor Ford con aria disinvolta. «Semplice negligenza, glielo assicuro. Facciamo così. Domattina, prima di qualunque altra cosa, le spediamo l’assegno. Lei ha l’indirizzo del signor Eden, non è vero signor Ends?».

Sì, l’aveva, e l’indomani mattina le sue spettanze gli sarebbero state liquidate con precedenza assoluta su qualunque altra operazione. Martin aveva nozioni vaghe di pratiche bancarie, ma non capiva perché non fosse possibile dargli l’assegno allora invece di aspettare il giorno seguente.

«Allora siamo d’accordo, vero signor Eden?», disse il signor Ford. «Domani le spediamo l’assegno».

«Ho bisogno dei soldi oggi», rispose Martin imperturbabile.

«È una vera disdetta… se lei fosse venuto l’altro giorno…», riprese il signor Ford con dolcezza, ma fu interrotto dal signor Ends il cui sguardo inquieto tradiva un temperamento nervoso.

«Il signor Ford le ha già spiegato la situazione», disse con voce aspra. «E anch’io. L’assegno le sarà inviato…».

«Ho già spiegato anch’io», tuonò Martin, «e ho detto che voglio i soldi oggi».

Si era alquanto risentito per il tono sgarbato del direttore commerciale, che teneva d’occhio perché intuiva che nelle sue tasche si trovava tutto il denaro liquido del «Transcontinental».

«Non è il caso…», riprese il signor Ford.

In quel momento il signor Ends si girò bruscamente facendo l’atto di lasciare la stanza. Martin gli fu subito addosso, afferrandogli il collo con una mano e spingendolo a ritroso al punto tale che la barba immacolata dell’uomo, pur mantenendo il suo elegante candore, si trovò con la punta rivolta verso l’alto e formò con il soffitto un angolo di quarantacinque gradi. Con loro grande spavento, il signor White e il signor Ford videro il direttore commerciale scosso come un tappeto di Astrakan.

«Tira fuori i soldi, miserabile truffatore di giovani talenti!», l’incalzò Martin. «Scuci la grana se non vuoi che ci pensi io a spremerti fino all’ultimo centesimo». Quindi, rivolto ai terrorizzati spettatori: «State alla larga! Chi vuole metterci il becco la paga cara».

Il signor Ends stava soffocando e solo dopo che Martin ebbe allentato la stretta poté esprimere la sua disponibilità. In totale, dopo ripetute perquisizioni, dalle tasche dei pantaloni uscirono quattro dollari e quindici centesimi.

«Rovesciale», ordinò Martin.

Caddero altri dieci centesimi. Per sicurezza Martin contò una seconda volta il bottino della razzia.

«Adesso a te!», urlò al signor Ford. «Voglio altri settantacinque centesimi».

Il direttore editoriale non si fece pregare e vuotandosi le tasche fornì un contributo di sessanta centesimi.

«Sei sicuro di non avere altro?», gli chiese Martin con voce minacciosa prendendoglieli. «Quanto hai nei taschini del gilè?».

A dimostrazione della sua buona fede il signor Ford si rovesciò i taschini. Da uno dei due cadde un cartoncino. Lo raccolse e stava per rimetterlo al posto di prima quando Martin esclamò:

«Che cos’è?… Un biglietto del traghetto? Dammelo. Vale dieci centesimi. Lo metto insieme al resto. In totale ho così ricevuto quattro dollari e novantacinque centesimi. Mi dovete ancora cinque centesimi».

Guardò il signor White con fiero cipiglio e si accorse che quel fragile ometto gli stava porgendo un nichelino.

«Grazie!», disse Martin rivolto a tutti e tre. «Vi auguro una buona giornata».

«Bandito!», gli ringhiò dietro il signor Ends.

«Abietto ladruncolo!», ribatté Martin uscendo e sbattendo la porta.

Martin era così eccitato che quando si ricordò che «The Hornet» gli doveva quindici dollari per La peri e la perla, decise di andare subito a incassarli. Questa rivista era però gestita da un gruppo di giovani eleganti e dinamici che erano veri e propri pirati e avevano una straordinaria abilità nel derubare tutto e tutti, non esclusi i colleghi stessi. Pur a prezzo di qualche mobile sfasciato, il direttore (un ex-atleta) riuscì abilmente, con l’aiuto del direttore commerciale, dell’agente pubblicitario e del portiere, ad allontanare Martin dall’ufficio, accelerandone la discesa lungo le scale con uno spintone.

«Torni pure, signor Eden; saremo lieti di rivederla in qualunque momento», gli dissero ridendo dal pianerottolo superiore.

Martin si rialzò sogghignando.

«Puah!», rispose calmo. «Quelli del «Transcontinental» erano un branco di pecore, voi siete una scuderia di pugili professionisti».

Questa battuta fu accolta da nuove risate.

«Devo dire, signor Eden», esclamò il direttore editoriale, «che per essere un poeta non se la cava male neanche lei. Dove ha imparato quel diretto destro, se mi è lecito saperlo?».

«Dove tu hai imparato la doppia elson», rispose Martin. «Comunque ti verrà un occhio nero».

«Spero che il collo non ti faccia troppo male», gli disse gentilmente l’altro. «Che ne dici se andassimo tutti a bere per festeggiare… non il collo, naturalmente, ma il nostro piccolo scontro».

«Vengo, visto che ho perso».

E così rapinatori e rapinati bevvero insieme, trovandosi d’accordo sul fatto che la battaglia era stata vinta dai più forti e che i quindici dollari di La peri e la perla appartenevano di diritto alla redazione di «The Hornet».

XXXIV

Mentre Arthur rimase al cancelletto Ruth salì i gradini della casa di Maria. Sentì il rapido ticchettio della macchina per scrivere e quando Martin la fece entrare lo trovò impegnato nell’ultima pagina di una nuova opera. Era venuta per sapere con certezza se sarebbe stato a pranzo da loro nel giorno del Ringraziamento, ma prima che riuscisse a comunicargli il motivo della visita il fidanzato la coinvolse nell’argomento che in quel momento assorbiva tutta la sua attenzione.

«Voglio leggertelo», disse separando l’originale dalla copia in carta carbone e riassettandone i fogli. «È l’ultimo che ho composto, ed è molto diverso da ciò che ho scritto in precedenza. È così differente che ne ho quasi paura, anche se ho l’impressione che sia bello. Giudicherai tu. È un racconto hawaiano, che ho intitolato Wiki-Wiki».

Benché tremasse per il gelo della stanza e fosse rimasta impressionata, nel salutarlo, dalle mani fredde di lui, Ruth si accorse che Martin aveva ancora il viso rosso per l’eccitazione che aveva accompagnato lo slancio creativo. Alla fine della lettura, che lei aveva seguito con attenzione pur esprimendo a volte disapprovazione con cenni del capo, lui le chiese:

«Sinceramente, che cosa ne pensi?».

«Io… io non so», rispose Ruth. «Pensi… pensi che si venderà?».

«Temo di no», ammise lui. «È troppo esplicito per le riviste. Però è autentico, perbacco se lo è!».

«Ma perché insisti a scrivere cose del genere quando sai che non hanno mercato?», proseguì lei inesorabile. «Ti ostini a rimanere nel campo della letteratura perché vuoi che ti dia da vivere, non è vero?».

«Sì, hai ragione, ma questo malaugurato racconto mi ha preso la mano. Non ho potuto evitarlo. Sono stato trascinato a scriverlo».

«E quel personaggio, quel Wiki-Wiki… perché lo fai parlare in modo così rozzo? È questo che colpisce sfavorevolmente i direttori, che in questo modo sono giustificati nel rifiuto dei tuoi lavori».

«Perché il vero Wiki-Wiki si sarebbe espresso così».

«Ma è un linguaggio sconveniente».

«È la vita», rispose Martin con decisione. «Questa è la realtà. E io devo descriverla come la vedo».

Ruth non rispose: ci fu fra loro qualche istante di imbarazzato silenzio. Lui non la capiva proprio perché provava per lei un grande amore, e lei non capiva lui perché Martin era ormai troppo grande per il suo orizzonte angusto.

«Bene, ho incassato dal “Transcontinental”, disse lui nel tentativo di spostare la conversazione su un argomento più piacevole. Il ricordo di quelle tre facce ornate da barbe e basette e dell’espressione sbigottita che avevano avuto dopo essere stati privati dei quattro dollari e novanta centesimi e del biglietto del traghetto lo aveva fatto sorridere.

«Allora verrai!», esclamò lei con gioia. «Era per sapere questo che ero venuta».

«Verrò?», mormorò Martin distrattamente. «Dove?».

«Ma… a pranzo, domani. Avevi detto che saresti venuto se fossi riuscito a recuperare i soldi e a riscattare l’abito».

«Ah, dimenticavo», disse lui confuso. «Vedi, questa mattina sono venuti i vigili a sequestrare le due vacche e il vitellino di Maria e… Beh, lei non aveva soldi e così ho dovuto pagare la multa per lei. È lì che sono finiti i cinque dollari del «Transcontinental»… Il suono delle campane è finito nelle tasche dei vigili».

«Allora non verrai?».

Lui si guardò il vestito.

«Non posso».

Lacrime di delusione e di rimprovero brillarono negli occhi azzurri di Ruth, che però non disse nulla.

«Il prossimo giorno del Ringraziamento ceneremo insieme da Delmonico», le disse con tono allegro, «oppure a Londra, a Parigi, o in qualunque altro posto tu desideri. Ne sono sicuro».

«Qualche giorno fa ho visto sul giornale», esclamò lei cambiando bruscamente discorso, «che sono state fatte diverse nomine alle Poste. Tu eri arrivato primo nel concorso, non è vero?».

Fu costretto ad ammettere di avere ricevuto la lettera e di avere rinunciato all’impiego. «Sono sicuro… sono sicuro… di me», concluse. «Fra un anno guadagnerò più di dieci stipendi delle poste. Abbi pazienza e vedrai».

«Oh», fu tutto ciò che Ruth riuscì a dire quando egli ebbe finito. Si alzò e si mise i guanti. «Devo andare, Martin; Arthur mi sta aspettando».

La strinse a sé e la baciò, ma la trovò inerte: il corpo non fremeva di passione, le braccia non si avvolsero intorno a lui, le labbra non si posarono sulle sue con il solito calore.

Tornando in camera dopo averla accompagnata al cancelletto d’ingresso giunse alla conclusione che doveva essere arrabbiata con lui. Ma perché? Purtroppo il vigile aveva sequestrato le vacche di Maria, ma si trattava di un evento sfortunato di cui nessuno aveva colpa. Non lo sfiorò neppure il sospetto che avrebbe potuto comportarsi in modo diverso. Certo, sì, aveva qualche responsabilità per non avere accettato la nomina alle Poste. E poi Wiki-Wiki non le era piaciuto.

Quando venne il momento della distribuzione della corrispondenza del pomeriggio attese il postino sulle scale. Alla vista del fascio di grandi plichi a lui diretti fu assalito, come ogni volta, da un’ansia febbrile. Tuttavia una delle buste non era come le altre. Era piccola e sottile, e recava l’intestazione «The New York Overview». Stava già per aprirla quando si fermò a riflettere. Non poteva essere un’accettazione perché a quella rivista non aveva mandato nulla. Forse – ed ebbe un tuffo al cuore al pensiero che potesse essere vero – forse gli volevano commissionare un articolo; ma no, era inutile farsi illusioni.

In poche righe, redatte in stile formale e firmate dal capo redattore, lo si informava che alla presente si allegava una lettera anonima loro pervenuta, e lo si assicurava che la redazione della «Overview» si rifiutava sempre, e in qualunque circostanza, di prendere in considerazione la corrispondenza di questo genere.

Esaminando l’epistola in questione Martin si accorse che era scritta rozzamente a mano in caratteri stampatello. In mezzo a un florilegio di insulti sgrammaticati contro di lui vi si trovava l’affermazione che il «cosiddetto Martin Eden», che vendeva racconti alle riviste, non era uno scrittore ma un losco individuo capace solo di prendere le novelle da vecchi numeri di periodici, di ribatterle a macchina e di spacciarle per proprie. Il timbro sulla busta indicava che era stata imbucata a San Leandro. Martin non impiegò molto a scoprire l’autore: la lettera era contrassegnata in ogni sua parte dalle forme sintattiche, dal gergo e dalle storture linguistiche e mentali di Higginbotham. Ogni suo aspetto tradiva il grossolano pugno da droghiere del cognato.

Era perplesso. In che cosa lo aveva offeso? Tutto era così assurdo e incredibile. Non c’erano spiegazioni. Nel corso della settimana Martin ricevette una dozzina di lettere analoghe dai direttori di altrettante riviste dell’Est, che in questo caso, Martin dovette ammetterlo, si erano comportati correttamente. Alcuni, pur non conoscendolo, gli avevano persino manifestato la loro solidarietà. Era evidente che quel tipo di corrispondenza li infastidiva. Si accorse che quel malevolo tentativo di danneggiarlo era fallito, e si sarebbe tradotto, se mai, in un vantaggio per lui, perché l’attenzione di alcuni direttori era almeno stata richiamata sul suo nome. Una volta o l’altra, leggendo un suo manoscritto, avrebbero forse potuto ricordarsi di lui come dell’oggetto di una lettera anonima. Perché escludere che questa circostanza potesse, magari di poco, far pendere la bilancia in suo favore?

Fu in quel periodo che Martin precipitò nella stima di Maria. Una mattina la trovò in cucina piena di dolori, scossa da un pianto continuo causato dalla debolezza e in preda alla disperazione per l’impossibilità di riuscire a stirare una grande quantità di panni. Immediatamente egli capì che si trattava di influenza e dopo averle somministrato una dose di whiskey caldo (preso dai resti delle bottiglie portate da Brissenden) le ordinò di mettersi subito a letto. Maria però non ne voleva sapere. Protestò che se il lavoro non fosse stato finito e consegnato quella sera l’indomani non ci sarebbe stato da mangiare per i sette piccoli e famelici Silva.

Con sua grande sorpresa (era un episodio che avrebbe poi raccontato per tutta la vita), vide Martin Eden acchiappare un ferro dal fornello e gettare sull’asse una camicetta da inamidare. Era il miglior capo della festa di Kate Flanagan, la donna più pignola ed esigente in materia di abbigliamento nella cerchia di Maria. Inoltre, la signorina Flanagan si era vivamente raccomandata che la camicetta fosse consegnata prima di sera. Come era a tutti noto, usciva con John Collins, il fabbro, e Maria era venuta a sapere, in via confidenziale, che il giorno dopo insieme sarebbero andati al Golden Gate Park. Vani furono tutti i tentativi della sua padrona di casa di impadronirsi dell’indumento. Martin l’accompagnò traballante ad accomodarsi su una sedia, dalla quale lei l’osservò con gli occhi sbarrati. In un quarto del tempo che sarebbe occorso a lei vide la camicetta stirata a regola d’arte, bene come l’avrebbe fatto lei stessa, fu costretta ad ammettere.

«Potrei lavorare più rapidamente se i tuoi ferri fossero più caldi», spiegò Martin.

Secondo lei, la temperatura a cui li usava Martin era troppo alta per i suoi gusti.

«Sbagli a inumidire», le disse poi. «Sta’ attenta a come si fa. Conta molto la pressione. Spruzza mentre schiacci se vuoi stirare alla svelta».

Si procurò una cassetta da una catasta di legna ammucchiata in cantina, vi applicò un coperchio e prese tutti i rottami metallici che i piccoli Silva raccoglievano per lo straccivendolo. Poi mise i capi inumiditi nella cassetta, vi pose sopra il coperchio pressato dai rottami e si accinse alla dimostrazione.

«Adesso guardami, Maria», disse dopo essersi spogliato sino a rimanere in canottiera ed avere acchiappato un ferro che aveva definito «veramente caldo».

«E dopo che ha finito di stirare s’è messo a lavare le lane», ebbe a raccontare in seguito Maria. «Diceva, «Ehi, Maria, sei una sciocca. Te faccio vedere io come se lavano le lane», e proprio me ha fatto vedere. In dieci minuti m’ha fatto una macchina – un barile, un mozzo di ruota, due pali, tutto qua».

Martin aveva imparato il trucco da Joe a Shelly Hot Springs. Il vecchio mozzo di ruota, fissato all’estremità di una pertica verticale, costituiva lo stantuffo tuffante. Collegando questo, a sua volta, con il palo orizzontale attaccato alle travi della cucina in modo tale che potesse agire sulle lane del barile, riusciva in tal modo a lavarle con una sola mano.

«Maria non ha più avuto lane da lavare», diceva sempre a conclusione del suo racconto. «Ho fatto lavorare i bambini alla pertica, al pozzo e al barile. Furbo lui, il signor Eden».

Nonostante l’intelligente dispositivo e l’abilità dell’esecuzione, egli era comunque crollato nella considerazione di Maria. Il fascino romantico di cui la sua fantasia lo aveva ammantato era svanito alla fredda luce del fatto che era un ex lavandaio. Tutti quei libri, tutti gli amici importanti che lo andavano a trovare in carrozza o con un gran numero di bottiglie di whiskey si dissolsero nel nulla. Dopo tutto era un semplice operaio, un membro del suo ceto e della sua casta. Aveva acquistato calore umano, ma perso tutto l’alone di mistero.

L’estraniamento di Martin dalla sua famiglia proseguì. Dopo l’inspiegabile attacco di Higginbotham entrò in azione Hermann von Schmidt. La fortunata vendita di alcune novelle, di versi umoristici e di storielle comiche aveva concesso a Martin una breve fase di prosperità che gli consentì non solo di pagare i conti ma anche di riscattare l’abito scuro e la bicicletta. Poiché quest’ultima aveva una pedivella storta che doveva essere riparata Martin la mandò, per cortesia verso il futuro cognato, nell’officina di von Schmidt.

Il pomeriggio dello stesso giorno il mezzo gli fu consegnato da un garzone, inducendo Martin a concludere che l’altro voleva essere altrettanto gentile dal momento che le biciclette riparate dovevano essere ritirate dal proprietario stesso. Tuttavia, esaminandola, scoprì che il guasto non era stato eliminato. Telefonando più tardi al fidanzato della sorella venne a sapere che questi non voleva avere «proprio niente» da spartire con lui.

«Hermann von Schmidt», gli disse Martin in tono scherzoso, «ho una gran voglia di venirti a rompere quella faccia da olandese».

«Se vieni in officina», ribatté l’altro, «chiamo la polizia. Ti metto a posto io. Li conosco i tipi come te e con me non puoi fare il bullo. Io e te non abbiamo mai mangiato la minestra insieme. Tu sei un fannullone, ecco cosa sei, e non mi incanti. Non potrai fare lo scroccone con me solo perché sto per sposare tua sorella. Perché non vai a lavorare e a guadagnarti da vivere onestamente, eh? Rispondi».

Soffocando l’ira con il conforto della filosofia, Martin appese il ricevitore con un lungo fischio di divertita incredulità. E tuttavia dopo il sorriso ebbe una reazione. Si sentiva oppresso dalla solitudine. Nessuno lo capiva, nessuno voleva avere rapporti con lui, tranne Brissenden, che per altro era scomparso Dio solo sapeva dove.

Quando lasciò il fruttivendolo per dirigersi verso casa con la spesa sotto il braccio stava sopraggiungendo l’oscurità. All’angolo si era fermato il tram elettrico e alla vista di una figura allampanata che gli era familiare il cuore gli balzò per la gioia. Era Brissenden e in quell’attimo, prima che il tram ripartisse, Martin notò le tasche gonfie del soprabito, una per i libri, l’altra per una bottiglia di whiskey.

XXXV

Brissenden non diede alcuna spiegazione della lunga assenza e Martin non gli chiese nulla, lieto solo di vedere il viso cadaverico dell’amico seduto davanti a lui, dietro alla cortina di vapore che si alzava da un bicchiere di ponce.

«Neanch’io sono rimasto con le mani in mano», esclamò Brissenden dopo aver sentito il resoconto di Martin del lavoro che aveva fatto. Estrasse un manoscritto dalla tasca interna della giacca e lo passò a Martin, che, dopo aver visto il titolo, lo fissò con aria interrogativa.

«Proprio così», rise Brissenden. «Bel titolo, vero? Effimera era il termine che ci voleva. E la colpa è tua, con i tuoi discorsi sull’uomo, la creatura eretta, l’inorganico che ha preso vita, l’ultima delle effimere, l’essere legato alla temperatura che misura sul termometro la sua breve esistenza. Mi hanno ossessionato e ho dovuto liberarmene attraverso la scrittura. Dimmi che cosa ne pensi».

Martin, inizialmente rosso e accaldato, impallidiva a mano a mano che si inoltrava nella lettura. Era un’arte perfetta. La forma trionfava sulla sostanza, se trionfo si poteva chiamare quello di un’opera in cui ogni minima parte della materia aveva trovato espressione, in una costruzione così perfetta che Martin si sentì venir meno per l’emozione, mentre agli occhi gli spuntavano le lacrime e avvertiva brividi lungo la schiena. Era un lungo poemetto di sei o settecento versi, di una bellezza così stupefacente e irreale da sembrare impossibile; e tuttavia era lì, vergato in inchiostro nero su fogli di carta. Parlava dell’uomo e dei più remoti labirinti dell’anima, e si inoltrava negli abissi dello spazio alla ricerca dei soli e degli spettri cromatici più lontani. Era una folle orgia della fantasia scatenata nel cranio di un morente che singhiozzava sommesso, pronto a cogliere il palpito frenetico di un cuore sempre più debole. La poesia si sollevava in un ritmo maestoso fino al glaciale tumulto dei conflitti interstellari, all’assalto di eserciti celesti, all’impatto di stelle fredde e all’avvampare delle nebulose nel buio del vuoto; e in mezzo a tutto, continua e sottile, era la fragile ma acuta voce dell’uomo, un querulo cinguettio fra l’urlo dei pianeti e il rombante fracasso dei sistemi solari.

«Non conosco nulla di simile in letteratura», disse Martin quando infine riuscì a parlare. «È meraviglioso!… meraviglioso! Mi è andato alla testa. Ne sono rimasto inebriato. Quell’infinitesima, grande domanda… non riesco a cancellarmela dal pensiero. Quella piccola, sottile e tremante voce d’uomo, che eternamente interroga e ripete, mi risuona in continuazione nelle orecchie. È come la marcia funebre di un moscerino fra i barriti degli elefanti e i ruggiti dei leoni. È un desiderio minuscolo e insaziabile. So di rendermi ridicolo, ma ne sono ossessionato. Sei – non so come definirti – sei meraviglioso e basta. Ma come fai? Come fai?».

Martin fece una pausa in quel panegirico, ma subito riprese.

«Non scriverò più. Sono solo un dilettante, che si diverte a giocare con la creta, mentre tu sei il vero artista-creatore. Geniale! È una cosa che va al di là del genio, che lo trascende. È la verità impazzita. È autentica in ogni suo verso. Mi chiedo se tu te ne renda conto, uomo dogmatico! La Scienza non può smentirti. È la verità della risata di scherno, forgiata sul ferro nero del Cosmo e impressa con ritmi e suoni possenti in un tessuto di splendore e di bellezza. Ma adesso non parlo più. Ne sono stato travolto, annientato. Sì… voglio proprio farlo. Permettimi di trovarti un editore».

Brissenden sogghignò. «Non c’è una sola rivista in tutta la Cristianità che oserebbe stamparla… e lo sai».

«Perché dici questo? Io so che non c’è rivista nelle terre della Cristianità che non farebbe carte false per averlo. Cose di questo genere non si trovano tutti i giorni. Non è la poesia dell’anno. È la poesia del secolo».

«Vorrei proprio scommettere con te».

«Non essere cinico, via», insistette Martin. «I direttori dei periodici non sono del tutto stupidi. Lo so. E accetterò la tua sfida. Scommetto tutto quello che vuoi che Effimera sarà pubblicato subito o quasi subito».

«C’è solo una cosa che mi impedisce di accettare la scommessa». Brissenden si fermò un istante. «È una cosa grande… la più grande che abbia mai fatto. Lo so. È il mio canto del cigno. Ne sono estremamente orgoglioso. Lo venero. È più importante del whiskey. È quello che sognavo – la cosa immensa e perfetta – quando ero giovane e ingenuo, pieno di dolci illusioni e di ideali di purezza. E ora che ce l’ho me la tengo stretta fra le mani, non voglio che sia insozzata dalle zampacce di un branco di porci. No, non accetterò la scommessa. È mia. L’ho fatta e l’ho divisa con te».

«Ma pensa al resto del mondo», protestò Martin. «La funzione della bellezza è di dare gioia».

«È la mia bellezza».

«Non essere egoista».

«Non sono egoista». Brissenden sorrise beffardo come faceva sempre quando pregustava il piacere di ciò che stava per dire con le sue labbra sottili. «Sono altruista come un maiale famelico».

Invano Martin si sforzò di farlo recedere da quella decisione. Gli disse che il suo odio per le riviste era cieco e fanatico e che quella condotta era di gran lunga più condannabile del gesto del giovane che aveva incendiato il tempio di Diana a Efeso. Investito da quella tempesta di accuse Brissenden sorseggiava compiaciuto il ponce e rispondeva che tutto ciò che l’altro gli diceva era vero, tranne quello che riguardava i direttori dei periodici. L’avversione che provava per loro era senza limiti e, nel parlarne, superava Martin nella virulenza della denuncia.

«Vorrei che me lo battessi a macchina», disse. «Sei molto più abile di un dattilografo. E ora voglio darti un consiglio». Estrasse un voluminoso manoscritto dalla tasca esterna della giacca. «Ecco il tuo La vergogna del sole. L’ho letto, e non una volta sola, ma due o tre, e ti faccio i miei complimenti. Dovrei restarmene zitto dopo tutti gli elogi che tu hai fatto di Effimera, ma solo questo voglio dirti: quando sarà pubblicato, sarà una bomba. E darà inizio a una polemica che sarà per te una straordinaria pubblicità».

Martin si mise a ridere. «Immagino che mi consiglierai anche di proporlo alle riviste».

«Niente affatto… almeno se vuoi vederlo pubblicato. Offrilo alle migliori case editrici. Potresti imbatterti in qualche lettore di manoscritti così pazzo o ubriaco da parlarne favorevolmente. Tu hai letto i libri giusti. Quanto di buono contenevano è stato elaborato nell’alambicco della mente di Martin Eden e versato nella Vergogna del sole; un giorno Martin Eden sarà famoso e una parte non piccola della sua reputazione si fonderà su quest’opera. Devi quindi trovarti un editore – il più presto possibile».

Quella sera Brissenden andò a casa tardi, e proprio mentre stava salendo sul primo scalino del tram si volse all’improvviso verso Martin e gli mise in mano un pezzo di carta appallottolata.

«Prendi questo», disse. «Oggi sono stato alle corse e mi hanno dato la dritta giusta».

A quel punto suonò la campanella del tram e la vettura partì, lasciando Martin perplesso sulla natura di quel foglio unto e raggrinzito che stringeva in mano. Tornato in camera sua lo spiegò e vide che era una banconota da cento dollari.

Non esitò un momento ad usarlo. Sapeva che l’amico aveva sempre molti soldi ed era anche convinto, profondamente convinto, che il futuro successo gli avrebbe consentito di restituirgli quel denaro. La mattina saldò tutti i conti, diede a Maria un anticipo di tre mesi sull’affitto e riscattò tutto ciò che aveva depositato al banco dei pegni. Comprò anche un regalo di nozze per Marian e doni più semplici destinati, in occasione del Natale, a Ruth e Gertrude. Infine, con quanto gli restava, portò con sé nel centro di Oakland tutti i giovani Silva. Riuscì così a mantenere, con un anno di ritardo, la promessa fatta. Tutti i bambini, e Maria stessa, ebbero un paio di scarpe nuove, e tornarono a casa con le braccia colme di trombette, bambole, giocattoli vari e pacchi e confezioni di caramelle e frutta secca.

Mentre, seguito da questo straordinario codazzo di ragazzini, entrava con Maria dal pasticciere con l’intenzione di comprare il lecca-lecca più grosso che fosse mai stato fatto, incontrò Ruth e la madre. La signora Morse ne rimase scandalizzata, e anche Ruth ci restò male, perché era molto sensibile alle forme, e non fu contenta di vedere il fidanzato capeggiare con Maria, con cui sembrava avere rapporti di grande familiarità, una banda di scugnizzi portoghesi. E più ancora fu colpita da quella che considerò mancanza di orgoglio e di rispetto per se stesso. Inoltre, e questa fu la conseguenza più grave di tutte, le parve che quell’episodio fosse la rivelazione dell’impossibilità, da parte di lui, di liberarsi della sua estrazione operaia. Quella macchia d’origine era già abbastanza spiacevole, ma esibirla così spudoratamente davanti a tutto il mondo, il suo mondo, era veramente troppo. Benché il fidanzamento con Martin fosse stato mantenuto segreto, la loro lunga intimità non era sfuggita ai pettegolezzi; e nel negozio c’erano molti conoscenti, che lanciavano occhiate furtive al suo innamorato e al corteo che lo seguiva. Priva della grande generosità di Martin, Ruth non era in grado di superare le angustie del proprio ambiente. Quell’incontro l’aveva ferita, e la sua natura sensibile soffriva per la grande vergogna che provava. E così quando più tardi, nel corso della stessa giornata, Martin andò a trovarla, si tenne in tasca il regalo che le aveva comprato, proponendosi di darglielo in un’occasione più propizia, perché le lacrime di Ruth – lacrime di irritazione e di rabbia – furono per lui una vera rivelazione. Quello spettacolo doloroso lo convinse di essersi comportato in modo inqualificabile, anche se in cuor suo non avrebbe saputo dire di che natura fosse l’offesa. In ogni caso non immaginò neppure per un istante che avrebbe dovuto vergognarsi di quelli che conosceva. Non gli sembrava che portare fuori i Silva per far festeggiare anche a loro il Natale potesse tradursi in alcun modo in una mancanza di riguardo nei confronti di Ruth. Dopo che la ragazza gli ebbe spiegato che cosa aveva fatto, capì tutto e lo considerò una debolezza femminile, da cui tutte le donne, anche le migliori, erano inevitabilmente afflitte.

XXXVI

«Vieni – voglio mostrarti la vera feccia», gli disse Brissenden una sera di gennaio.

Avevano pranzato insieme a San Francisco ed erano nella sala d’aspetto in attesa del traghetto che li avrebbe riportati a Oakland quando all’amico era venuto quello strano desiderio. Si girò e prese a correre per il lungomare, un’ombra scheletrica avvolta in un soprabito svolazzante, seguito da Martin che faticava a stargli dietro. A una bottiglieria all’ingrosso comprò due damigianette di porto che portò egli stesso sul tram diretto a Mission Street; all’amico aveva invece affidato diverse bottiglie di whiskey.

Se Ruth mi vedesse ora, pensava Martin, curioso di sapere come fosse questa «vera feccia».

«Forse non ci sarà più nessuno», disse Brissenden quando, scesi dal tram, girarono verso destra, tuffandosi nel cuore del quartiere operaio che si trovava a sud di Market Street. «In tal caso non potrai conoscere quelli che da tempo cercavi».

«Chi diavolo sono?», chiese Martin.

«Uomini veri, esseri intelligenti, molto diversi dalle blateranti nullità con cui te la facevi quando ti ho scoperto nella tana di quel mercante. Con le tue vaste letture ti sei accorto di essere solo. Questa notte voglio presentarti ad altri che hanno letto libri e darti così la possibilità di non soffrire più di solitudine.

«Non che m’importi delle loro interminabili discussioni», aggiunse quando arrivarono alla fine dell’isolato. «La filosofia libresca non m’interessa. Però vedrai che si tratta di gente con la testa sulle spalle, e non di maiali borghesi. Comunque sta’ attento, perché sono capaci di metterti sotto in qualunque tipo di discussione.

«Spero che ci sia Norton», disse poco dopo con voce affannosa sottraendosi al tentativo di Martin di prendergli le damigianette. «È un idealista, che ha studiato a Harvard. Memoria prodigiosa. L’idealismo lo ha condotto all’anarchia, e la famiglia gli ha tagliato i viveri. Il padre è presidente di una compagnia ferroviaria e ha un sacco di soldi, ma lui fa la fame a San Francisco dirigendo un foglio anarchico per venticinque dollari al mese».

Conoscendo poco la città e non essendo mai stato a sud di Market Street, Martin non aveva idea di dove fossero diretti.

«Prima che arriviamo parlami un po’ di loro», disse. «Che cosa fanno per vivere? Come sono capitati qui?».

«Spero che ci sia Hamilton», disse Brissenden fermandosi e appoggiando a terra il carico per riposarsi. «In realtà il suo nome completo è Strawn-Hamilton. Viene da una vecchia famiglia del Sud. Fa il vagabondo… è l’uomo più pigro che abbia mai conosciuto, anche se ha un posto di impiegato, almeno in teoria, in una cooperativa socialista a sei dollari la settimana. Ma è un barbone per sua scelta. È arrivato qui dopo aver girato vari posti. L’ho visto rimanersene seduto su una panchina per tutto il giorno senza dire una parola e la sera rispondermi, dopo che l’avevo invitato al ristorante a due isolati di distanza: «Troppa fatica vecchio mio. Dammi invece un pacchetto di sigarette». Era uno spenceriano come te, fino a quando Kreis non lo convertì al monismo materialistico. Lo farò parlare del monismo, se ci riesco. Anche Norton è monista, solo che crede che l’unica realtà sia quella dello spirito. Però è capace di mettere sotto tanto Kreis che Hamilton».

«Chi è Kreis?».

«Stiamo andando proprio da lui. È un ex professore di università… licenziato dall’ateneo… la solita storia. Una mente di ferro. Si guadagna da vivere in tutti i modi. So che una volta, spinto dal bisogno, ha fatto il fachiro nelle strade. Privo di scrupoli. Ruberebbe il sudario a un morto, o anche peggio. La differenza fra lui e i borghesi è che lui lo fa senza alcuna illusione. Parla di Nietzsche, Schopenhauer, Kant o altri, ma la sola cosa che gli stia veramente a cuore al mondo, anche più di Mary cui è molto affezionato, è il monismo. Haeckel è il suo idolo. Il solo modo di farlo arrabbiare è di parlarne male.

«Il posto è qua». Prima di salire le scale Brissenden posò il suo carico a terra per riprendere fiato. Era il solito fabbricato d’angolo a due piani, con un saloon e una drogheria al pianterreno. «Tutta la banda abita qui… hanno l’intero piano per loro. Kreis è l’unico con due stanze. Andiamo».

Nel pianerottolo superiore non c’erano luci, ma Brissenden si muoveva nel buio con la disinvoltura di un fantasma che conosceva la casa. Si fermò per parlare con Martin.

«Ce n’è uno, Stevens, che è teosofo. Quando attacca a parlare fa una grande confusione. In questo momento è lavapiatti in un ristorante. Gli piacciono i buoni sigari. L’ho visto pranzare in una bettola da dieci centesimi e spenderne cinquanta per il sigaro da fumare dopo il pasto. Ne ho in tasca un paio per lui, se si farà vedere.

«E ce n’è un altro, Parry, che è un’enciclopedia ambulante per lo sport e per le statistiche. Se gli chiedi qual è stata la produzione di grano in Paraguay nel 1903, o a quanto ammontarono le importazioni di lamiera inglese in Cina nel 1890, o quale era il peso di Jimmy Britt prima dell’incontro con Battling Nelson o chi è stato campione degli Stati Uniti dei medioleggeri nel ’68, ti dà la risposta esatta con la velocità di una macchina. C’è Andy, muratore, che sa parlare di tutto ed è un ottimo scacchista, e un altro tipo, Harry, fornaio, acceso socialista e molto impegnato con i sindacati. A proposito, ti ricordi della manifestazione dei cuochi e dei camerieri? È stato Hamilton a organizzare l’associazione e a spingere per lo sciopero… aveva preparato tutto alla perfezione proprio qui, nelle stanze di Kreis. L’ha fatto perché gli piaceva, ma era troppo pigro per restare nel sindacato. Avrebbe potuto fare carriera se l’avesse voluto. Avrebbe immense possibilità, se non fosse così incredibilmente indolente».

Brissenden avanzò nell’oscurità fino a quando una fessura di luce non indicò la soglia di una porta. Un battito di nocche e una risposta introdussero Martin nella stanza, dove si trovò a stringere la mano di Kreis, un uomo bruno di bella presenza con denti candidi, baffi spioventi e grandi occhi luminosi. Mary, una ragazza bionda giovane, ma di aspetto matronale, lavava i piatti nel minuscolo locale che fungeva da cucina e sala da pranzo, mentre la stanza anteriore serviva da camera da letto e soggiorno. Il bucato della settimana, steso sui fili, pendeva così basso che Martin non si accorse subito dei due uomini che parlavano in un angolo e che accolsero con entusiasmo l’arrivo di Brissenden e delle damigianette. Quando fu loro presentato, Martin venne a sapere che erano Andy e Parry. Unitosi a loro ascoltò con attenzione la descrizione di un incontro di pugilato che Parry aveva visto la sera prima, mentre Brissenden soddisfatto del successo che aveva suscitato, si immergeva nella preparazione di un ponce e nella distribuzione di bicchieri di vino e di whiskey e soda. Al suo ordine, «Fa venire la banda», Andy uscì per chiamare gli altri membri della comune che si trovavano nelle loro stanze.

«Molti di loro sono in casa, siamo stati fortunati», bisbigliò Brissenden a Martin. «Ecco Norton e Hamilton; vieni a conoscerli. Mi dicono che Stevenson non c’è, invece. Se posso, porto il discorso sul monismo. Aspetta che abbiano preso qualche cicchetto e vedrai come partiranno».

Benché all’inizio la conversazione fosse frammentaria, Martin non poté fare a meno di notare la loro vivacità intellettuale. Erano uomini che avevano le idee chiare, anche se spesso in contrasto fra loro e, pur essendo spiritosi e arguti, non erano superficiali. Vide subito che, qualunque argomento dibattessero, portavano nella discussione la loro cultura, e che della società e del Cosmo avevano una concezione profonda e unitaria. Non avevano opinioni prefabbricate; con modi e contenuti diversi, erano tutti ribelli, e dalle loro labbra non uscivano mai banalità. A casa dei Morse Martin non aveva mai sentito conversazioni su una tale varietà di argomenti. Non c’era limite, se non quello del tempo, alle cose che li interessavano. Passavano dal nuovo libro della Humphry Ward all’ultima commedia di Shaw e dal futuro del teatro ai ricordi di Mansfield. Commentavano con ammirazione o sarcasmi gli editoriali dei quotidiani della mattina, saltavano dalle condizioni di lavoro nella Nuova Zelanda a Henry James e a Brander Matthews, discutevano delle mire tedesche nell’Estremo Oriente e degli aspetti economici del «Pericolo giallo», si accapigliavano sulle elezioni in Germania e sull’ultimo discorso di Bebel e finivano con la politica locale, con gli ultimi piani e scandali del partito laborista e con le decisioni adottate per realizzare lo sciopero dei marittimi. Conoscevano ciò di cui i giornali non parlavano mai: i fili, le corde e le mani che dietro le quinte manovravano le marionette. Con sorpresa di Martin la ragazza, Mary, prese parte alla conversazione, dimostrando un’intelligenza che non aveva mai trovato nelle poche donne che aveva incontrato. Parlarono di Swinburne e Rossetti, prima che lei si addentrasse nei meandri, a lui ignoti, della letteratura francese. Tuttavia poté prendersi la rivincita quando, in risposta a una sua difesa di Maeterlinck, lui le espose la tesi attentamente elaborata nella Vergogna del sole.

Erano entrati parecchi altri uomini e l’aria era impregnata di fumo di tabacco quando Brissenden mise in atto il suo piano.

«Ecco un altro eretico da convertire, Kreis», disse, «un giovinetto fresco e roseo che ha preso una tremenda cotta per Herbert Spencer. Portalo a Haeckel, se ti riesce».

Kreis parve scuotersi e vibrare come una macchina elettrica, mentre Norton guardava Martin con benevola simpatia e un sorriso dolce e materno, quasi a volergli dire che era sotto la sua protezione.

Inizialmente Kreis si rivolse a Martin, ma a poco a poco, in reazione alle interferenze di Norton, cominciò una battaglia personale con lui. Martin non credeva alle proprie orecchie. Gli sembrava impossibile che potesse esistere un posto come quello, meno che mai nel ghetto proletario a sud di Market Street. I libri acquistavano vita in quegli uomini, che parlavano con ardore ed entusiasmo, mossi da stimoli della mente come altri lo erano dalla rabbia e dal bere. Ciò che sentiva non era più il pensiero astratto stampato nelle pagine di mitici semidei come Kant e Spencer, ma una filosofia viva, palpitante e sanguigna, che si incarnava in quei due uomini e ne rifletteva i lineamenti, distorti nell’animosità della discussione. Di tanto in tanto altri intervenivano nel dibattito, che tutti seguivano con la faccia tesa, e così intenti che le sigarette si spegnevano nelle loro mani.

L’idealismo non aveva mai attratto Martin, ma l’esposizione che ne fece Norton fu una rivelazione. Quella plausibilità logica che aveva sempre avuto per lui un grande fascino intellettuale era ignorata da Kreis e Hamilton, che si facevano beffe delle propensioni metafisiche di Norton; questi, a sua volta, ribatteva con altrettanta ironia, rivolgendo ai suoi interlocutori accuse analoghe. Fenomeno e noumeno venivano lanciati da una parte e dall’altra. I due rinfacciarono all’avversario di aver voluto spiegare la coscienza con la coscienza, ed egli li criticò per il loro vuoto verbalismo, per aver tentato di arrivare alla teoria dalle parole invece che dai fatti. Questa argomentazione li indignò. Punto fermo del loro modo di ragionare era iniziare dai fatti e darne una definizione.

Quando Norton si addentrò nelle complessità del sistema kantiano, Kreis gli ricordò che, morendo, tutte le piccole e rispettabili filosofie tedesche finivano a Oxford. Poco dopo Norton rammentò loro la «legge della parsimonia» di Hamilton, che essi immediatamente rivendicarono come base di ogni loro argomentazione. Chinato su se stesso, con le braccia intrecciate intorno alle ginocchia, Martin seguiva quella scena con l’animo pieno di gioia. Tuttavia Norton, che non era spenceriano, cercava di conquistarlo alla sua filosofia discutendo con lui oltre che con i suoi due avversari.

«È noto che nessuno è riuscito a dare una risposta a Berkeley», disse guardando direttamente Martin. «Spencer è quello che ci si è avvicinato di più, ma non lo ha fatto in modo soddisfacente e neppure il più fedele seguace di Spencer potrà andare più in là. L’altro giorno leggevo un saggio di Saleeby, il quale in sostanza diceva che Herbert Spencer è quasi riuscito a rispondere a Berkeley».

«Sai che cosa ha detto Hume?», chiese Hamilton. Norton annuì, ma Hamilton lo citò ugualmente a beneficio di tutti. «Ha detto che le argomentazioni di Berkeley non ammettono risposta, ma non sono convincenti».

«Per lui, per Hume», rispose l’altro. «E lui ragionava come te, con questa differenza: che ebbe l’accortezza di ammettere che non era possibile dare una risposta a Berkeley».

Pur essendo sensibile ed emotivo, Norton non perdeva mai la testa, mentre Kreis e Hamilton erano come due selvaggi freddi e crudeli che cercavano di colpire il nemico nei punti più deboli e dolenti. Con l’avanzare della notte Norton, punto sul vivo dalle ripetute accuse di essere un metafisico, lanciò un’offensiva in grande stile contro la posizione degli altri due, con le mani aggrappate alla sedia per resistere alla tentazione di balzare in piedi, gli occhi grigi sfolgoranti e il viso femmineo indurito in un’espressione decisa e sicura.

«D’accordo, discepoli di Haeckel, forse io ragiono come un ciarlatano, ma voi? Voi non avete nulla su cui appoggiarvi, con le vostre dogmatiche fumosità sulla scienza positiva, che piazzate continuamente in posti in cui non ha alcun diritto di stare. Molto tempo prima che nascesse la scuola del monismo materialistico, è venuta meno la base che poteva servirle da punto d’appoggio. Fu Locke a farlo, John Locke. Duecento anni fa, anzi di più, nel suo Saggio sull’intelletto umano dimostrò l’inesistenza delle idee innate. Il bello è che questo è proprio ciò che pretendete. Stasera, diverse volte, avete asserito che le idee innate non esistono.

«Che cosa significa? Significa che non si potrà mai conoscere la realtà ultima. Alla nascita il cervello è tabula rasa. Gli aspetti, o fenomeni sono le sole cose che la mente riceve dai cinque sensi. E i noumeni, che non sono nella mente quando nasciamo, non ci possono entrare…».

«Nego…», intervenne Kreis interrompendolo.

«Aspetta che abbia finito», urlò Norton. «L’interazione fra forza e materia è conoscibile solo nella misura in cui si ripercuote, in qualche modo, sui nostri sensi. Come vedete, sono disposto ad ammettere, provvisoriamente, che la materia esiste. Ora procederò a confutarvi usando le vostre stesse argomentazioni. Non posso farlo in alcun altro modo perché avete un’incapacità congenita di afferrare l’astrazione filosofica.

«Che cosa si sa della materia secondo la vostra scienza positiva? La si conosce solo dai fenomeni, dalle apparenze. Si è consapevoli solo dei suoi cambiamenti, oppure dei mutamenti avvenuti in essa che modificano la nostra coscienza. La scienza positiva si occupa solo dei fenomeni, ma voi siete così sciocchi da invadere il campo dell’ontologia e affrontare i noumeni. Eppure per la definizione stessa della scienza positiva, la scienza tratta solo le apparenze. Come ha detto qualcuno, la conoscenza fenomenica non può trascendere i fenomeni.

«Anche annientando Kant non riuscite a dare una risposta a Berkeley, e tuttavia implicitamente dite che ha torto quando affermate che la scienza prova la non esistenza di Dio, ovvero l’esistenza della materia, che poi è la stessa cosa. Come ricorderete, ho ammesso la realtà della materia solo per farvi capire meglio. Limitatevi alla scienza positiva, per favore, e lasciate stare l’ontologia, che con essa non ha nulla a che fare. Spencer ha ragione nel suo agnosticismo, ma se egli…».

Era l’ora di prendere l’ultimo traghetto per Oakland, e Brissenden uscì in punta di piedi con Martin, lasciando Norton ancora infervorato a parlare e Kreis e Hamilton pronti a saltargli addosso come due segugi non appena avesse finito.

«Mi hai fatto conoscere il paradiso», disse Martin sul battello. «Fa bene al cuore incontrare persone così. Ho il cervello in subbuglio. Prima di stasera non avevo mai apprezzato l’idealismo, e tuttora non riesco ad accettarlo. Mi rendo conto che sarò sempre un realista. Forse lo sono costituzionalmente. Ma mi sarebbe piaciuto rispondere a Kreis e Hamilton e penso che avrei qualche argomento a favore delle tesi di Norton. Non mi pare che Spencer ne sia uscito male. Devo però leggere altre cose e ho intenzione di procurarmi il Saleeby. Sono sempre convinto che Spencer sia inattaccabile e la prossima volta voglio anch’io dire la mia».

Ma Brissenden non lo sentiva: si era addormentato e respirava affannosamente con la testa reclinata sul petto incavato e il mento fasciato in una sciarpa, mentre il corpo, avvolto nel lungo soprabito, era scosso dalla vibrazione delle eliche.

XXXVII

La prima cosa che Martin fece la mattina seguente fu di non seguire la raccomandazione di Brissenden e, messa in un plico la Vergogna del sole, la spedì a «The Acropolis». Era persuaso che poteva essere accettata da qualche periodico e aveva l’impressione che un tale riconoscimento sarebbe stato un buon biglietto di presentazione per le case editrici. Fece lo stesso con Effimera. Nonostante le prevenzioni di Brissenden contro queste pubblicazioni, ormai diventate una vera e propria mania, Martin decise che quella grande opera poetica doveva vedere la luce. Non intendendo però farlo contro la volontà dell’autore, si proponeva di procurarsi l’accettazione da parte di una rivista di grande prestigio e di servirsene per riprendere l’argomento con Brissenden e strapparne l’assenso.

Quella mattina Martin iniziò un racconto che aveva abbozzato qualche settimana prima e che da allora lo ossessionava, quasi reclamando a gran voce di essere scritto. In apparenza si trattava di una briosa storia di mare, una novella moderna piena di fascino e di avventura, con personaggi reali, in un mondo reale e in condizioni reali. E tuttavia, sotto le alterne vicende della narrazione, ci sarebbe stato qualcos’altro – qualcosa che il lettore superficiale non avrebbe mai scoperto e che d’altro canto non ne avrebbe in alcun modo pregiudicato l’interesse e il godimento. Era quest’ultimo elemento, e non il racconto puro e semplice, che spingeva Martin a scriverlo. D’altronde la trama gli era sempre suggerita da un grande tema universale, intorno al quale disporre, in una specifica situazione di spazio e di tempo, i personaggi particolari che gli servivano per esprimerlo. Pensava che la novella, cui aveva deciso di dare il titolo di Scaduto, non sarebbe andata oltre le sessantamila parole – un’inezia per un creatore vigoroso come lui. Quel primo giorno affrontò l’opera con la gioiosa fiducia dell’artefice che ha la padronanza assoluta dei propri strumenti. Non lo frenava più la preoccupazione che le affilatissime lame di quegli utensili, sfuggendogli di mano, gli rovinassero il lavoro. I lunghi e intensi mesi di studio e applicazione davano i loro frutti. Ora poteva dedicarsi con mano sicura alle ampie volute della figura che aveva delineato e con il passare delle ore sentiva vibrare in sé, come mai prima di allora, l’afflato cosmico che intuiva nella vita e in tutte le sue manifestazioni. Scaduto avrebbe raccontato una storia vera nei personaggi e nelle vicende narrative; ma avrebbe anche rivelato, ne era convinto, straordinarie verità, valide in tutti i tempi, in tutti i mari, in tutta l’esistenza – e tutto ciò grazie a Spencer, rifletté alzando un istante la testa dal tavolo. Sì, grazie a Herbert Spencer e alla chiave della vita, l’evoluzione, che gli aveva messo fra le mani.

Era conscio che stava scrivendo cose grandi. «Sfonderò! Sfonderò!», era il ritornello che gli risuonava in continuazione nel cervello. Avrebbe certamente sfondato. Finalmente stava producendo qualcosa che sarebbe stato conteso dalle riviste. Tutta la storia gli si dispiegò davanti in una serie di folgoranti visioni. Si interruppe per il tempo necessario ad annotare una frase sul taccuino. Sarebbe stata l’ultima del racconto, che aveva ormai così lucidamente impresso nella mente da riuscire a formulare, molto tempo prima di arrivare alla fine, le parole con cui si sarebbe concluso. Confrontò l’opera ancora non scritta con altre novelle di argomento marino, e sentì che era immensamente superiore ad esse. «C’è solo uno scrittore in grado di affrontare questo tema», mormorò fra sé, «ed è Conrad. Sarà qualcosa che indurrà persino lui a cercarmi e a stringermi la mano dicendomi “Ben fatto, Martin, ragazzo mio”».

Lavorò come un mulo tutto il giorno, ricordandosi solo all’ultimo momento che era invitato a cena dai Morse. Grazie a Brissenden aveva potuto riscattare l’abito scuro ed era di nuovo in grado di accettare gli inviti a pranzo. Nel centro della città si fermò un momento per cercare in biblioteca i libri di Saleeby. Prese The Cycle of Life e sul tram l’aprì al saggio su Spencer citato da Norton. Fu preso, leggendo, da una crescente irritazione che gli fece avvampare la faccia, gli fece stringere le mascelle e lo portò a serrare e a riaprire ripetutamente il pugno come se stesse stritolando a più riprese un essere odioso al quale voleva togliere la vita. Sceso dal tram, si avviò a grandi passi lungo il marciapiede come preso da una grande rabbia e suonò il campanello dei Morse con una tale decisione che rientrando in sé si accorse della condizione in cui si trovava e si controllò, riuscendo persino a sorridere divertito di se stesso. Tuttavia, non appena ebbe oltrepassato l’uscio, fu preso da una tremenda depressione. Precipitando dalle altezze alle quali era rimasto tutto il giorno sotto la spinta dell’ispirazione, riudiva nella mente le parole usate da Brissenden – «borghese», «la tana di quel mercante». E con ciò? si chiese infuriato. Sposava Ruth, non la sua famiglia.

Gli sembrava di non aver mai visto Ruth così bella, spirituale ed eterea, e contemporaneamente così sana e florida. Aveva le guance colorite, e più volte fu attratto dagli occhi di lei – quegli occhi in cui per la prima volta aveva conosciuto l’immortalità. Ultimamente, assorbito dalle sue letture scientifiche, aveva dimenticato quella visione, che ora, nello sguardo dell’amata, riappariva come una sublime intuizione al di sopra di ogni argomentazione logica. In quegli occhi aveva scorto l’amore davanti a cui tutto spariva. L’amore era anche nel proprio sguardo, e non consentiva risposta. Era questa la sua suprema dottrina.

La mezz’ora che trascorse con lei prima che la cena fosse servita lo rese straordinariamente felice e contento della vita. Ciò nonostante, a tavola, l’inevitabile reazione e la spossatezza dovute alla fatica della giornata si impadronirono di lui. Si accorse di avere gli occhi stanchi e di essere irritabile. Si ricordò che proprio a quella tavola, che adesso disprezzava e alla quale spesso si annoiava, aveva mangiato per la prima volta in compagnia di persone civili in un’atmosfera che allora immaginava satura di grande cultura e raffinatezza. Rivide quella sua patetica figura di non molto tempo prima, un selvaggio imbarazzato che emanava sudore da ogni poro in preda a una terribile paura, paralizzato dai dubbi sugli usi delle posate e delle stoviglie, torturato dalla tremenda impassibilità del domestico e risoluto, infine, ad essere solo se stesso, senza fingere un’istruzione e un’educazione che non aveva.

Alzò gli occhi su Ruth alla ricerca di qualcosa che lo rassicurasse, proprio come un passeggero, colto da un’improvviso panico al pensiero di un possibile naufragio, gira lo sguardo per individuare dove si trovino i salvagente. Sì, solo quello gli restava – l’amore e Ruth. Di tutto il resto, nulla era rimasto in piedi davanti ai valori che aveva scoperto nei libri. Ruth e l’amore, sì: per loro aveva persino trovato una sanzione biologica. L’amore era l’espressione più elevata della vita. La Natura aveva creato lui, Martin, come tutti gli uomini normali, solo per quello scopo. Ad esso aveva dedicato diecimila secoli, centomila secoli, un milione di secoli, ed egli era il miglior esemplare destinato a quel fine. Aveva fatto della capacità di amare la qualità migliore che si trovava in lui, l’aveva amplificata all’infinito donandogli la fantasia e l’aveva gettato fra le effimere a palpitare, a intenerirsi e ad accoppiarsi. Sotto la tavola cercò con la mano quella di Ruth, che strinse con calore venendone ricambiato. Lei lo guardò per un attimo con occhi raggianti e dolci. Anche i suoi lo erano nel fremito che lo pervase, e non capì quanto l’espressione soave e commossa di lei fosse stata suscitata da ciò che aveva scorto in lui.

Dall’altra parte della tavola, in diagonale rispetto a lui e alla destra del signor Morse, era seduto il giudice Blount, un alto magistrato del tribunale locale. Martin lo aveva incontrato diverse volte, e non gli era mai piaciuto. Discuteva con il padre di Ruth della politica dei sindacati, della situazione cittadina e del socialismo, e su quest’ultimo argomento il signor Morse cercava di provocare Martin. Infine il giudice lanciò dall’altra parte della tavola uno sguardo benigno e paterno. Martin sorrise fra sé.

«Le passerà, giovanotto», disse bonariamente. «Il tempo è la medicina migliore per queste malattie giovanili». Si volse verso il signor Morse. «Non credo che le discussioni servano a qualcosa in questi casi. Rendono solo più testardo il paziente».

«È vero», assentì l’altro in tono grave. «Ma è bene, di tanto in tanto, avvertirlo della sua condizione».

Martin reagì con un sorriso, che però gli costò un certo sforzo. Aveva avuto una giornata lunghissima durante la quale aveva profuso molte energie, e ora ne provava le conseguenze.

«Senza dubbio siete entrambi ottimi medici», disse, «ma se avete un briciolo di considerazione per l’opinione del paziente consentitegli di dirvi che non siete bravi nella diagnosi. In realtà soffrite tutti e due della malattia che pensate di trovare in me. Anzi, io ne sono vaccinato. La filosofia socialista che occultamente vi brucia nel corpo mi ha appena sfiorato».

«Bravo, bravo», mormorò il magistrato. «È una tattica eccellente, quella di rovesciare le posizioni».

«Da che pulpito…», stava cominciando a dire Martin con gli occhi sfavillanti, riuscendo però a controllarsi. «Vede, giudice, ho sentito i suoi discorsi politici. Per qualche processo enidico – enidico, tra parentesi, è un termine che mi piace usare ma che nessuno capisce – per qualche processo enidico, lei riesce a convincere se stesso di essere un fautore del sistema basato sulla concorrenza e sulla sopravvivenza dei più forti, ma contemporaneamente sostiene con ogni energia proprio le misure idonee a fiaccare la loro vitalità».

«Mio giovane amico…».

«Tenga presente che ho sentito i suoi discorsi politici», l’ammonì Martin. «Sono di pubblico dominio le sue posizioni sulla disciplina del commercio interstatale, sul controllo dei trust ferroviari e della Standard Oil, sulla conservazione delle foreste e sulle mille e più misure restrittive che altro non sono se non provvedimenti di carattere socialista».

«Intende dirmi che secondo lei non è opportuno controllare queste forme di strapotere?».

«Il punto non è questo. Voglio solo dimostrarle che in fatto di diagnosi lei è un pessimo medico e che io non sono stato contagiato dal bacillo socialista. È invece lei che sta subendo i deleteri effetti di questo germe. Quanto a me, sono un irriducibile oppositore del socialismo come della vostra bastarda democrazia, la quale non è altro che uno pseudosocialismo nascosto da un manto di parole dietro cui c’è il nulla.

«Sono un reazionario – lo sono in misura tale che la mia posizione è incomprensibile a lei che vive avvolto nelle menzogne dell’organizzazione sociale e la cui vista non è acuta abbastanza per vedere al di là di questo velo. Lei induce gli altri a pensare di avere a che fare con un fautore della sopravvivenza e del governo dei forti. Invece sono io che ci credo. È questo ciò che ci separa. Quando ero un po’ più giovane, qualche mese fa, avevo le sue stesse idee. Vede, ne ero rimasto impressionato. Tuttavia i mercanti e i bottegai sono, nel migliore dei casi, dirigenti timorosi; per tutta la vita grufolano e mangiucchiano nel truogolo del denaro, e così, se non le dispiace, io sono tornato all’aristocrazia. Io sono l’unico individualista di questa sala. Non ho alcuna stima dello stato. Vagheggio l’uomo forte, l’uomo del destino, che lo salvi dalla sua marcia inutilità.

«Aveva ragione Nietzsche. Non sprecherò tempo a dirvi chi era, ma aveva ragione. Il mondo è dei forti – dei forti che sono anche nobili e che non sguazzano nel porcile del commercio e della borsa valori. Il mondo appartiene ai veri aristocratici, alle grandi belve bionde, a coloro che non accettano i compromessi, a quelli che vanno all’attacco. E vi divoreranno, voi socialisti che avete paura del socialismo e vi credete individualisti. Non vi salverà la vostra moralità servile da deboli e umili. Oh, so che non ci capite nulla e non vi disturberò più. Ma ricordate una cosa. A Oakland non ci sono più di cinque o sei individualisti, ma uno di loro è Martin Eden».

Fece capire che considerava chiusa la discussione e si volse a Ruth.

«Oggi sono esausto», disse sottovoce. «Voglio solo amare, non parlare».

Ignorò il signor Morse, che disse:

«Non mi convince. Tutti i socialisti sono gesuiti. È così che si riconoscono».

«Riusciremo a fare di lei un buon repubblicano», disse il giudice Blount.

«Prima di allora sarà arrivato l’uomo del destino», ribatté Martin di buon’umore e si volse verso Ruth.

Ma il signor Morse non era soddisfatto. Poiché non gli piacevano la pigrizia e l’avversione per un lavoro tranquillo e onesto del futuro genero, di cui non rispettava le idee e non comprendeva il carattere, spostò il discorso su Herbert Spencer. Il giudice Blount lo assecondò abilmente e Martin, cui si erano drizzate le orecchie sentendo pronunciare il nome del filosofo, ascoltò il magistrato lanciare un massiccio attacco contro di lui. Di tanto in tanto il signor Morse osservava Martin come per dirgli, «Eccoti servito, ragazzo mio».

«Cornacchie parlanti», borbottò fra sé Martin, e continuò a conversare con Ruth e Arthur.

Ma la lunga giornata e l’esperienza con la «vera feccia» della notte precedente cominciavano a farsi sentire; inoltre gli bruciava ancora il ricordo di quella lettura fatta durante il tragitto in tram, che lo aveva mandato su tutte le furie.

«Che cosa c’è?», chiese Ruth improvvisamente, allarmata dallo sforzo che Martin stava facendo per controllarsi.

«Non c’è altro Dio al di fuori dell’Inconoscibile e Herbert Spencer è il suo profeta», stava dicendo in quel momento il giudice Blount.

Martin si girò verso di lui.

«È un giudizio da quattro soldi», osservò calmo. «L’ho udito per la prima volta nel City Hall Park sulle labbra di un lavoratore che avrebbe fatto meglio a starsene zitto. Da allora l’ho risentito spesso e ogni volta mi dà il voltastomaco. Dovrebbe vergognarsi. Sentire sulla sua bocca il nome di quell’uomo grande e nobile è come trovare una rosa in uno scarico di fogna. Lei mi disgusta».

Fu come un fulmine a ciel sereno. Il magistrato lo squadrò con occhi di fuoco e il viso scarlatto, mentre intorno tutti avevano smesso di parlare. Il signor Morse era segretamente compiaciuto perché vedeva che sua figlia ne era rimasta sconvolta. Era proprio l’obiettivo che si era proposto – far emergere la mascalzonaggine innata di quell’uomo che non gli piaceva.

La mano di Ruth cercò supplichevole quella di Martin sotto la tavola, ma il sangue gli era ormai andato alla testa. Era indignato dalla presunzione e dalla vuotezza intellettuale di coloro che occupavano cariche elevate. Un alto magistrato del tribunale! E pensare che non molti anni prima aveva contemplato dal fango queste perfette nullità credendo che fossero esseri divini.

Il giudice Blount si riprese e cercò di continuare, rivolgendosi a Martin con una forma cortese che quest’ultimo capì essere stata adottata solo per la presenza delle signore. Ciò aumentò la sua rabbia. Perché non c’era onestà in questo mondo?

«Lei non è in grado di discutere di Spencer con me», esclamò. «Di lui non sa più dei suoi stessi compatrioti. Ammetto che lei non ne ha alcuna colpa: è solo un segno della deplorevole ignoranza dei nostri tempi. Ne ho avuto un esempio venendo qui questa sera dalla lettura di un saggio di Saleeby su Spencer. Dovrebbe leggerlo anche lei, visto che è facilmente accessibile. Può comprarlo in libreria o prenderlo a prestito dalla biblioteca pubblica. Si vergognerebbe nel constatare la pochezza dei suoi insulti e la sua ignoranza di quel nobile uomo di fronte a quello che Saleeby ha messo assieme su questo argomento. È un ammasso di infamie capace di far impallidire le sue.

«”Il filosofo dei semi-analfabeti”, è stato chiamato da un professore di filosofia indegno di inquinare l’aria che respirava. Io non credo che lei abbia letto dieci pagine di Herbert Spencer, ma ci sono stati alcuni critici, presumibilmente più intelligenti di lei, che pur non sapendone molto più di lei hanno pubblicamente sfidato i seguaci di questo grande pensatore a indicare una sola idea ricavabile dai suoi scritti… dagli scritti di Herbert Spencer! Cioè di colui che ha impresso il marchio del suo genio sull’intero campo della ricerca scientifica e del pensiero moderni; il padre della psicologia; l’uomo che ha rivoluzionato la pedagogia al punto che oggi al figlio del contadino francese si impartisce un insegnamento elementare secondo i principi da lui formulati. E tuttavia ecco questi esseri insignificanti pronti a macchiare la sua memoria pur guadagnandosi da vivere proprio grazie all’applicazione delle sue idee. Quel poco di buono che hanno nel cervello è per lo più dovuto a lui. È certo che se egli non fosse vissuto mancherebbe alla loro cultura pappagallesca gran parte di ciò che è valido.

«E tuttavia un uomo come il rettore Fairbanks di Oxford, che occupa una carica anche più alta della sua, giudice Blount, ha detto che Spencer sarà liquidato dai posteri come un poeta e un sognatore e non sarà considerato come filosofo. Branco di ciarlatani e parolai! «I Primi principi non sono del tutto privi di un certo spessore letterario», ha detto uno di loro. E altri hanno sostenuto che era più un diligente erudito che un pensatore originale. Ciarlatani e parolai! Ciarlatani e parolai!».

Martin tacque improvvisamente in un gelido silenzio. Tutti i familiari di Ruth consideravano il giudice Blount un uomo potente e autorevole ed erano sbigottiti da quell’esplosione di Martin. Il resto del pranzo proseguì come un funerale, con il giudice e il signor Morse impegnati a parlare fra loro e una conversazione generale punteggiata da lunghe pause. Più tardi, rimasti soli, Ruth e Martin litigarono.

«Sei insopportabile», disse lei piangendo.

Ma la rabbia di lui era ancora viva ed egli continuava a mormorare, «Animali! Animali!».

Quando lei gli rinfacciò di avere offeso il giudice egli ribatté:

«Dicendogli la verità su se stesso?».

«Non m’importa se fosse la verità o meno», insistette lei. «Ci sono certi limiti di educazione, e tu non avevi il diritto di insultare nessuno».

«E il giudice Blount dove ha ottenuto la licenza che gli permette di usare violenza alla verità?», chiese Martin. «Un reato di questo genere è senza dubbio più grave che non quello di ingiurie nei confronti di una persona insignificante come quel giudice. Anzi, ha fatto qualcosa di più grave. Ha lordato il nome di un uomo grande e nobile che è morto. Oh, animali! Animali!».

Alimentata da tante cause diverse l’ira di lui divampava di nuovo, e Ruth ne ebbe paura. Non lo aveva mai visto così infuriato, e tutto per motivi tanto oscuri e irragionevoli. E tuttavia, pur terrorizzata, avvertiva ancora quel fascino che l’aveva attirata e ancora l’attirava verso quell’uomo – che l’aveva costretta ad appoggiarsi a lui e, in quel supremo momento di follia, a posargli le mani sul collo. Era ferita e oltraggiata da ciò che era avvenuto, ma gli si strinse fra le braccia fremente mentre lui continuava a mormorare, «Animali! Animali!». E non si mosse quando lui le disse: «Non turberò più la tua tavola, tesoro. Non piaccio, e sbaglierei a continuare a imporre loro la mia indesiderabile presenza. Si aggiunga che loro a me riescono altrettanto indesiderabili. Puah! Sono disgustosi. E pensare che nella mia ingenuità credevo che coloro che occupano posti importanti, che vivono nelle belle case, che hanno ricevuto un’istruzione e hanno il conto in banca fossero persone degne di essere conosciute!».

XXXVIII

«Forza, andiamo alla sezione del partito».

Brissenden parlava debolmente dopo l’emorragia che lo aveva colpito mezz’ora prima – la seconda in tre giorni. Ingollò con le dita tremanti l’immancabile bicchiere di whiskey che teneva in mano.

«Che c’entro io con il socialismo?», chiese Martin.

«I non iscritti possono fare interventi di cinque minuti», insistette il malato. «Tira fuori quello che hai sullo stomaco. Dì loro che non vuoi il socialismo. Sputa fuori quello che pensi di loro e della loro etica da sottosviluppati. Sbattigli addosso Nietzsche e preparati alla loro reazione. Fa nascere un casino. Gli farà bene. Hanno bisogno di discutere, e anche tu. Vorrei vederti diventare socialista prima di andarmene. Darà uno scopo alla tua esistenza. È la sola cosa che ti può salvare dalle delusioni che stanno per arrivare».

«Non riesco a capacitarmi come proprio tu sia socialista», osservò Martin. «Tu disprezzi la massa e non vedo come la plebaglia possa avere una qualche attrattiva per il tuo raffinato estetismo». E alzando il dito accusatore verso il bicchiere di wiskey che l’altro stava riempiendo aggiunse: «Non mi pare che il socialismo sia per te un’ancora di salvezza».

«Io sono molto malato, ma per te è diverso», rispose l’altro. «Tu sei sano, e avendo molti anni di vita davanti a te è bene che abbia qualcosa che ad essa ti leghi. Ti sarai chiesto perché io sia socialista. Lo sono perché credo che il socialismo sia inevitabile di fronte alla decadenza e all’irrazionalità dell’attuale sistema. Né la soluzione può venire dall’uomo del destino, come tu pensi, perché gli schiavi non lo permetteranno. Sono troppi e chi aspira ad ergersi a duce salvatore è destinato a una brutta fine. Non ce la puoi fare contro le masse e dovrai abituarti ad accettare la loro moralità da servi. È un amaro calice, lo ammetto, ma la bevanda che vi si trova sta fermentando da tempo, e dovrai mandarla giù. Comunque tu sei antidiluviano con le tue idee nietzschiane. Il passato è passato e chi dice che la storia si ripete afferma il falso. Naturalmente la plebe non piace neppure a me, ma che cosa posso farci, ahimè? Escluso l’arrivo dell’uomo del destino, tutto è preferibile alle bestie tremebonde che adesso ci governano. Vieni dunque. Ora sono già pieno come una spugna e se rimango qui ancora un po’ finisco per ubriacarmi. Sai che il dottore ha detto… accidenti a lui! Resterà con un palmo di naso».

Essendo una domenica sera trovarono la piccola sala affollata di socialisti di Oakland, per lo più operai. L’oratore, un ebreo intelligente, suscitò allo stesso tempo l’ammirazione e l’irritazione di Martin. Le sue spalle curve e strette e il torace angusto rivelavano che si trattava di un vero figlio del popoloso ghetto, richiamando alla mente di Martin la millenaria lotta dei deboli e miserabili schiavi contro quel pugno di uomini superiori che li avevano dominati e che avrebbero continuato a farlo sino alla fine dei tempi. Per Martin quella creatura senza forza e bellezza era un simbolo – il rappresentante della miserabile massa di esseri inferiori e incapaci che secondo le leggi biologiche erano destinati a perire ai margini della vita. Nonostante la loro scaltra filosofia e la predisposizione a una cooperazione da formiche, loro erano non «adatti». La Natura li rifiutava per l’uomo eccezionale. Fra le infinite forme di vita che uscivano dalle sue prolifiche mani sceglieva solo le migliori. Con gli stessi metodi, scimmiottandola, gli uomini allevavano cavalli di razza e coltivavano cetrioli. Indubbiamente un dio-creatore avrebbe potuto inventare un metodo migliore, ma le creature che abitavano in questo universo dovevano accontentarsi di quello disponibile. Era però comprensibile che gemessero e si contorcessero nel momento di venire sopraffatti, come i socialisti e come l’oratore che parlava dalla pedana e come quella folla sudata, tutti tremebondi persino adesso, impegnati com’erano ad escogitare qualche nuovo espediente grazie al quale ridurre i pericoli del vivere e sfuggire alle leggi del cosmo.

Questo era ciò che pensava Martin e questo disse all’assemblea dopo che Brissenden l’ebbe incitato a «sparare a zero». Accettò l’invito presentandosi alla pedana, come era la consuetudine, e rivolgendosi al moderatore. Cominciò a bassa voce, esitante, raccogliendo le idee che gli erano venute in mente durante l’intervento dell’ebreo. In questi consessi ogni oratore aveva a disposizione cinque minuti, ma quando questo periodo terminò Martin era in piena azione e aveva completato solo in parte l’offensiva contro le dottrine dei suoi ascoltatori. Ne aveva però suscitato l’interesse e la folla sollecitò a gran voce il moderatore affinché prolungasse il tempo concesso.

Lo ammiravano come un avversario degno della loro intelligenza e lo ascoltavano attenti, senza perdere neppure una parola. Martin parlò con passione e convinzione, senza ricorrere a perifrasi nel suo attacco che investiva gli schiavi, la loro moralità e la tattica che adottavano, e riferendosi esplicitamente ai presenti come ai destinatari di quelle critiche. Citò Spencer e Malthus ed enunciò la legge biologica che regola l’evoluzione.

«E quindi», concluse riassumendo brevemente le precedenti argomentazioni, «nessuno stato composto da schiavi può sopravvivere. La vecchia legge dell’evoluzione è ancora valida. Come ho dimostrato, nella lotta per l’esistenza i forti e la loro progenie tendono a sopravvivere, mentre i deboli sono sopraffatti e destinati a perire, come i loro discendenti. Il risultato è che i primi resistono, e fino a quando questa contesa proseguirà la forza dell’umanità aumenterà a ogni nuova generazione. È la legge dell’evoluzione. Ma voi schiavi – e devo ammettere che non è bello esserlo – ma voi schiavi sognate una società in cui essa sia cancellata e i deboli e gli inferiori non periscano, ma ogni incapace abbia da mangiare tutto ciò che vuole ogni volta che vuole, e dove tutti possano sposarsi e avere discendenti – i deboli come i forti. E quale ne sarà il risultato? La forza e la vitalità di ogni generazione non aumenteranno più. Anzi, diminuiranno. C’è una nemesi nella vostra filosofia di schiavi. Una società siffatta – di schiavi e per schiavi – finirà inevitabilmente per indebolirsi e morire, a mano a mano che si indebolirà e morirà la vita che la compone.

«Ricordatevi che sto enunciando un principio della biologia e non una regola ispirata al moralismo sentimentale. Nessuno stato di schiavi può resistere…».

«E gli Stati Uniti?», gridò un uomo dal fondo della sala.

«Già, gli Stati Uniti!», ribatté Martin. «Le tredici colonie cacciarono i loro governanti e costituirono la cosiddetta Repubblica. Gli schiavi diventarono padroni di se stessi. Non ci furono più i signori della spada. Tuttavia, non essendo possibile rimanere a lungo senza qualcuno che comandi, nacque una nuova genia di dominatori – non più costituita da uomini grandi, nobili e virili, ma da mercanti e strozzini scaltri e viscidi – che vi ridusse nuovamente in servitù – non esplicitamente come avrebbero fatto gli uomini veri e nobili in virtù della potenza del braccio, ma occultamente, con ignobili macchinazioni, con l’adulazione, con l’inganno, con la falsità. Hanno comprato giudici servili, hanno corrotto parlamenti indegni e hanno spinto in una condizione peggiore della schiavitù vera e propria i vostri figli e le vostre figlie. Due milioni di bambini si ammazzano oggi di fatica nelle fabbriche di questa oligarchia mercantile che regna sugli Stati Uniti. Dieci milioni di schiavi non hanno oggi né un’abitazione, né un’alimentazione adeguate.

«Ma torniamo a noi. Ho dimostrato che nessuna società di schiavi può durare perché, per la sua stessa natura, essa finisce per violare la legge dell’evoluzione e, non appena organizzata, comincia immediatamente a decadere. È facile parlare di abrogare questo principio, ma quale altro meccanismo vi consentirà di conservare la forza? Formulatelo. E se già lo avete, descrivetemelo».

Martin tornò al posto fra un clamore di voci. Una decina di uomini erano già in piedi per chiedere la parola, e a uno a uno, parlando con calore ed entusiasmo e gesticolando per l’eccitazione, replicarono, in mezzo ad applausi fragorosi, all’attacco che era stato loro sferrato. Fu una serata movimentata ma intellettualmente stimolante, agitata da uno scontro di idee. Alcuni si allontanarono dal tema discusso, ma la maggior parte diede una risposta diretta alle tesi di Martin, investendolo con argomentazioni per lui nuove che gli fecero scoprire, se non nuove leggi biologiche, nuove interpretazioni di queste stesse leggi. Sentivano troppo quel tema per riuscire sempre ad essere cortesi, e più di una volta il moderatore intervenne con decisione battendo i pugni sul tavolo per ripristinare l’ordine.

Per caso fra il pubblico si trovava un giornalista praticante, scaraventato lì da una giornata povera di notizie e dal pressante bisogno di scrivere cronache sensazionali. Non era un elemento di grande intelligenza. Era un giovane superficiale e facilone, troppo ottuso per quella discussione. Ciò nonostante aveva la presunzione di essere superiore a quei verbosi fanatici del ceto operaio, ed aveva inoltre un grande rispetto per i detentori di cariche importanti che guidavano la politica delle nazioni e le opinioni dei giornali. Aveva infine un ideale del suo lavoro secondo il quale il perfetto cronista è colui che riesce a ricavare qualcosa, o magari molto, dal nulla.

Non sapeva su che cosa vertesse il dibattito, ma non gli fu necessario perché termini come rivoluzione dicevano tutto. Come un paleontologo riesce a ricostruire un intero scheletro da un solo fossile, egli fu in grado di ricostruire un intero discorso da quella parola. Quella notte stessa scrisse la cronaca della riunione così bene che fece di Martin, autore dell’intervento più controverso, il più radicale degli anarchici e trasformò il suo individualismo reazionario in un socialismo estremistico. La fantasia dell’articolista si scatenò anche in una pittoresca esibizione di colore locale: uomini forsennati con lunghi capelli, individui nevrastenici e degenerati, voci rotte dalla passione, pugni chiusi levati verso l’alto – il tutto proiettato su uno sfondo di imprecazioni, urla e rauche esplosioni di rabbia.

XXXIX

La mattina seguente Martin lesse il giornale nella sua stanzetta, bevendo il caffè. Fu un’esperienza nuova vedere il suo nome in un titolo e per giunta in prima pagina, e fu sorpreso nell’apprendere che era il più famigerato esponente dei socialisti di Oakland. Diede una scorsa al violento discorso che il cronista gli aveva messo in bocca e, nonostante una prima reazione rabbiosa di fronte a quelle menzogne, finì per gettare il giornale da parte con una risata.

«Doveva essere ubriaco o in malafede», disse quel pomeriggio accovacciandosi sul letto dopo che Brissenden, arrivando, si fu seduto stancamente sulla sedia.

«Che t’importa?», gli chiese l’amico. «Hai paura di perdere la stima dei luridi borghesi che leggono i giornali?».

«No», rispose Martin dopo qualche attimo di riflessione. «Della loro approvazione non m’interessa un fico secco. Ma è molto probabile che questo mi crei difficoltà nei rapporti con la famiglia di Ruth. Il padre ha sempre sostenuto che sono socialista, e questa porcheria lo rafforzerà nella sua convinzione. Non che mi curi di quello che pensa… Chissà che cosa ne verrà fuori. Ma voglio leggerti quello che ho fatto oggi. Naturalmente si tratta di Scaduto, che ormai ho completato per metà».

Stava leggendo ad alta voce quando Maria spalancò l’uscio per introdurre un giovanotto azzimato che si guardò attorno con grande attenzione, soffermando gli occhi sulla cucina dell’angolo prima di rivolgerli verso Martin.

«Si sieda», disse Brissenden.

Martin gli fece posto sul letto e rimase in attesa che lo sconosciuto gli esponesse il motivo della visita.

«L’ho sentita parlare ieri sera, signor Eden, e sono venuto a intervistarla», cominciò.

Brissenden scoppiò in una grande risata.

«Un compagno socialista?», chiese il giornalista accennando a Brissenden, di cui notò subito il viso pallido e l’aspetto cadaverico.

«Ecco chi ha scritto l’articolo», disse calmo Martin. «Ma è un ragazzino!».

«Perché non lo prendi a sberle?», gli chiese Brissenden. «Darei mille dollari per poter riavere per cinque minuti i polmoni sani».

Il giovane cronista era leggermente perplesso sentendo quella conversazione che lo riguardava, dopo tutte le lodi che aveva ricevuto per la brillante descrizione dell’assemblea socialista e l’ulteriore incarico di ottenere un’intervista personale con Martin Eden, capo di quell’organizzazione che costituiva una minaccia per la società.

«Non le dispiace se le scattiamo una fotografia, vero signor Eden?», continuò l’altro. «Fuori c’è un fotografo del giornale, il quale ha detto che è meglio farla adesso, prima che vada giù il sole. Possiamo fare l’intervista dopo».

«Un fotografo», disse Brissenden con tono meditativo. «Due sberle, Martin! Due sberle!».

«Forse divento vecchio», rispose lui. «Capisco che dovrei farlo, ma non me la sento. Proprio non me ne importa».

«Fallo per la sua mamma», insistette Brissenden.

«È una proposta sensata», rispose Martin, «ma non mi sembra che valga la pena di chiamare a raccolta l’energia necessaria. E ce ne vuole parecchia per prendere a sberle qualcuno. E poi, a che serve?».

«Giustissimo, è così che bisogna ragionare», esclamò con tono allegro il ragazzo, pur cominciando a lanciare occhiate allarmate verso la porta.

«In quello che ha scritto non c’era un briciolo di verità», proseguì Martin rivolto a Brissenden.

«Ma era una descrizione generica», si arrischiò a dire il giovanotto. «E per lei è una buona pubblicità. Questo è ciò che conta. Le ho fatto un favore».

«È una buona pubblicità, Martin, vecchio mio», ripeté Brissenden con solennità.

«E pensa che mi ha fatto un favore!», aggiunse Martin.

«Vediamo un po’… dove è nato, signor Eden?», chiese il ragazzo accingendosi ad ascoltare con grande attenzione.

«Non prende appunti», osservò Brissenden. «Ricorda tutto».

«Non ne ho bisogno», disse il giovane cercando di non apparire preoccupato. «Nessun vero cronista prende appunti».

«Non ne ha avuto bisogno neanche ieri sera».

A questo punto Brissenden, non potendone più, cambiò improvvisamente atteggiamento.

«Martin, se non gliele dai tu ci penso io, dovessi cadere a terra morto subito dopo».

«Ti potrebbe bastare una sculacciata?», domandò Martin.

Dopo avere riflettuto un attimo con aria assorta, Brissenden assentì con un cenno del capo.

In un attimo il ragazzo si ritrovò con la testa stretta fra le ginocchia di Martin, che rimanendo sul letto aveva appoggiato i piedi a terra.

«Sta’ fermo», l’ammonì Martin, «se no te le do in faccia. E sarebbe un peccato, con un visino così bello».

La mano si alzava e si abbassava, colpendo con un ritmo regolare. Il ragazzo si contorceva, imprecava e si divincolava, ma per il resto non tentò di reagire. Brissenden rimase ad osservare con aria grave. Una sola volta ebbe un sussulto di entusiasmo, e brandendo una bottiglia di whiskey esclamò: «Su, lasciamelo sculacciare almeno una volta».

«Scusa se la mia mano ha picchiato troppo», disse Martin quando infine desistette. «Non la sento più».

Raddrizzò il giovanotto, mettendolo a sedere ritto sul letto.

«Vi farò arrestare per questo», ringhiò il cronista mentre lacrime di infantile indignazione gli scorrevano per le guance arrossate. «Ve la farò pagare. Vedrete».

«Carino lui!», osservò Martin. «Non sa di avere imboccato una china pericolosa. Non capisce ancora che raccontare frottole sul prossimo non è azione da uomo degno, onesto e sincero».

«È dovuto venire sin qui per sentirselo dire da noi», intervenne Brissenden approfittando di una pausa dell’amico.

«Sì, da me, che ha diffamato e offeso. Ora il droghiere non mi farà più credito. Il guaio è che il povero fanciullo continuerà così non sarà peggiorato al punto da essere pronto a diventare un grande giornalista e un grande manigoldo».

«Ma c’è ancora tempo», commentò Brissenden. «Chissà che non sia stato proprio tu l’umile strumento della sua salvezza? Ma perché non me lo hai fatto sculacciare almeno una volta? Vorrei dare anch’io un contributo».

«Vi farò arrestare tutti e due. Siete villani e maneschi», singhiozzò la pecorella smarrita.

«No, è un’anima sensibile ma debole», concluse Martin scuotendo il capo tristemente. «Temo che la mia mano abbia lavorato inutilmente. Il ragazzo non vuole emendarsi. Diventerà un giornalista grande e famoso. Non ha coscienza. È qui la sua grandezza».

Dopo di ciò il giovanotto uscì, trepidando fino all’ultimo per paura che Brissenden lo colpisse sul deretano con la bottiglia che continuava a tenere stretta fra le dita.

Sul giornale del giorno seguente Martin apprese nuovi particolari su se stesso. «Siamo i nemici giurati della società», scoprì di aver detto nel corso dell’intervista. «Non siamo anarchici, ma socialisti». Quando il cronista gli fece notare che secondo lui c’era poca differenza fra gli uni e gli altri, Martin si limitò ad una stretta di spalle, come a dire che era proprio così. L’articolo proseguiva con una descrizione delle forti irregolarità del viso e di altri segni della fisionomia che indicavano degenerazione, soffermandosi in particolare sulle mani mostruose e sui bagliori sinistri degli occhi iniettati di sangue.

Venne anche a sapere di essere uno degli anarchici ed agitatori che la sera tenevano discorsi ai lavoratori nel City Hall Park infiammandone le menti – l’oratore che attirava più folla e faceva i discorsi più rivoluzionari. Il giornalista aveva anche dato un quadro pittoresco della povera e angusta stanzetta con la sua stufa a petrolio e la sua unica sedia, e dello spettrale vagabondo che gli teneva bordone, un tenebroso figuro che all’aspetto sembrava essere appena uscito da una ventennale segregazione nel carcere di qualche fortezza.

Il giovanotto si era dato da fare. Curiosando qua e là era riuscito a ficcare il naso nelle vicende familiari di Martin e a procurarsi persino una fotografia di Higginbotham in piedi davanti all’emporio. Questi era presentato nell’articolo come un intelligente e rispettabile uomo d’affari pieno d’indignazione sia per le idee socialiste che per il comportamento del cognato, da lui definito un fannullone capace solo di rifiutare i posti di lavoro che gli venivano offerti e destinato, prima o poi, a finire nelle patrie galere. Era stato intervistato anche Hermann von Schmidt, il marito di Marian, che aveva rinnegato Martin chiamandolo la pecora nera della famiglia. «Ho visto subito che è uno scroccone, ma con me non ha attaccato», aveva detto von Schmidt al cronista. «Adesso ha capito che non deve ronzarmi intorno. Uno che non ha voglia di lavorare è un poco di buono, glielo dico io!».

Questa volta Martin si arrabbiò sul serio. Nonostante i tentativi di consolarlo fatti da Brissenden, che aveva preso la cosa sul ridere, sapeva che non sarebbe stato facile spiegare a Ruth che cosa fosse avvenuto. Capiva inoltre che il padre di lei doveva aver gioito di quell’episodio, e avrebbe cercato di sfruttarlo per convincerla a rompere il fidanzamento. Molto presto ne ebbe la prova, perché il pomeriggio stesso gli pervenne una lettera della ragazza. Martin l’aprì con il presentimento di un’imminente catastrofe e la lesse in piedi davanti alla porta, rimasta aperta dopo l’arrivo del postino. Leggendo si portò automaticamente la mano alla tasca in cui un tempo teneva il tabacco e le cartine. Non si rendeva conto che la tasca era vuota né che stava cercando l’occorrente per farsi una sigaretta.

Non c’era passione né rabbia in quella lettera. Ma dalla prima all’ultima parola era pervasa da una nota di risentimento e di delusione. Lei aveva nutrito tante speranze in lui. Pensava che sarebbe riuscito a superare la sua scapestratezza giovanile e che l’amore di lei sarebbe stato così forte da indurlo a vivere in modo serio e decoroso. Ma ora il padre e la madre avevano assunto un atteggiamento risoluto e le avevano imposto di rompere il fidanzamento. E lei doveva ammettere che avevano ragione. La loro relazione non avrebbe mai potuto essere felice. Era nata sotto una cattiva stella. Un solo rimprovero, da cui Martin fu molto rattristato, veniva espresso nella lettera. «Avrei tanto voluto che tu ti sistemassi con un lavoro fisso», scriveva. «Ma non è stato possibile. La tua vita passata è stata troppo disordinata e irregolare. Capisco che tu non ne hai alcuna responsabilità e agisci solo seguendo i suggerimenti della tua natura e delle tue esperienze giovanili. Quindi non te ne faccio una colpa, Martin, ricordalo. Ma abbiamo commesso un errore. Come giustamente mi hanno fatto notare i miei genitori, non siamo fatti l’uno per l’altra, ed è stata una fortuna che ce ne siamo accorti in tempo»… «È inutile che tu cerchi di vedermi», scriveva verso la fine. «Sarebbe motivo di infelicità per entrambi, oltre che per mia madre. Credo di averle causato, in questo modo, grandi dolori e preoccupazioni, e ho il dovere di fare tutto ciò che posso per ricompensarla di queste sofferenze».

La rilesse dal principio alla fine con grande attenzione prima di sedersi al tavolo a scriverle immediatamente una lettera di risposta in cui riportava ciò che aveva detto all’assemblea socialista, facendo notare come fosse l’esatto contrario di quello che gli avevano messo in bocca i giornali. Verso la fine tornò ad essere il folle amante divino che implorava l’amore. «Scrivimi, ti prego», le diceva, «rispondi solo a questa domanda. Mi ami? Solo questo desidero sapere».

Ma il giorno dopo non portò nessuna risposta, e neppure il successivo. Scaduto rimase incompiuto sul tavolo e ogni giorno il mucchio dei manoscritti restituiti saliva. Per la prima volta il sano sonno di Martin fu turbato da un’insonnia che rese le sue notti lunghe e irrequiete. Per tre volte si presentò a casa dei Morse e per tre volte fu respinto dal domestico che era andato ad aprire la porta. Brissenden, costretto in albergo dalla malattia, era troppo debole per uscire e, pur restando molto tempo con lui, Martin non osava affliggerlo con le proprie disgrazie.

Per lui pioveva sul bagnato: le conseguenze della vendetta del giovane cronista furono infatti più gravi di quanto egli avesse temuto. Il droghiere portoghese non gli fece più credito e il fruttivendolo, un orgoglioso yankee, lo chiamò traditore del suo paese e non volle più avere alcun contatto con lui, spingendo il suo patriottismo al punto da cancellare il debito e rifiutare ogni tentativo di Martin di saldarglielo. Gli stessi sentimenti animavano i pettegolezzi nel rione, nel quale serpeggiava una forte indignazione contro Martin. Nessuno voleva avere rapporti con quel traditore socialista. La povera Maria, sebbene incerta e spaventata, gli rimase leale. I bambini del quartiere dimenticarono l’impressione ricevuta dalla lussuosa carrozza che una volta era venuta per Martin e, mantenendosi a una prudente distanza, gli urlavano dietro «barbone» e «vagabondo». I ragazzi Silva, invece, lo sostennero a spada tratta, venendo più volte alle mani con gli altri in difesa del suo onore e aumentando le perplessità e i timori della madre con i nasi sanguinanti e gli occhi pesti che erano ormai diventati la realtà quotidiana.

Una volta, nel centro di Oakland, Martin incontrò in strada Gertrude, da cui seppe ciò che avrebbe potuto intuire egli stesso: Bernard Higginbotham era furioso con lui per aver trascinato nel fango la famiglia, e lo aveva bandito dalla sua casa.

«Perché non te ne vai da qui, Martin?», gli chiese la sorella, supplichevole. «Trovati un lavoro da qualche altra parte e metti la testa a posto. Potrai tornare fra un po’, quando sarà passata tutta questa buriana».

Martin si limitò a scuotere la testa senza rispondere. Che cosa avrebbe potuto dire? Era atterrito dall’enorme divario intellettuale che si era aperto fra lui e la sua gente – un baratro che egli non era in grado di superare per far loro capire quale fosse la sua posizione nietzschiana e quanto fosse diversa dal socialismo. Non c’erano parole nella lingua che conoscevano, o in qualunque altro idioma, capaci di far comprendere loro a che cosa si ispirassero il suo atteggiamento e la sua condotta. Trovarsi un lavoro sarebbe dovuta essere, per lui, la suprema aspirazione. Non sapevano dire altro né pensare ad altro. Trovati un’occupazione! Va’ a lavorare! Poveri, stupidi schiavi, pensava, ascoltando le parole della sorella. Non era sorprendente che il mondo fosse dei forti, considerando quanto gli oppressi amassero le catene che li tenevano in servitù. Il posto di lavoro era un aureo feticcio davanti al quale si prosternavano in adorazione.

Scosse il capo anche quando Gertrude gli offrì un po’ di denaro, pur sapendo che prima della fine della giornata sarebbe dovuto andare per l’ennesima volta al banco dei pegni.

«Non farti vedere da Bernard ora», lo avvertì lei. «Fra qualche mese, quando si sarà calmato, potrai avere il posto di conducente del carro, se lo vorrai. Tutte le volte che hai bisogno di me, fammelo sapere e io verrò subito, non dimenticartelo».

Gli volse le spalle e se ne andò singhiozzando, e Martin sentì una stretta al cuore nel vedere quella figura appesantita allontanarsi con la sua goffa andatura. E mentre la guardava, la grande costruzione nietzschiana sembrò oscillare e tremare. Sì, in astratto l’idea che la massa fosse composta di schiavi era giusta, ma non lo soddisfaceva il pensiero che potesse applicarsi ai membri della sua famiglia. E tuttavia se mai vi fu un essere ridotto in servaggio e conculcato dai forti, questo era Gertrude. Rise amaramente a quel paradosso: era proprio degno di un seguace di Nietzsche quel crollo del rigore intellettuale al primo moto dell’animo e alla minima emozione che aveva avvertito nel cuore. Ma c’era di più: quel pavido trasalimento non era che il prodotto di una mentalità servile, perché solo lì poteva nascere quello struggimento che provava per la sorella. Gli uomini veramente eletti erano al di sopra della pietà e della compassione, sentimenti generati nelle baracche e nelle catacombe degli schiavi, fra i tremiti e i sudori dei deboli e dei miserabili.

XL

Mentre Scaduto rimaneva dimenticato sul tavolo, tutti gli altri manoscritti erano ormai da tempo ammassati nel mucchio delle opere rifiutate, e solo Effimera, il poemetto di Brissenden, continuava l’andirivieni fra un editore e l’altro. Bicicletta e abito scuro erano di nuovo al banco dei pegni e quelli della macchina da scrivere avevano ripreso a tempestarlo di solleciti, ma queste piccolezze non lo turbavano più: stava cercando di dare un nuovo orientamento alla propria esistenza e fino a che non l’avesse trovato non avrebbe fatto più nulla.

Dopo diverse settimane si verificò ciò che aveva tanto atteso. Incontrò Ruth per la strada. Era proprio lei, in compagnia di uno dei fratelli: dopo che entrambi ebbero invano cercato di ignorarlo, Norman tentò di allontanarlo con un gesto della mano.

«Se continui a infastidire mia sorella chiamo una guardia», lo minacciò. «Non vuole parlare con te e la tua insistenza è una mancanza di rispetto».

«Se non ti togli di mezzo avrai bisogno davvero di qualche agente perché ti dia una mano, e finirai pure sui giornali», gli rispose torvamente Martin. «Sparisci! Va’ pure dalla polizia, se vuoi. Io parlerò con Ruth».

«Devi essere tu a dirmelo», continuò rivolto verso di lei.

Pur pallida e tremante Ruth resse lo sguardo di lui, fissandolo con aria interrogativa.

«Quello che ti ho chiesto nella lettera», suggerì lui.

Norman ebbe un moto di impazienza ma si fermò fulminato da un’occhiata di Martin.

Lei scosse la testa.

«Hai deciso liberamente?», l’incalzò Martin.

«Sì». Parlava con voce bassa, ma ferma e chiara. «Ho deciso liberamente. Hai gettato tanto fango su di me che provo vergogna nel vedere la gente. Parlano tutti di me, lo so. Solo questo posso dirti. Mi hai reso molto infelice e non desidero rivederti mai più».

«La gente! I pettegolezzi! Le bugie dei giornali! Ma tutto ciò non può essere più forte dell’amore! La verità è che tu non mi hai mai amato».

Una vampata di rossore le colorò il viso.

«Dopo quello che c’è stato?», chiese debolmente. «Martin, tu non sai quello che dici. Io non sono come le altre».

«Vedi che non vuole aver niente a che fare con te?», sbottò Norman riprendendo con la sorella il cammino interrotto.

Martin si mise da parte per lasciarli passare, frugando inconsciamente nella tasca della giacca alla vana ricerca di tabacco e cartine.

C’era molta strada da fare per arrivare fino a North Oakland, ma solo dopo aver superato la piccola scala esterna ed essere entrato in camera sua si accorse di aver camminato così a lungo. Si ritrovò seduto sul bordo del letto a guardarsi intorno con occhio fisso, come un sonnambulo che si è appena risvegliato. Notò Scaduto sul tavolo e avvicinando la sedia allungò la mano per prendere la penna. Gli ripugnava lasciare le cose a metà. Davanti a lui c’era un lavoro interrotto, rimasto in sospeso perché aveva dovuto occuparsi di un’altra faccenda, e ora che questa si era conclusa si sarebbe applicato ad esso fino alla fine. Non sapeva che cosa avrebbe fatto dopo: era solo consapevole di essere giunto a un punto critico della propria esistenza. Avrebbe portato a termine l’ultimo compito di quel periodo della sua vita con grande rigore professionale. Per il futuro non nutriva alcuna curiosità. Avrebbe scoperto presto che cosa aveva in serbo per lui, ma qualunque cosa fosse non aveva alcuna importanza. Nulla aveva più importanza.

Per cinque giorni lavorò intensamente a Scaduto: non uscì, non vide nessuno e mangiò pochissimo. La mattina del sesto il postino gli portò una breve lettera del direttore del «Parthenon». Una rapida scorsa gli fece capire che Effimera era stato accettato. «Abbiamo sottoposto il poemetto al signor Cartwright Bruce», proseguiva lo scrivente, «il cui giudizio è stato così favorevole che vogliamo assicurarcelo. A conferma del nostro interesse nella pubblicazione dell’opera abbiamo il piacere di comunicarle che lo abbiamo destinato al fascicolo di agosto perché non vi era più spazio nel numero di luglio. La preghiamo di estendere gentilmente al signor Brissenden la nostra soddisfazione e gratitudine. Desidereremmo anche ricevere, a giro di posta, una fotografia e una breve nota biografica dell’autore. Se il compenso previsto è insufficiente vogliate telegrafarci immediatamente precisando la cifra richiesta».

Dal momento che il compenso offerto era di trecentocinquanta dollari, Martin pensò che non fosse il caso di telegrafare. Piuttosto, doveva preoccuparsi di ottenere il consenso dell’autore. Aveva avuto ragione. C’era almeno un direttore editoriale che sapeva riconoscere la vera poesia. E il compenso era principesco, anche considerando che si trattava del poema del secolo. Quanto a Cartwright Bruce, Martin sapeva che era l’unico critico di cui Brissenden rispettasse le opinioni.

Mentre dal finestrino del tram diretto verso il centro osservava con indifferenza le case e gli incroci che gli passavano davanti agli occhi, Martin sentì il rammarico di non provare una soddisfazione maggiore per il successo dell’amico e per la propria intuizione. L’unico critico valido degli Stati Uniti aveva dato un giudizio favorevole del poemetto, e la propria tesi, secondo la quale le opere di prim’ordine potevano trovare spazio nelle riviste, si era dimostrata corretta. Eppure non avvertiva in sé alcun entusiasmo, e si accorse di essere più ansioso di vedere Brissenden che di comunicargli la buona notizia. L’accettazione da parte del «Parthenon» gli aveva fatto venire in mente che durante quei cinque giorni di completa dedizione a Scaduto non aveva avuto notizie dell’amico e non aveva neppure pensato a lui. Per la prima volta Martin si rese conto dell’oblio in cui era caduto e si vergognò di aver dimenticato Brissenden. E tuttavia neppure ciò lo turbava. Era indifferente a qualunque emozione che non fosse legata alle preoccupazioni artistiche relative alla stesura di Scaduto. Per ogni altra cosa era vissuto come in catalessi. E lo era ancora. Tutto il turbinio della vita attraverso il quale il tram stava sferragliando gli pareva remoto e irreale; non si sarebbe scosso da quel grande torpore neppure se il grande campanile di pietra della chiesa davanti a cui stava passando gli fosse crollato all’improvviso sulla testa.

Giunto all’albergo salì di corsa le scale fino alla camera di Brissenden, per scenderne subito dopo. La stanza era vuota e ogni bagaglio sparito.

«Il signor Brissenden non ha lasciato un recapito?», chiese all’impiegato, che lo guardò con aria perplessa.

«Non ha letto?», gli chiese.

Martin scosse il capo.

«Era su tutti i giornali. È stato trovato morto a letto. Suicidio. Si è sparato un colpo alla testa».

«È già stato seppellito?». Nel pronunciare queste parole Martin non riconobbe la propria voce: gli sembrava quella di un altro, proveniente da una grande distanza.

«No. Dopo l’inchiesta il corpo è stato spedito sulla costa orientale. Hanno provveduto i legali nominati della famiglia».

«Devo dire che sono stati sveltissimi», commentò Martin.

«Non saprei dire. Il fatto è avvenuto cinque giorni fa».

«Cinque giorni fa?».

«Sì, cinque giorni fa».

«Oh», disse Martin voltandosi per uscire.

All’angolo entrò in un ufficio della Western Union per spedire al «Parthenon» un telegramma in cui li autorizzava alla pubblicazione del poema. Inviò il messaggio a carico del destinatario perché in tasca aveva solo cinque centesimi, appena sufficienti per il biglietto del tram che lo avrebbe riportato a casa.

Rientrato in camera sua riprese a scrivere. Rimase seduto al tavolo giorno dopo giorno e notte dopo notte. Non andava da nessuna parte tranne che al banco dei pegni, non faceva alcun moto e mangiava metodicamente quando aveva fame ed era riuscito a procurarsi qualcosa da cucinare, saltando il pasto altrettanto metodicamente quando in casa non aveva nulla. Dopo aver terminato il racconto come l’aveva programmato capitolo per capitolo, riscrisse, ampliandola, la parte iniziale per renderla più efficace, anche se questo intervento richiese un’aggiunta di ventimila parole. Non fu un impulso vitale a spingerlo, bensì il rispetto dei canoni artistici che si era prefisso. Lavorava in un’atmosfera irreale, stranamente distaccato dal mondo che lo circondava, con la sensazione di essere il fantasma di un trapassato tornato a visitare gli orpelli letterari della sua precedente esistenza. Ricordava di avere sentito dire da qualcuno che uno spettro era lo spirito di un uomo che era già morto ma ancora non lo aveva capito; e per un attimo si fermò a riflettere se non si trovasse egli stesso in quella situazione.

Venne infine il giorno in cui terminò Scaduto. Le fasi finali dell’operazione furono condotte in compagnia dell’impiegato del negozio venuto a ritirare la macchina per scrivere, che per tutto il tempo era rimasto accovacciato sul letto mentre Martin, seduto sull’unica sedia della stanza, finiva di battere le pagine conclusive dell’ultimo capitolo. In calce al foglio, in caratteri stampatello, scrisse «Fine», e per lui fu davvero la fine. Seguì con sollievo l’uomo che usciva dalla porta con la macchina. Quindi si sdraiò sul letto con la testa che gli girava per la fame. Non ingeriva cibo da trentasei ore, ma non se ne preoccupava. Rimase supino con gli occhi chiusi, senza pensare, sommerso lentamente da un’impressione di irrealtà in cui i suoi sensi naufragavano. In un semidelirio cominciò a recitare a voce alta i versi di una poesia anonima che Brissenden gli citava spesso, mentre Maria dall’altra parte dell’uscio tendeva l’orecchio ansiosamente, turbata da quel monotono borbottio. Le parole in sé non le dicevano nulla, ma era preoccupata da quel soliloquio. «È finita», era il motivo dominante della lirica.

È finita –

Depongo la cetra.

Canto e musica sono svaniti

Come ombre tenui che scorrono

Sulla porpora del trifoglio.

È finita –

Depongo la cetra.

Un tempo cantai come i tordi all’alba

Tra fronde imperlate di rugiada;

Ora sono senza voce.

Come uno stanco fanello

Ho smarrito la gioia del canto;

Passata è la breve stagione.

È finita.

Depongo la cetra.

A questo punto, spinta da un impulso irrefrenabile, Maria corse al fornello a riempire di minestra una ciotola, in cui cercò di mettere una buona quantità di carne e verdura raccogliendola accuratamente con il mestolo dal fondo della pentola. Martin si scosse dal torpore e si sedette sul letto a mangiare, rassicurando la donna, fra una cucchiaiata e l’altra, che non stava parlando nel sonno e non aveva la febbre.

Dopo che se ne fu andata, rimase seduto sul bordo del letto triste e silenzioso, con le spalle curve, volgendo intorno uno sguardo spento che non vedeva nulla, fino a quando la sua mente ottenebrata non si risvegliò alla vista dell’involucro lacerato di una rivista arrivata con la posta della mattinata e non ancora aperta. È «The Parthenon», pensò, è il numero di agosto e ci deve essere Effimera. Se Brissenden fosse qui!

Cominciò a sfogliare le pagine, ma improvvisamente si arrestò. Il poema era stato stampato con una ricca testata incorniciata da sontuose decorazioni alla maniera di Beardsley. A uno dei lati del titolo era la fotografia di Brissenden, all’altro quella dell’ambasciatore britannico, Sir John Value. All’affermazione di questi, riportata in una nota editoriale, secondo la quale l’America non aveva poeti, la rivista rispondeva con la pubblicazione di Effimera accompagnata dal commento: «Eccoti servito, Sir John Value!». Seguiva una citazione di Cartwright Bruce, definito il più grande critico americano, per il quale quel poemetto era la più bella opera di poesia che fosse mai stata scritta nel paese. La prefazione del direttore terminava con queste parole: «Non siamo ancora arrivati a una conclusione definitiva circa i meriti di Effimera; forse non ci arriveremo mai. Ma l’abbiamo letta più volte, ammirando la scelta delle parole e la loro disposizione, chiedendoci dove il signor Brissenden le abbia trovate e come sia riuscito a collegarle fra loro». Seguiva il testo del poema.

«Meno male che sei morto, Briss, vecchio mio», mormorò Martin lasciando che la rivista gli scivolasse dalle ginocchia e finisse sul pavimento. Era nauseato da quell’esibizione di volgarità e di grettezza, ma notò, apaticamente, di non provare un grande risentimento. Avrebbe voluto tanto arrabbiarsi, ma non aveva l’energia necessaria. Si sentiva inerte. Il sangue era come congelato, incapace di pulsare e ribollire alla fiamma dell’indignazione. Dopo tutto, a che serviva? Non era che uno degli aspetti che Brissenden condannava nella società borghese.

«Povero Briss», osservò Martin, «non me l’avrebbe mai perdonata».

Sollevandosi con grande sforzo, si impadronì di una scatola che una volta aveva contenuto carta da macchina e, frugando all’interno, ne estrasse undici poesie scritte dal suo amico. Strappati quei fogli prima per il lungo e poi per il largo ne gettò i pezzi nel cestino. Lo fece stancamente, e quando ebbe finito si risedette sul bordo del letto, gli occhi fissi davanti a sé.

Non seppe per quanto tempo rimase in questa posizione, ma a un certo punto, all’improvviso, quella vuota visione fu attraversata da una lunga linea bianca orizzontale. Ne fu sorpreso ma, osservando con maggiore attenzione, si accorse che si trattava della schiuma formata dai bianchi flutti del Pacifico che investivano una barriera corallina. Poi, sulla linea dei frangenti, scorse una minuscola imbarcazione, una canoa a bilanciere alla cui poppa era la figura di bronzo di un giovane dio con un perizoma scarlatto ai fianchi e una balenante pagaia fra le mani. Lo riconobbe: era Moti, il figlio più giovane del capo Tati, e quel luogo era Tahiti; e al di là di quella scogliera avvolta da una nuvola di spuma era la dolce terra di Papara, sulle cui rive, alla foce del fiume, si trovava la casa di zolle d’erba del capo. Moti stava rientrando dalla pesca alla fine della giornata e proprio in quel momento era in attesa dell’arrivo di una grossa onda sulla cui cresta avrebbe superato la barriera. Vide poi se stesso seduto sulla prua della barca come spesso in passato, con la pagaia in mano, pronto ad immergerla furiosamente nell’acqua al grido di Moti quando la parete turchina del frangente fosse stata dietro di loro. Adesso non era più un semplice spettatore: si trovava nella canoa nel momento in cui Moti urlò, ed entrambi mulinarono freneticamente le pale scivolando sulla ripida superficie di quella volante montagna azzurra. Sotto la chiglia, l’acqua fischiava come il getto di vapore di una caldaia, e attraverso l’aria piena di spruzzi schiumosi Martin sentì un rapido rombare che continuò ad echeggiare mentre la canoa riprendeva a galleggiare sulle placide acque della laguna. Moti rise scuotendo la testa per togliersi dagli occhi l’acqua salata, ed insieme remarono fino alla spiaggia di corallo, dove le pareti erbose della casa di Tati apparivano avvolte nella luce d’oro del sole al tramonto attraverso le palme di cocco.

L’immagine svanì e gli ricomparve davanti il disordine di quella squallida stanza. Invano tentò di evocare di nuovo Tahiti. Sapeva che fra gli alberi risuonavano i canti e che le fanciulle danzavano al chiaro di luna, ma non riuscì a vederle. Vide solo il tavolo ingombro di carte, lo spazio vuoto dove aveva tenuto la macchina per scrivere e il vetro sporco della finestra. Chiuse gli occhi con un gemito e si addormentò.

XLI

Dormì pesantemente per tutta la notte, alzandosi solo all’arrivo del postino la mattina seguente. Si sentiva stanco e inerte e scorse la corrispondenza senza curiosità. Una busta speditagli da una rivista che di solito non pagava gli autori conteneva un assegno di ventidue dollari. Aveva sollecitato quel credito per un anno e mezzo. Osservò la cifra con indifferenza: non provava più alcuna emozione quando un editore pagava. A differenza dei precedenti, quell’assegno non recava con sé la promessa di un futuro luminoso. Era solo un foglio di carta del valore di ventidue dollari che gli avrebbe permesso di comprarsi qualcosa da mangiare.

Fra quel gruppo di lettere ce n’era una di un settimanale di New York contenente un altro assegno a saldo di alcune poesie comiche che erano state accettate qualche mese prima. Era di dieci dollari. Gli venne un’idea su cui rifletté con calma. Non sapeva che cosa avrebbe fatto in futuro e non aveva voglia di precipitarsi a fare alcunché, ma doveva pur vivere. E inoltre aveva numerosi debiti. Perché non investire parte di quei soldi nei francobolli occorrenti a spedire la massa dei manoscritti ammucchiati sotto il tavolo, rimettendoli in moto verso i vari editori? Un paio di accettazioni gli sarebbero servite a mantenersi per qualche tempo. Decise che valeva la pena di fare quell’investimento e dopo avere incassato gli assegni in una banca nel centro di Oakland comprò dieci dollari di francobolli. La prospettiva di tornare a casa a prepararsi da mangiare gli ripugnava. Per la prima volta si rifiutò di pensare ai debiti. Pur sapendo che in camera sua si sarebbe potuto preparare un pasto sostanzioso con un costo di quindici o venti centesimi, entrò nel Forum Café dove ordinò una colazione da due dollari, lasciando inoltre un quarto di dollaro di mancia al cameriere e spendendo altri cinquanta centesimi per un pacchetto di sigarette egiziane. Era la prima volta che fumava da quando Ruth gli aveva chiesto di smettere, ma ormai non capiva perché non avrebbe dovuto farlo e inoltre ne aveva una grande voglia. E perché preoccuparsi del denaro? Per cinque centesimi avrebbe potuto acquistare una confezione di tabacco Durham e cartine sufficienti ad arrotolarsi una quarantina di sigarette, ma a che pro? Ormai i soldi non avevano per lui altro valore che quello di consentirgli di comprare subito ciò che voleva. Era una nave priva di bussola e timone, e non aveva alcun porto da raggiungere: andare alla deriva comportava il minimo dispendio vitale, ed era proprio il vivere la cosa più dolorosa.

I giorni passavano e ogni notte dormiva regolarmente per otto ore. Pur costretto, in attesa di nuovi assegni, a frequentare ristoranti giapponesi dove si poteva mangiare con dieci centesimi, appariva ora ben nutrito e con le guance piene. Aveva detto basta ai sonni brevi, al superlavoro e allo studio frenetico. Non scriveva più nulla e aveva persino smesso di leggere. In compenso camminava molto sulle colline, o passeggiava senza meta per lunghe ore nella tranquillità dei parchi cittadini. Non aveva amici né conoscenti e non desiderava la compagnia di nessuno. Niente lo attraeva: aspettava che qualche stimolo, non sapeva di che natura, riuscisse a mettere in moto la sua esistenza. E nel frattempo la sua vita restava misera, priva di piani, vuota e oziosa.

Una volta andò a San Francisco per andare a trovare la «vera feccia», ma all’ultimo momento, dopo essere già arrivato sul pianerottolo, si arrestò e, girati i tacchi, fuggì, mescolandosi alla brulicante folla del quartiere. Era terrorizzato al pensiero di sentir parlare di filosofia e si allontanò con circospezione temendo di incontrare per caso qualcuno della «comune» e di essere riconosciuto.

Talvolta dava un’occhiata ai giornali e alle riviste per vedere che trattamento riservassero ad Effimera. Vide che aveva suscitato un grande clamore. Ma che clamore! Lo avevano letto tutti e dappertutto si discuteva se fosse o non fosse vera poesia. Se ne scriveva persino nei giornali locali e quotidianamente comparivano colonne e colonne di critiche erudite, di editoriali faceti e di corrispondenza dei lettori. Helen Della Delmar (proclamata con suono di fanfare e rullio di tamburi la più grande poetessa degli Stati Uniti) dichiarò che Brissenden non meritava un posto accanto a lei sul Parnaso e scrisse lunghe lettere aperte per dimostrare che non era un poeta.

Nel numero seguente «The Parthenon» si autoincensava per il successo riportato e ironizzava pesantemente su Sir John Value, sfruttando la morte di Brissenden a fini bassamente commerciali. Un giornale che dichiarava una tiratura di mezzo milione di copie pubblicò una poesia originale e spontanea di Helen Della Delmar, in cui l’autrice attaccava velenosamente Brissenden, da lei poi parodiato in un secondo poemetto.

Più volte Martin dovette ammettere di essere contento che Brissenden fosse morto. Lui aveva tanto detestato la folla ed ecco qui le sue cose più belle e più sacre date in pasto alle masse. Ogni giorno si vivisezionava la Bellezza. Tutte le teste vuote del paese si affrettarono a scrivere alla stampa riuscendo a soddisfare la propria meschina vanità sull’onda della grandezza di Brissenden. Un giornale disse: «Abbiamo ricevuto la lettera di un signore che tempo fa scrisse una poesia simile, ma migliore». Un altro, disapprovando la parodia di Helen Della Delmar, affermò in tutta serietà: «Non c’è dubbio che la signorina Delmar l’abbia scritta in un momento di leggerezza e senza il rispetto che un grande poeta deve nutrire nei confronti di un altro grande poeta, forse il più grande di tutti. E tuttavia, che lo abbia fatto o no per gelosia verso l’autore di Effimera, è evidente che ella, come migliaia di altre persone, è affascinata da quest’opera e che magari un giorno cercherà di scrivere versi come questi».

Nelle chiese i preti cominciarono a tuonare contro Effimera, e un predicatore che ne difese ostinatamente il contenuto fu espulso per eresia. Anche la letteratura umoristica se ne impadronì. Strofette comiche e caricature fecero sbellicare la gente dalle risa, mentre nelle rubriche dei settimanali mondani si stampavano barzellette come quella in cui Charley Frensham diceva in confidenza ad Archie Jennings che cinque versi di Effimera avrebbero spinto un uomo a picchiare un paralitico, e dieci ad affogarsi nel fiume.

Questo grande schiamazzo non provocò in Martin né divertimento, né indignazione, ma solo una profonda tristezza. Davanti al crollo di tutto il suo mondo, di cui l’amore era il supremo pinnacolo, la scoperta che nella stampa periodica e nel grosso pubblico vi fossero tali abissi di stupida e volgare superficialità lo lasciava quasi indifferente. Brissenden aveva perfettamente ragione nel dare di quell’ambiente il giudizio severo cui lui, Martin, era giunto solo ora, dopo anni di fatiche tremende e inutili. Le riviste erano proprio ciò che Brissenden diceva, e lo consolava il pensiero di aver chiuso con loro. Aveva seguito la luce di una stella e si era ritrovato fra i miasmi di una palude. Sempre più spesso gli tornavano alla mente le visioni di Tahiti – la dolce e pura Tahiti – e delle piatte Paumotu e delle alte Marchesi; e rivedeva se stesso a bordo di golette mercantili o di fragili lance che scivolavano all’alba attraverso la barriera di Papeete per cominciare la lunga navigazione fra le isole delle perle fino a Nukahiva e alla Baia di Taiohae, dove Tamari, lo sapeva, avrebbe ucciso un maiale per festeggiare il suo arrivo e le ragazze con le collane di fiori l’avrebbero preso per mano cantando e gli avrebbero messo le ghirlande al collo. I Mari del Sud lo chiamavano, e Martin sapeva che presto o tardi avrebbe risposto al richiamo.

Nel frattempo si lasciava trascinare passivamente dagli eventi: sentiva il bisogno di fermarsi a riprendere fiato dopo il lungo e arduo viaggio che aveva fatto attraverso il regno della conoscenza. Quando gli arrivò l’assegno di trecentocinquanta dollari del «Parthenon», lo girò al legale della città che aveva curato gli affari di Brissenden per conto della famiglia. Nell’occasione si fece rilasciare una ricevuta e gli diede a sua volta un pagherò per i cento dollari anticipatigli dall’amico.

Non molto tempo dopo Martin cessò di frequentare i ristoranti giapponesi. La fortuna aveva cominciato a sorridergli proprio quando aveva abbandonato la lotta. Ma ormai era troppo tardi. Aperta la busta speditagli dal «Millennium» vi trovò dentro, senza che ciò provocasse in lui alcun brivido di emozione, un assegno di trecento dollari per Avventura, che gli veniva dunque pagato al momento stesso dell’accettazione. La somma totale dei debiti che aveva, compreso quello presso il banco dei pegni con i suoi interessi di usura, ammontava a meno di cento dollari. Saldata ogni pendenza e ritirato l’effetto in possesso dell’avvocato di Brissenden, si ritrovò con più di cento dollari in tasca. Si fece fare un abito da un sarto e prese a mangiare nei migliori ristoranti cittadini. Continuò a tenere la stanzetta nella casa di Maria, ma alla vista del bel vestito che indossava i ragazzi del rione smisero di gridargli «vagabondo» e «barbone» nascosti sui tetti delle rimesse e dietro gli steccati.

Il racconto hawaiano Wiki-Wiki fu acquistato dal «Warren Monthly» per duecentocinquanta dollari, mentre il saggio La culla della bellezza fu accettato dalla «Northern Review» e La chiromante, la poesia che aveva scritto per Marian, dal «Mackintosh’s Magazine». I direttori e i consulenti erano tornati dalle vacanze estive, e ciò giustificava quel risveglio di interesse per i suoi manoscritti. Tuttavia Martin non riusciva a capire per quale capriccio fossero ora spinti ad assicurarsi le opere che per due anni avevano continuato a rifiutare. Nulla di suo era stato pubblicato, il suo nome era ignoto al di fuori di Oakland e nella sua città i pochi che pensavano di conoscerlo lo consideravano un sovversivo socialista. Niente spiegava questa grande attenzione per i prodotti del suo ingegno. Era un puro e semplice scherzo del destino.

Poiché La vergogna del sole era stato respinto da alcune riviste, aveva deciso, seguendo il consiglio di Brissenden, di offrirlo a case editrici di libri e, dopo diversi rifiuti, era stato accettato dalla Singletree, Darnley & Co., con promessa di pubblicazione in autunno. Alla richiesta di un anticipo sui diritti d’autore, gli risposero che non era loro abitudine concederlo, tanto più che opere di quel genere raramente coprivano le spese e il suo libro difficilmente sarebbe arrivato a vendere mille copie. Martin calcolò quale sarebbe stato il suo compenso in tale eventualità. Con una percentuale del quindici per cento su un prezzo di copertina di un dollaro, il guadagno sarebbe stato di centocinquanta dollari. Decise dunque che se avesse ripreso a scrivere si sarebbe dedicato esclusivamente alla narrativa. La pubblicazione di Avventura sulla rivista «The Millennium» gli aveva fruttato il doppio, benché il racconto fosse un quarto della lunghezza del saggio. Dopo tutto, ciò che aveva letto su un giornale tanto tempo prima era esatto: i periodici di prim’ordine pagavano all’accettazione e prevedevano compensi elevati. «The Millennium» gli aveva concesso ancor più di due centesimi a parola: gliene aveva dati quattro. Inoltre ciò che stampava era di grande qualità. Non si era appena assicurato i suoi scritti? Quest’ultima riflessione lo fece sogghignare.

Scrisse alla Singletree, Darnley & Co. offrendo loro i diritti di pubblicazione dell’opera per la somma forfettaria di cento dollari, ma l’editore non accettò il rischio. Ciò non lo preoccupò. Ormai non aveva più problemi economici, perché parecchi dei suoi racconti più maturi erano stati stampati e pagati. Arrivò ad aprire un conto in banca con un deposito di parecchie centinaia di dollari, e ciò dopo avere saldato tutti i debiti. Dopo che fu rifiutato da parecchie riviste, Scaduto fu accettato dalla casa editrice Meredith-Lowell Company. Ricordandosi dei cinque dollari che Gertrude gli aveva dato e della promessa di restituirglieli moltiplicati per cento Martin scrisse all’editore chiedendo un anticipo di cinquecento dollari sui diritti d’autore. Con sua grande sorpresa ricevette, a stretto giro di posta, un assegno per tale cifra allegato al contratto di pubblicazione. Dopo averne incassato l’importo, che si fece versare in monete d’oro da cinque dollari, telefonò a Gertrude chiedendole di venire da lui.

La sorella arrivò subito, ansimando per la gran corsa che aveva fatto. Sospettando una richiesta di denaro aveva ficcato nella borsa i pochi dollari che possedeva; ed era così sicura che il fratello fosse ormai nella più nera miseria che nel vederlo gli si buttò fra le braccia singhiozzando e mettendogli i soldi in mano senza parlare.

«Sarei venuto io», disse Martin, «ma non volevo incontrare tuo marito, perché avremmo certamente litigato».

«Fra un po’ gli passerà», lo rassicurò lei, chiedendosi in che guaio si fosse cacciato Martin questa volta. «Ma tu dovresti trovarti un posto e sistemarti. Quelli che hanno un lavoro per bene gli piacciono. Quella storia dei giornali lo ha sconvolto. Non l’ho mai visto così arrabbiato».

«Non ho intenzione di trovarmi un posto», rispose Martin con un sorriso. «Puoi dirglielo da parte mia. Non ne ho bisogno, ed eccotene la prova».

Le versò in grembo i cento scintillanti pezzi d’oro, che cadendo tintinnarono.

«Ricordi quel «cinque» che mi hai dato un giorno in cui non avevo i soldi del tram? Eccolo qua, te lo restituisco con altri novantanove fratelli tutti uguali a lui».

Se arrivando Gertrude era spaventata, ora fu presa da un panico tale che il sospetto divenne certezza. Annientata da quella rivelazione fissò Martin terrorizzata e come schiacciata dal peso dell’oro maledetto, da cui si ritrasse inorridita.

«È tuo», rise lui.

Gertrude scoppiò in lacrime e cominciò a gemere: «Mio povero ragazzo, mio povero ragazzo!».

Dopo qualche attimo di perplessità, egli indovinò la causa di tanta agitazione e le porse subito la lettera di accompagnamento dell’assegno della Meredith-Lowell. La lesse con difficoltà, fermandosi di tanto in tanto per asciugarsi gli occhi, e quando ebbe finito disse:

«Vuol dire che questi soldi ti sono arrivati in modo onesto?».

«Sono più onesti che se li avessi vinti alla lotteria, perché me li sono guadagnati».

A poco a poco la sorella riacquistò la fiducia, e rilesse la lettera con attenzione. Gli ci volle non poco per spiegarle la natura dell’operazione che lo aveva portato a ricevere quel denaro, e ancor più per farle capire che era proprio suo perché lui non ne aveva bisogno.

«Lo metterò in banca per te», disse lei infine.

«Non farai nulla del genere. È tuo e usalo come vuoi. Se non lo vuoi lo darò a Maria, che invece sa bene che cosa farne. Ti consiglio, però, di assumere una domestica, e di riposarti per un bel po’».

«Lo voglio dire a Bernard», dichiarò Gertrude andandosene.

Martin fece una smorfia, poi sogghignò.

«Sì, fallo pure», disse. «Magari ricomincerà ad invitarmi a cena».

«Oh, sì… ne sono sicura!», esclamò lei con fervore attirandolo a sé per abbracciarlo e baciarlo.

XLII

Un giorno Martin si accorse di sentirsi solo. Pur essendo pieno di salute e di forza non aveva nulla da fare. La cessazione da ogni attività letteraria, la morte di Brissenden e la rottura con Ruth avevano aperto in lui un grande vuoto, che non poteva essere colmato dai cibi raffinati nei ristoranti di lusso e dall’aroma del tabacco egiziano. C’era il richiamo dei Mari del Sud, era vero, ma sentiva che gli restava ancora molto da fare negli Stati Uniti. Presto sarebbero comparsi due libri suoi e ne aveva altri che potevano trovare un editore. In questo modo avrebbe potuto fare parecchi soldi. Avrebbe dunque atteso di avere un bel gruzzolo prima di partire per le isole felici. Nelle Marchesi ricordava un terreno in riva al mare che avrebbe potuto avere per mille dollari cileni. Era una valle di forse quattromila ettari, delimitata, dalla parte della costa, da una baia a ferro di cavallo e, verso l’entroterra, dalle cime di ripidi picchi incappucciati di nuvole. Era piena di frutti tropicali, di uccelli selvatici e di cinghiali e percorsa da branchi di bovini bradi, mentre fra le balze delle alture i cani selvatici davano la caccia alle capre di montagna. Era un territorio rimasto disabitato, allo stato naturale, che si poteva comprare, insieme con la rada, per mille dollari cileni.

Per quanto se ne ricordava, la baia era magnifica, con fondali tanto alti che potevano penetrarvi le navi più grandi, e così sicura che la Guida Marittima del Sud Pacifico la raccomandava come il posto migliore che l’oceano potesse offrire in un raggio di diverse miglia per il carenaggio delle navi. Avrebbe comprato una goletta – una di quelle imbarcazioni simili ai panfili e rivestite di rame che filavano come frecce, con la quale avrebbe girato le isole smerciando copra e pescando perle. Di quella valle e di quella baia avrebbe fatto il suo quartier generale. Avrebbe costruito una casa patriarcale di zolle d’erba come quella di Tati e l’avrebbe riempita, come la goletta e la valle, di uomini di pelle scura a lui legati. Vi avrebbe invitato il fattore di Taiohae, i comandanti dei mercantili di passaggio e tutti i migliori esemplari della marmaglia che pullulava nel Sud Pacifico. Avrebbe avuto la casa sempre aperta e avrebbe ricevuto come un principe. In questo luogo avrebbe dimenticato i libri che aveva letto e il mondo che si era dimostrato illusorio.

Per poter realizzare tutto ciò sarebbe dovuto restare in California fino a quando non si fosse esaurito il filone d’oro che aveva appena scoperto. Se uno dei suoi libri avesse avuto successo sarebbe riuscito a vendere tutto il mucchio dei manoscritti. Per potersi assicurare la rada, la valle e la goletta, avrebbe anche raccolto in volume tutti i racconti e tutte le poesie, ma non avrebbe scritto più nulla, questo era certo. Nel frattempo, nell’attesa di realizzare tutto ciò, doveva fare qualcosa di meglio che continuare a vivere in quella specie di inerzia confusa e indifferente in cui era precipitato.

Una domenica mattina apprese che quel giorno ci sarebbe stato il Picnic dei muratori allo Shell Mound Park, e decise di andarci. Era stato troppe volte a queste sagre della classe operaia per non sapere come fossero e, all’ingresso del parco, riprovò tutte le sensazioni di un tempo. In fin dei conti erano persone del suo ceto, questi proletari. Fra loro era nato, fra loro era vissuto e fra loro era contento di tornare dopo esserne rimasto lontano per un certo periodo.

«Guarda, guarda chi si vede! Mart!», udì dire da qualcuno e subito sentì una mano che gli batteva cordialmente sulla spalla. «Dove sei stato tutto questo tempo? Sei stato in mare? Su, vieni a bere con noi».

Ritrovò la compagnia di allora – i vecchi amici, con qualche vuoto qua e là e alcune facce nuove. Non erano muratori, ma come ai vecchi tempi, andavano a tutte le feste all’aperto per ballare, divertirsi e fare a botte. Martin bevve con loro e ricominciò a sentirsi come un essere umano. Era stato uno sciocco ad abbandonarli, pensò; aveva la certezza che sarebbe stato più felice se fosse rimasto con loro invece di rincorrere i libri e la gente che occupava alte posizioni. E tuttavia la birra non gli pareva buona come allora. Concluse che era stato Brissenden a rovinargli il gusto e si chiese se, dopo tutto, i libri non lo avessero guastato al punto che non sapeva più apprezzare la compagnia degli amici di gioventù. Decise che non doveva mostrarsi schifiltoso e andò alla pista da ballo. Vi incontrò Jimmy, l’idraulico, insieme con una ragazza alta e bionda che immediatamente lo abbandonò per Martin.

«Perdinci, come ai vecchi tempi», osservò Jimmy rivolto agli altri che presero a sbeffeggiarlo mentre Martin roteava con la bionda in un giro di valzer. «Ma non me ne importa un accidente. Sono così contento che è tornato. Guardatelo come balla. È leggero come una piuma. Bisogna capirle, le ragazze».

Tuttavia Martin riportò la bionda a Jimmy e tutti e tre, insieme con altri cinque o sei della banda, si soffermarono a ridere, a scherzare e a guardare le coppie che piroettavano nella danza. Tutti erano felici che fosse tornato Martin. Non essendo ancora uscito alcuno dei suoi libri non era ricercato per il suo prestigio, ma apprezzato per ciò che era. Si sentiva come un principe tornato dall’esilio, la cui gelida solitudine si scioglieva al calore della simpatia che lo circondava. Fu una giornata indimenticabile, in cui egli diede il meglio di sé. Aveva in tasca parecchio denaro e lo spese generosamente, come nel passato quando sbarcava con i soldi della paga.

Una volta, sulla pista da ballo, vide passare Lizzie Connolly fra le braccia di un giovane operaio, e più tardi, girando sotto il tendone, la ritrovò seduta a uno dei tavolini. Dopo le espressioni di sorpresa e i convenevoli, andò a passeggiare con lei fra i vialetti del parco dove era possibile parlare senza dover alzare la voce per via della musica. Da questo momento egli capì che era sua. Lei lo palesava nell’orgogliosa modestia dello sguardo, nei dolci movimenti di quel corpo fiero e nel modo in cui pendeva dalle sue labbra. Non era più la fanciulla che aveva conosciuto tempo fa. Era una donna, e Martin notò che la sua bellezza selvaggia e insolente si era affinata, e pur non perdendo nulla della propria genuinità, aveva leggermente attenuato la sua natura focosa e provocatoria. «Una bellezza, una bellezza perfetta», mormorò lui sotto voce. Capì che era sua e gli sarebbe bastato dirle «Vieni» perché lo seguisse in capo al mondo.

E nell’istante in cui quel pensiero gli balenò nel cervello, venne colpito alla tempia da un colpo che per poco non lo fece crollare a terra. Gli era stato sferrato da un uomo così fuori di sé per la rabbia da mancare la mascella, cui era diretto. Martin si voltò traballando e vide arrivargli addosso una sventola terribile. Si scansò quasi istintivamente e il pugno lo sfiorò innocuo, facendo ruotare su se stesso il suo avversario. Martin replicò con un gancio sinistro sferrato con tutto il peso del corpo. L’uomo, già sbilanciato per il colpo andato a vuoto, cadde al suolo su un fianco, ma subito rialzatosi gli si avventò contro. Scorgendo quei lineamenti alterati dalla rabbia Martin si chiese da che cosa nascesse tanta collera, ma mentre rifletteva scagliò un diretto sinistro, accompagnato anche questa volta dal movimento di tutto il corpo. L’altro indietreggiò e crollò riverso. Jimmy e tutti gli altri della compagnia corsero verso di loro.

Martin era tutto eccitato. Era proprio come ai vecchi tempi, con i balli, le risse e i divertimenti. Pur senza perdere d’occhio l’avversario, lanciò uno sguardo a Lizzie. Di solito le ragazze strillavano quando gli uomini facevano a botte, ma lei era rimasta ferma e immobile a guardare con il fiato sospeso, la figura leggermente inclinata in avanti, attratta da ciò che vedeva, una mano al petto, le guance animate e una grande e stupita ammirazione negli occhi.

L’uomo si era rialzato e stava divincolandosi per liberarsi dalle braccia che lo tenevano.

«Lei stava aspettando che tornavo», esclamò rivolto a tutti i presenti. «Stava aspettando che tornavo ed ecco che arriva questo a mettersi in mezzo. Lasciatemi andare, per dio. Adesso lo sistemo per le feste».

«Stai fermo se vuoi restare tutto intero», gli disse Jimmy trattenendolo insieme con gli altri. «Quello lì è Mart Eden. È un diavolo con i pugni, ficcatelo bene in testa. È capace di farti a pezzi se gli fai venire la mosca al naso».

«Ma non può fregarmela così», ribatté l’altro.

«Le ha date all’Olandese volante», continuò animatamente Jimmy. «L’ha liquidato in meno di cinque riprese. Contro di lui non resti in piedi un minuto. Chiaro?».

Questa informazione parve avere un effetto calmante sull’ira dell’uomo, che soppesò Martin con lo sguardo.

«Non si direbbe», disse in tono di scherno ma senza aggressività.

«Lo pensava anche l’Olandese volante», lo assicurò Jimmy.

«Su, dacci un taglio. Ci sono un sacco di altre ragazze in giro».

Il giovane si lasciò condurre verso il tendone, seguito dagli altri della compagnia.

«Chi è?», chiese Martin a Lizzie. «E poi, perché tutto questo can-can?».

L’eccitazione della lotta, che in passato era acuta e duratura, era già svanita, ed egli si accorse di essere così portato all’autoanalisi che gli era ormai impossibile vivere in modo tanto primitivo, con cuore semplice e mano lesta.

Lizzie scosse il capo.

«Oh, non è nessuno», disse. «È solo un tale con cui stavo».

«Ho dovuto», aggiunse dopo una pausa. «Mi sentivo molto sola. Ma non ho mai dimenticato». Abbassando la voce guardò fisso davanti a sé. «Non ci avrei pensato un attimo a lasciarlo per te».

Osservando quel viso rivolto altrove con la sicurezza che gli sarebbe bastato un cenno per averla, Martin cominciò a chiedersi se dopo tutto ci fossero sentimenti veri dietro le belle forme e il parlare forbito, e immerso in questa riflessione tardò a risponderle.

«L’hai fatto volare», disse lei con una risata, non sapendo che pensare di quel silenzio.

«È un tipo tosto, però», ammise lui generosamente. «Se non l’avessero portato via sarebbe stato un osso duro».

«Chi era quella signora con cui ti ho visto quella sera?», chiese lei all’improvviso.

«Oh, solo un’amica».

«È stato tanto tempo fa», mormorò lei con tono riflessivo. «Pare un secolo».

Ma Martin lasciò perdere quell’argomento e indirizzò altrove la conversazione. Pranzarono al ristorante, dove egli ordinò vino e altre costose prelibatezze, e poi, tornati al ballo, danzò con lei e con nessun’altra fino a quando Lizzie non fu stanca. Era un buon ballerino, e girando fra le sue braccia in un’estasi di felicità, con la testa appoggiata sulla sua spalla, lei avrebbe voluto che quel momento durasse all’infinito. Più tardi, nel corso del pomeriggio, passeggiarono fra gli alberi, sotto i quali, come ai bei tempi, lei si sedette, mentre Martin sdraiato supino, le teneva la testa in grembo. Rimasero così, lui assopito e lei chinata ad accarezzargli i capelli, a contemplare i suoi occhi chiusi e ad amarlo con tutta l’anima. Aprendo le palpebre all’improvviso lui capì dalla sua espressione intenerita quel che lei provava. Lizzie socchiuse gli occhi, quindi li spalancò, fissandoli in quelli di lui con uno sguardo pieno di dolcezza e di sfida.

«Mi sono comportata bene tutti questi anni», disse, con voce così bassa che era quasi un bisbiglio.

Martin comprese che quella era la miracolosa verità, e in cuor suo provò la grande tentazione di renderla felice. Doveva forse rifiutarle questa possibilità solo perché a lui era ormai negata? Avrebbe potuto sposarla e portarla a vivere con sé nel castello di zolle d’erba alle isole Marchesi. Ma per quanto forte fosse quel desiderio, ancor più forte fu l’imperativo di non farlo. Nonostante tutto rimaneva fedele all’Amore. Com’erano lontani i giorni della licenza e delle facili avventure! Non poteva né tornarvi, né richiamarli a sé. Sapeva di essere cambiato, ma non avrebbe mai creduto di esserlo a tal punto.

«Non sono tipo da sposarmi, Lizzie», disse piano.

La mano che gli carezzava i capelli si fermò per un istante prima di riprendere quel dolce movimento. Martin notò che il viso di lei si era indurito nella risolutezza, pur senza perdere nulla del caldo colore delle guance e della commossa dolcezza dei lineamenti.

«Non volevo dire questo…», aggiunse senza finire la frase. «Comunque non m’importa. Non m’importa», ripeté. «Sono orgogliosa di essere la tua amica. Per te sono pronta a qualunque cosa. Sono fatta così».

Martin si rizzò a sedere e le prese la mano. Lo fece deliberatamente, con un calore senza passione che le diede un brivido di freddo.

«Sei una donna grande e nobile», le disse, «e sono io che devo essere orgoglioso di conoscerti. E lo sono davvero. Tu per me sei un raggio di luce in questo mondo di tenebre, e io ho il dovere di essere leale con te come tu lo sei stata con me».

«Non m’importa se tu sei leale con me o no. Di me puoi fare qualunque cosa. Puoi gettarmi nel fango e camminarmi sopra. Sei l’unico uomo al mondo che può», aggiunse con aria di sfida. «Non per nulla è da quando sono bambina che bado a me stessa».

«Ed è proprio per questo che non voglio farlo», disse lui dolcemente. «Sei così brava e generosa che non posso esserti da meno. Non voglio sposarmi e… non voglio fare all’amore con te senza sposarti, anche se queste cose le ho fatte in passato. Mi dispiace di essere venuto qui oggi e di averti incontrato. Ma ormai non c’è rimedio, anche se non pensavo che le cose andassero così.

«Ascoltami Lizzie. Non so dirti quanto tu mi stia a cuore, o meglio, quanto ti ammiri e ti rispetti. Tu sei buona, sei meravigliosa. Ma a che servono le parole? C’è qualcosa che vorrei fare per te. Hai avuto un’esistenza difficile. Permettimi di darti un aiuto». (Negli occhi le balenò un lampo di gioia che presto si spense). «Ho la certezza che presto mi arriveranno dei soldi… molti soldi».

Fu allora che abbandonò l’idea della valle e della baia, del castello di zolle d’erba e della bella goletta bianca. Dopo tutto era una cosa senza importanza. Poteva fuggire, come aveva fatto tante volte prima di allora, come semplice marinaio, su una nave qualsiasi, diretta in un posto qualsiasi.

«Vorrei darli a te. Ci dev’essere qualcosa che ti piacerebbe fare – frequentare una scuola o un istituto commerciale. O magari studiare per diventare stenografa. Posso pensarci io. O forse tuo padre e tua madre sono ancora in vita… potrei aprir loro una drogheria o qualcosa del genere. Qualunque cosa tu voglia non hai che da dirmela e io la farò».

Lizzie non rispose. Rimase seduta, immobile, gli occhi fissi davanti a sé, ma con una voglia di piangere così forte che anche Martin sentì un groppo in gola e si pentì di aver parlato. Gli parve così meschino quello che le aveva offerto – denaro – rispetto a quanto gli avrebbe dato lei. Lui le concedeva qualcosa di estraneo, di cui poteva liberarsi senza ambascia, ma lei gli donava tutta se stessa, senza preoccuparsi del disonore, dell’onta, del peccato e della perdita della grazia.

«Non parliamone», disse lei con una voce incrinata che mascherò in un accesso di tosse. Si rizzò in piedi. «Su, torniamo a casa. Sono stanchissima».

La giornata era finita e quelli che erano venuti per la festa se n’erano andati quasi tutti, ma quando uscirono dagli alberi videro che gli altri li stavano aspettando. Martin capì subito che cosa stava avvenendo: si preparavano disordini e gli amici facevano loro da guardia del corpo. Passarono infatti i cancelli del parco seguiti da un gruppo di giovanotti che il ragazzo di Lizzie aveva chiamato a raccolta per vendicare la perdita della sua donna. Prevedendo una rissa diversi vigili e agenti di polizia di reparti speciali erano intervenuti per prevenirla riuscendo a incanalare le due bande in punti separati del treno diretto a San Francisco. Martin disse a Jimmy che sarebbe sceso alla fermata della Sedicesima Strada per prendere il tram per Oakland. Lizzie rimase tranquilla, disinteressata a ciò che si stava verificando. Quando il treno si fermò, la vettura era già in attesa e il tranviere stava scampanellando con impazienza.

«Eccolo lì», esclamò Jimmy. «Fai una corsa e noi li tratteniamo. Vai ora! Saltagli su!».

La banda rivale fu per un attimo sconcertata da quella manovra; quindi si precipitò dal treno all’inseguimento. I sobri e posati passeggeri di Oakland seduti nella vettura notarono appena il giovanotto e la ragazza che arrivando di corsa trovarono due posti nella parte anteriore dell’imperiale e non collegarono la coppia con Jimmy, che balzando sul predellino urlò al conducente: «Forza con la manetta, vecchio mio, schizza via di qua!».

Subito dopo Jimmy si girò di scatto e i passeggeri lo videro sferrare un pugno sulla faccia di un uomo che correndo stava cercando di salire sul tram. Subito una tempesta di botte e di colpi partì dai lunghi predellini ai lati della vettura, che Jimmy e la sua banda riuscirono ad occupare prima dell’arrivo del nemico. Il tram partì in un furioso scampanellio, mentre la banda di Jimmy, respinti gli ultimi assalitori, saltava a terra per completare l’opera. Accelerando di colpo, il tranviere si lasciò indietro tutto quello scompiglio, con sollievo degli esterrefatti passeggeri, i quali non avrebbero mai immaginato che il quieto giovanotto e la graziosa operaia seduti in un angolo dell’imperiale fossero la causa di tanto sconquasso.

Martin si era esaltato nella battaglia, durante la quale aveva risentito le vecchie emozioni, ma queste erano presto sparite in un’opprimente, infinita tristezza. Si sentì vecchio – molto più vecchio di quei giovani spensierati e noncuranti, antichi compagni della sua vita passata. Era andato lontano, troppo lontano per tornare. I loro modi, che una volta erano stati anche i suoi, ora lo disgustavano. Quella delusione gli aveva fatto capire di essere diverso da loro. La loro compagnia gli era parsa aspra, proprio come il sapore della loro birra. Le migliaia di libri che aveva letto avevano scavato fra loro un abisso. Si era condannato all’esilio. Il viaggio nel regno dell’intelletto lo aveva portato così in là che il ritorno gli era impossibile. Il suo bisogno di contatti umani, la sua ardente brama di compagnia rimanevano inappagati. Non aveva trovato una nuova patria. Non lo capivano gli amici di un tempo, non lo capiva la famiglia, non lo capiva la borghesia, e neppure la ragazza accanto a lui, per la quale egli aveva un grande rispetto, era in grado di capirlo e di comprendere la nobiltà del suo comportamento. Queste riflessioni aggiunsero amarezza alla tristezza.

«Fa’ pace con lui», consigliò a Lizzie al momento dell’addio, davanti alla povera casa in cui abitava, nei pressi di Market Street e della Sesta. Si riferiva al giovanotto di cui quel giorno aveva usurpato il posto.

«Non posso… adesso», rispose lei.

«Oh, andiamo», disse in tono scherzoso. «Ti basta fare un fischio e lui verrà di corsa».

«Non intendevo questo», rispose lei semplicemente.

E lui capì che cosa aveva voluto dire.

Mentre le stava augurando la buona notte, Lizzie si chinò verso di lui; lo fece senza malizia né iattanza, ma con aria umile e mesta. Ne fu toccato e sentì dentro di sé un impeto di grande generosità. L’avvolse con le braccia e nel baciarla capì che il bacio che riceveva era il più sincero che un uomo avesse mai ricevuto da una donna.

«Mio Dio!», disse lei singhiozzando. «Potrei morire per te. Potrei morire per te».

Poi si strappò a quella stretta e salì di corsa i gradini. Martin si sentiva gli occhi umidi.

«Martin Eden», disse fra sé. «Non sei un bruto, e come nietzschiano vali poco. Se potessi la sposeresti, e riempiresti di felicità il suo cuore palpitante. Ma non puoi, non puoi. Ed è una gran vergogna.

«”Un povero vecchio vagabondo racconta le sue vecchie piaghe”», mormorò citando Henley. «”La vita, per me, è un vergognoso errore”. E lo è, un vergognoso errore».

XLIII

La vergogna del sole fu pubblicato in ottobre. Nel tagliare le corde del pacco e nello spargere sul tavolo le cinque o sei copie omaggio che l’editore gli aveva mandato, Martin sentì una grande tristezza. Pensando all’irrefrenabile gioia che avrebbe provato se ciò fosse avvenuto solo qualche mese prima, la confrontò con l’accidiosa freddezza che lo aveva invaso. Davanti al suo libro, il suo primo libro, non era emozionato, ma solo depresso. Esso non gli diceva nulla, ora. Al massimo gli avrebbe fruttato un po’ di denaro, a cui, del resto era abbastanza indifferente.

Presa una copia, andò in cucina per regalarla a Maria.

«L’ho fatto io», disse in risposta alla sua aria sbalordita. «L’ho scritto in quella camera e credo proprio di essere stato tenuto su da qualche scodella della tua zuppa di verdura mentre lo facevo. Te lo do. È tuo. Così mi ricorderai».

Non lo disse per impressionarla, per mettersi in mostra davanti ai suoi occhi, ma solo per renderla felice, per far sì che si sentisse orgogliosa della sua opera, per mostrarle riconoscenza della fede che aveva avuto in lui. Lei mise il volume nella stanza buona, sopra la Bibbia di famiglia. Era un oggetto sacro, quel libro fatto dal suo inquilino, un simbolo di amicizia, che attenuò il disonore di Martin di essere stato lavandaio. Capiva, pur non comprendendone una sola riga, che era una cosa grande. Era una donna semplice, pratica, lavoratrice, ma piena di fede.

Con la stessa indifferenza con cui aveva ricevuto le copie della Vergogna del sole, lesse le recensioni che settimanalmente gli faceva pervenire l’ufficio stampa. Il libro aveva colto nel segno, questo era evidente, e ciò voleva dire altro oro nella borsa. Dopo avere sistemato Lizzie e mantenuto tutte le promesse gli sarebbe ancora rimasta una cifra sufficiente a costruire il vagheggiato castello di foglie d’erba.

Per prudenza la Singletree, Darnley & Co. aveva stampato inizialmente solo millecinquecento copie, ma i primi commenti avevano provocata una seconda edizione di tremila e prima che questa fosse esaurita venne preparata una terza ristampa di cinquemila. Dopo che un editore di Londra ebbe stipulato, per telegrafo, un accordo per l’edizione inglese, giunse notizia che erano in corso traduzioni dell’opera in francese, in tedesco e nelle lingue scandinave. L’attacco alla scuola di Maeterlinck, sferrato al momento opportuno, scatenò una polemica per la quale già esistevano le premesse. Saleeby e Haeckel appoggiarono e difesero La vergogna del sole, una volta tanto d’accordo nel sostenere la stessa tesi. Crookes e Wallace si schierarono invece dall’altra parte, mentre Sir Oliver Lodge tentò un compromesso che fosse compatibile con le sue particolari teorie cosmiche. I seguaci di Maeterlinck si raccolsero sotto la bandiera del misticismo. Chesterton fece ridere tutto il mondo con una serie di saggi sull’argomento a suo dire imparziali, e tutta la questione – l’oggetto della discussione e i protagonisti del dibattito – rischiarono di essere spazzati via come fuscelli sotto le tremende bordate indirizzate contro di loro da George Bernard Shaw. Inutile dire che nell’agone erano scesi, accanto a questi, molti altri personaggi minori e comprimari, e che la confusione e l’asprezza della lotta divennero tremende.

Martin ricevette una lettera dai suoi editori. «Stiamo assistendo all’evento straordinario», scrivevano, «di un saggio filosofico che si vende come un romanzo. A questo successo hanno contribuito la felice scelta dell’argomento e una serie di circostanze favorevoli. Naturalmente stiamo facendo di tutto per sfruttare il momento propizio. Più di quarantamila copie sono già state vendute negli Stati Uniti e nel Canada, ed è già prevista una nuova edizione di ventimila esemplari. Stiamo facendo gli straordinari per cercare di soddisfare la domanda, che per altro abbiamo contribuito a creare; la spesa pubblicitaria è già di cinquemila dollari. Ci stiamo avviando a vendite da primato.

«Ci siamo permessi di allegare alla presente un contratto in duplice copia relativo al Suo prossimo libro. Ci pregiamo di farLe notare che abbiamo aumentato la percentuale dei Suoi diritti al venti per cento, il massimo cui possa arrivare una casa editrice seria. La preghiamo, se l’offerta è di Suo gradimento, di scrivere il titolo del libro nello spazio rimasto in bianco. Siamo disposti a pubblicare opere di qualunque argomento. Ove Lei già avesse manoscritti pronti per la stampa ci faciliterebbe il compito, perché ci consentirebbe di battere il ferro finché è caldo.

«Al ricevimento del contratto firmato saremo lieti di inviarLe un anticipo di cinquemila dollari sulle Sue future spettanze. Avendo grande fiducia nei Suoi libri, abbiamo intenzione di impegnarci a fondo nel loro lancio. Vorremmo anche discutere con Lei i termini di un altro contratto in cui Ella ci conceda, per un certo numero di anni, l’esclusiva della pubblicazione delle Sue opere in volume. Le faremo presto pervenire le nostre proposte».

Dopo aver letto la lettera, Martin fece un rapido calcolo e scoprì che il prodotto di quindici centesimi per sessantamila dava novemila dollari. Firmò poi il nuovo contratto, che completò scrivendo nello spazio bianco il titolo Il fumo della gioia, e lo spedì agli editori insieme con le venti novelle che aveva scritto prima di scoprire la formula per comporle automaticamente. L’assegno di cinquemila dollari della Singletree, Darnley & Co. gli pervenne immediatamente, a stretto giro di posta.

«Voglio che questo pomeriggio, verso le due, tu venga in centro con me, Maria», disse Martin alla donna la mattina stessa in cui ricevette il denaro. «O meglio, trovati alle due all’angolo fra Broadway e la Quattordicesima. Passerò io a prenderti».

Maria arrivò puntuale nel luogo fissato, convinta che Martin volesse regalarle un paio di scarpe e fu delusa quando lo vide passare oltre la vetrina di un negozio di calzature e immergersi, insieme con lei, in un ufficio immobiliare. Ciò che accadde in quel luogo si impresse per sempre nella sua memoria come un sogno. Cortesi signori le sorrisero graziosamente mentre parlavano con Martin e fra di loro; si sentiva il ticchettio di una macchina per scrivere; si apposero firme a un documento scritto in termini molto solenni; fra quelli che firmarono c’era anche il suo padrone di casa; e quando tutto fu finito, e si ritrovarono sul marciapiede, il proprietario le si avvicinò e le disse: «Bene, Maria, questo mese non mi dovrai pagare i sette dollari e mezzo».

La donna rimase così stupefatta da non riuscire a parlare.

«E neanche il mese prossimo, e quello dopo e quello dopo ancora», aggiunse il padrone di casa.

Lei lo ringraziò confusa, come se l’altro le stesse facendo un favore. Solo al ritorno nella sua casa di North Oakland si rese conto, dalle conversazioni con i vicini e dopo un’indagine condotta dal droghiere portoghese, di essere diventata la proprietaria dell’alloggio in cui abitava e per il quale per tanto tempo aveva pagato l’affitto.

La stessa sera Martin, scendendo dal tram, vide il suo vecchio fornitore uscire sulla via a salutarlo e a chiedergli perché non si servisse più presso di lui; gli rispose che non si preparava più i pasti in casa, e, entrato in negozio, bevve un bicchiere di vino offerto dalla ditta. Notò che era il migliore fra quelli che il droghiere teneva sugli scaffali.

«Maria», annunciò Martin quella sera, «ho intenzione di lasciare questa casa. Ma presto te ne andrai anche tu. Allora potrai affittarla e incassare la pigione. So che a San Leandro, o a Haywards, hai un fratello che lavora nella produzione del latte. Voglio che domani tu rimandi ai clienti il bucato senza lavarlo – senza lavarlo, capito? – e che vada a trovarlo a San Leandro o a Haywards, o dove diavolo si trovi. Digli di venirmi a trovare. Per un po’ mi fermerò al Metropole di Oakland. Sono sicuro che è capace di riconoscere un buon allevamento di mucche da latte».

Fu così che Maria divenne proprietaria di immobili e unica padrona di un caseificio, con due salariati che facevano il lavoro per lei e un conto in banca che aumentava costantemente sebbene tutti i suoi figli avessero adesso scarpe ai piedi e andassero a scuola. Pochi hanno il privilegio di conoscere nella realtà le fate benefiche dei loro sogni; e Maria, che per tutta la vita aveva lavorato sodo e che non sognava mai di fate benefiche, ne incontrò una nei panni di un ex lavandaio.

Nel frattempo, tutti avevano cominciato a chiedersi chi mai fosse questo Martin Eden. Lui si era rifiutato di fornire agli editori i propri dati biografici, ma ciò non fu un ostacolo per i giornali. Oakland era la sua città e i cronisti scovarono decine di persone in grado di dare loro le informazioni richieste. Quello che egli era e non era, ogni cosa che aveva fatto e molte altre che non aveva fatto, tutto ciò fu rivelato dalla stampa per il diletto del pubblico, accompagnato da istantanee e foto – queste ultime distribuite dal fotografo locale che, avendo una volta fatto il ritratto a Martin, lo mise sul mercato affermando di averne i diritti esclusivi. Dapprima Martin, pieno di disgusto per le riviste illustrate come per ogni altra espressione della società borghese, si oppose a quella pubblicità, ma infine cedette, perché in tal modo avrebbe avuto minori fastidi. Rifletté che non poteva negarsi agli inviati speciali che avevano fatto tanti chilometri per vederlo. Le sue giornate divennero quindi piene di faticosi impegni, che accettò di buon grado, anche perché, non essendo più assorbito dalla lettura e dallo scrivere, doveva pur occupare in qualche modo quelle ore; si concesse quindi agli umori del pubblico, rilasciò interviste, espresse le sue opinioni in materia di letteratura e di filosofia e accettò persino inviti in case borghesi. Era caduto in uno stato mentale di strana tranquillità, che gli faceva sopportare qualunque cosa. Perdonava a tutti, persino al giovane cronista che lo aveva dipinto come un sovversivo, al quale concesse un servizio di un’intera pagina con fotografie scattate apposta per l’occasione.

Di tanto in tanto vedeva Lizzie. La ragazza era palesemente contrariata dalla fama che lo aveva raggiunto, perché questa accentuava il divario che li separava. Fu forse nella speranza di ridurlo che la ragazza cedette ai suoi inviti di iscriversi alla scuola serale e poi a un istituto commerciale e di farsi vestire da una sarta alla moda che chiedeva prezzi esorbitanti. Lizzie faceva enormi progressi da un giorno all’altro, fino a quando a Martin non venne il dubbio che forse stava sbagliando, perché capì che lo assecondava solo per amor suo. La ragazza stava infatti cercando di abbracciare quei valori che, ai suoi occhi, dovevano essere importanti per lui; e tutto ciò benché egli non le avesse lasciato speranze, trattandola come un fratello e andando raramente a trovarla.

Scaduto fu lanciato in tutta fretta sul mercato dalla Meredith-Lowell Company nel momento della sua massima popolarità, ed essendo un’opera di narrativa ebbe un successo di vendite ancora maggiore di quello registrato dalla Vergogna del sole. Per diverse settimane il suo nome fu legato all’impresa senza precedenti di avere due libri ai primi posti nella classifica dei best-sellers. Il racconto non si impose solo presso i lettori di romanzi, ma fu anche letto avidamente dagli estimatori del saggio, colpiti dall’afflato cosmico che vibrava in quella storia di mare. Dopo avere attaccato con straordinaria efficacia la letteratura del misticismo, aveva dato una dimostrazione pratica delle proprie posizioni teoriche, rivelandosi in tal modo come uno di quei rarissimi geni che riescono ad essere grandi sia come creatori sia come critici.

Il denaro a profusione, la fama crescente, il fatto di essere salito all’improvviso all’orizzonte letterario, in cui la sua stella balenò come la luce di una cometa, suscitarono in lui più un sorriso divertito che un vero interesse. Era rimasto colpito da un banale episodio, di cui nessuno venne mai a conoscenza. Ma se la gente lo avesse saputo sarebbe rimasta sbalordita che egli potesse essere sorpreso da un fatto così insignificante, eppure tanto importante per lui. La piccola cosa, che nella sua mente aveva assunto dimensioni gigantesche, era l’invito a cena da parte del giudice Blount. Quello stesso giudice Blount che lui aveva insultato e trattato in modo così abominevole lo aveva invitato a casa sua incontrandolo casualmente in strada. Martin pensò alle numerose volte in cui vedendolo dai Morse non lo aveva invitato. Perché non lo aveva fatto? si chiedeva. Nel frattempo non era cambiato, era lo stesso Martin Eden di allora. In che cosa era diverso? Solo perché la roba che aveva scritto era apparsa stampata nelle vetrine delle librerie? Ma a quel tempo aveva già fatto queste cose, non le aveva composte dopo quegli incontri. Erano opere già completate proprio nel momento in cui Blount, ripetendo un’opinione diffusa, si era fatto beffe di Spencer e del suo intelletto. Non era per se stesso dunque che il giudice lo invitava a cena, ma per un valore fittizio che gli era stato attribuito.

Martin accettò l’invito sogghignando, sorpreso di essere diventato tanto disponibile. E durante la serata, a cui parteciparono, insieme con le signore, cinque o sei personaggi altolocati, il giudice Blount, con il caldo appoggio del giudice Hanwell, sollecitò Martin, stella di quell’eletto consesso, a permettere che il suo nome fosse raccomandato per essere ammesso allo Styx, il circolo estremamente esclusivo a cui appartenevano uomini che non erano solo ricchi ma anche di successo. Martin, perplesso più che mai, rifiutò.

Fu molto impegnato nell’attività di collocamento dei manoscritti. Gli editori lo assediavano. Di lui si scrisse che era uno stilista, ma che sotto la forma c’era la sostanza. Dopo aver pubblicato La culla della bellezza, la «Northern Review» gli aveva scritto per commissionargli una mezza dozzina di saggi simili, che egli avrebbe loro inviato scegliendoli fra quelli del mucchio se nel frattempo la «Burton’s Magazine» non gli avesse offerto un compenso di cinquecento dollari ad articolo per una serie di cinque articoli. Rispose che accettava per la cifra di mille dollari per ciascuno dei saggi. Ricordava che tutti quei manoscritti erano stati respinti, con poche frasi fredde e stereotipate, dagli stessi periodici che ora facevano a gara per assicurarseli. Li avrebbe fatti soffrire come loro avevano fatto soffrire lui. La «Burton’s Magazine» pagò la somma che lui aveva indicato per cinque di quei saggi; i restanti quattro furono pubblicati, alle stesse condizioni, dal «Mackintosh’s Monthly» dal momento che la «Northern Review» non poteva permettersi di pagare cifre così elevate. Vennero così alla luce Gli alti sacerdoti del mistero, Gli adoratori dei sogni, La misura dell’io, La filosofia dell’illusione, Dio e la zolla, Arte e biologia, I critici e le provette, Polvere di stelle e La dignità dell’usura, suscitando dibattiti e polemiche destinati ad acquietarsi solo dopo parecchio tempo.

Dai direttori delle riviste ricevette diverse lettere in cui lo si invitava a indicare le condizioni della sua collaborazione. Lo fece, ma solo per opere che aveva già scritto, rifiutando risolutamente di impegnarsi in cose nuove. Il pensiero di riprendere in mano carta e penna lo faceva impazzire. Aveva visto Brissenden fatto a pezzi dalla plebe, e benché questa stessa folla ora lo acclamasse non era mai riuscito a superare il trauma di quell’esperienza e ad avere per la massa un minimo di rispetto. Considerava quella popolarità una disgrazia e un tradimento dell’amico, ma, pur provandone ribrezzo, decise di farsi forza per continuare a sfruttare la miniera d’oro.

I direttori editoriali gli scrivevano lettere di questo tenore: «Circa un anno fa fummo purtroppo costretti a respingere la sua raccolta di poesie d’amore, che pure ci avevano favorevolmente impressionato, a causa di impegni editoriali presi in precedenza. Se l’opera è ancora inedita, ed Ella ce la farà gentilmente pervenire, saremo lieti di pubblicarla integralmente alle condizioni che ci vorrà precisare. Siamo anche disposti ad offrirle un congruo compenso per la sua successiva pubblicazione in volume».

Ricordandosi di avere composto molto tempo prima una tragedia in versi sciolti, Martin decise di mandarla al posto della raccolta richiesta. Poco prima di spedirla a destinazione la rilesse, notandone la dilettantesca immaturità e concludendo che era, in ogni caso, uno scritto di scarso valore. L’inviò lo stesso e se lo vide pubblicare, a eterna infamia del direttore. I lettori rimasero increduli e indignati: troppa era la differenza fra la superiore qualità delle creazioni di Martin Eden e quell’ignobile pastrocchio. Si disse allora che non era opera sua e che era stata goffamente raffazzonata dalla redazione del periodico imitando lo stile dell’autore, oppure che Martin Eden, all’apice del successo, aveva deciso, imitando Dumas padre, di assumere alcuni «negri», cui affidava la redazione di opere che spacciava per sue. Tuttavia, dopo che egli ebbe chiarito come quella tragedia fosse un prodotto del suo apprendistato letterario e che l’aveva inviata solo cedendo a insistenti suppliche, ci fu una risata generale alle spalle della rivista, che si affrettò a sostituire il direttore. La tragedia non apparve mai in volume, anche se Martin intascò senza esitare l’anticipo sui diritti d’autore.

Il «Coleman’s Weekly» inviò a Martin un lunghissimo telegramma, del costo di quasi trecento dollari, con l’offerta di scrivere una serie di articoli a un compenso di mille dollari l’uno. Avrebbe dovuto compiere un viaggio negli Stati Uniti, completamente spesato dalla rivista, e parlare di tutto ciò che lo avesse interessato. Per dimostrargli la grande libertà di scelta di cui avrebbe goduto, la parte più cospicua del telegramma dava, a titolo puramente indicativo, un elenco di possibili soggetti da trattare, con l’unica condizione che doveva limitarsi a temi riguardanti gli Stati Uniti. Nel telegramma di risposta, che spedì a carico del destinatario, Martin dichiarò che, con grande rammarico, era nell’impossibilità di accettare la proposta.

Wiki-Wiki, pubblicato sul «Warren’s Monthly», si affermò rapidamente. Impaginato con ampi margini e un’elegante veste tipografica, si vendette molto, soprattutto fra i lettori che si trovavano nei luoghi di villeggiatura. Il successo commerciale fu notevole e la critica fu unanime nel sostenere che avrebbe trovato posto accanto ad altri due racconti classici di due grandi scrittori: Il diavolo nella bottiglia e Pelle di zigrino.

Tuttavia la raccolta Il fumo della gioia fu accolta dal pubblico con freddezza e perplessità. L’audacia e l’anticonformismo delle novelle furono un colpo per la morale e i pregiudizi borghesi. Ma quando Parigi impazzì per il libro, che era stato immediatamente tradotto in francese, anche i lettori inglesi e americani si entusiasmarono e comprarono un numero di copie così sbalorditivo che Martin riuscì a convincere una casa editrice tradizionalmente prudente come la Singletree, Darnley & Co. a concedergli una percentuale secca del venticinque per cento per il suo terzo libro e il trenta per cento per il quarto. Questi due volumi comprendevano tutti i racconti brevi già comparsi, o di prossima pubblicazione, sulla stampa periodica. Nel primo si trovavano Il suono delle campane e le novelle dell’orrore, nel secondo Avventura, Il vaso, Il vino della vita, Il gorgo, La strada della lotta e quattro altri. La Lowell-Meredith Company si assicurò la raccolta completa dei suoi saggi, mentre alla Maxmillian Company andarono le Liriche del mare e il Ciclo d’amore; quest’ultimo uscì anche a puntate sul «Ladies’ Home Companion», che, per averlo, aveva dovuto pagare una cifra da capogiro.

Martin tirò un sospiro di sollievo dopo avere collocato l’ultimo manoscritto, perché in tal modo si era avvicinato al castello di zolle d’erba e alla bianca goletta rivestita di rame. Aveva comunque smentito l’affermazione di Brissenden, secondo cui le opere valide non comparivano mai sulle riviste. Il suo successo dimostrava proprio il contrario. Nell’intimo, tuttavia, sentiva che l’amico aveva ragione. Più che da quei racconti, il grande clamore intorno al suo nome era stato provocato dalla Vergogna del sole. Le opere narrative erano cose senza importanza, che tutti i periodici avevano respinto, ma la pubblicazione del saggio aveva suscitato polemiche e aveva richiamato su di lui un grande interesse. Se non ci fosse stata La vergogna del sole non ci sarebbe stato questo grande interesse; se non ci fosse stato il miracolo del grande successo di quest’opera non ci sarebbe stata la straordinaria fortuna di tutto ciò che aveva scritto. Che si trattasse di un miracolo era provato dal comportamento della Singletree, Darnley & Co., che aveva fatto uscire una prima edizione di millecinquecento copie della Vergogna del sole senza sapere se sarebbe mai riuscita a venderle tutte. Erano editori di provata esperienza, e quello strepitoso successo aveva sorpreso loro prima di ogni altro. Per loro era un vero e proprio miracolo, un’esperienza che non furono mai in grado di superare, ed ogni lettera che scrivevano rifletteva il reverente rispetto che provavano di fronte a quel primo misterioso evento. Non cercarono mai di spiegarlo perché non poteva avere spiegazioni. Era avvenuto e basta. Si era verificato contraddicendo tutto ciò che l’esperienza suggeriva.

Riflettendo su questo, Martin cominciò a nutrire dubbi sul valore della popolarità di cui godeva. Era la borghesia che comprava i suoi libri e gli procurava denaro a palate, ma, da quel poco che sapeva di questa classe, si meravigliava che potesse capire ciò che aveva scritto e apprezzarlo. La sua bellezza interiore e la sua potenza espressiva non dicevano nulla alle centinaia di migliaia di persone che lo acclamavano e compravano i suoi libri. Era solo un personaggio di moda, un avventuriero che aveva preso d’assalto il Parnaso in un momento in cui gli dei erano distratti. Le folle lo leggevano e lo applaudivano con lo stesso fanatismo ottuso con cui si erano gettate su Effimera di Brissenden prima di farlo a pezzi – un branco di lupi che lo esaltava invece di sbranarlo. Finire nella polvere o sugli altari era solo una questione di fortuna. Di una sola cosa era assolutamente certo: Effimera era infinitamente superiore a ogni opera che egli avesse scritto o che sentiva dentro di sé. Era una poesia immortale. L’onore che la massa gli tributava era povera cosa, perché era la stessa massa che aveva gettato nel fango quel poema sublime. Emise un profondo sospiro di soddisfazione. Era contento di aver venduto l’ultimo manoscritto e di poter presto dichiarare chiusa tutta quella storia.

XLIV

Il signor Morse incontrò Martin nella hall dell’Hotel Metropole. Non era chiaro se si trovasse lì per caso, per sbrigare qualche altra faccenda, o se ci fosse andato con il fine esplicito di incontrarlo e di invitarlo a cena. Comunque stessero le cose, Martin ricevette un invito di questo tenore dal padre di Ruth, da colui che gli aveva proibito di frequentare la sua casa e che aveva indotto la figlia a rompere il fidanzamento.

Martin non si arrabbiò, e non assunse neppure un’aria sostenuta. Trattò invece l’altro con tolleranza, chiedendosi per tutta la durata del colloquio che effetto facesse dovere inghiottire quel rospo. Non declinò l’invito, che rinviò a una remota data da destinarsi, e chiese notizie della famiglia, particolarmente di Ruth e della signora Morse. Pronunciò il nome di lei senza esitare, con naturalezza, pur rimanendo sorpreso in cuor suo di non aver provato alcuna emozione, di non avere avvertito il vecchio, familiare tumulto del cuore e il caldo pulsare del sangue.

Ora riceveva molti inviti a cena, che a volte accettava. Alcuni si facevano presentare solo per questo scopo ed egli continuò a riflettere su quella piccola cosa che stava diventando enorme. Ad aumentare ancor più le sue perplessità, anche Bernard Higginbotham gli chiese di andare a cena a casa sua. Ricordò i giorni di fame disperata in cui nessuno si preoccupava di nutrirlo. Avrebbero dovuto farlo allora, quando a volte non riusciva a reggersi in piedi ed era diventato magro e smunto. Era un paradosso: quando aveva bisogno di mangiare nessuno si curava di lui, mentre adesso che poteva rimpinzarsi e stava perdendo l’appetito, gli inviti a pranzo gli arrivavano da tutte le parti. Perché? Non era giusto; ora lui non aveva alcun merito particolare che lo rendesse diverso da prima. Le opere che ora venivano pubblicate erano già state portate a termine allora. Il signore e la signora Morse, che lo consideravano un fannullone e uno scansafatiche, e tramite Ruth lo avevano sollecitato a trovarsi un impiego in un ufficio, erano al corrente delle cose che faceva perché Ruth passava loro i manoscritti. Ciò che leggevano allora era ciò che adesso gli procurava tanta popolarità su tutti i periodici, ed era proprio il fatto che il suo nome fosse così celebre che li aveva spinti ad invitarlo.

Una cosa era certa: i Morse non si erano mai preoccupati né della sua persona, né dei suoi scritti. Era dunque evidente che ora non lo volevano per se stesso o per ciò che aveva fatto, ma solo per la notorietà che gli era piombata addosso, per il prestigio che aveva acquisito e anche – perché no? – per il patrimonio di circa centomila dollari che possedeva. Era così che la società borghese valutava un uomo, e chi era mai lui per pretendere che fosse altrimenti? E tuttavia l’orgoglio lo portava a rifiutare la stima di persone che ragionavano in questo modo. Voleva essere apprezzato per se stesso, oppure per il suo lavoro, che era, dopo tutto, un’espressione della sua personalità. Era così che lo considerava Lizzie, per la quale neppure ciò che faceva aveva alcuna importanza. Lei apprezzava l’uomo, come l’idraulico Jimmy, come tutti quelli della vecchia banda. Ne aveva avuto spesso la prova al tempo in cui facevano tante scorribande insieme, e ne aveva ricevuto la conferma quella domenica allo Shell Mound Park. Al diavolo la sua opera! Quello che a loro piaceva, e per cui erano pronti a fare a botte, era proprio lui, Mart Eden, un buon compagno e un tipo davvero in gamba.

E poi c’era Ruth. Lei gli aveva voluto bene come uomo, su questo non c’erano dubbi, ma, per quanto forte, quel sentimento non era stato capace di vincere i pregiudizi borghesi. Si era opposta alla sua decisione di scrivere soprattutto perché, così gli era parso, non gli faceva guadagnare denaro. Era questa la critica che aveva rivolto al Ciclo d’amore. Anche lei lo aveva sollecitato a trovarsi un lavoro. A dire la verità aveva usato il termine più fine di «occupazione», ma era la stessa cosa, e comunque lui preferiva ricorrere alla nomenclatura che gli era più familiare. Le aveva letto tutto ciò che aveva scritto – poesie, racconti, saggi – Wiki-Wiki, La vergogna del sole, tutto. E ciò nonostante Ruth gli raccomandava sempre e insistentemente di trovarsi un posto, di andare a lavorare – santo cielo! come se non avesse faticato, non si fosse privato del sonno, non avesse sputato sangue, al fine di rendersi degno di lei.

E la piccola cosa diventava più grande. Era tranquillo e in buona salute, mangiava regolarmente, dormiva a lungo, ma quella piccola cosa che si ingrandiva stava diventando un’ossessione. Opera finita. Quella piccola frase gli rodeva il cervello. Seduto di fronte a Bernard Higginbotham, davanti a un sostanzioso pasto domenicale nella casa sopra ai Magazzini Higginbotham, faceva sforzi sovrumani per non urlargli:

«Era un’opera finita! Ora mi dai da mangiare, ma allora mi lasciavi morire di fame, mi proibivi di venire a casa tua e imprecavi perché non volevo cercarmi un posto. Era un lavoro già fatto, completamente finito. Adesso, quando parlo io, non dici più quello che pensi; pendi dalle mie labbra e ascolti le mie parole con rispettosa attenzione. Se accuso il tuo partito di essere marcio e pieno di ladri non reagisci più con rabbia come una volta, ma emetti grugniti imbarazzati e ammetti che non ho tutti i torti. E perché? Perché sono famoso e ho un sacco di soldi, e non perché sono Martin Eden, un tipo simpatico che di solito dice cose intelligenti. Se affermassi che la luna è una grossa palla di formaggio, giureresti che ho ragione, o almeno non ti scandalizzeresti, perché ho un mucchio di dollari, ho montagne di dollari. Era un’opera finita; ti ripeto che era un lavoro già fatto quando tu mi disprezzavi e calpestavi come un verme schifoso».

Tuttavia Martin taceva. Anche se quel pensiero gli rodeva il cervello ed era un incessante tormento, sorrideva e riusciva anche ad essere tollerante. E di fronte al silenzio del grand’uomo, Bernard Higginbotham si sentiva ringalluzzito e riprendeva a parlare. Aveva avuto anche lui un successo di cui essere orgoglioso. Si era fatto da sé. Nessuno lo aveva aiutato. Non doveva nulla ad alcuno. Come cittadino faceva il suo dovere e come padre tirava su in modo esemplare la numerosa prole. E poi c’erano i Magazzini Higginbotham, monumento di laboriosità e intelligenza, per i quali aveva un affetto che altri provano solo per la moglie. Aprendo a Martin tutto il suo cuore, gli rivelò quanta abilità e lungimiranza fossero state profuse per metterli in piedi. E per loro aveva altri progetti, piani ambiziosi. Il quartiere si stava sviluppando con rapidità e il negozio era troppo piccolo. Se avesse avuto più spazio sarebbe riuscito a introdurre miglioramenti che gli avrebbero consentito di realizzare dei risparmi di denaro e personale. Ma ci sarebbe riuscito, prima o poi. Stava facendo grossi sacrifici per comprare l’area adiacente su cui costruire un altro fabbricato a due piani. Avrebbe affittato quello superiore, mentre il pianterreno sarebbe stato unito al negozio attuale per la nuova sede, ampliata, dei Magazzini Higginbotham. Parlando della nuova insegna che avrebbe occupato la lunghezza di entrambi gli edifici gli brillavano gli occhi.

Martin si distrasse: il ritornello di «opera finita» che continuava a tornargli nel cervello gli impediva di seguire il cicaleccio dell’altro. Cercò allora di sfuggire a quell’ossessione tornando alla realtà.

«Quanto hai detto che costerebbe?», chiese all’improvviso.

Il cognato si arrestò nel mezzo di uno sproloquio sulle possibilità commerciali del quartiere. Non aveva parlato di cifre, ma le aveva in mente perché aveva fatto più volte il calcolo.

«All’attuale prezzo del legname», disse, «quattromila possono bastare».

«Compresa l’insegna?».

«Quella non l’ho contata. Verrà quando c’è il fabbricato».

«E il terreno?».

«Altri tremila».

Vedendo che Martin stava scrivendo un assegno si chinò in avanti passandosi la lingua sulle labbra, mentre le mani si aprivano e si chiudevano nervosamente, fino a quando diede un’occhiata alla cifra: settemila dollari.

«Non… non posso permettermi di pagare più del sei per cento», disse rauco.

A Martin era venuto da ridere, ma riuscì a trattenersi e a chiedere:

«E quanto sarebbe?».

«Vediamo un po’. Al sei per cento… sei per sette… quattrocentoventi».

«Cioè trentacinque dollari al mese, vero?».

Higginbotham annuì.

«Allora, se non hai obiezioni facciamo così».

Martin guardò Gertrude. «Non dovrai restituirmi questa somma se ti impegnerai a spendere trentacinque dollari ogni mese per pagare qualcuno che cucini, faccia il bucato e pulisca la casa. I settemila saranno tuoi se garantirai che Gertrude non dovrà più farti da sguattera. Accetti?».

Higginbotham inghiottì a fatica. Che sua moglie non dovesse più occuparsi delle faccende domestiche era un affronto per la sua anima parsimoniosa. Quel magnifico regalo gli era stato fatto per indorare una pillola amarissima. Avere una moglie che non era più costretta a lavorare gli bruciava.

«Se non ci stai», incalzò Martin, «pago io i trentacinque al mese per…». E allungò la mano per riprendersi l’assegno. Ma Bernard Higginbotham lo precedette fulmineo ed esclamò tenendoselo stretto:

«Accetto! Accetto!».

Salendo sul tram, Martin era stanco e nauseato. Alzò gli occhi all’orgogliosa insegna del negozio.

«Porco», ringhiò. «Porco, porco».

Quando la «Mackintosh’s Magazine» pubblicò La chiromante, accompagnandola con decorazioni di Berthier e due disegni di Wenn, Hermann von Schmidt, dimenticandosi di aver definito «osceni» quei versi, dichiarò che la poesia era stata ispirata da sua moglie e, avendo fatto in modo che l’informazione arrivasse alla stampa, si sottopose volentieri alle domande di un cronista, che in quell’occasione fu accompagnato da un fotografo e da un illustratore della redazione. Il risultato fu un’intera pagina del supplemento domenicale di un quotidiano riempita da fotografie e disegni idealizzati di Marian, dal racconto di molti particolari intimi di Martin Eden e della sua famiglia e dal testo integrale, a grandi caratteri, della Chiromante, stampato su licenza della «Mackintosh’s Magazine». La cosa fece scalpore nel rione; le buone comari furono orgogliose di aver conosciuto la sorella di un grande scrittore, mentre quelle che non avevano rapporti con lei si affrettarono a ronzarle intorno. Nella piccola officina per biciclette Hermann von Schmidt, gongolante, decise di ordinare un nuovo tornio. «È meglio della pubblicità», disse a Marian, «e non costa nulla».

«Dovremmo farlo venire a cena», suggerì la moglie.

E Martin andò a cena e si comportò in modo simpatico con il pingue grossista di carni e l’ancor più grossa moglie di lui – persone importanti, che potevano essere utili a un giovane ambizioso come Hermann von Schmidt. Ma c’era voluto il richiamo del cognato famoso per farle venire in quella casa. Un altro ospite attirato lì dalla stessa prospettiva era l’ispettore delle agenzie per la Costa del Pacifico della società produttrice di biciclette Asa, che von Schmidt voleva ingraziarsi perché da lui avrebbe potuto ottenere la rappresentanza di quella marca per la zona di Oakland. Per queste ragioni il meccanico fu lieto di avere un tale cognato, ma in cuor suo non riusciva a capire perché suscitasse tanto interesse: nel silenzio della notte infatti, mentre la moglie dormiva, si era immerso nella lettura dei libri e delle poesie di Martin, e aveva deciso che la gente era proprio stupida a comprarli.

Da parte sua, Martin aveva compreso fin troppo bene la situazione e, comodamente appoggiato allo schienale della sedia, con gli occhi fissi alla faccia del cognato, sognava di spaccargliela a forza di pugni – testone di un tedesco! E tuttavia in lui c’era una cosa che gli piaceva. Per quanto povero e deciso a farsi strada, aveva assunto una domestica che aiutasse Marian nei lavori più pesanti. Dopo cena Martin parlò con l’ispettore dell’Asa e lo convinse a soddisfare le attese di Hermann, dando anche al cognato un sostegno finanziario perché potesse allestire il miglior negozio di biciclette di Oakland. Oltre a ciò, in un colloquio a quattr’occhi che ebbe in seguito con von Schmidt, gli disse di guardarsi in giro per vedere se poteva trovare qualche concessionaria d’auto con annessa officina, perché poteva benissimo gestire con successo entrambe le attività.

Al momento dell’addio, Marian, con gli occhi pieni di pianto, buttò le braccia al collo del fratello dicendogli di volergli bene e di avergliene sempre voluto. Martin intuì che era vero, ed interpretò l’evidente esitazione nel mezzo di quella dichiarazione, durante la quale la sorella si profuse in altre lacrime, in baci e in incoerenti balbettii, come una richiesta di perdono per non avere avuto fede in lui e per avere insistito che si cercasse un lavoro.

«Proprio non è capace di pensare ai soldi, questo è sicuro», confidò più tardi Hermann von Schmidt alla moglie. «Si è infuriato quando gli ho accennato agli interessi e ha detto che se ne sbatteva della restituzione e che se tiravo ancora fuori quel discorso mi staccava questo mio testone tedesco. Proprio così mi ha chiamato – testone tedesco. Ma è un bravo tipo, anche se di affari non capisce niente. Mi ha fatto un grosso piacere, è proprio bravo».

A Martin arrivavano inviti a valanghe, e più ne venivano più lui si sentiva perplesso. Partecipò come ospite d’onore a un banchetto dell’Arden Club in compagnia di uomini illustri, dei quali per tutta la vita aveva sentito parlare e letto sui giornali; e costoro gli dissero che leggendo Il suono delle campane sul «Transcontinental» e La peri e la perla su «The Hornet» avevano immediatamente intuito che lui era un personaggio vincente. Mio Dio! rifletté Martin, e pensare che ero misero e affamato! Perché non mi avete invitato a un pranzo allora? Quello era il momento giusto. Se mi offrite la cena ora per un’opera finita, perché non lo avete fatto quando ne avevo bisogno? Ai due racconti non ho cambiato una sola parola. No; adesso non mi nutrite per qualcosa che ho finito nel frattempo, ma solo perché lo fanno tutti e perché farlo è un onore. Mi date da mangiare perché vi comportate come gli animali che vivono in un gregge, perché appartenete alla plebaglia, perché in questo momento l’unica preoccupazione della massa vile e ottusa è quella di nutrirmi. Come si collega tutto questo con Martin Eden e l’opera da lui finita? si chiese amaramente, prima di alzarsi per rispondere con parole argute e intelligenti a un brindisi arguto e intelligente.

Era sempre la stessa cosa. Dovunque si trovasse – al Circolo della Stampa, al Redwood Club, ai tè delle signore, alle riunioni letterarie – veniva ricordato sempre il momento in cui erano stati pubblicati per la prima volta Il suono delle campane e La peri e la perla. E inevitabilmente, ossessivamente, Martin rimuginava la stessa domanda: Perché non mi avete invitato allora? Erano opere finite, a cui non ho tolto una virgola. Allora erano grandi e e sublimi come adesso. Ma voi non mi nutrite per le qualità che questi racconti hanno, né per qualunque altra cosa che io abbia scritto. Mi date da mangiare perché ora è di moda farlo, perché tutta la plebaglia impazzisce a questa idea.

Spesso, durante le riunioni mondane, gli avveniva di scorgere all’improvviso in mezzo alla compagnia un giovane bullo con la giacca squadrata e il cappello con la tesa rigida. Gli capitò un pomeriggio al Gallina Club di Oakland. Alzatosi dalla sedia per attraversare il palco, lo vide entrare con passo spavaldo dal grande ingresso in fondo al salone. Cinquecento donne vestite all’ultima moda volsero la testa per scoprire a cosa fosse diretto lo sguardo intento e fisso di Martin, ma videro solo il passaggio vuoto in mezzo alla sala. Lui invece osservò il giovinastro avanzare ondeggiando e si chiese se si sarebbe tolto il cappello, che teneva sempre sulla testa. Percorso il passaggio centrale salì fino alla pedana. Martin si sarebbe messo a piangere davanti a quel simulacro giovanile di se stesso al pensiero di che cosa lo aspettava. Arrivò sulla pedana, si diresse verso Martin e quando gli fu vicinissimo si dissolse nel nulla. Le cinquecento signore batterono con discrezione le mani inguantate per aiutare quel grand’uomo che era loro ospite a vincere la timidezza. Martin si riscosse, sorrise e cominciò a parlare.

Il preside della scuola, un simpatico vecchietto, fermò Martin in strada per dirgli che si ricordava di lui e di quando era venuto nel suo ufficio in occasione della sua espulsione dall’istituto a causa di una rissa.

«Ho letto in una rivista il tuo Il suono delle campane un po’ di tempo fa», disse. «Un racconto degno di Poe. Splendido, l’ho trovato splendido!».

Sì, e per due volte, nei mesi seguenti, ci eravamo visti in strada senza che tu mi riconoscessi, stava per rispondergli Martin. In entrambi i casi stavo andando al banco dei pegni perché avevo lo stomaco vuoto. Era un’opera già finita, ma tu non mi hai neanche guardato in faccia. Perché lo fai adesso?

«Proprio l’altro giorno suggerivo a mia moglie», stava dicendo l’altro, «che sarebbe stato bello averti a cena una sera. E lei si è dichiarata d’accordo con me. Sì, proprio d’accordo».

«A cena?», chiese Martin con un tono così brusco che parve il ringhio di un cane.

«Beh, sì… a cena… una cosa alla buona con noi, con il tuo vecchio preside, briccone che non sei altro», disse l’altro cercando di dargli una pacca affettuosa.

Martin proseguì per la strada sbalordito. All’angolo si fermò e si guardò attorno perplesso.

«Accidenti!», disse alla fine. «Il vecchio aveva paura di me».

XLV

Un giorno venne a trovarlo Kreis – uno di quelli della «vera feccia»; Martin lo accolse con sollievo e ascoltò gli straordinari particolari di un progetto così fantastico da interessarlo più come narratore che come finanziatore. Durante l’esposizione Kreis si interruppe solo per il tempo sufficiente a dirgli che gran parte della Vergogna del sole era un cumulo di scemenze.

«Ma non sono venuto qui a blaterare di filosofia», continuò. «Quello che voglio sapere è se sei o non sei disposto a mettere un migliaio di dollari in questa operazione».

«No, la mia scemenza non arriva fino a questo punto», rispose Martin. «Ma farò un’altra cosa. Tu mi hai regalato la serata più bella della mia vita. Mi hai dato quello che non si può comprare con i soldi. Ora io ho una ricchezza che mi lascia indifferente. Sono disposto a regalarti mille dollari di un patrimonio che per me non ha nessun valore per ricompensarti del dono di una serata senza prezzo. Tu hai bisogno di questo denaro e io ne ho più del necessario. Tu lo vuoi. È per questo che sei venuto. Non occorre dunque che tu la faccia tanto lunga. Te lo do; è tuo».

Kreis ripiegò l’assegno e se lo mise in tasca senza palesare alcuna sorpresa.

«A queste condizioni mi impegno a fornirti molte altre serate come quella», disse.

«Troppo tardi», rispose Martin scuotendo il capo. «Per me è stata un’esperienza unica. Ero al settimo cielo. So che per te è una cosa normale, ma per me non lo è stata. Non proverò mai più emozioni così intense. Ho chiuso con la filosofia. Non voglio più sentirne parlare».

«Sono i primi dollari che abbia mai ricavato dalla filosofia», osservò Kreis soffermandosi sulla porta. «Peccato che saranno anche gli ultimi».

Un giorno Martin incrociò in strada la signora Morse, che lo salutò con un sorriso e un cenno del capo. Egli le sorrise a sua volta togliendosi il cappello. Questo episodio, che un mese prima lo avrebbe disgustato o incuriosito, inducendolo a mille congetture sui pensieri della signora in quel momento, non gli provocò alcuna emozione. Né su di esso tornò successivamente. Lo dimenticò quasi subito, come avrebbe dimenticato il palazzo della Banca Centrale o il Municipio dopo esservi passato davanti. Tuttavia la sua mente lavorava con un fervore straordinario, occupata da un incessante roteare di pensieri intorno a un nucleo tormentoso, che gli divorava il cervello come un morbo implacabile. Al centro di quel vortice era il concetto di «opera finita», un’ossessione che cominciava la mattina e gli tornava nei sogni della notte. Ogni vicenda della vita circostante che gli penetrava attraverso i sensi si riduceva subito all’idea di «opera finita». Una logica spietata lo portava alla conclusione di avere perso ogni identità, di non esistere più. Mart Eden il teppista, il marinaio Mart Eden erano stati reali, erano stati lui; ma Martin Eden! il famoso scrittore non esisteva. Martin Eden il famoso scrittore era un vapore uscito dalla mente della gentaglia e, dalla mente della gentaglia, cacciato a forza nell’essere corporeo di Mart Eden, teppista e marinaio. Ma a lui non la davano a bere. Lui non era quel mito solare che la gentaglia adorava e a cui offrire pranzi sacrificali. Lui sapeva come stavano veramente le cose.

Sulle riviste leggeva articoli che lo riguardavano e, fissando le fotografie che accompagnavano i diversi servizi, non riusciva più ad associare la propria persona con la figura del ritratto. Era un uomo che nella vita aveva provato gioia e amore; che aveva osservato con indulgenza e comprensione le debolezze dell’esistenza; che aveva prestato servizio nel castello di prua, vagato in terre remote e capeggiato una banda al tempo delle risse. Era un uomo che era rimasto sconcertato dalle migliaia di libri della biblioteca pubblica, fra le cui file aveva imparato a muoversi e che adesso era in grado di dominare; era un uomo che aveva vegliato la notte consumando l’olio del lume, che era andato a letto con l’ansia, che aveva scritto libri. E poi forse il suo appetito era così colossale da dover essere saziato da tutta quella gentaglia?

Gli capitava anche di leggere cose divertenti. Tutte le riviste si disputavano il merito di averlo lanciato. Il «Warren’s Monthly» invitava i lettori a sottoscrivere l’abbonamento ricordando che la sua politica di ricerca di nuovi scrittori gli aveva consentito di presentare per la prima volta al pubblico, fra gli altri, Martin Eden. La stessa pretesa, avanzata da «The White Mouse», «The Northern Review» e «Mackintosh’s Magazine», fu seccamente smentita da «The Globe», forte del fatto che nei propri archivi era depositato il testo, manipolato, delle sventurate Liriche del mare. «Youth and Age», tornato in vita dopo essere riuscito a non pagare i debiti, pubblicò a beneficio dei suoi scarsi lettori di qualche sperduto distretto agricolo una comunicazione in cui rivendicava su di lui un diritto di priorità. La «Transcontinental» raccontò in modo discreto ma convincente come fosse arrivata alla scoperta di Martin Eden, ma la sua dichiarazione fu contestata da «The Hornet», proprietaria del manoscritto di La peri e la perla. In questo frastuono si perse la debole voce della Singletree, Darnley & Co., una casa editrice priva di una rivista che le consentisse di farsi valere.

I giornali fecero il calcolo di quanto guadagnava. Dopo alcune indiscrezioni sulle principesche offerte che gli erano state fatte da qualche rivista, ricevette visite da parte di preti di Oakland e cominciò ad essere sommerso da lettere con richieste di denaro. Ma fu soprattutto assediato dalle donne. Si pubblicarono sue fotografie in grande formato, e gli articoli dei giornali, affidati ad esperti del ramo, si dilungarono sulla sua faccia forte e abbronzata, sulle spalle robuste, sullo sguardo limpido e tranquillo e sulle guance leggermente incavate come quelle di un asceta. Questi ritratti lo fecero sorridere perché gli rammentavano gli anni scapestrati della gioventù. Spesso, fra le donne che conosceva, ne scorgeva qualcuna intenta a soppesarlo, a concupirlo. Queste cose lo facevano ridere, come il ricordo degli ammonimenti di Brissenden. Le donne non lo avrebbero mai mandato in rovina, di questo era certo. Da loro non gli sarebbe più venuto alcun pericolo.

Una volta, mentre accompagnava Lizzie alla scuola serale, notò che la ragazza si era accorta di una bella ed elegante signora che non gli toglieva gli occhi di dosso. Lizzie, che aveva capito il perché di tanta insistenza, ebbe un moto di contrarietà. Martin lo vide, ne comprese il motivo e le disse che una cosa di quel genere gli capitava spesso ma lo lasciava del tutto indifferente.

«E invece dovresti preoccupartene», rispose lei con occhi fiammeggianti. «Sei malato. Ecco quello che sei».

«Mai stato meglio in vita mia. Sono ingrassato più di due chili».

«Non è il corpo che sta male. È la testa. C’è qualcosa che non ti funziona nel cervello. Lo vedo anch’io, che sono una povera ignorante».

Martin continuò a camminarle accanto pensieroso, senza parlare.

«Non so cosa darei perché tu ne venissi fuori», esclamò Lizzie con trasporto. «Dovresti preoccuparti se le donne ti guardano in un certo modo… proprio uno come te. Va bene per degli smidollati, ma tu non sei il tipo. Accidenti, come vorrei che saltasse fuori una donna come si deve, e che ti piacesse!».

Dopo aver accompagnato Lizzie alla scuola tornò al Metropole. Quando fu nelle sue stanze si lasciò cadere su una poltrona, rimanendo seduto a lungo con lo sguardo fisso davanti a sé. Non aveva sonno, ma non riusciva a pensare a nulla. Aveva la mente vuota, tranne in alcuni momenti in cui spontaneamente visioni della memoria prendevano forma, luce e colore sotto le palpebre. Egli vedeva questi quadri ma li notava appena, quasi fossero sogni. E tuttavia non dormiva. Una volta si riscosse e guardò l’orologio. Erano appena le otto. Non aveva nulla da fare ed era troppo presto per andare a letto. Di nuovo gli si annebbiò il cervello e di nuovo le immagini presero a fluttuare. Non avevano nulla di particolare. Erano grovigli di foglie e di rami attraversati da una calda luce solare.

Sobbalzò al rumore di qualcuno che picchiava alla porta. Non essendo addormentato collegò subito quel suono con un telegramma, una lettera, o un domestico che forse gli riportava i vestiti dalla lavanderia. Mentre diceva «Avanti», pensò a Joe e si chiese dove fosse finito.

Assorto in quel ricordo non si voltò verso la porta che sentì chiudere piano piano. Poi ci fu un lungo silenzio durante il quale, dimenticandosi che qualcuno aveva bussato, rimase con lo sguardo fisso davanti a sé fino a che non udì un pianto di donna, un singhiozzare involontario, spasmodico, trattenuto e soffocato. Si girò e balzò immediatamente in piedi.

«Ruth!», esclamò confuso e sbigottito.

Il viso di lei era pallido e tirato. La ragazza era in piedi appena dentro la porta a cui si reggeva con una mano, mentre con l’altra si premeva il fianco. Le portò quindi entrambe in direzione di lui con gesto patetico e avanzò per andargli incontro. Nell’afferrarle le mani per tirarla fino alla poltrona Martin notò che erano gelide. Avvicinò un’altra poltrona e si sedette sull’ampio bracciolo. Era troppo turbato per parlare. In cuor suo la storia con Ruth era morta e sepolta. Provava le stesse sensazioni che avrebbe avuto se la lavanderia di Shelly Hot Springs avesse improvvisamente occupato l’albergo Metropole con il bucato di una settimana, che ora lo aspettava minaccioso. Parecchie volte fu sul punto di parlare, ma ogni volta esitò.

«Nessuno sa che sono qui», disse Ruth con un bel sorriso e un filo di voce.

«Che cosa hai detto?», chiese lui.

Fu sorpreso dal suono della propria voce.

Lei ripeté la frase.

«Oh», si limitò ad esclamare Martin, chiedendosi che cos’altro avrebbe potuto aggiungere.

«Ti ho visto entrare e ho aspettato per qualche minuto».

«Oh», fece lui nuovamente.

In vita sua non si era mai sentito così impacciato e incapace di formulare una sola idea. Aveva l’impressione di apparire stupido e goffo, ma non gli veniva in mente proprio nulla. Se la sarebbe cavata meglio con il bucato di Shelly Hot Springs.

«E allora sei entrata», disse infine.

Lei annuì con una punta di malizia e si allentò la sciarpa dal collo.

«Ti ho visto prima dall’altra parte della strada, mentre eri con quella ragazza».

«Oh, sì», rispose lui con semplicità. «L’ho accompagnata alla scuola serale».

«Allora, non sei contento di vedermi?», chiese lei al termine di un altro silenzio.

«Sì, sì». Lui parlava in fretta. «Ma non è stata un’imprudenza venire qui?».

«Mi sono infilata dentro. Nessuno sa che sono qui. Volevo vederti. Sono venuta a dirti che sono stata molto sciocca. Sono venuta perché non potevo più sopportare questa lontananza, perché il cuore mi ha costretta a venire, perché… perché volevo venire».

Si alzò dalla poltrona e andò verso di lui. Si fermò un istante tenendogli la mano sulla spalla e respirando affannosamente; quindi gli si rannicchiò fra le braccia. E Martin, sempre generoso, non volendola offendere con una ripulsa che sapeva le avrebbe inferto la peggiore ferita che una donna potesse ricevere, la trasse a sé e la tenne stretta.

Fu un abbraccio senza calore, un contatto privo di dolcezza. La teneva avvinta solo perché gli era venuta fra le braccia. Lei si appoggiò a lui e quindi, cambiando posizione, sollevò le mani fino a posargliele sul collo. Ma il fuoco che un tempo divampava a quel tocco era scomparso, e Martin provava ora solo un grande disagio.

«Perché tremi così?», le chiese. «Hai freddo? Vuoi che accenda la stufa?».

Egli cercò di sottrarsi a quella stretta, ma la ragazza lo serrò con più forza, scossa da violenti brividi.

«Sono solo nervosa», disse battendo i denti. «Fra un istante saprò controllarmi. Ecco, adesso va già meglio».

A poco a poco il tremito venne meno fino a cessare. Egli continuava a tenerla abbracciata ma non era più perplesso, perché aveva capito il motivo di quella visita.

«La mamma voleva che sposassi Charley Hapgood», disse.

«Charley Hapgood, quel tipo che è capace di dire solo banalità?», gemette Martin. E aggiunse: «E ora suppongo che tua madre voglia che tu sposi me».

Non diede a quella frase alcuna intonazione interrogativa, ma la pronunciò come un fatto incontrovertibile; davanti agli occhi gli ballavano colonne di cifre per diritti d’autore.

«Ora non si oppone; so soltanto questo», rispose Ruth.

«Mi considera un buon partito?».

Ruth annuì.

«Eppure non sono diverso rispetto a quando ruppe il fidanzamento», osservò lui. «Non sono cambiato affatto. Sono lo stesso Martin Eden di allora, anzi sono forse peggiorato… adesso fumo. Non lo senti dall’alito?».

Per tutta risposta lei gli premette le dita aperte sulle labbra con gesto aggraziato e giocoso, pronta al bacio che in passato si era sempre posato sulla mano aperta di lei. Ma questa volta le labbra di Martin rimasero immobili. Egli attese che Ruth allontanasse le dita consentendogli di parlare e proseguì.

«Non sono cambiato. Non ho un lavoro, non lo sto cercando e non ho intenzione di farlo in seguito. Inoltre credo sempre che Herbert Spencer sia un uomo grande e nobile e che il giudice Blount sia un perfetto imbecille. Ora lo so con certezza: l’altra sera sono stato a cena da lui».

«Però non hai accettato l’invito di papà», disse lei con aria di rimprovero.

«Allora lo sai! Chi lo ha mandato? Tua madre?».

Lei rimase in silenzio.

«Allora è stata proprio lei a dirgli di venire. L’avevo immaginato. E ora suppongo che abbia spedito anche te».

«Nessuno sa che sono qui», protestò lei. «Pensi che la mamma lo permetterebbe?».

«Ti permetterebbe di sposarmi, questo è sicuro».

Lei lanciò un grido acuto. «Oh, Martin, non essere crudele. Non mi hai baciata neanche una volta. Sei freddo come il marmo. Pensa a che cosa ho osato fare per te». Si guardò intorno con un brivido, sebbene nei suoi occhi ci fosse una buona dose di curiosità. «Pensa solo a dove mi trovo».

«Potrei morire per te! Potrei morire per te!». Alle orecchie gli risuonavano le parole di Lizzie Connolly.

«Perché prima non osavi farlo?», le chiese con voce aspra. «Quando non avevo un lavoro? Quando morivo di fame? Quando come uomo, come artista, ero esattamente ciò che sono adesso, lo stesso Martin Eden? Questa è la domanda che mi sono posto tante volte – e non riguarda solo te, ma tutti. Come vedi, non sono cambiato anche se questo improvviso aumento di valore che ho avuto mi fa venire continui dubbi. Ho la stessa carne e le stesse ossa, le stesse mani e gli stessi piedi. Sono lo stesso. Non ho alcuna forza o qualità nuova, il cervello è il medesimo di prima. Non ho neppure elaborato qualche nuova teoria letteraria o filosofica. Personalmente valgo né più né meno di quando nessuno mi voleva. Quello che mi tormenta è il perché ora invece mi vogliano tutti. Certamente non mi vogliono per me stesso, perché la mia personalità è esattamente uguale a quella che un tempo rifiutavano. Se mi vogliono dev’essere per qualche altra cosa, per qualcosa che è fuori di me, per qualcosa che non è parte di me! Vuoi che ti dica che cos’è? È il riconoscimento che ho avuto. Quel riconoscimento non sono io. È nella mente degli altri. Ed è anche per i soldi che ho fatto e che sto facendo. Ma quei soldi non sono io. Sono nelle banche e nelle tasche di questo e di quello… Ed è per questo, per il riconoscimento e per il denaro, che ora mi vuoi?».

«Mi spezzi il cuore», rispose lei singhiozzando. «Sai che ti amo e che sono qui perché ti amo».

«Temo che tu non abbia capito», disse lui con dolcezza. «Voglio dir questo: se tu mi ami, come mai il tuo sentimento adesso è molto più forte di quando hai avuto il cuore di rifiutarmi?».

«Dimentica il passato e perdonami», esclamò Ruth con passione. «Ti ho sempre amato, ricordalo, e ora sono qui, fra le tue braccia».

«Purtroppo sono un mercante sospettoso, che controlla sulla bilancia il peso di questo amore per cercare di scoprire di che cosa sia fatto».

Scioltasi dall’abbraccio, Ruth rimase seduta con il busto eretto fissandolo per parecchio tempo con uno sguardo penetrante. Era sul punto di rispondere, ma esitò e rinunciò.

«Ti dirò come la vedo io», proseguì Martin. «Quando in passato ero esattamente quello che sono adesso, nessuno della mia classe sociale pareva preoccuparsi di me. Quando in passato avevo già scritto tutti i miei libri, nessuno di quelli che avevano letto i manoscritti sembrava interessarsi a me. Anzi, erano ancor più indifferenti verso di me proprio perché avevo scritto quella roba, un’azione che era, come minimo, spregevole. «Trovati un lavoro», dicevano tutti».

Ruth espresse con un gesto il proprio dissenso.

«Sì, sì», insistette lui. «Anche se tu usavi il termine «occupazione». L’umile parola «lavoro» ti suona male, come gran parte di ciò che ho scritto. La trovi brutale. Ti assicuro che anch’io la giudicavo così quando tutti quelli che conoscevo me lo raccomandavano come si esorta una persona immorale a comportarsi bene. Ma torniamo a noi. La pubblicazione di ciò che avevo scritto e la fama che ne è derivata hanno cambiato la sostanza del tuo amore. L’opera di Martin Eden era già completata, ma tu non volevi sposarlo. L’amore che gli portavi non era forte abbastanza da permetterti di sposarlo. Ora invece lo è, e io non posso fare a meno di arrivare a concludere che questo nuovo vigore sia venuto come conseguenza della comparsa dei libri e della celebrità. Nel tuo caso non voglio parlare dei diritti d’autore, benché sia sicuro che essi abbiano avuto un certo peso nel mutamento che si è verificato in mamma e papà. Naturalmente tutto ciò non mi lusinga affatto, e soprattutto mi spinge a nutrire dubbi sull’amore, sulla sacralità dell’amore. È un sentimento così labile che per sopravvivere ha bisogno di pagine stampate e di notorietà? Si direbbe di sì. Ci ho riflettuto così intensamente da farmi venire il mal di testa».

«Povera, cara testa». Ruth sollevò la mano e gli passò le dita fra i capelli con un movimento carezzevole. «Non facciamole più male e ricominciamo daccapo. Ti ho sempre amato. Riconosco di essere stata debole nel cedere alla volontà della mamma. Non avrei dovuto. Ma ti ho sentito parlare tante volte della debolezza e della fragilità dell’uomo che spero tu voglia essere tollerante anche con me. Ho sbagliato. Perdonami».

«Ti perdono, certamente», disse lui con impazienza. «È facile farlo quando non c’è niente di cui io possa accusarti. Non devi chiedere scusa di nulla, perché ognuno agisce secondo le proprie convinzioni e più di tanto non si può pretendere da nessuno. A questa stregua potrei anch’io domandarti di perdonarmi per non avere cercato un lavoro».

«Volevo il tuo bene», obiettò lei, «e lo sai. Come avrei potuto amarti altrimenti?».

«Sì, saresti persino arrivata a distruggermi per il mio bene.

«Proprio così», proseguì, prevenendo i cenni di protesta di lei. «Sarebbe stata la mia fine di scrittore. Il realismo, che è una mia esigenza personale, è odiato dalla borghesia, una classe pusillanime piena di paura della vita, e tutti i tuoi sforzi erano tesi a istillarmi questo orrore della realtà. Avresti voluto rinchiudermi in cattività, isolarmi in una gabbia angusta e dorata dove tutti i valori dell’esistenza sono illusori, falsi e volgari». La vide agitarsi inquieta. «La volgarità – una sana volgarità, devo ammetterlo – è il fondamento dell’eleganza e della cultura borghesi. Come ho detto, tu volevi rinchiudermi in cattività, trasformarmi in un esemplare del tuo ceto, indurmi a condividere modelli ideali e pregiudizi classisti». Scosse il capo con aria triste. «Neppure adesso hai capito quello che dico. Tutti i miei sforzi per farti comprendere le cose in cui credo fermamente sono parole vuote, suoni privi di senso. Nel migliore dei casi sei sorpresa e un po’ divertita che questo rozzo giovane, uscito a fatica dai bassifondi, osi esprimere giudizi sulla tua classe chiamandola volgare».

La ragazza gli appoggiò stancamente la testa sulla spalla tremando di tanto in tanto in tutto il corpo per il nervosismo. Dopo avere atteso per qualche istante che rispondesse, Martin proseguì.

«E ora vuoi far rinascere il nostro amore, vuoi che ci sposiamo, vuoi me. Ma se… se i miei libri fossero passati inosservati io sarei stato esattamente quello che sono adesso. E tu te ne saresti stata alla larga da me. Sono questi fottuti libri…».

«Non parlare così», l’interruppe lei.

Quel rimprovero lo fece trasalire. Scoppiò in una rauca risata.

«Ecco la prova», disse. «In un momento critico, quando sembra che sia in gioco la tua felicità, tu hai paura della vita, come sempre, hai il terrore di una sana parolaccia».

Sferzata da quelle parole, capì la sciocchezza commessa nell’interromperlo in quel modo, e tuttavia provò risentimento verso di lui perché le sembrava che egli ne avesse accentuata la gravità. Per parecchio tempo rimasero seduti in silenzio, lei in preda alla disperazione e lui riflettendo amaramente sulla fine di quell’amore. Comprese, infine, di non averla mai amata veramente. Aveva vagheggiato una Ruth idealizzata, un’eterea creatura che egli stesso aveva creato, lo spirito sfolgorante e radioso delle sue poesie d’amore. Ma non aveva mai amato la vera Ruth, la borghese con tutti i difetti della sua classe, con la mente stretta dalla tremenda morsa della psicologia borghese.

All’improvviso lei cominciò a parlare.

«So che molto di quello che hai detto è vero, che ho avuto paura della vita, che non ti ho amato abbastanza. Ma ora sono cambiata. Ti amo per ciò che sei, per quello che sei stato, persino per il modo in cui sei giunto a questa posizione. Ti amo per le cose in cui sei diverso da quella che chiami la mia classe, per le convinzioni che non capisco ma sono certa di poter arrivare a comprendere. Mi dedicherò a questo compito con tutte le forze. E persino il fumo e le parolacce… amerò anche quelli perché sono una parte di te. Posso ancora migliorare. Negli ultimi dieci minuti ho imparato molto. Il semplice fatto di essere venuta qui è un segno dei progressi che ho fatto. Oh, Martin!…».

Singhiozzando si rannicchiò di nuovo fra le braccia di lui, che per la prima volta, mosso a pietà, la strinse dolcemente. Lei se ne accorse e alzò verso di lui un viso sorridente.

«È troppo tardi», disse Martin. Gli erano tornate alla mente le parole di Lizzie. «Sono malato… oh, non nel corpo, ma nell’anima, nel cervello. Mi sembra di avere smarrito ogni valore, di essere indifferente a tutto. Se tu mi avessi detto queste cose qualche mese fa sarebbe stato diverso. Ora è troppo tardi».

«Non è troppo tardi», esclamò Ruth, «e te lo dimostrerò. Ti proverò che il mio amore è immenso, che per me conta più della mia classe e di tutto ciò che mi è più caro. Disprezzerò quanto la borghesia considera più prezioso, non avrò più paura della vita. Lascerò mio padre e mia madre, il mio nome sarà sulla bocca di tutti. Verrò da te subito, anche adesso, diventerò la tua amante, orgogliosa e felice di stare con te. Ho tradito l’amore ma ora sono pronta a rinnegare tutto ciò che mi ha spinto a tradirlo».

Lo fissò con occhi sfavillanti.

«Sono in attesa che tu mi accetti, Martin», sussurrò. «Guardami».

Era avvenuta una cosa stupenda, pensò Martin. Superando le ferree leggi delle convenzioni borghesi, e riscattando tutte le debolezze di un tempo, Ruth era finalmente diventata una vera donna. Era una cosa stupenda, magnifica e disperata. E tuttavia doveva esserci qualcosa che non andava in lui, perché non provava alcuna commozione o entusiasmo per quanto Ruth aveva fatto. Era un’ammirazione di natura puramente intellettuale. In quello che sarebbe dovuto essere un momento esaltante, lui la valutava freddamente. Il suo cuore era lontano. Non provava alcun desiderio per lei. E gli tornarono in mente ancora una volta le parole di Lizzie.

«Sono malato, molto malato», ripeté con un gesto di disperazione. «Prima d’ora non pensavo che fosse così grave. Mi deve essere capitato qualcosa. Della vita non ho mai avuto paura, ma non avrei immaginato di esserne nauseato. L’ho vissuta così intensamente che non sento più voglia di nulla. Se mi fosse rimasto un po’ di desiderio sarebbe tutto per te. Ma vedi come sono ridotto».

Reclinò la testa indietro e chiuse gli occhi; e come un bambino piangendo dimentica il dolore nella visione della luce solare che gli penetra nelle pupille attraverso il filtro delle lacrime, così Martin perse la coscienza del proprio male, della presenza di Ruth e di tutto il resto nell’intrico di foglie e di rami che i raggi del sole disegnavano sul velo delle palpebre abbassate. Ma era un’ombra che non dava riposo. Il bagliore di quelle macchie luminose era così forte che egli provava dolore nel guardarle. Ciò nonostante non riusciva a distogliere gli occhi, e non sapeva perché.

Tornò in sé risvegliato dal rumore della maniglia. Ruth era alla porta.

«Come posso uscire?», gli chiese con voce di pianto. «Ho paura».

«Oh, perdonami», esclamò balzando in piedi. «Non sono più io. Ho dimenticato che eri qui», disse battendosi la testa con la mano. «Come vedi in me c’è qualcosa che non funziona. Ti accompagno a casa. Possiamo uscire dalla porta di servizio. Non ci vedrà nessuno. Abbassa il velo e tutto andrà bene».

Lei si strinse a lui lungo i corridoi male illuminati e le scale strette.

«Ora sono al sicuro», disse la ragazza quando furono sul marciapiede cercando di sfilare la mano dal braccio di Martin.

«No, no, ti porto a casa».

«No, per favore, non venire», protestò lei. «Non è necessario».

E di nuovo tentò di liberare la mano. Egli fu sorpreso che la ragazza avesse tanta paura quando non correva più alcun pericolo. Era quasi in preda al panico. Non riusciva a capirne il motivo e l’attribuì al nervosismo. Trattenne quindi la mano di lei al proprio braccio e si avviò al suo fianco. A metà dell’isolato vide un uomo con un lungo soprabito ritirarsi all’ombra di un androne. Nel passarvi davanti lanciò un’occhiata all’interno e, nonostante il bavero rialzato, fu certo di riconoscere Norman, il fratello di Ruth.

Durante il tragitto parlarono pochissimo. Lei era turbata e lui apatico. Una volta lui alluse al progetto di abbandonare il paese per tornare ai Mari del Sud e in un altro momento lei gli domandò di perdonarla di essere venuta a trovarlo. Fu tutto. Alla porta della casa di lei si separarono in modo convenzionale. Dopo essersi data la buona notte si strinsero la mano, e Martin si tolse il cappello. Quando l’uscio si fu richiuso egli accese una sigaretta e si volse per tornare all’albergo. Giunto al portone nel quale aveva visto infilarsi Norman si fermò a scrutarvi dentro.

«Ha mentito», disse ad alta voce. «Mi ha fatto credere di avere sfidato grandi pericoli mentre sapeva di essere aspettata dal fratello che l’avrebbe riportata a casa». Scoppiò in una risata. «Ah, questi borghesi! Quando ero un povero disgraziato non ero degno neppure di apparire al fianco di sua sorella. Adesso che ho il conto in banca, è lui stesso che me l’accompagna fino in camera».

Mentre girava i tacchi per andarsene si sentì apostrofare alle spalle da un vagabondo che camminava nella stessa direzione.

«Ehi, capo, non avresti un quarto di dollaro per pagarmi un letto da dormire?».

Il suono di quella voce fece girare Martin, che immediatamente si trovò a stringere la mano a Joe.

«Ricordi quella volta che ci siamo salutati a Hot Springs?», gli diceva l’altro. «Ti ho detto che ci saremmo rivisti. Me lo sentivo. Ed eccomi qua».

«Ti trovo bene», disse Martin con ammirazione. «Sei ingrassato».

«Ci puoi giurare», rispose Joe con un luminoso sorriso. «Prima di cominciare a fare il vagabondo non sapevo che cos’era la vita. Sono aumentato di una dozzina di chili e sto come un papa. Ai vecchi tempi ero tutto pelle e ossa. La vita nelle strade è quello che fa per me».

«Però sei alla ricerca di un letto», osservò Martin, «e la notte è fredda».

«Io, cercare un letto? Ma va!», ribatté Joe infilandosi la mano nella tasca dei pantaloni e tirandone fuori una manciata di monete. «È così che si fa la grana», aggiunse esultante, «e tu avevi proprio l’aria di un buon pollo. Ecco perché ti ho beccato».

Martin rise e rinunciò a proseguire la discussione.

«Devi averne parecchi di boccali, in quel pancione», disse in tono scherzoso.

Joe si rimise i soldi in tasca.

«Per niente», esclamò. «Con le sbornie ho chiuso anche se niente mi proibisce di bere. È solo che io non voglio. Da quando ci siamo lasciati mi sono sbronzato una volta sola, e anche quella è stata senza volere, perché ho trincato a stomaco vuoto. Quando lavoravo come un animale bevevo come un animale. Adesso che vivo come un uomo bevo come un uomo… solo un goccetto ogni tanto, tutto qui».

Martin lo lasciò con l’intesa che si sarebbero visti il giorno seguente e proseguì per l’albergo. Si fermò al banco a controllare la partenza delle navi. La Mariposa sarebbe salpata per Tahiti fra cinque giorni.

«Domani mi prenoti per telefono una cabina di prima classe», disse all’impiegato. «Non sul ponte, ma giù, dal lato di sopravvento… a dritta, si ricordi, a dritta. Se lo scriva per favore».

Quando fu in camera sua andò a letto e cadde nel sonno dolcemente, come un bambino. Gli avvenimenti di quella sera non avevano lasciato in lui alcuna traccia. La sua mente era refrattaria alle impressioni. Il piacere che aveva provato incontrando Joe era durato un attimo. Dopo pochissimi minuti aveva cominciato a provare fastidio per la presenza dell’ex lavandaio e la necessità di sostenere la conversazione. Il fatto che cinque giorni dopo sarebbe partito per gli amati Mari del Sud non gli diceva nulla. Chiuse quindi gli occhi e dormì come sempre placidamente per otto ore di un sonno quieto e ininterrotto, senza cambiare mai posizione e senza sognare. Addormentandosi precipitava in un oblio totale e ogni volta che si risvegliava ne era dispiaciuto. La vita era per lui fonte di irritazione e tedio, e il lento scorrere del tempo lo rendeva inquieto.

XLVI

«Senti, Joe», disse a mo’ di saluto al vecchio compagno di lavoro la mattina dopo, «c’è un francese che ha un negozio sulla Ventottesima Strada. Ha fatto una barca di soldi e ora torna in Francia. È una piccola e graziosa lavanderia a vapore, fine e bene attrezzata. Ecco una possibilità per te se vuoi sistemarti. Prendi questi. Va a comprarti un vestito e trovati nell’ufficio di questo tale alle dieci. È uno che è andato a vedere il locale per conto mio. Te lo farà visitare e se ti piacerà, e troverai che il prezzo di dodicimila è giusto, fammelo sapere e sarà tuo. Ora va’, perché ho da fare. Ci vediamo più tardi».

«Senti, Mart», disse l’altro lentamente ma sempre più irritato, «sono venuto qui stamattina per stare con te. Chiaro? Non per questo accidenti di lavanderia. Io vengo per fare una chiacchierata con un vecchio amico e tu mi sbatti in faccia questo affare. Va’ all’inferno, tu e la tua lavanderia».

Stava per precipitarsi fuori dalla stanza quando Martin lo prese per una spalla facendolo girare.

«Guarda, Joe», disse, «che se fai così ti arriva un cazzotto in faccia. E siccome sei un vecchio amico sarà molto forte. Chiaro? Hai capito o no?».

Joe si era messo sulla difensiva e cercava di reagire, divincolandosi e spingendo per sottrarsi alla stretta dell’altro. Avvinghiati fecero qualche passo per la camera finché non si abbatterono su una sedia di vimini che scricchiolò. Joe era sotto, con le braccia distese e il ginocchio dell’avversario sul petto. Quando Martin lo liberò ansimava e respirava con affanno.

«Voglio dirti solo due parole», riprese Martin. «Con me non la puoi spuntare. Prima di tutto concludiamo questa faccenda della lavanderia, poi potrai tornare a chiacchierare dei vecchi tempi. Ti ho detto che avevo da fare. Guarda un po’ che roba!».

Un cameriere era appena entrato con la posta della mattina, costituita da una grande massa di lettere e riviste.

«Come posso occuparmi di tutte queste carte e contemporaneamente parlare con te? Vai a fissare la lavanderia e poi potremo stare insieme».

«Bene», rispose Joe riluttante. «Pensavo che tu volevi respingermi, ma forse mi sono sbagliato. Ma se facciamo la boxe non mi batti, Mart. Ho un allungo migliore del tuo».

«Un giorno ci mettiamo i guantoni e vediamo», disse Martin con un sorriso.

«Certo, appena ho messo a posto la lavanderia». Joe stese il braccio. «Vedi che allungo? Resisterai poche riprese».

Martin emise un sospiro di sollievo quando la porta si fu chiusa alle spalle del lavandaio. Stava diventando asociale. Ogni giorno gli riusciva sempre più difficile comportarsi in modo corretto con la gente. Si sentiva turbato dalla presenza degli altri e irritato dai loro tentativi di conversazione. Gli provocavano un senso di irrequietezza e a ogni tentativo altrui di stabilire un contatto cercava tutti i pretesti possibili per sottrarvisi.

Non affrontò subito la corrispondenza e per mezz’ora ciondolò sulla poltrona senza fare nulla, con la mente occupata di tanto in tanto da pensieri vaghi e indistinti, uniche forme di un’elementare attività intellettuale.

Si scosse da questo torpore e cominciò a curiosare nella posta. C’erano una dozzina di richieste di autografi, che riconobbe come tali a prima vista; c’erano le normali domande di un aiuto economico; e c’erano le lettere piene delle pretese più assurde, dall’inventore che presentava un modello funzionante di moto perpetuo, allo pseudoscienziato che dimostrava come la superficie della terra fosse all’interno di una sfera vuota, all’uomo che cercava un finanziamento per l’acquisto della penisola della Bassa California per fondarvi un’organizzazione comunista. C’erano lettere di donne che chiedevano di conoscerlo, e fra queste una che lo fece sorridere perché accludeva, come prova di buona fede e di rispettabilità, la ricevuta del pagamento per l’affitto del banco della chiesa.

Editori e direttori di giornali diedero il loro solito contributo alla mole di posta, i primi con suppliche perché desse loro l’onore di pubblicare i suoi libri, i secondi in ginocchio per riuscire ad avere da lui racconti e articoli – quei poveri e disprezzati manoscritti che per lunghi e tristi mesi lo avevano costretto a tenere al banco dei pegni tutti gli oggetti personali per comprare i francobolli per spedirli. C’erano assegni inattesi per diritti di pubblicazioni a puntate su periodici inglesi o per anticipi su traduzioni estere. Il suo agente in Inghilterra gli annunciò la vendita di diritti di traduzione in tedesco di tre suoi libri e lo informò che le edizioni svedesi, per le quali non avrebbe ricevuto neanche un soldo perché la Svezia non riconosceva la Convenzione di Berna, erano già sul mercato. C’era poi una richiesta ufficiale perché concedesse l’autorizzazione a una traduzione in lingua russa – paese che era anch’esso, per altro, fuori della Convenzione di Berna.

Passò all’enorme fascio di ritagli speditogli dall’ufficio stampa a conferma del fatto che era diventato uno scrittore acclamato e di moda. Tutto il prodotto del suo sforzo creativo era stato gettato addosso ai lettori in un solo colpo straordinario. Quella era la ragione del suo successo. Aveva colto il pubblico di sorpresa, travolgendolo, proprio come Kipling, il quale, quasi in punto di morte, cominciò improvvisamente a essere letto dalla folla, animata dalla solita spinta conformista della massa. Martin ricordò come questa stessa moltitudine, dopo averlo letto e applaudito senza capirlo minimamente, pochi mesi più tardi si era gettata su di lui e lo aveva fatto a pezzi. Sogghignò a quel pensiero. Chi era mai lui per non essere trattato allo stesso modo fra qualche mese? Bene, si sarebbe preso gioco della massa. Se ne sarebbe andato nei Mari del Sud, avrebbe costruito la casa di zolle d’erba, avrebbe commerciato in copra e perle, avrebbe seguito la cresta dell’onda al di là della barriera su una fragile canoa, sarebbe andato a caccia di capre selvatiche fra le balze dei monti che circondavano la valle di Taiohae.

E allora capì con estrema lucidità quanto disperata fosse la sua situazione; vide chiaramente che si trovava al centro della Valle delle Tenebre e che tutta la vita che era in lui svaniva, veniva meno, si avviava alla terra della morte. Si accorse di dormire molto e di avere un grande desiderio di sonno. In passato aveva disdegnato il riposo notturno, che gli sottraeva tempo prezioso. Rimanere in uno stato di incoscienza per quattro ore su ventiquattro voleva dire perdere quattro ore di vita. Con quanta insofferenza aveva accettato la necessità di dover dormire! Ora invece mal sopportava il vivere. Non gli piaceva. Era una cosa amara e sgradevole. Questo lo preoccupava perché un’esistenza priva dello slancio vitale era destinata a finire, anche se un remoto istinto di conservazione sopravviveva in lui spingendolo a fuggire. Volgendo lo sguardo per la stanza, il pensiero dei bagagli lo gettò nello sconforto. Decise di non farli fino all’ultimo momento e di impiegare il tempo che gli restava nell’acquisto dell’equipaggiamento.

Si mise il cappello e uscì. Lungo la strada si fermò in un negozio di armi in cui trascorse il resto della mattinata esaminando fucili automatici, cartucce e attrezzatura per la pesca. Dal momento che era un settore soggetto a rapidi mutamenti decise che avrebbe dovuto aspettare l’arrivo a Tahiti per ordinare il resto dell’occorrente, che comunque poteva benissimo procurarsi in Australia. Questa soluzione lo rallegrò perché gli evitava la sgradevole prospettiva di dover fare qualcosa. Tornò dunque soddisfatto all’albergo pregustando il piacere di allungarsi sulla comoda poltrona, ma fu molto deluso quando, aperta la porta della camera, vide Joe tranquillamente seduto proprio dove avrebbe voluto mettersi lui.

Era entusiasta della lavanderia. Aveva definito ogni cosa e sarebbe entrato in possesso del negozio già il giorno seguente. Martin si sdraiò sul letto e rimase con gli occhi chiusi mentre l’altro continuava a parlare. I suoi pensieri erano lontani – così lontani che a stento si rendeva conto della realtà che lo circondava e solo con grande sforzo rispondeva, di tanto in tanto, al suo interlocutore. E tuttavia chi gli stava davanti era Joe, una persona che gli era sempre piaciuta. Ma Joe era troppo innamorato della vita. Quel violento impatto feriva l’animo spossato di Martin, era un rovello insopportabile per la sua sensibilità dolente. Quando l’altro gli ricordò che in futuro avrebbero dovuto, una volta o l’altra, incrociare i guanti, fu sul punto di scoppiare.

«Ricordati, Joe, che devi dirigere la lavanderia secondo quelle norme di cui hai parlato a Shelly Hot Springs», disse. «Niente straordinari, niente lavoro notturno. Nessun bambino al mangano; anzi nessun bambino in negozio. E un salario equo».

Joe annuì ed estrasse un taccuino.

«Guarda un po’ qua. Stamattina prima di colazione ho fissato queste regole. Che cosa ne pensi?».

Le lesse ad alta voce a Martin, che le approvò, preoccupato che l’altro non la facesse tanto lunga e se ne andasse.

Si svegliò nel pomeriggio inoltrato riacquistando lentamente la coscienza di ciò che lo circondava. Si guardò in giro. Joe era uscito senza far rumore mentre lui era assopito. Che delicatezza da parte sua. Richiuse gli occhi e si addormentò di nuovo.

Nei giorni che seguirono Joe fu troppo preso dal lavoro di organizzazione e di presa di possesso della lavanderia per importunarlo e solo alla vigilia della partenza i giornali annunciarono che Martin aveva prenotato un passaggio sulla Mariposa. Una volta, in un raro soprassalto dell’istinto vitale, andò dal medico per sottoporsi a un attento esame. Non aveva niente. Cuore e polmoni erano in condizioni eccellenti e tutti gli altri organi furono definiti normali e perfettamente funzionanti.

«Non ha nulla, signor Eden», gli disse il dottore, «proprio nulla. Ha un fisico eccezionale. Sinceramente la invidio. Ha una salute superba. Ha un torace e uno stomaco straordinari, che sono il segreto della sua magnifica costituzione. Dal punto di vista fisico di uomini come lei se ne trova uno su mille… uno su diecimila. Salvo incidenti lei vivrà fino a cent’anni».

Martin comprese che Lizzie aveva fatto una diagnosi corretta. Fisicamente stava benissimo, ma era la testa che non andava e non c’era cura possibile se non la fuga verso i Mari del Sud. Il guaio era che adesso, alla vigilia della partenza, non aveva più alcun desiderio di andarsene e quei lidi remoti non avevano per lui più fascino di quanto ne avesse la civiltà borghese. Non provava alcuna eccitazione al pensiero del viaggio e la prospettiva di salpare lo sgomentava. Avrebbe preferito trovarsi già a bordo e in alto mare.

L’ultimo giorno fu un calvario. Avendo letto sui giornali della sua partenza, Bernard Higginbotham, Gertrude e tutti i figli vennero a salutarlo, seguiti da Hermann von Schmidt e da Marian. Dovette anche sbrigare le ultime faccende, pagare i conti rimasti in sospeso e sopportare gli immancabili giornalisti. Disse addio a Lizzie Connolly bruscamente, al portone della scuola serale, fuggendo via di corsa subito dopo. All’albergo trovò Joe, che per tutta la giornata era stato così impegnato con la lavanderia da non riuscire a venire prima. Fu l’ultima goccia di un vaso già colmo; tuttavia Martin si impose di rimanere inchiodato alla sedia per mezz’ora a sentire le chiacchiere dell’altro.

«Non devi sentirti legato a questa lavanderia, Joe», gli disse Martin. «Non deve essere una prigione. In qualunque momento puoi venderla e mangiarti tutti i soldi. Se te ne stufi o ti viene la nostalgia della strada, non pensarci due volte e pianta tutto. Fa’ quello che ti piace di più».

Joe scosse la testa.

«Basta con la vita del barbone, grazie mille. Fare il vagabondo è anche bello, ma ha un difetto. Ti mancano le ragazze. E a me piacciono molto le donne. Non posso più stare lontano da loro, e quando si vive nelle strade a queste cose bisogna rinunciare. Quante volte sono passato davanti a case dove c’erano feste da ballo e ho sentito le risate delle donne e ho visto dalle finestre i loro vestiti bianchi e le facce che sorridevano… Accidenti! Ti assicuro che in quei momenti stavo proprio male. Mi piacciono troppo le danze, le scampagnate, le passeggiate sotto la luna e tutto il resto. Che bello avere una lavanderia, e buoni vestiti, e una manciata di dollari che ti suonano nelle tasche! Ho già adocchiato una ragazza, proprio ieri, e mi sa proprio che la sposerò. È tutto il giorno che ci rimugino su. È uno schianto; ha occhi che sembrano stelle e la voce più dolce che ho mai sentito. Ho preso una bella sbandata, non c’è che dire. E tu, perché non ti sposi con tutti i soldi che butti dalla finestra? Potresti prenderti la ragazza più bella di tutta l’America».

Martin scosse il capo con un sorriso, chiedendosi in cuor suo perché mai tanti uomini volessero sposarsi. Gli pareva una cosa strana e incomprensibile.

Dal ponte della Mariposa, al momento della partenza, scorse Lizzie Connolly nascosta fra la folla assiepata sulla banchina. Portala con te, pensò. È tanto facile essere gentili. Lei ne sarebbe enormemente felice. Ma fu la tentazione di un attimo, che subito si trasformò in terrore. A quell’idea fu preso da un panico che lo fece precipitare in un’angoscia mortale. Si staccò dalla ringhiera con un gemito mormorando: «Sei troppo malato, caro mio, sei troppo malato».

Fuggì in cabina, dove rimase senza muoversi fino a quando la nave non ebbe lasciato il molo. Nella sala da pranzo, durante la colazione, si trovò al posto d’onore, alla destra del capitano; non gli ci volle molto a scoprire di essere il personaggio più importante. Ma fu il «passeggero celebre» più attediato che una crociera abbia mai avuto. Passò il pomeriggio su una sedia a sdraio con gli occhi chiusi, sonnecchiando per la maggior parte del tempo, e la sera andò presto a letto.

Dopo il secondo giorno gli altri passeggeri, superato il mal di mare, erano ricomparsi sul ponte, ma più li conosceva più provava per loro una profonda avversione. Tuttavia si rendeva conto di essere ingiusto con loro. Si costrinse ad ammettere che si trattava di persone brave e gentili; naturalmente, aggiunse subito, brave e gentili come tutti i borghesi, con tutta la grettezza mentale e la superficialità intellettuale della loro classe. Erano creature così vuote che conversando con loro si sentiva assalire da una noia mortale, mentre la cordialità rumorosa e l’energia prepotente dei più giovani lo turbava. Non stavano mai fermi, ed erano impegnati in un continuo movimento che li portava a giocare ai cerchi, a lanciare gli anelli, a passeggiare, a precipitarsi alle ringhiere con alte grida per osservare i salti dei delfini e i primi branchi di pesci volanti.

Dormiva molto. Dopo la prima colazione si rifugiava sulla sedia a sdraio con una rivista che non finì mai di leggere. Quelle pagine stampate lo stancavano. Stupito dal fatto che si potessero trovare tanti argomenti su cui scrivere, si appisolava. Quando veniva risvegliato dal gong del pranzo provava un senso di irritazione. Non trovava alcuna soddisfazione nella vita cosciente.

Una volta tentò di scuotersi da quel letargo andando nel castello di prua con i marinai, ma gli parve che la gente di mare fosse cambiata dai giorni in cui aveva prestato servizio sulle navi. Non sentiva alcuna affinità con quelle creature bestiali dalla faccia ottusa e dall’intelligenza bovina. Era disperato. Nelle alte sfere nessuno aveva voluto Martin Eden per se stesso, e ora non poteva fare ritorno alla propria classe che in passato lo aveva accettato. Non si sentiva attratto da loro. Non li poteva sopportare, proprio come non riusciva a digerire gli stupidi passeggeri della prima classe e i giovani vocianti.

La vita gli faceva lo stesso effetto di una forte luce bianca sugli occhi affaticati di un malato. Nei momenti in cui era cosciente essa divampava intorno a lui investendolo con violenti bagliori che bruciavano, bruciavano in modo intollerabile. Era la prima volta che Martin viaggiava in prima classe. Durante la navigazione in mare era sempre stato nel castello di prua, ai comandi o impegnato a passare carbone nelle nere profondità della stiva. A quel tempo, riemergendo dal pozzo di salita dopo ore passate in quel soffocante calore e scorgendo i passeggeri nei loro freschi abiti bianchi, di null’altro preoccupati che di divertirsi, sotto tendoni distesi per proteggerli dal sole e dal vento, assistiti dal servizievole personale di bordo che esaudiva ogni loro desiderio e capriccio, gli era sembrato che il mondo in cui queste creature vivevano e si muovevano fosse il paradiso. Ed ora che, nella sua qualità di persona importante, di questo luogo era il re, e sedeva alla destra del capitano, si volgeva senza speranza al castello di prua e alla stiva del combustibile alla ricerca del paradiso che aveva perduto. Non aveva trovato il nuovo e al vecchio non poteva tornare.

Cercò di reagire e di fare qualcosa che lo interessasse. Tentò alla mensa sottufficiali e fu contento di venirsene via. Parlò con un timoniere fuori servizio, un uomo intelligente che subito ne approfittò per fare propaganda socialista e per costringerlo a prendere un fascio di opuscoli e volantini. Ascoltando l’uomo che esponeva la sua moralità da schiavo ripensò quasi con indifferenza alla filosofia di Nietzsche. Che cosa ne restava? Ricordò una delle folli proposizioni in cui quel pazzo filosofo aveva dubitato della verità. Che dire? Forse aveva ragione. Forse non c’era verità in niente, non c’era verità nella verità – e la verità non esisteva. Ma presto si stancò di quei ragionamenti e fu lieto di riprendere a sonnecchiare sulla sedia a sdraio.

Alla tristezza che provava sulla nave presto si aggiunse una nuova fonte di infelicità. Che cosa avrebbe fatto quando fossero arrivati a Tahiti? Sarebbe dovuto scendere a terra. Avrebbe dovuto ordinare l’equipaggiamento che gli serviva, trovare un passaggio su una goletta diretta alle isole Marchesi e occuparsi di infinite altre cose che gli ripugnavano al solo pensarci. Ogni qual volta, con uno strenuo sforzo, cominciava a riflettere, vedeva in che grave situazione si trovava. Ormai era nella Valle delle Tenebre e il pericolo era dovuto al fatto che non sentiva paura. Se avesse avvertito un qualche timore si sarebbe diretto verso la vita invece di addentrarsi sempre più profondamente nel buio. Non provava più piacere nelle vecchie cose di un tempo. La Mariposa era adesso in mezzo ai venti del nord est, ma essere avvolto da questa deliziosa brezza lo irritava e fece spostare la sedia a sdraio per sfuggire all’abbraccio dell’allegro compagno di tanti giorni e tante notti.

Quando la nave entrò nella bonaccia Martin fu più infelice che mai perché non poteva più dormire. Pur cascando di sonno era costretto a rimanere sveglio e a sopportare la cruda luce dell’esistenza. Si muoveva irrequieto in quell’aria umida e appiccicosa cui gli acquazzoni non portavano alcun refrigerio. La vita era una sofferenza, che lo spingeva a camminare sul ponte fino a quando quell’esercizio diventava insopportabile, e a sedersi finché l’inquietudine non lo costringeva ad alzarsi di nuovo. Infine si impose di finire la lettura della rivista e di prendere in prestito dalla biblioteca della nave diversi volumi di poesia. Ma neppure quelli riuscirono a tenerlo fermo e ancora una volta riprese a passeggiare.

Dopo cena rimaneva sul ponte fino a tardi, ma ciò non lo aiutava perché, quando scendeva in cabina, non riusciva a dormire. Gli era venuta meno anche la risorsa dell’estraniazione dalla vita. Accese la luce elettrica e tentò di leggere. Uno dei libri era di Swinburne. Sdraiato sul letto sfogliò le pagine distrattamente finché improvvisamente si accorse di leggere con interesse. Finita la strofa, cercò di continuare, ma sentì l’impulso di rileggere. Si appoggiò quindi il libro sul petto con le pagine aperte verso il basso e cominciò a riflettere. Si era imbattuto proprio in quello che cercava. Strano che non l’avesse visto prima. Era la soluzione a tutti i suoi problemi. Dopo essere andato alla deriva per tanto tempo, Swinburne gli aveva indicato la via. Il riposo che bramava era lì, a portata di mano. Guardò l’oblò. Sì, era abbastanza grande. Per la prima volta dopo settimane e settimane si sentì felice. Aveva finalmente scoperto il rimedio al suo male. Sollevò il libro e lesse la strofa ad alta voce:

«Liberati dal soverchio amor della vita,

Dalla speranza e dalla paura,

Inchiniamoci brevemente

Agli dei, quali che siano,

Grati di questo almeno:

Che ogni vita un giorno si spenga,

I morti levarsi non possano

E persino i fiumi più stanchi

Sfocino alfine nel mare».

Guardò di nuovo il finestrino spalancato. Swinburne gli aveva aperto gli occhi. La vita era, o meglio era diventata, una cosa terribile, insopportabile. «I morti levarsi non possano!». Quel verso suscitava in lui un profondo sentimento di gratitudine. Era la sola prova di carità che esistesse nell’universo. Quando il vivere era un tormento implacabile, la morte era la via che permetteva di rifugiarsi dolcemente nel sonno eterno. Ma che cosa stava aspettando? Era il momento di andare.

Si alzò e sporse la testa dall’oblò, a poca distanza dallo schiumoso biancore del mare. Dal momento che la Mariposa era profondamente immersa nell’acqua a causa del forte carico, sarebbe potuto arrivare a toccare l’acqua con i piedi attaccandosi con le mani al bordo del finestrino e quindi scivolare dentro senza fare rumore. Non avrebbe sentito nessuno. Fu investito sulla faccia da uno spruzzo di cui avvertì il sapore salato sulle labbra. Era buono. Si chiese se dovesse scrivere un canto del cigno, ma rise a quel pensiero. Non c’era tempo. Era impaziente di andare.

Spenta la luce della cabina per non correre il rischio di essere scoperto uscì dall’oblò con i piedi in avanti. Fu bloccato dalla larghezza delle spalle e costretto a rientrare; riprovò tenendo un braccio disteso lungo il fianco. Aiutato dal rollio della nave uscì infine con tutto il corpo, rimanendo attaccato al bordo con le mani. Si lasciò andare quando i piedi toccarono il mare e si ritrovò nella lattea spuma dell’acqua. La murata della Mariposa lo superò velocemente come una nera parete mobile rotta qua e là dalle luci degli oblò. Stava andando forte. Un attimo dopo vide la poppa che si allontanava, mentre egli rimase a nuotare lentamente nella frantumata schiuma della scia.

Rise quando il suo bianco corpo fu urtato da uno squalo, ma il bruciore dei denti del pesce gli ricordò perché si trovava lì. Se n’era dimenticato nell’ansia di riuscire ad abbandonare in fretta la nave. Mentre le luci della Mariposa si affievolivano in lontananza, rifletté che stava nuotando tranquillamente come se la sua meta fosse la terra più vicina, a mille chilometri di distanza.

Agiva automaticamente, sospinto dall’istinto vitale. Smise di muovere braccia e gambe, ma non appena sentì l’acqua salirgli alla bocca sferzò subito il mare con le mani. È la volontà di vivere, si ripeté sprezzante. Bene, doveva esercitare quella volontà in un ultimo disperato sforzo di autodistruzione e di annullamento di sé.

Mise il corpo in posizione verticale. Alzando lo sguardo alle gelide stelle del cielo svuotò i polmoni dell’aria. Quindi con un colpo rapido e vigoroso dei piedi e delle mani sollevò le spalle e la parte superiore del busto per guadagnare forza nella spinta verso il basso. Si lasciò quindi andare sott’acqua, una bianca statua che precipita nel mare. Una volta immerso respirò deliberatamente con forza come si fa quando si deve andare in anestesia. La sensazione di soffocamento lo costrinse però a muovere involontariamente braccia e gambe su fino alla superficie, alla chiara presenza delle stelle.

«Volontà di vivere», pensò di nuovo con sdegno, cercando invano di non immettere aria nei polmoni che gli scoppiavano. Bene, avrebbe dovuto fare in un altro modo. Decise di immagazzinare nel petto quanta più aria poteva e di scendere in profondità. Si immerse a testa in giù e prese a inabissarsi sempre di più nuotando con grande forza. Tenendo gli occhi aperti notò le forme spettrali e fosforescenti dei velocissimi squali. Si augurò che non lo assalissero perché ciò poteva fiaccare la sua determinazione. Non lo fecero e trovò il tempo di ringraziare la vita per quest’ultima cortesia che gli aveva concesso.

Andò giù, sempre più giù finché la stanchezza delle braccia e delle gambe fu tale che non riusciva quasi a muoversi. Capì di essere sceso molto perché sentiva una pressione dolorosa alle orecchie e un ronzio alla testa. Stava per cedere, ma costrinse gli arti a portarlo ancora più sotto fino a quando la capacità di resistenza venne meno e l’aria gli uscì dai polmoni con la violenza di un’esplosione, avvolgendogli le guance in mille bollicine che salivano rapidamente. Quando cominciò il dolore e il soffocamento pensò che non era ancora la morte. La morte non faceva male. Era la vita con i suoi spasimi, con le sue terribili sensazioni; e quello era l’ultimo colpo che gli dava.

Ostinatamente mani e piedi cominciarono a vorticare frenetici, ma con un movimento sempre più debole: era riuscito astutamente a sconfiggere la loro volontà di vivere. Era sceso troppo e non sarebbero più stati capaci di riportarlo in superficie. Gli parve di essere languidamente alla deriva in un mare di visioni fantastiche, che lo circondavano cullandolo e accarezzandolo. Dov’era? Gli sembrò di trovarsi in un faro; era invece il suo cervello che emanava una luce bianca, accecante, che roteava sempre più veloce. Seguì un suono cupo e rombante che lo precipitò giù per una smisurata tromba di scale, al fondo della quale, a un certo punto, cadde nella tenebra. Questo solo capì. Di essere caduto nella tenebra. E nell’istante in cui seppe, cessò di sapere.

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