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Pier Paolo Pasolini: Il mio Accattone in Tv dopo il genocidio

Accattone può essere visto anche, in laboratorio, come il prelievo di un modo di vita, cioè di una cultura. Se visto così, può essere un fenomeno interessante per un ricercatore, ma è un fenomeno tragico per chi ne è direttamente interessato: per esempio per me, che ne sono l'autore.

di Pier Paolo Pasolini

Accattone può essere visto anche, in laboratorio, come il prelievo di un modo di vita, cioè di una cultura. Se visto così, può essere un fenomeno interessante per un ricercatore, ma è un fenomeno tragico per chi ne è direttamente interessato: per esempio per me, che ne sono l’autore.

Quando Accattone è uscito, benché fossimo agli inizi di quello che veniva chiamato «boom» (parola che ci fa già sorridere come «belle époque» o «stile aerodinamico»), eravamo in un’altra età. Un’età repressiva. Niente era in realtà cambiato attraverso tutti gli anni Cinquanta — di ciò che aveva caratterizzato l’Italia negli anni Quaranta e prima.

La continuità tra il Regime fascista e il Regime democristiano era ancora perfetta. In Accattone due fenomeni di tale continuità sono impressionanti: primo, la segregazione del sottoproletariato in una marginalità dove tutto era diverso; secondo, la spietata, criminaloide, insindacabile violenza della polizia. Su questo secondo punto c’intendiamo subito tutti, è inutile spendere parole. Infatti parte della polizia è ancora così: e basta andare a Madrid o a Barcellona per rivedere le nostre vecchie conoscenze in tutto il loro squallido splendore.

Sul primo punto ci sarebbe invece da scrivere a lungo: perché nessun borghese nel 1961, quando Accattone è uscito, sapeva in concreto cos’era e come viveva il sottoproletariato urbano e nella fattispecie quello romano; e nessun borghese nel 1975, anno in cui Accattone viene proiettato alla televisione, ancora, sa in concreto cosa fosse quel sottoproletariato e cosa sia il sottoproletariato oggi. Mi trovo a spiegare e a discutere insieme. Tutti i borghesi sono infatti razzisti, sempre, in qualsiasi luogo, a qualsiasi partito essi appartengano.

Nel 1961 Accattone ha scatenato fenomeni di «razzismo» per la prima volta espliciti in Italia. Donde una feroce «persecuzione» a me, e anche al povero – sottoproletario – Franco Citti. Ma oggi 1975, le cose non vanno molto diversamente. Il «razzismo» in un confronto o uno scontro diretto col sottoproletariato – viene fuori sempre esplicitamente, esce da quel sopore e da quella potenzialità che determinano del resto, tanto più rigidamente quanto più inconsapevolmente, l’idea dell’esistenza e l’esistenza del borghese. Nel 1961 i borghesi vedevano nel sottoproletariato il male, esattamente come i razzisti americani lo vedevano nell’universo negro. E allora, del resto, i sottoproletari erano «negri» a tutti gli effetti. La loro «cultura» — una «cultura particolaristica» nel quadro di una più vasta cultura a sua volta «particolaristica», quella contadina meridionale — dava ai sottoproletari romani non solo degli originali «tratti» psicologici, ma addirittura degli originali «tratti» fisici. Creava una vera e propria «razza». Lo spettatore di oggi può constatarlo vedendo i personaggi di Accattone. Nessuno dei quali — lo ripeto per la millesima volta – era attore : e in quanto se stesso era proprio se stesso. La sua realtà veniva rappresentata attraverso la sua realtà. Quei «corpi» erano così nella vita come nello schermo.

La loro «cultura», tanto profondamente diversa da creare addirittura una «razza», forniva ai sottoproletari romani una morale e una filosofia da classe «dominata», che la classe «dominante» si accontentava di «dominare» poliziescamente, senza curarsi di evangelizzarla, cioè di costringerla ad assorbire la propria ideologia (nella fattispecie un ripugnante cattolicesimo puramente formale).

Lasciata per secoli a se stessa, cioè alla propria immobilità, quella cultura aveva elaborato valori e modelli di comportamento assoluti. Niente poteva metterli in discussione. Come in tutte le culture popolari, i «figli» ricreavano i «padri»: prendevano il loro posto, ripetendoli (cosa che costituisce il senso delle «caste», che noi razzisticamente, e con tanto sprezzante razionalismo «eurocentrico» ci gratifichiamo di condannare). Mai nessuna rivoluzione interna a quella cultura, dunque. La tradizione era la vita stessa. Valori e modelli passavano immutabili dai padri ai figli. Eppure c’era una continua rigenerazione. Basta osservare la loro lingua (che ora non esiste più): essa era continuamente inventata, benché i modelli lessicali e grammaticali fossero sempre gli stessi. Non c’era un solo istante della giornata – nella cerchia delle borgate che costituivano una grandiosa metropoli plebea – in cui non risuonasse nelle strade o nei lotti una «invenzione» linguistica. Segno che si trattava di una «cultura» viva.

In Accattone tutto ciò è rappresentato fedelmente (e lo si vede soprattutto se si legge Accattone in un certo modo, escludendo la presenza del mio estetismo funebre). Tra il 1961 e il 1975 qualcosa di essenziale è cambiato: si è avuto un genocidio. Si è distrutta culturalmente una popolazione. E si tratta precisamente di uno di quei genocidi culturali che avevano preceduto i genocidi fisici di Hitler. Se io avessi fatto un lungo viaggio, e fossi tornato dopo alcuni anni, andando in giro per la «grandiosa metropoli plebea», avrei avuto l’impressione che tutti i suoi abitanti fossero stati deportati e sterminati, sostituiti, per le strade e nei lotti, da slavati, feroci, infelici fantasmi. Le SS di Hitler, appunto. I giovani – svuotati dei loro valori e dei loro modelli – come del loro sangue — e divenuti larvali calchi di un altro modo di essere e di concepire l’essere : quello piccolo borghese.

Se io oggi volessi rigirare Accattone, non potrei più farlo. Non troverei più un solo giovane che fosse nel suo «corpo» neanche lontanamente simile ai giovani che hanno rappresentato se stessi in Accattone. Non troverei più un solo giovane che sapesse dire, con quella voce, quelle battute. Non soltanto egli non avrebbe lo spirito e la mentalità per dirle: ma addirittura non le capirebbe nemmeno. Dovrebbe fare come una signora milanese lettrice alla fine degli anni Cinquanta di Ragazzi di vita o di Una vita violenta: cioè consultare il glossarietto. E, infine, è cambiata addirittura la pronuncia. (Gli italiani non sono mai stati fonologi: è da supporre quindi che su questo punto cadrà un fitto e definitivo mistero).

I personaggi di Accattone erano tutti ladri o magnaccia o rapinatori o gente che viveva alla giornata: si trattava di un film, insomma, sulla malavita. Naturalmente c’era anche, intorno, il mondo della gente di borgata, implicata, sia pure, dall’omertà con la malavita, ma, infine, normalmente lavoratrice (per un salario miserabile: si veda Sabino, il fratello di Accattone). Ma, in quanto autore, e in quanto cittadino italiano, io nel film non esprimevo affatto un giudizio negativo su quei personaggi della malavita: tutti i loro difetti mi sembravano difetti umani, perdonabili, oltre che, socialmente, perfettamente giustificabili. I difetti degli uomini che obbediscono a una scala di valori «altra» rispetto a quella borghese: e cioè «se stessi» in modo assoluto, come ho detto.

In sostanza sono personaggi enormemente simpatici: è difficile immaginare gente simpatica (al di fuori dei sentimentalismi borghesi) come quella del mondo di Accattone, cioè della cultura sottoproletaria e proletaria di Roma fino a dieci anni fa. Il genocidio ha cancellato per sempre dalla faccia della terra quei personaggi. Al loro posto ci sono quei loro «sostituti», che, come ho avuto già occasione di dire, sono invece i personaggi più odiosi del mondo. Ecco perché dicevo che Accattone, visto come un reperto sociologico, non può che essere un fenomeno tragico.

Il lettore ha bisogno di dimostrazioni di quello che dico? Bene, se egli non frequenta (si capisce!) le borgate di Roma, legga la cronaca dei giornali. Quei «delinquenti» non sono mostri. Sono prodotti di un ambiente criminaloide: così come erano prodotti di un ambiente criminaloide i delinquenti di Accattone: ma quale differenza tra tali due ambienti!

Sarei un imbecille se generalizzassi, la mia paradossalità non è che formale. Certo: metà e più dei giovani che vivono nelle borgate romane, o insomma dentro il mondo sottoproletario e proletario romano, sono, dal punto di vista della fedina penale, onesti. Sono anche bravi ragazzi. Ma non sono più simpatici. Sono tristi, nevrotici, incerti, pieni d’una ansia piccolo borghese;, si vergognano di essere operai; cercano di imitare i «figli di papà», i «farlocchi». Si, oggi assistiamo alla rivincita e al trionfo dei «figli di papà».

Sono essi che oggi realizzano il modello-guida. Il lettore confronti personaggi come i pariolini neofascisti che hanno compiuto l’orrendo massacro in una villa del Circeo, e personaggi come i borgatari di Torpignattara che hanno ucciso un automobilista spaccandogli la testa sull’asfalto: a due livelli sociali diversi, tali personaggi sono identici: ma i «modelli» sono i primi, quei figli di papà, che così a lungo – per secoli – sono stati sfottuti e disprezzati dai ragazzi di borgata, che li consideravano nulli e pietosi. Mentre erano fieri di ciò che essi stessi erano: della loro «cultura», che dava loro gesti, mimica, parole, comportamento, sapere, termini di giudizio. I giornali gettano oggi la croce addosso ai pariolini (privilegiandoli, peraltro, del loro interesse). Ma se non hanno vinto i neofascisti dei Parioli, sono comunque i pariolini che hanno vinto. Nel tempo stesso, i giornali prendono atto (con qualche anno di ritardo) che la «malavita romana si è fatta cattiva».

Ma i giornali sono complici degli uomini politici, e gli uomini politici sono completamente fuori dalla realtà. Contemporaneamente un giornalista «moderato» di un grande giornale borghese e un dirigente autorevole del Pci, polemizzando, su diversi registri, con me, hanno preso lo stesso incredibile abbaglio. Ad ambedue, cioè, i «difetti» che io rappresentavo nelle mie opere narrative e cinematografiche di una quindicina di anni fa, appaiono rappresentati «negativamente», implicando da parte mia un atteggiamento di ovvia, naturale condanna: la loro.

Tanto essi sono – inconsapevolmente – razzisti che non gli passa neanche lontanamente per la testa il sospetto che io vedessi quei «difetti» come elementi di un «bene»: o almeno di una realtà culturale che era quella che era, ma era vita e diritto alla vita. Ed hanno poi ambedue preso come un fatto di trista coerenza la mia posizione invece esplicitamente e violentemente negativa contro i ragazzi di borgata di oggi. Rifiutandosi di vedere qualcosa di reale nel mio radicale rovesciamento di giudizio sul sottoproletariato (cosa che implica per me una tragedia personale) essi si rifiutano di ammettere, in sostanza, una realtà che riguarda l’intero paese: ossia il rovesciamento radicale oggettivo del mondo delle classi dominate. Non ammettono cioè il fatto compiuto del «genocidio».

Essi non possono che credere nel progresso: tout va bien. Inoltre tutti quelli che mi rimproverano la mia visione catastrofica in quanto totale (se non altro dal punto di vista antropologico) di ciò che è oggi l’Italia, mi deridono compassionevolmente perché non tengo conto che il materialismo consumistico e la criminalità sono fenomeni che dilagano in tutto il mondo capitalistico, e non solo in Italia. Vili, disonesti, sciocchi: possibile che non gli passi neanche lontanamente per il cervello che negli altri paesi dove tale peste dilaga ci sono dei compensi che ristabiliscono in qualche modo l’equilibrio?

A New York, a Parigi, a Londra, ci sono delinquenti feroci e pericolosi (quasi tutti, toh!, di colore 0 quasi): ma ospedali, scuole, case di riposo, manicomi, musei, cinema d’essai, funzionano perfettamente. L’unità, l’acculturazione, l’accentramento sono avvenuti in ben altro modo. Dei loro genocidi è stato testimone Marx più di un secolo fa. Che tali genocidi avvengano in Italia oggi, cambia sostanzialmente la loro figura storica. Accattone e i suoi amici sono andati incontro alla deportazione e alla soluzione finale silenziosamente, magari ridendo dei loro aguzzini. Ma noi testimoni borghesi?

Corriere della Sera, 28 settembre 1975.

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