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PIER PAOLO PASOLINI UN ANNO FA… PERCHÉ? – Articolo commemorativo di Nazzareno D’Errico

Articolo commemorativo di Nazzareno D’Errico su Pier Paolo Pasolini «cristiano e marxista», apparso nel numero di novembre del 1976 del mensile illustrato «Historia»

Un anno fa moriva assassinato un eretico «scandaloso»: PASOLINI

La vita del poeta, sino alla tragica fine, fu la ricerca di una provocazione che rimetteva dinamicamente in discussione le idee, i preconcetti, gli atteggiamenti del mondo. Forse nessun impegno intellettuale e morale fu così appassionatamente partecipe dell’ambiente e del dramma del proprio tempo. Con chi stava, in realtà, l’autore di Ragazzi di vita e Il Vangelo secon­do Matteo? Con tutti e con nessuno.

Cristiano

perchè la liberta viene da Cristo

Marxista

perchè la giustizia viene da Marx

PIER PAOLO PASOLINI: ICONOCLASTA E CRISTIANO

di Nazzareno D’Errico

Il 2 novembre dell’anno scorso i giornali di tutto il mondo riportarono in prima pagina una notizia incredibile: «Pasolini è stato assassinato».
Le circostanze della morte indirizzarono l’attenzione del pubblico sulla vita privata dell’uomo messa impietosamente a nudo. La personalità dell’artista passò in secondo piano: si ricordarono i suoi film e i suoi scritti mettendoli in relazione con la tragica fine.
Da vivo Pasolini aveva indubbiamente animato in Italia la vita culturale, politica e religiosa senza mai accodarsi ad alcuna ideologia precostituita. Da morto la sua memoria fu dilaniata da chi ne fece cinicamente scempio e da chi tentò di farne delle agiografiche idealizzazioni. Chi lo esaltava in quei periodi in cui gli animi erano accesi e accecati e conturbati per ragioni politiche e morali, gli rendeva un servizio peggiore di chi lo denigrava.
Sull’onda dell’emozione Oriana Fallaci, davanti a quel cadavere ancor caldo, recitava a mo’ di preghiera, ritenendo di edificarne la memoria: «Odiavi troppo il peccato, il sesso che per te era peccato. Amavi troppo la purezza, la castità che per te era salvezza. E meno purezza trovavi più ti vendicavi cercando la sporcizia, la sofferenza, la volgarità: come una punizione».
Che poteva pensare il pubblico di un settimanale di un uomo per il quale venivano improvvisate tali ambigue onoranze da coloro che si professavano i suoi migliori amici?
Ormai si era imboccata la strada di una virulenta polemica sessuale: era inevitabile, purtroppo, poiché il modo atroce e misterioso della morte del poeta aveva fallo prevalere il sensazionalismo della cronaca nera sui sentimenti meno facili della pietà e del rispetto. Non vi era spazio per una riconsiderazione critica dell’uomo, della sua identità intellettuale e civile in mezzo a tutte quelle filippiche, segnate, in fondo, dalla stessa avvocatesca gigioneria: chi ne schiacciava nuovamente il cadavere per moralismo e chi gli vedeva il «peccato» sublimato in una improbabile catarsi.
Qualcuno, prendendo un indirizzo più deviato della stessa problematica sessualità di Pasolini e pretendendo di interpretarla, arrivò a dire che persino la sua posizione contro l’aborto era motivata dalle sue personali inclinazioni antifemminili lo scrisse qualcuno che si qualificava suo amico.
Indro Montanelli, uno dei pochi che in quei giorni non si improvvisò grande amico e intimo conoscitore dello scomparso, nauseato dallo scempio che si stava facendo attorno alla sua bara, tentò di esigere un poco di rispetto per la memoria del defunto: «Il miglior omaggio e il più grande servizio che oggi si possa rendere a Paolo Pasolini è quello di fare silenzio attorno a lui, fin quando non si siano quietati i clamori suscitati dalla sua tragica vicenda», scriveva su Oggi, e continuava: «solo allora potremo ricominciare a parlare serenamente del Pasolini artista e scrittore, che per fortuna è più importante del Pasolini uomo».
Pasolini continua ad essere vivo nella cultura italiana con i suoi film e libri postumi, ma ad un anno di distanza dalla sua fisica scomparsa, gli animi sono meno accesi di un tempo, ed è possibile tentare un bilancio, parlare con serenità e dell’uomo e dell’artista, e perciò dell’uomo inseparabile, specie per un poeta civile, dall’artista.

* * *

«Nel Ventidue, anno immerso nel secolo / Bologna respirava un’aria di valzer / / I libe­rali nell’aroma dell’aria salu­bre / splendevano come le vetrine degli orefici / e il pingue cattolicesimo dei Baroc­chi / pesava solo alle rosse volte delle Chiese».
In quell’anno, il cinque marzo, la signora Susanna Colus­si metteva al mondo il suo secondogenito e lo battezzava Pier Paolo.
Il padre, ufficiale di fanteria, non avrà apparentemente, sul figlio, nessuna influenza, si limiterà a dargli il cognome: Pasolini.
Il bambino fu educato dalla mamma, la signora Susan­na, in continuo pellegrinaggio da una cittadina all’altra per seguire la carriera del marito, uomo che «apparteneva — scriverà Pasolini — ad un’antica famiglia di Ravenna e aveva sperperato tutto il patrimonio; passionale, sensuale, e violento di carattere: ed era finito in Libia senza un soldo. Così aveva cominciato la carriera militare».
Non è necessario scomodare gli psicologi per intuire l’importanza che una madre ha nella formazione e nelle tendenze affettive del figlio. Per Pier Paolo la madre fu tutto, sempre. A lei dedicò la sua prima ingenua poesiola d’amore, a sette anni. La presce­glierà per rappresentare la Madonna ne «Il Vangelo secondo Matteo». È lei la madre di Tommaso in «Una vita violenta». «Mamma, è la mia stella fissa, gli altri ruotano intorno». «Sei insostituibile… Per questo è dannata alla solitudine la vita che mi hai data…».
La signora Pasolini era maestra e il figlio, ragazzetto, le diceva abbracciandola: «Mamma, io ho la stessa passione tua, insegnare».
Nella vita del Pasolini ci saranno forse altre donne, ma nel suo cuore non ne entrerà mai nessun’altra.
L’inaspettata e violenta presa di posizione che Pasolini avrà contro l’aborto ha le radici nell’affetto che lo legava alla mamma: la vecchia signora leggeva gli articoli del Figlio c mai Pasolini si sarebbe urtato a quelle che erano le profonde convinzioni religiose e umane di colei che gli aveva dato la vita. Al rapporto privilegiato con la madre fa riscontro un rapporto sempre più teso con il padre «deformato e represso fino al conformismo più definitivo».
Quando esce «Poesie a Casarsa», nel 1942, Pasolini ne invierà anche una copia al padre, allora prigioniero nel Kenia: un gesto di deferenza, nulla più. Lo scrittore guarderà sempre al padre come ad un intruso negli affetti che lo legano alla madre. Lo vede soffrire e morire, nel piccolo appartamentino romano dove li aveva raggiunti, senza provare alcun dolore, alcuna compassione. «Mio padre soffriva ci faceva soffrire. (…). La sua agonia vera durò molti mesi: respirava a fatica, con un continuo lamento. Era malato di fegato e sapeva che era grave, che solo un dito di vino gli faceva male, e ne beveva almeno due litri al giorno. (…) Non ci dava ascolto, a me e a mia madre, perché ci disprezzava. Una notte tornai in casa, appena in tempo per vederlo morire».
Cronaca fredda di una morte sentita come liberazione da quell’intruso che se ne stava «sempre là, in attesa, solo nella povera cucinetta, coi gomiti sul tavolo e la faccia contro i pugni, immobile, cattivo, dolorante; riempiva lo spazio del piccolo vano con la grandezza che hanno i corpi morti».

La madre insegnò a Pier Paolo a leggere e scrivere quando il bambino non aveva ancora quattro anni. Se lo portava sempre appresso. Lo teneva a dormire nella sua stessa camera: «Ho davanti agli occhi il mio lettino ai piedi del lettone di mia madre e di mio padre… Ho davanti agli occhi me stesso che chiede come nascono i bambini e mia madre, nella sua fresca innocenza, nella sua mite naturalezza che vuol dirmi, e mi dice: “Nascono nella pancia della mamma!”».
Ricordi di tre, quattro anni restati impressi per tutta la vita di Pasolini. L’affetto per la mamma aveva quasi qualcosa di morboso, le stava sempre accanto, di giorno, la sognava, di notte. «Avevo avuto un ciclo di sogni “a puntate” in cui perdevo mia madre e la cercavo per le strade rossicce e piene di portici del fantasma di Bologna (stupendo nella sua sconfinata tristezza) fino a salire su per certe tetre scale interne, verso appartamenti di famiglie amiche, a chieder di lei ecc.». A quell’età precoce risalgono anche «le prime morse del­l’amore sessuale: identiche a quelle che avrei poi provato finora (atrocemente acute dai sedici ai trent’anni) …di tale oggetto d’amore ricordo, cre­do, solo le gambe… »
È forse esagerato vedere già in questi ricordi di infanzia il germe della vita sentimentale di Pasolini, la netta divisone tra amore e sesso che ha condizionato la sua vita e causato la sua morte?
Le sue prime composizioni poetiche risalgono alle elementari. A tredici anni scrive un dramma in versi. A diciassette anni inizia a comporre le «Poesie a Casarsa» che pubblicherà nel 1942 a proprie spese.
Il libretto cade nelle mani di Gianfranco Contini che lo recensisce sul «Corriere di Lugano». Pasolini, felice, esulta: «Chi potrà mai descrivere la mia gioia? Ho saltato e ballato per i portici di Bologna!».
Poco dopo viene chiamato sotto le armi. Ci resta sette giorni, dall’1 all’8 settembre 1943, poi fugge a Casarsa, dalla madre. Ricomincia a scrivere versi, sia in dialetto friulano che in italiano. La Resistenza? No, non vi partecipò, anche se farà poi di tutto per farlo credere. Era assorbito completamente dalla poesia. Come a tutti i giovani e anche i ragazzini a Pasolini capitò di andare a scrivere viva la libertà sui muri. È vero che fu preso e finì in camera di sicurezza, come lui stesso riferisce, ma è anche vero che, da allora, si tenne nascosto. Era terrorizzato dall’idea di poter finire come tanti altri giovani dichiaratamente antifascisti: uncinato! No, i giovani che hanno fatto la Resistenza non erano dello stampo di Pasolini.
Il «pauroso disertore», mentre i suoi coetanei si facevano ammazzare dai tedeschi e dai repubblichini, discuteva con gli amici di poesia e andava alla ricerca di rapporti culturali per dare al dialetto friulano la dignità di lingua poetica. Anche ciò è politica, forse anche antifascismo, ma non ha molto a che vedere con la Resistenza.
Esce un quaderno dal titolo «Stroligut di cà de l’aga» che si può tradurre approssimativamente «Lo stregone di qua dell’acqua» (la riva destra del Tagliamento). Tra le composizioni di Pasolini vi è una preghiera a Cristo per i poveri contadini friulani.
Quale parte avrà avuto l’affetto protettivo della madre sull’atteggiamento timido di Pasolini durante la lotta per la Resistenza?
Nel 1944 gli muore la nonna materna. Pasolini è affranto e a testimoniarci il suo dolore scrive una serie di brevi liriche in italiano. «Guardaci timidamente / dal Cielo / come quando nel buio / di questa casa, / sconfortata sedevi».
Suo fratello Guido viene chiamato alle armi. Parte si, ma per raggiungere i partigiani, nella Brigata Osoppo. Viene ucciso, pare, da altri partigiani, quelli comunisti di Tito.
Muore per l’Italia, muore per il Friuli. Nel 1945 Pasolini fonda la «Academiuta di lenga furlana». Il dialetto friulano ha un vantaggio sull’ita­liano perché può contare «su tutta la sua rustica e cristiana purezza». Questo amore per la lingua dialettale deriva dall’amore del popolo in mezzo al quale vive. Più tardi, a Roma, studierà, scriverà, produrrà film in romanesco per lo stesso motivo: penetrare meglio nella psicologia della gente parlandone la lingua più viva.
Nel 1947 interviene sulla ri­vista dell‘Academiuta polemizzando con l’onorevole Terraci­ni che rifiutava l’autonomia del Friuli perché fondata su «pretesti sentimentali». Nello stesso anno, in seguito alle lotte di braccianti agricoli contro i latifondisti, Pasolini, che per innato «populismo evangelico» aveva subito difeso i braccianti, legge Marx e Gramsci. La religiosità di Pasolini si riempiva così di nuovi contenuti e di accresciuto impegno morale e civile.
Nel 1949 abbandona il suo Friuli. «Fuggii a Roma con mia madre, come in un romanzo». La vita, a Roma, è grama: «Per due anni fui un disoccupato disperato, di quelli che finiscono suicidi, poi trovai da insegnare in una scuola privata a Ciampino per ventisettemila lire al mese».
Raccomandato da Bassani comincia a partecipare alle prime sceneggiature cinematografiche. Finora di quanto aveva scritto Pasolini si era interessato solo Contini, nella breve nota critica che aveva tanto entusiasmato l’autore di Poesie a Casarsa. A Roma decide di «sfondare». La sua acuta intelligenza gli suggerisce la via da seguire: per farsi conoscere ha bisogno di provocare il pubblico con uno scritto forte, deve dare scandalo. Nel 1953 comincia a scri­vere Ragazzi di vita. Il romanzo esce due anni dopo, nel 1955. È lo scandalo, l’autore è incriminato per oscenità, ma si è imposto all’attenzione del pubblico e della critica. I giorni grami del professorino disoccupato sono finiti!
Dalla letteratura passa al cinema come aiuto sceneggiatore, sceneggiatore, attore, regista.
Per vent’anni è al centro della vita culturale del paese. Il mondo è il suo palcoscenico. Ha qualcosa da dire al mondo, ma sa che per farsi ascoltare deve scandalizzarlo. Ogni suo scritto suscita polemiche, ogni suo film diventa un «caso», ogni suo articolo fa discutere animatamente. Ha una cultura mostruosa, una intelligenza acuta, una sensibilità raffinata. Ma nessuno sa quali siano esattamente le sue idee in politica, in religione, in morale. Alterna con una sapienza che si potrebbe dire scaltrita opere che entusiasmano, di volta in volta, fazioni opposte. Alla pubblicazione de Le ceneri di Gramsci (’57) fa seguire L’Usignolo della Chiesa Cattolica (’58). Ai film Accattone e Mamma Roma incriminati per oscenità, (’62) fa seguire puntualmente Il Vangelo secondo Matteo (premio per il miglior film che esalta i valori cristiani) e Uccellacci e uccellini. Ad articoli che tacciano di «fascismo» il regime DC, altri che di fascismo tacciano i giovani del ’68.
Ha parole dure per chi governa l’Italia, ne ha altrettanto dure per i comunisti che sono all’opposizione «signori in modesto doppiopetto, bocciofili, amanti della litote».
Quando morì, assassinato, ognuno puntò il dito accusatore sul proprio avversario. Avevano buoni motivi per chiudere per sempre quella bocca troppo spietatamente veritiera comunisti e cristiani, fascisti e femministe. Nessuno riusciva a credere che a farlo tacere per sempre fosse stato un giovane borgataro il quale neppure sapeva che quell’uomo avvicinato in un bar periferico era la voce più temuta d’Italia.
Il Friuli aveva determinato la prima produzione letteraria di Pasolini. Roma determinò la sua opera successiva. Egli penetra la verità umana dell’ambiente facendo tutt’uno con essa. Assorbe l’atmosfera che lo circonda, con partecipazione passionale, l’assapora con gusto sensuale. Pasolini è la cultura in cui vive? Provinciale in Friuli, a Roma diventa l’anima e l’interprete del dramma nazionale. È il poeta civile di un popolo naufrago dal fascismo che ricerca la riva della libertà, di tutte le libertà che sono ancora da conquistare.
Questa sua necessità quasi fisiologica di essere tutt’uno con l’ambiente lo spinge a vivere con intensità ogni esperienza per conoscerla a fondo, per interpretarla, per superarla con sempre nuove sensazioni fino all’esaurimento, fino alla morte. La morte lo terrorizza, ma l’attrae, in quanto «violento trauma e violenta carica di vitalità».
Le apparenti contraddizioni di Pasolini sono quelle di «una vita violenta», che ha in se il germe della violenza, della morte.
«Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere con te e contro di te; con te nel cuore, in luce, contro te nelle buie viscere». Luce e tenebre, giorno e notte, il pendolo dell’esistenza.
La vita romana di Pasolini era scandita da questo pendolo di giorno in casa a «creare», di notte tra la gente a vivere le sensazioni violente da trasformare poi in film, romanzi, poesie. «Lavoro la mattina… Il dopopranzo esco e vado a spasso, quasi sempre almeno fino alle due di notte: passo dalle borgate e dalla periferia più affamata… la maggior parte della mia vita la trascorro al di là del confine della città, oltre i capolinea…».
Tra la morte e la vita vi è una donna, la madre, che fa da trait d’union. Rientrava dalle tenebre alle tre di notte e la madre era sveglia ad attendere per rassicurarlo, per essere rassicurata dalla sua voce: «Sono qui, sono tornato». Un figliol prodigo che ogni notte, ai primi sintomi dell’alba, della vita che ricominciava, tornava al grembo materno.
La madre conosceva il Pasolini della luce: «Era un figlio perfetto, un modello di bontà, di gentilezza e di comprensione. Era religioso, molto religioso. Aveva una fede enorme. E quando gli domandavo perché non andava più in chiesa lui rispondeva: “Se uno crede, Dio è dentro di lui. Non è necessario andare in chiesa”». Il Pasolini notturno la madre non lo conosceva: «Non mi diceva mai niente della vita che faceva fuori di casa».
L’opera che meglio ha espresso il Pasolini notturno è Salò: la vita che si nutre di violenza fino a raggiungere l’orgasmo nella morte. Sua madre non l’ha mai vista (come non ha visto Decamerone, Racconti di Canterbury ecc.).
L’opera che meglio ha espresso il Pasolini della luce, è Il Vangelo secondo Matteo, dove la sua Madre diventa la Madre di Cristo («Pier Paolo insistette tanto perché facessi io la parte della Madonna. Io esitavo, e lui disse: “Mamma, per ogni uomo che ama la sua famiglia, la Madre è una Madonna”»).
Il film è dedicato a quell’uomo di luce serena così diametralmente opposto a Pasolini e alla Roma notturna: Papa Giovanni. «Alla cara, lieta, familiare ombra di Giovanni XXIII».
Perché Pasolini era passato dalla macchina da scrivere alle cinepresa?
Lui stesso pone l’interrogativo: «Abbandono di una lingua per un’altra lingua?». E risponde negativamente: «Ma in fondo non si trattava neanche di questo; no, non si trattava dell’adozione di un’altra lingua…».
Siamo invece convinti che si trattava proprio di questo. Scrutando il Friuli parlava in friulano, analizzando Roma sentì la necessità di imparare a fondo il romanesco; parlando degli interrogativi universali del valore della religione e del sesso, aveva bisogno di un linguaggio universalmente comprensibile: il linguaggio delle immagini.
Potrebbero essere muti i suoi film e nulla perderebbero della loro efficacia. Il Vangelo secondo Matteo è significativo in proposito: per i primi venti minuti, non una parola. E a che servono le parole del Decamerone, Il fiore di mille e una notte, Salò? Gli attori li prende dalla strada: ha bisogno di immagini sempre significative e nuove. Abbondano i primi piani: ha bisogno di volti espressivi, che parlino senza proferir parole. Il modo in cui recitano non gli interessa: mette i due interlocutori, uno di fronte all’al­tro, spesso uno accanto all’al­tro, lo sguardo fisso, immobili come un affresco del Ma­saccio.
Sono i corpi che parlano. E perciò li sveste. La nudità per Pasolini è linguaggio, mai erotismo. Non vi è compiacimento di sorta. Sono un inconscio tentativo di ritorno ad una primitiva purezza di linguaggio e perciò di vita (le due cose sono inscindibili per Pasolini) quei suoi nudi. Nudi femminili, nudi maschili. È sempre il giovane, il puro, il non contaminato da sovrastrutture ad essere nudo. Il vecchio, il forte, il potente è sempre vestito: l’abito gli fa da scudo, lo fa sentire superiore. In Salò è la violenza (autorità) che si manifesta intabarrata di uniformi contro la debolezza, nuda, che vuol piegare alla sua volontà.
Vi è nei suoi film una selvaggia volontà di distruzione di tutto ciò che incatena l’uo­mo alla «civiltà». È dalla natura che arriverà la salvezza, da «Alì dagli occhi azzurri» (terzo mondo) che Parigi, la capitale del sesso, «imparerà» la gioia di vivere, che Londra, la capitale delle libere istituzioni, imparerà «ad essere libera», e dopo aver distrutto Roma Alì, con tutte le semplici e genuine forze della natura, «deporrà sulle rovine del vecchio mondo il germe della Storia Antica. Poi, col papa e ogni sacramento, andranno su come zingari verso nord-ovest con le bandiere rosse».
Papa e bandiere rosse, religione e marxismo: la salvezza del mondo avverrà dalla compenetrazione di queste due forze. La religione deve tornare ad essere religione del popolo, il marxismo ha bisogno di chiedere al Cristo un «supplemento d’anima».
Pasolini cristiano? Pasolini marxista? L’uno e l’altro, ma ereticamente rispetto all’una e all’altra istituzione, all’una e all’altra chiesa. Cristiano perché la libertà viene da Cristo, marxista perché la giustizia viene da Marx.
Per quanto paradossale ciò possa sembrare, lo scandalo che Pasolini ha rappresentato e continua a rappresentare nella cultura italiana, scandalo a tutti i livelli, è stato per lui una scelta impostagli dal Cristo, la «pietra dello scandalo». «Bisogna esporsi / questo insegna / il povero Cristo inchiodato».
E ancora: «Come potevo vivere in tanto vuoto? Eppure ci vivevo / E quel vuoto era a mia insaputa / pieno di convenzioni ossia / di una profonda bruttezza morale / …Tu (si rivolge al Cristo) hai riempito di un interesse puro / e pazzo, una vita priva di ogni interesse».
La tragedia dell’uomo derivava dalla perdita di Dio. La sua è una religiosità profonda e scandalosa per il nostro tempo. Scandalosa per la Chiesa a causa soprattutto del linguaggio dell’artista e del suo rifiuto a lasciarsi «uffi­cializzare»; scandalosa per il mondo a causa di quel suo continuo riferirsi a valori evangelici espressi talvolta con puro linguaggio paolino «solo una forza confusa mi dice che un tempo nuovo / comincia per tutti e ci obbliga a essere nuovi».
Si è parlato di una sua «religiosità laica», ma aveva un senso del peccato troppo profondo, troppo ortodosso, per poter definire laica la sua religione. «Peccare non significa fare il male; non fare il bene, questo significa peccare».
Sarebbe interessante al proposito uno studio approfondito dei suoi romanzi e dei suoi film, ma usciremmo dai limiti che ci siamo prefissi in questo ricordo di lui.
Cristo ha dominato la sua vita. Non ha trovato il Cristo nella religione ufficiale: («Ep­pure, Chiesa, ero venuto a te» dirà con amarezza) e lo ha cercato dove risiede: tra i poveri, i derelitti, gli emarginati di ogni categoria. E stava rimuginando di andare a cercarlo nel terzo mondo quando nella notte tra il 1° e il 2 novembre 1975, uno, o più di quei giovani che avevano animato la sua poetica di amore e salvazione, lo bastonarono a sangue, lo denudarono e lo crocifissero sotto le ruote urlanti di una macchina.

* * *

HANNO DETTO DI LUI

C’è in Pasolini una frattura permanente tra le più spiccate qualità poetiche e le sue ambizioni (…) di letteratura civile e ideologica.
Asor Rosa

Un gusto letterario tipicamente formalista e decadente. 
Carlo Salinari

All’interno della passione logica di Pasolini si potrebbe giustificare questo difetto di “realismo” che i ragazzi di vita siano il popolo, che una “totalità” venga interpretata come tale da una parte di essa, caricatasi da tutta la tipicità.
Tommaso Anzoino

…Tutta la sua opera tende, più o meno inconsciamente, al vagheggiamento di una età dell’oro, sia essa quella di una infanzia remota in un paesaggio remoto, sia essa quella di una società perfetta e senza ingiustizie, i cui rapporti tra uomo e uomo, come quelli fra uomo e Dio, tornino ad essere disinteressati e naturali..
Antonio Mazza

E tipicamente intellettualistica “l’esagerazione con cui sono presentate la sfrenatezza e la barbarie di quelle esistenze miserande”.
Emilio Cecchi

Il contenuto storico e sociale dei poemetti è anzitutto uno strumento della sensualità verbale dell’autore, ciò che non esclude una sua ora febbrile ora orgogliosa partecipazione.
Alfredo Giuliani

La lingua poetico dell’Usignolo è fittissima di echi e presenze pascoliane dalla metrica al lessico.
Vincenzo Mannino

Pier Paolo Pasolini ha espresso tutte le contraddizioni dell’Italia di questi anni È stato un predicatore laico d’avanguardia e nello stesso tempo il protagonista di un’operazione culturale di retroguardia.
Tommaso Giglio

Si è imposto. E bisogna riconoscergli la forza, la grandezza e la prepotenza della sua personalità in questa operazione tardo-romantica da poeta maledetto, appunto. che tenta ancora la fusione tra arte e vita.
Michele Rago

V’erano momenti in cui ascoltando / le parole scorrere dalle tue labbra / riudivo i versi di Rimbaud / “Sono nato troppo presto o troppo tardi? Cosa sto a fare qui / Ah, tutti voi / Pregate Iddio per l’Infelice”.
Alessandro Panagulis

Una figura lo aveva sempre ossessionato: Cristo ucciso in croce. Facendo film, scrivendo e vivendo, egli cercava soltanto di venir lapidato e ucciso; come la pietra dello scandalo, la pietra d’inciampo che viene respinta dalla società umana. Ma Cristo morì per salvare gli uomini. Lui sapeva di non poter salvare nessuno, tanto meno se stesso. Voleva soltanto conoscere la morte atroce…
Pietro Citati

Pasolini è stato il grido della natura in una letteratura che da secoli ha puntato sulla rendita della compostezza e del controllo. I suoi peccati gridati e giustificati fino all’ossessione andavano classificati, secondo la parola di Sant’Agostino, nel senso che puntavano alla salvezza dell’uomo…
Carlo Bo

Nei film di Pasolini eretico per vocazione c’è più intelligenza che riflessione, più utopia (…) che razionale capacità creativa.
Angelo Solmi

Pasolini è stato, anche nel cinema, uno scandalo consolatorio, un esempio sovrano di intelligenza creatrice.
Giovanni Grazimi

Come i gigli qualche volta nascono nel fango, così i romanzi di Pasolini nascevano dall’abiezione, ma la redimevano con la poesia, che era autentica.
Indro Montanelli

La carenza di visuale politica di Pasolini infatti si rivela puntualmente quando propone soluzioni al problema coitale Le sue sono proposte di un extracoitale di destra. Di queste tecniche siamo da qualche anno ampiamente informati, attraverso il cinema. Anche il nostro ha vigorosamente collaborato alla diffusione con un particolare culto dei coiti storici alla Canterbury…
Dino Origlia

Historia, anno XX, n. 227, novembre 1976; pp. 14-23

* * *

Orazione di Moravia ai funerali di Pasolini

«Poi abbiamo perduto anche il simile. Cosa intendo per simile: intendo che lui ha fatto delle cose, si è allineato nella nostra cultura, accanto ai nostri maggiori scrittori, ai nostri maggiori registi. In questo era simile, cioè era un elemento prezioso di qualsiasi società.

Qualsiasi società sarebbe stata contenta di avere Pasolini tra le sue file. Abbiamo perso prima di tutto un poeta. E poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo (applausi).

Quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta. Il poeta dovrebbe esser sacro.

Poi abbiamo perduto anche un romanziere. Il romanziere delle borgate, il romanziere dei ragazzi di vita, della vita violenta. Un romanziere che aveva scritto due romanzi anch’essi esemplari, i quali accanto a un’osservazione molto realistica, c’erano delle soluzioni linguistiche, delle soluzioni, diciamo così, tra il dialetto e la lingua italiana che erano anch’esse stranamente nuove.

Poi abbiamo perso un regista che tutti conoscono no? Pasolini fu la lezione dei giapponesi, fu la lezione del cinema migliore europeo. Ha fatto poi una serie di film alcuni dei quali sono così ispirati a quel suo realismo che io chiamo romanico, cioè un realismo arcaico, un realismo gentile e al tempo stesso misterioso. Altri ispirati ai miti, il mito di Edipo per esempio. Poi ancora al grande suo mito, il mito del sottoproletariato, il quale era portatore, secondo Pasolini, e questo l’ha spiegato in tutti i suoi film e i suoi romanzi, era portatore di una umiltà che potrebbe riportare a una palingenesi del mondo.

Questo mito lui l’ha illustrato anche per esempio nell’ultimo film, che si chiama Il Fiore delle Mille e una notte. Lì si vede come questo schema del sottoproletariato, questo schema dell’umiltà dei poveri, Pasolini l’aveva esteso in fondo a tutto il Terzo mondo e alla cultura del Terzo mondo. Infine, abbiamo perduto un saggista. Vorrei dire due parole particolari su questo saggista. Ora il saggista era anche quello una nuova attività e a cosa corrispondeva questa nuova attività? Corrispondeva al suo interesse civico e qui si viene a un altro aspetto di Pasolini. Benché fosse uno scrittore con dei fermenti decadentistici, benché fosse estremamente raffinato e manieristico, tuttavia aveva un’attenzione per i problemi sociali del suo paese, per lo sviluppo di questo paese. Un’attenzione diciamolo pure patriottica che pochi hanno avuto. Tutto questo l’Italia l’ha perduto, ha perduto un uomo prezioso che era nel fiore degli anni. Ora io dico: quest’immagine che mi perseguita, di Pasolini che fugge a piedi, è inseguito da qualche cosa che non ha volto e che è quello che l’ha ucciso, è un’immagine emblematica di questo paese. Cioè un’immagine che deve spingerci a migliorare questo paese come Pasolini stesso avrebbe voluto (applausi)».

Alberto Moravia

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Il Vangelo secondo Matteo

A ogni altra considerazione sul film che Pasolini ha tratto dal Vangelo secondo Matteo bisogna avanzare una premessa: l’azzardo ha avuto già il suo premio nel coraggio, nella buona fede, nella rigorosa aderenza al testo sacro.

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