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IL SOGNO DELLA FARFALLA (1994) – Recensione di Paolo Taggi [Segnocinema]

di Paolo Taggi

A quattordici anni un ragazzo decide di scegliere il silenzio. Da quel momento può fare a meno delle proprie parole e comunica soltanto attraverso i testi scritti da altri. Recita, e sul palcoscenico si esprime attraverso copioni già scritti, che non gli appartengono, nei quali può soltanto (ma lo vuole davvero?) tentare di riconoscersi. Una intera famiglia si scontra contro il suo silenzio, che da diaframma che divide diventa un habitat prima, un punto di riferimento poi. Il silenzio di lui, che all’inizio è un rifiuto, diventa una specie di stile di vita, che si insinua nei loro spazi, che li nutre per assenza.

Ho visto Il sogno della farfalla nel deserto di una sala del centro di Roma ed ho provato una sensazione strana: quella solitudine particolare che ti dà il cinema quando non è se stesso; un film, quando non è amato. Ho visto Il sogno della farfalla cercando ad ogni immagine un motivo per capirlo, una ragione soltanto per non condannarlo. Mi sono aggrappato alle stellette, agli asterischi e alle frasi di circostanza di buona parte della critica, ai flani bugiardi, alle belle interviste rilasciate da Bellocchio. Ma poi c’era il film, davanti, che scorreva e che cancellava una per una le attese e le speranze, le tracce di una poetica e le attenuanti che siamo sempre e comunque disposti a concedere ad un cinema comunque ‘diverso’.

Con Il sogno della farfalla Bellocchio ha compiuto un nuovo salto nel vuoto: ma non c’è stata nessuna rete in grado di salvarlo. Sullo schermo è rimasta così la presuntuosa ipotesi di un film tutto interiorizzato che non riesce mai a raggiungere il cuore dei suoi personaggi (e dello spettatore) anche se sembra conoscerli entrambi perfettamente. Non bisogna lasciarsi ingannare dalla difficoltà dell’argomento: il silenzio è un tema difficile, ma non indicibile. Credo che le migliori opere teatrali del Novecento (basterebbe rileggere ogni tanto le stupende pagine di Peter Szondi sulla teoria del personaggio drammatico) siano basate proprio sulla scoperta del silenzio e delle sue potenzialità. Il sogno della farfalla non utilizza il silenzio, non lo descrive, non lo spiega, né lo rende protagonista o motore di una struttura narrativa. Si limita a dirlo, e intorno a questa scoperta meravigliata crede di poter vivere autocelebrandosi.

Il ragazzo che a quattordici anni ha scelto di “parlare senza parlare” recupera sulla scena le parole ed il film indugia su lunghe parti teatrali (troppo lunghe, smisurate rispetto alla loro funzione narrativa) che hanno suggerito a qualcuno la parentela tra Il sogno della farfalla e gli altri film ‘teatrali’ di Bellocchio. Equivoco pericoloso, giustificabile solo con il disperato tentativo di offrire sempre e comunque un’ancora di salvezza ad un regista che da tempo lavora alla mortificazione del proprio stile e per il quale continuiamo a provare una dolente memoria del passato che si trasforma ogni volta nella delusione di un’attesa vana. Qualcuno ha addirittura citato I pugni in tasca, quasi alludendo a una circolarità dell’opera di Bellocchio: in comune, tra le due opere, c’è solo il disagio di un ragazzo. Francamente, troppo poco.

Il sogno della farfalla è un film presuntuoso, dicevamo; non difficile, anzi facilissimo sul piano cinematografico, ricco di riferimenti psicanalitici non risolti (e qui può forse risiedere la sua voluta oscurità). Siamo ugualmente lontani dalla divulgativa, appassionante capacità di esplorazione sui paesaggi stralunati della mente di un Oliver Sachs e dalla (questa sì poetica) capacità di messa in abisso di un mondo interiore del Tarkovskij di Lo specchio. Siamo in un territorio indefinito, disperatamente teso al poetico ma già sapendo che la meta è irraggiungibile. Gli manca, per potervisi avvicinare, la capacità simbolica, l’ambiguità, la profondità.

Messosi al servizio di una sceneggiatura con un rispetto cieco, totale, divinizzante, Bellocchio tenta di farle acquistare spessore ricorrendo all’uso di codici di stile, non di uno stile. La lentezza esasperante con la quale le tre donne versano del brodo in un piatto, il compiacimento con il quale i personaggi parlanti ascoltano il silenzio che segue ogni loro semplice parola, la scelta di paesaggi ‘solenni’, lo spazio tra i personaggi e tra loro e il paesaggio stesso: sono tutti elementi che vogliono dare al film un carattere solenne, una dimensione ‘altra’ che si scontra con la sua debolezza di fondo. Sarebbe troppo facile attribuire la colpa di tutto questo allo sceneggiatore Massimo Fagioli, che dopo alcune incursioni indirette nel cinema (attraverso Bellocchio) adesso lo invade con la sua discussa personalità. Il problema è un altro e riguarda direttamente Bellocchio: è lui che abdica completamente a se stesso, che dichiara il proprio silenzio o la propria impotenza espressiva rifugiandosi nel terreno (che gli compete, gli appartiene) del film d’autore, come in un alibi precostituito. Il suo è un delitto imperfetto.

Il sogno della farfalla è un film d’autore dal quale l’autore è sfuggito, completando un processo già avviato precedentemente. L’autore ha abdicato, si è fatto da parte, illudendosi che per fare un film basti il ricordo di uno stile, ma non occorra anche il cuore, se non tutta l’anima. Bellocchio crede che si possa fare il film di un altro, senza pagarne l’estraneità. Il vuoto ripetuto di una sala, lo stupore freddo del pubblico sono la risposta più vera, la sensazione ultima che un film come questo ti lascia.

Il sogno della farfalla è un film disertato dal sentimento, popolato di fantasmi psicanalitici che sullo schermo non acquistano vita né prendono corpo. Percorso da una falsità di fondo che si scontra con la presumibile onestà di intenti, si adagia come un capitolo sconcertante nella intermittente filmografia di Bellocchio. Un film non suo, un regista che parla attraverso la voce di un altro: solo che, a differenza del suo protagonista, non lo dichiara. Voleva essere un finale, ma forse è un inizio. Che non riguarda più un film, però, ma l’opera (o la vita) di un regista che abbiamo tanto amato.

Segnocinema n. 68, Luglio-Agosto 1994; pagina 39

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