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GIÙ LA TESTA: IL PESSIMISMO DELLA RIVOLUZIONE

Giù la testa, il più spietato, lucido, egoistico, radicalmente nichilista dei film di Sergio Leone. Saggio critico di Gianni Canova

Il più spietato, lucido, egoistico, radicalmente nichilista dei film di Leone

di Gianni Canova

La politica entra dappertutto, entra anche quando il film è talmente sciatto da… da essere qualunquista. Però voglio dire che il “messaggio” è una parola di comodo, inventata da pseudocritici, pseudoletterati, pseudostorici e pseudoregisti… L’autore per me è grande quando osserva le cose, le medita e le espone così come le ha osservate e le mette in mostra su una vetrina, ecco, lasciando al pubblico il piacere di raccogliere l’oggetto che più ama. Quand’uno arriva a questa forma di… di… diciamo dì precisione con se stesso, di coerenza personale non dichiarata, allora credo che sia da tenere d’occhio, perché anche se sbaglia, sbaglia avendo dietro il novanta per cento d’autenticità e non di ipocrisia…
—Sergio Leone

Come per una tacita convenzione, non necessariamente realistica, in quasi tutti i villaggi del West che il cinema ha inventato e portato sugli schermi ci sono in genere solo due edifici costruiti con la pietra: la banca e la chiesa. Mentre tutte le altre costruzioni (dal saloon all’emporio fino all’ufficio dello sceriffo) sono per lo più fatte di legno, la banca e la chiesa cercano nella pietra un segno materico di durevolezza e stabilità. La banca e la chiesa: ovvero Dio e dollaro, trascendenza e capitale. E su questi pilastri che la “nuova” società della frontiera costruisce se stessa, è attorno a queste architravi simboliche che fa ruotare il proprio sistema valoriale.

Ma per il “bandido” Juan di Giù la testa, peone con prole a carico e grilletto facile, neppure la pietra basta a nobilitare la banca. Lui, la banca, se l’immagina tutta d’oro e così la descrive all’irlandese Sean, di professione bombarolo: “Io dico che l’oro è meglio dell’argento. E la banca è tutta d’oro. D’oro le maniglie, d’oro i pavimenti, d’oro perfino le sputacchiere”. In un tipico processo di transizione metonimica, Juan attribuisce al contenente (la banca) le caratteristiche del contenuto (il denaro): ed è proprio questo trasferimento di valore simbolico a rendere più sfavillanti i suoi rapinosi sogni di riscatto e di ricchezza. Poco importa che la sua banca non sia d’oro e che – una volta violata – si riveli solo una misera prigione zeppa di detenuti politici e di campesinos diseredati. Quel che conta sono i sogni: non le cose, ma la loro rappresentazione. E non basta certo la grigia realtà a far abbassare la testa al protagonista del più anarchico dei film di Sergio Leone.

Anche altre volte, nel corso delle sue avventure, Juan si rivela del resto un campione del pensiero metonimico. Una, in particolare, è rivelatrice: quella in cui Juan, dopo aver visto per la prima volta Sean maneggiare i propri esplosivi, lo guarda da lontano, in campo lungo, e lo vede circondato da una sorta di aureola luminosa con su scritto: “Banco Nacional de Mesa Verde”. Anche in questo caso Juan trasferisce sul mezzo (Sean e la sua capacità “dinamitarda”) la desiderabilità del fine (l’oro conservato nella banca e richiamato cromaticamente nel colore della scritta che cinge la testa di Sean). È un’immagine eccentrica, quella appena descritta. Nel contesto rigorosamente coerente del cinema di Leone, quell’aureola bancaria accompagnata nella colonna sonora dalla musica di Bach si configura come una vera e propria anomalia, come un segno “dissonante” ma – proprio per questo – dotato di rilevanza nevralgica e strategica. Tutta la Bildung di Juan – la sua trasformazione da bandito a rivoluzionario – nasce dalla sollecitazione di quell’immagine, dal desiderio che essa ha innescato. È quella visione (quel miraggio) che trascina, suo malgrado, il peone dalla pampa alla Storia, dalla pratica della rapina a quella della rivoluzione.

Anche Sean, l’alter ego di Juan, è ossessionato da un’immagine. Ma la sua visione, a differenza di quella del peone, non è rivolta al futuro quanto al passato: è il ricordo della sua esperienza nella rivoluzione irlandese che gli torna periodicamente alla memoria in forma di flashback ad offrirgli la chiave di lettura dei fatti di cui è protagonista. Juan e Sean, il bandito e il guerrigliero: il primo pensa e vede in chiave metonimica, il secondo lavora invece di confronti e comparazioni ermeneutiche. L’uno agisce spinto dal desiderio di diventare diverso da quello che è, l’altro è roso dal timore che tutto si ripeta come nel passato. Juan insegue un sogno di riscatto, Sean fugge il fantasma del tradimento: il tragitto di entrambi si scontrerà con il cinismo della Storia e con la sua costituzionale vocazione ad essere solo una macchina generatrice di massacri.

Per questo Giù la testa è il più “spietato” tra i film di Sergio Leone: il più lucido, il più agnostico, il più radicalmente nichilista e pessimista. Tutto dalla parte delle rivoluzioni (nella Storia, come nello sguardo), ma anche intriso dell’amara consapevolezza della loro vanità. Come Juan spiega bene a Sean in uno dei dialoghi più intensi e importanti del film: “Sai cosa sono le rivoluzioni? C’è qualcuno che sa leggere i libri che va da qualcuno che non sa leggere i libri, i poveracci, e gli dice che è venuto il momento di cambiare tutto. Si siedono intorno a un tavolo, parlano e mangiano. E intanto che fine ha fatto la povera gente? Tutti morti. E dopo sai cosa succede? Tutto torna come prima”. Mentre Juan parla, Sean lo ascolta sfogliando le pagine di un libro. Quando Juan smette di parlare, Sean prende il libro e lo butta nel fango. È The Patriotism di Bakunin.

Anarchico senza anarchismi, senza “maestri” e senza testi sacri, Giù la testa comincia con l’acqua e finisce nel fuoco. All’inizio, nel bel movimento di macchina che apre il film dopo la lunga e “franta” citazione di Mao-Tze-Tung sulla rivoluzione, Leone inquadra un tronco d’albero coperto da formiche che vengono all’improvviso travolte dal getto possente dell’urina del protagonista e annaspano e affogano nella schiuma giallognola che si forma alla base del tronco. Alla fine, dopo l’esplosione del treno imbottito di dinamite, lo schermo è invaso da un gorgo di fuoco che inghiotte la vita degli uomini esattamente come l’urina di Juan travolge all’inizio l’esistenza degli imenotteri.

Quello di Giù la testa, come è stato osservato, è davvero un mondo in cui non si muore, si crepa soltanto. Non c’è alternativa: se non è a causa della Natura, è per colpa della Storia, ma la vita non è che un disperato tentativo di resistere a una catena ininterrotta di massacri. Leone osserva lo spettacolo evitando con cura sia il cinismo ironico del demiurgo che si chiama fuori dalle infamie del mondo, sia il rassegnato pietismo di chi di fronte a tali infamie trova comodo dichiararsi impotente. L’anarchismo del suo sguardo, la sua congenita rivolta verso le leggi della Natura e contro i potenti della Storia, fa sì che Leone si rapporti al mondo che rappresenta con un’indignazione che ricorda la legge dantesca del contrappasso. Perché Giù la testa è, a modo suo, anche un feroce e malinconico viaggio all’inferno.

Si ripensi alla memorabile sequenza della carrozza su cui Juan sale all’inizio del film. Mentre la flaubertiana bêtise dei potenti ripropone con desolante sfacciataggine la danza dei luoghi comuni del dominio di classe (“Vedete per chi si devono fare le riforme agrarie? Per degli straccioni abbrutiti! Bestie, sono solo bestie!”), la macchina da presa di Leone opera una sorta di dissezione anatomica dell’ideologia. Con zoom e tagli secchi di montaggio Leone va rapido sui denti e sulle bocche che masticano e che mangiano, isola frammenti, riporta in primo piano la corporeità dei personaggi e sottolinea in essi quell’animalità che i loro discorsi attribuivano con disprezzo ai campesinos. Poi, dopo la rapina di Juan e famiglia, i ricchi vengono spogliati e – ignudi su un carretto – rotolano uno addosso all’altro in mezzo agli animali, in quella promiscuità che poco prima avevano stigmatizzato schifiltosi nei peones. La strategia del contrappasso è evidente: i potenti subiscono fisicamente quel che avevano fatto subire verbalmente a Juan e a tutti quelli come lui.

Sarcastico verso ogni forma di potere, epico nel rappresentare i sogni e commovente nella pietas con cui capta e visualizza i massacri (la panoramica soggettiva di Sean sui corpi dei peones fucilati, gli sguardi furtivi di Juan che spia la Storia quasi sempre da fessure e pertugi), Leone assomma in sé le modalità di sguardo dei suoi personaggi: al contempo metonimico (quando fa del film un paradigma del mondo) ed ermeneutico (quando offre al pubblico quasi un flashback per ragionare sulle rivoluzioni degli anni ’70 e capirne i relativi tradimenti), Leone spinge il suo sguardo là dove in precedenza non era mai arrivato e ci induce – ancora oggi – a chinare il capo riverenti di fronte a tanta maestria. Cioè di fronte a uno sguardo che va come nessun altro su su nel cuore delle rivoluzioni del mondo, là dove uomini e formiche mescolano i rispettivi destini e – dimentichi di banche e di chiese – conoscono con gli occhi l’orrore del vivere.

Segno Cinema n. 68, Luglio-Agosto 1994

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