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JUVENTUS-LIVERPOOL 1-0: OMAGGIO AI TIFOSI

Più degli inglesi, i bianconeri volevano la Coppa inseguita da sempre. L’hanno vinta in una serata crudele per dedicarla anche a chi non cera più

LA FINALE Di BRUXELLES

di Ivan Zazzaroni

BRUXELLES. La Juventus non ha rubato al Liverpool la Coppa dei Campioni (la prima nella storia della Vecchia Signora). Anche se il penalty concesso al sessantesimo minuto dell’elvetico Daina, per il fallo commesso da Gillespie su Boniek un paio di metri fuori dall’area di rigore, non c’era. Anche se un atterramento di Whelan operato da Bonini giusto all’interno dell’area grande non ha determinato la concessione della massima punizione a favore degli inglesi. Anche se un commentatore della televisione belga di lingua francese, Alain Carlier, ha reso pubblico il (suo) sospetto che la vittoria degli italiani fosse stata preconfezionata negli spogliatoi dai dirigenti dell’Uefa. Gli uomini di Trapattoni, lasciato il cuore nel settore Z del fragile Heysel, giocando col cervello e con le gambe, e riuscendo a mantenere una certa saldezza di nervi, una certa lucidità anche in quel terribile momento, hanno dimostrato sul campo di meritare il trofeo da troppi anni, ventisette, inseguito.

LA PARTITA. La finale della Coppacampioni, intesa come i novanta minuti di calcio giocato, s’è disputata regolarmente. Chi ha avuto il coraggio e la freddezza di seguirla in tutte le sue sfumature tecniche, tattiche e agonistiche ha visto un incontro sostanzialmente valido. Le manovre più rapide, più vivaci, sono state quelle organizzate dalla Juve di Platini, un Platini sul quale Joe Fagan aveva piazzato John Wark, sorprendendo prima di tutto se stesso (il manager del club di Anfield Road — o meglio, l’ex manager, visto che subito dopo la partita di Bruxelles si è dimesso — non è mai stato uno stratega) e poi i tecnici presenti in tribuna: ma questa mossa, che annullava quelle precedentemente annunciate (Lawrenson sul francese, quindi Gillespie, quindi la marcatura a distanza) altro non era che la replica del duello Platini-Wark che aveva caratterizzato il match Francia-Scozia del giugno ’84. Nonostante la buona disposizione del centrocampo juventino, Grobbelaar ha tuttavia lavorato poco: poiché, sia per la scarsa vena di Briaschi e Rossi, sia per le difficoltà incontrate dall’attacco bianconero nel perforare la perfetta linea difensiva inglese che poggiava sul centrale Gillespie (subentrato dopo appena due minuti di gioco a Lawrenson, dolorante alla spalla destra), gli unici affondi di una certa pericolosità dei bianconeri sono stati firmati da Boniek: un Boniek marcatissimo.

SUPERTACCONI. Meno limpide ma più efficaci si sono rivelate le azioni dei Reds. Il loro pressing ha messo in difficoltà la retro-guardia italiana, troppo occupata a contenere Rush (con Brio, perfetto, e Tardelli in seconda battuta) e Dalglish, che peraltro aveva scelto di agire nella periferia dell’area juventina. Whelan, lo stesso Wark, Walsh e Johnston, riforniti in varie occasioni da Neal e Hansen, hanno cercato a più riprese la porta avversaria e soltanto per la serata di grazia di Tacconi (addirittura strepitoso nel ribattere al 34’ una conclusione di Whelan) non hanno risolto a loro favore la partita. Tutto sommato, dunque, la finale più attesa e prevista dell’anno non ha rispettato le previsioni, se non nella consistenza del punteggio: il solito uno a zero che per otto volte negli ultimi dieci anni di Coppa-campioni ha deciso gli atti conclusivi del torneo.

NELLA STORIA. La serata infinitamente crudele e assurda del 29 maggio, che doveva essere un appuntamento, «l’appuntamento», col grande calcio, e che tutto è stato tranne una occasione di festa e gioia sportiva, entra nella storia del calcio per tanti, troppi motivi: innanzitutto perché ha distrutto intere famiglie, ha compromesso l’immagine del calcio inglese e internazionale e ha posto in discussione la sacralità dell’operato delle massime organizzazioni calcistiche continentali; in secondo luogo perché a campioni dello sport più amato, come Scirea, Tardelli, Cabrini, non ha concesso di gioire per il successo personale conseguito, successo che mancava ai loro palmarès (i tre italiani hanno vinto ormai tutto aggiungendo la Coppacampioni alla Coppa Uefa, alla Coppacoppe, alle Coppe Italia, alla meravigliosa Coppa del mondo per nazionali e ai campionati vinti). Il destino ha così voluto essere duro anche con i vincitori, dopo aver scatenato tutta la sua ferocia sulla curva della povera gente comune: «È stato terribile», ha commentato Michel le buteur, «sto male per il calcio. Non posso apprezzare il risultato ottenuto a Bruxelles». Fa bene, Monsieur Plus, a soffrire per il calcio. E fanno bene molti giocatori della squadra di una città colpevole a interrogarsi sul futuro loro e su quello del football: è il minimo che si possa chiedere ai protagonisti di quella che per molti è stata considerata una crudele farsa e per l’Uefa è stata la trentesima finale della Coppacampioni. A conclusione della sfida di Bruxelles, la Juve ha fatto il giro d’onore per il campo e ha poi ritirata la Coppa negli spogliatoi tornando sul terreno di gioco per mostrarla ai suoi tifosi. Nella notte della tragedia, questo è apparso un gesto sconveniente. Psicologi ed esperti hanno valutato quel gesto di trionfo e non ne hanno tratto una assoluta condanna. Certamente, i giocatori juventini non hanno innalzato la Coppa dimenticando i morti della tragica serata dell’Heysel. Il giro d’onore è stato un omaggio ai tifosi presenti; è stato un omaggio forse dovuto anche a chi non c’era più e quella trasferta aveva pagato con la vita in una serata crudele e assurda.

Guerin Sportivo, n. 24, 12-18 giugno 1985

La sequenza del fallo da rigore su Boniek La sequenza del rigore realizzato da Platini

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