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KUBRICK: LA GUERRA E LA STORIA

Il film di Kubrick "Paths of Glory" visto nel contesto della cinematografia più critica verso la Grande Guerra

di Pierre Sorlin

Mentre la seconda guerra mondiale costituisce, per il cinema, una fonte inesauribile, ci sono pochi film sulla prima guerra. Negli anni ’20 gli eventi erano ancora troppo prossimi e, dopo, altri problemi hanno catturato l’attenzione dei cineasti. Gli anniversari dei momenti più drammatici del conflitto, come il suo inizio o la rivoluzione russa del 1917, furono gli unici momenti in cui la “Grande Guerra” apparve ripetutamente sugli schermi. La grande maggioranza delle pellicole, secondo una linea critica che La grande guerra di Monicelli illustra perfettamente, evidenziarono l’assurdità di battaglie cruente nelle quali i soldati venivano sacrificati senza nessuna modificazione della linea del fronte. Però, al di là di un’ironia spesso molto caustica, questi film non osarono mettere in discussione né le motivazioni, né il comportamento degli stati maggiori che, senza esitazione, mandavano i loro uomini verso una morte certa e inutile.

Tre opere, Paths of Glory (Orizzonti di gloria), diretto da Stanley Kubrick (1957), King and Country (Per il re e per la patria), con regia di Joseph Losey (1964) e Uomini contro, con regia di Francesco Rosi (1970) affrontarono un tema di cui non si parlava mai, le esecuzioni sommarie, senza giudizio o con una parodia di corte marziale, ordinate dal comando “per dare l’esempio”. Quasi tutti i film di Rosi hanno un carattere militante e il suo attacco contro i generali carnefici non poteva stupire nessuno, ma i due americani non si erano mai occupati di politica e le loro opere antecedenti, spesso basate su un intreccio poliziesco, riguardavano soprattutto la psicologia dei personaggi. Il loro interesse per la Grande Guerra non era, tuttavia, casuale, ma era legato al fatto che entrambi conoscevano bene l’Europa. Bisogna ricordarsi che, quando i soldati statunitensi sbarcarono in Europa, nel 1917, furono scandalizzati nel vedere come le truppe fossero trattate male dagli ufficiali. La regola, non sempre osservata, ma costantemente affermata in America, è che un soldato rimane un cittadino, con tutti i diritti dei cittadini, e che il primo dovere dello stato maggiore è risparmiare la vita degli uomini; che un generale potesse disporre liberamente dell’esistenza dei soldati sembrava dimostrare l’arretratezza del vecchio continente e i film di Kubrick o di Losey sono più una condanna dell’Europa che una critica alla guerra mondiale.

Orizzonti di gloria è la prima pellicola nella quale Kubrick ritorna al passato e si può dire che è il più “storico” dei suoi film. Liberamente adattata da un romanzo del canadese Humphrey Cobb, lui stesso ispiratosi a fatti realmente accaduti, la pellicola dà una visione romanzata ma verosimile di un’offensiva inutile e micidiale imposta da un generale francese che, per vendicarsi dello scacco subìto, fa fucilare tre soldati. Il racconto è perfettamente lineare e si assoggetta a un’unità di tempo degna della tragedia classica. L’azione si divide in quattro momenti, tutti assolutamente necessari, che corrispondono ciascuno a un giorno. Nel primo tempo il generale Mireau ordina al colonnello Dax di prendere “il formicaio”, una collina occupata dai tedeschi; Dax obietta che la posizione è considerata inespugnabile ma ubbidisce, fa fare una ricognizione del terreno e prepara l’attacco. Il secondo tempo corrisponde all’offensiva; i tedeschi, perfettamente trincerati, aprono un fuoco di sbarramento e molti francesi sono uccisi. I sopravvissuti, malgrado le esortazioni di Dax, non riescono ad avanzare; Mireau chiede al comandante dell’artiglieria di bombardare le proprie truppe, ma quest’ultimo rifiuta. Mireau decide che tre soldati saranno giustiziati: il terzo tempo è dedicato alla corte marziale. Il quarto tempo è la fucilazione. La logica inesorabile del film viene ancora rinforzata dal ricorso a due procedimenti correntemente usati dal cinema tradizionale. Il primo riguarda la raffigurazione della guerra. Tre scene intervengono ripetutamente nei film sulla Grande Guerra: la trincea col fango, i posti d’osservazione, i buchi dove gli uomini dormono, le lunghe ore di attesa tra noia e paura; la pattuglia di notte, il procedere strisciando attraverso il filo spinato, la vicinanza del nemico, i razzi illuminanti, gli spari alla cieca della mitragliatrice; e, infine, l’attacco, la corsa dei fanti verso la linea avversaria, con la quasi certezza di essere colpiti. Questi luoghi comuni, stabilitisi dopo gli anni ’20 nei film antimilitaristici, si ritrovano nel film di Kubrick e rafforzano nella mente dello spettatore l’idea che l’oggetto della pellicola sia la condanna della guerra. L’altro momento prevedibile, tipico del cinema americano, è il tribunale. Però, mentre di solito, almeno fino agli anni ’60, i giudici ristabiliscono la verità, assistiamo qui a una parodia: la corte finge di funzionare normalmente ma la sentenza è data per scontata prima dell’apertura della seduta.

Tanto la linea narrativa quanto i riferimenti al cinema precedente incitano il pubblico a vedere, nell’opera di Kubrick, una critica molto aspra della gerarchia militare francese, della sua mancanza di umanità e del suo eccessivo potere. Il regista ha confermato molte volte quest’interpretazione che è perfettamente valida. Però non c’è mai una lettura unica di un film, soprattutto di una pellicola costruita con tanta maestria e, senza rinunciare a questa spiegazione, del resto evidente, vorrei mettere in rilievo un altro modo di capire Orizzonti di gloria.

Pur riprendendo lo schema dell’attacco inutile e dell’esecuzione di soldati colpevoli di non avere fatto una cosa impossibile, Kubrick e i suoi co-sceneggiatori hanno profondamente modificato la storia raccontata da Cobb: il film è, indubbiamente, un’opera originale. Tuttavia, un confronto tra il libro e la pellicola non è inutile. I personaggi principali del romanzo sono da una parte il generale, dall’altra i suoi soldati, in particolare i tre condannati. Il colonnello comandante del reggimento ha un ruolo limitato. È un militare di carriera perfettamente disciplinato che, un giorno, sarà promosso generale: è stanco della guerra e impaurito a un punto tale che, come sottolinea il testo: “viveva in uno stato di paura vicinissimo al panico”. Nella pellicola, il colonnello Dax diviene il vero protagonista. Mettere in scena una coppia Mireau/Dax, in altre parole opporre al generale implacabile e senz’anima un ufficiale superiore che conosce i suoi uomini, li ama e vorrebbe proteggerli, era un’idea molto efficace, che accentuava il carattere drammatico della vicenda. Dax è totalmente diverso del colonnello letterario. Avvocato nella vita civile, non ha nessun futuro nell’esercito, ignora la paura e non esita a esporsi al fuoco nemico. Visto che la sua parte è stata affidata alla star del film, Kirk Douglas, il pubblico capisce immediatamente chi è il buono, chi il cattivo e dove si trova la giustizia.

In questo modo, lo spettatore non si pone le domande che lo studioso, per parte sua, non può eludere. C’è, attorno al personaggio di Dax, una serie impressionante di inverosimiglianze. Un errore non è necessariamente il risultato di un’assenza di cura, dato che la sceneggiatura del film viene verificata da esperti; qui gli sbagli sono volontari. Elenchiamoli:

– Nell’armata francese un riservista non riceve mai la responsabilità di un reggimento in prima linea. Nel romanzo il difensore dei soldati era avvocato prima della guerra ma è soltanto capitano; un comandante di compagnia riservista è verosimile, un colonnello no.

– Per preparare l’attacco, Mireau si reca al rifugio di Dax: è un riparo miserabile, umido, indegno di un colonnello. Poco dopo, entriamo nel rifugio di un semplice tenente, subordinato di Dax, luogo perfettamente protetto contro il freddo e relativamente confortevole: il contrasto tra i due posti è evidentemente voluto.

– Dax dirige personalmente l’attacco. Un colonnello non si metteva mai a capo di un’offensiva; per guidarla doveva occupare un posto d’osservazione invece di correre alla testa di una squadra.

– Nel romanzo, come nel film, il generale vuole far bombardare i suoi soldati ma il comandante dell’artiglieria rifiuta. Nel libro il generale riesce a far accusare l’artigliere di un errore di tiro e a sbarazzarsi di un uomo che aveva resisto ai suoi ordini e che avrebbe potuto denunciarlo. Nel film, Mireau non reagisce al rifiuto oppostogli dal comandante dell’artiglieria. Misteriosamente, l’artigliere si mette in contatto con Dax (un colonnello di fanteria non è il superiore di un artigliere, i due corpi militari non sono mai in relazione) al quale affida una denuncia scritta contro Mireau.

– Il film si conclude con una sequenza originale che non esiste nel romanzo. Dopo l’esecuzione il reggimento deve tornare al fronte. Dax arriva agli acquartieramenti. I soldati, per divertirsi, stanno costringendo una giovane tedesca impaurita a cantare. In alcuni film vediamo dei civili rimasti nelle zone occupate dal nemico. Però bisogna ricordarsi che tutta la guerra sul fronte ovest si svolse in territorio francese o belga: non ci fu mai una sola ragazza tedesca dietro le linee francesi, la scena è assurda.

Sarebbe inutile segnalare un solo fatto non pertinente, ma gli errori sono troppo numerosi per essere casuali; circondano il personaggio di Dax e ne fanno una figura accettabile in qualsiasi narrazione ma impossibile in un’opera che pretende di ricostituire con la massima fedeltà l’atmosfera, il quotidiano, le paure e la barbarie della guerra vissuta sul fronte francese. Il romanzo di Cobb era un libello contro i generali francesi; Kubrick, invece di rinforzare la critica attraverso l’opposizione Mireau/Dax, crea un eroe che mette in crisi l’esattezza della descrizione. Benché sia il polo positivo dell’opera e il personaggio che vediamo di più, il colonnello non riesce né a ostacolare un’offensiva disperata e destinata a fallire, né a convincere Mireau che la corte marziale è inutile, né a salvare i tre soldati che difende. Nel primo tempo affida la ricognizione notturna a un tenente incapace che uccide uno dei suoi uomini; nel secondo tempo fa tutto il possibile per convincere il reggimento a continuare un attacco inutile; nell’ultima parte presenzia alla veglia funebre e all’esecuzione dei condannati. Nella logica del messaggio antimilitaristico diremmo che il colonnello è straziato tra il suo senso del dovere e il suo senso di umanità, ma possiamo anche sottolineare un legame molto forte tra il personaggio e la morte. Dax è anche implicato nella morte morale di Mireau. Per capirlo dobbiamo riferirci a un episodio del quale non abbiamo ancora parlato. In una breve sequenza, tra il terzo e il quarto momento del film, Dax chiede un’udienza al generale d’armata, Broulard, per denunciare Mireau. Il passaggio costituisce una delle tre sequenze che non corrispondono allo svolgimento perfettamente lineare del racconto – passaggi in cui Broulard è sempre presente. Il film si apre con uno di questi episodi: Broulard va a trovare Mireau per convincerlo ad attaccare “il formicaio”. Nel romanzo di Cobb, il colloquio tra il generale d’armata e il suo subordinato dura poco tempo. I due uomini s’incontrano per la prima volta. Il loro rapporto è freddo, il superiore non ordina e non promette niente: è il generale che accetta, senza esservi costretto, di attaccare. Nel film, i due ufficiali si conoscono benissimo: sono, in apparenza, amici. Broulard non si accontenta di promettere a Mireau una promozione in caso di successo, ma si dedica a una vera manovra di seduzione: lusinga il suo subordinato e la macchina da presa, che lo segue mentre gira attorno al generale, dà l’impressione che tenti di stregare Mireau. Però, tutti sanno che la missione è impossibile. Il generale d’armata, nel romanzo, lascia la decisione all’altro: Broulard fa uso di tutte le sue risorse per convincere Mireau a correre verso una sconfitta.

Dopo la battaglia, nell’episodio al quale alludevamo prima, Dax racconta a Broulard come Mireau volesse far bombardare il suo reggimento. Broulard fa finta di essere molto impegnato e di non avere il tempo di approfondire il caso; ascolta senza convinzione e congeda cortesemente ma fermamente il colonnello, il cui intervento sembra essere stato inutile. Dopo la fucilazione, in un terzo episodio, Broulard e Mireau s’incontrano di nuovo. Pranzano insieme, sono in ottimi rapporti; Broulard si dimostra sempre pieno di simpatia e di amicizia ma, all’ultimo momento, quando stanno per separarsi, rivela, in tono scherzoso, come se si trattasse di una battuta, che sa tutto e che Mireau sarà silurato.

Per rapide che siano, le tre sequenze nelle quale interviene Broulard modificano la lettura del film. Il responsabile del massacro non è un semplice ambizioso, bensì un generale che, per poter eliminare un ufficiale, lo convince a commettere un errore, senza preoccuparsi del numero di soldati che bisognerà sacrificare. Mireau è una vittima – ma, contrariamente all’opinione corrente, una vittima non è necessariamente simpatica; in questo caso è totalmente odiosa.

L’insensibilità di Broulard si coniuga con un cinismo sfrenato. Nella sua ultima apparizione gioca con Mireau per poi abbatterlo. Il suo atteggiamento va al di là dello stratagemma utile per ingannare Mireau: si comporta come un diavolo tentatore che offre al peccatore il miraggio di un facile successo per precipitarne la caduta. Non azzarderei questa metafora se non ci fosse il misterioso Dax. Broulard ha preparato la trappola nella quale cade Mireau, ma il suo strumento è il colonnello, che muove l’accusa decisiva contro il generale. Abbiamo notato che Dax è strettamente legato alla morte: lo vediamo provocare la morte morale di Mireau. L’ipotesi, che sembra un po’ azzardata, trova conferma in due passaggi del film. Tra il primo e il secondo momento, preparativi e offensiva, Kubrick ha inserito una strana sequenza. Dax fa un’ispezione, ma la scena viene filmata come un sogno, un’illusione o un’allucinazione. La trincea è molto più larga del reale. I soldati non sono serrati contro il parapetto, ma sembrano disposti sui bordi di un cratere; immobili, silenziosi, parzialmente nascosti in una sorta di nebbia, somigliano a un’armata di fantasmi. Evidentemente, la morte è già presente fra di loro: l’unico vivente è Dax. La ricercatezza stilistica, particolarmente insistente nel passaggio, ne sottolinea il carattere onirico. Il colonnello viene ripreso, a turno, da una carrellata indietro che lo precede o da una carrellata avanti che lo segue e il montaggio alternato accentua la distanza tra l’ufficiale e gli uomini. Dax è, allora, una figura di morte? Il seguito lo conferma. Nell’attacco, mentre tutti i soldati cadono, a destra e a sinistra, Dax va avanti, solo, invulnerabile, intoccabile, insensibile al rumore, alle grida, alla paura, più forte degli spari del nemico. Chi può impunemente esporsi alla morte, se non la morte stessa?

Il personaggio referenzialmente impossibile che, sempre intatto, conduce le sue truppe al macello, provoca l’eliminazione di un generale, segue il martirio dei condannati e, subito dopo, raduna i soldati per un nuovo massacro è un angelo della morte. Il film si presta dunque a due letture diverse ma non contraddittorie, dato che portano ugualmente al processo dello stato maggiore francese. La coesistenza di interpretazioni differenti, una storica, l’altra mitica o metafisica, non era una novità per il pubblico americano; si trovava già, per fare soltanto due esempi, nel film di Thomas Ince, Civiltà, e nel romanzo di Faulkner, Fiaba, opere nelle quali l’assenza di umanità assoluta della Grande Guerra svela l’influenza delle forze dell’aldilà.

Il punto interessante è che le due soluzioni richiedono due letture differenti tanto del racconto quanto del lavoro propriamente filmico. Se prendiamo la linea storica, i brevi interventi di Broulard servono solamente a aprire e a chiudere la vicenda; l’importante è il confronto Mireau/Dax o ambizione/umanità. È l’immagine a costruire l’opposizione tra il generale, ripreso soprattutto in campo medio, immobile, rigido, freddo, privo di emozione anche quando viene silurato, e il colonnello, che appare in diverse inquadrature, si muove, è, di volta in volta, amichevole, arrabbiato, triste, attento, comprensivo. Invece, nell’altra direzione, la coppia fondamentale è quella Broulard/Dax. Adolphe Menjou, che interpreta il ruolo di Broulard, ricopriva regolarmente, sullo schermo, la parte del cinico uomo di mondo. Qui il suo atteggiamento somiglia molto a quello di Satana nelle varie versioni di Faust, con la sua aria subdola e insinuante. Ripreso anche lui in campo medio, va e viene, gira la testa, agita le braccia, e la macchina da presa, che lo segue, accentua l’impressione di danza rituale, di strategia di seduzione che caratterizza il personaggio e nasconde la sua profonda cattiveria. Broulard ha il potere e ne trae un immenso piacere. Mentre Mireau è un volgare ambizioso, Broulard è il male assoluto, la forza capace di nuocere senza rischio e, di fronte a lui, l’angelo, semplice testimone, si rivela disarmato, non può che dare un po’ di dignità a un sacrificio inutile.

Intrecciando approccio storico e approccio metafisico, il film di Kubrick mette a fuoco il problema dell’origine e del senso della guerra: si tratta di un confronto tra interessi incompatibili o, più profondamente, dell’affermazione, da parte dei forti, della loro superiorità sui deboli? Superando l’inchiesta storica, troppo legata ai fatti e alla loro spiegazione, il cinema pone una questione essenziale alla quale nessuno è in grado di rispondere.

Fonte: «Arte, Musica, Spettacolo. Annali del Dipartimento di Storia delle arti e dello spettacolo dell’Università di Firenze», a. II 2001, pp.135-39

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