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ARANCIA MECCANICA E LOLITA: KUBRICK REPLAY

Le riedizioni di Lolita e di Arancia Meccanica: il cinema come "magnifica ossessione", la componente ludica della violenza in una messa in scena "assoluta" delle nostre pulsioni e illusioni culturali.

Cose che non (ri)conosciamo

di Giorgio Cremonini

Quando si parla di Kubrick, sembra inevitabile parlare di tutti gli incroci possibili fra le materie del linguaggio cinematografico: cinema e musica, cinema e arti figu­rative, ma soprattutto, verrebbe da dire, cinema e lettera­tura. Visto infatti che quasi tutti i suoi film sono tratti da romanzi, è difficile trovare un’occasione più ghiotta per i tanti convegni su letteratura e cinema che vanno prolife­rando negli ultimi anni (1). Arancia meccanica, di cui vie­ne proposta la riedizione dopo quasi trent’anni dalla pri­ma, è tratto da un romanzo di Anthony Burgess del 1962 (2), diventato famoso sia per l’impiego estemporaneo del linguaggio, sia per la scabrosità della storia che porta tra l’altro il protagonista cattivo a finir bene: questa scabro­sità viene raddoppiata dalla messa in scena, che molti considerano “compiaciuta” grazie a uno stupro effettuato al suono di «Singin’ in the Rain» e a un omicidio commesso con un grosso fallo di plastica bianca usato come sopram­mobile. Ma i tempi, si sa, cambiano e questo stesso com­piacimento viene oggi considerato da più parti “datato”, quindi innocuo, come se la forma, priva dell’esplicitazione splatter dei nostri giorni, bastasse a rendere più tranquillizzante una pulsione radicale come quella messa in scena da Kubrick. In realtà, al di là di osservazioni spesso pretestuose, Arancia meccanica si presenta sotto una duplice veste, diacronica e complementare: una rifles­sione sulla natura umana in sé e una riflessione sul modo in cui la rivive la cultura occidentale all’inizio degli anni Settanta: ma questa seconda “datata” prospettiva discen­de inevitabilmente dalla prima.

L’occasione romanzesca
Quasi dieci anni separano il romanzo di Burgess dal film di Kubrick, a parziale dimostrazione di come il primo non sia, malgrado le apparenze, troppo legato al suo tem­po, agli anni Sessanta o alla swingin’ London. In parte lo è il nadsat, la lingua artificiale inventata per l’occasione da Burgess, fatta di frammenti di lingue straniere e di uno slang giovanilistico che oggi appare inevitabilmente obso­leto, ma solo se esaminato da un punto di vista per così dire cronachistico: più in profondo, il ricorso a un linguaggio non convenzionale all’origine, ma destinato a diventar­lo subito con la diffusione bocca a bocca, è proprio delle nuove generazioni, di un gioco che pensa di impossessarsi del mondo attraverso il linguaggio (3).
Da un lato è stato proprio questo linguaggio, nella sua sfrontata estemporaneità, a stimolare Kubrick, spingendolo a immettere nel film tutti i possibili “trucchi” linguistici di cui fosse a conoscenza, alla ricerca di «un equivalente cinema­tografico dello stile letterario di Burgess e del punto di vista soggettivo di Alex». Ecco allora l’uso dell’accelerato (l’orgia al suono della celeberrima cavalcata dal «Guglielmo Tell» di Rossini); del’ rallentato (la sequenza sul fiume, al suono dell’ouverture della «Gazza ladra», ancora di Rossini; l’esibizione finale di Alex, con l’«Inno alla gioia»); il montaggio subliminale dello stupro, con un effetto cartoon che rimanda alle sta­tuette del Cristo che balla; la camera a spalla, con quei tre­molii e ondeggiamenti così lontani dalla staticità teatrale di certe riprese; le opposizioni simmetrico-speculari delle sogget­tive e del camera look; la deformazione prospettica del grandangolo; gli effetti elettronico-deformanti imposti alle musiche stesse (non solo Rossini, ma anche lo stesso Beethoven); e soprattutto il continuo, ossessivo cambio di marcia del film, attraverso un recupero di procedimenti linguistici, premonitore di quel pot pourri che sarà il post-moderno.
Il romanzo di Burgess è in prima persona, ma sappiamo bene che la macchina da presa non può dire io, se non in sal­tuarie soggettive (che ci sono, ma non bastano a rovesciare la percezione sostanzialmente oggettiva del cinema). Se ci mostra un punto di vista soggettivo, lo fa attraverso la conta­minazione della propria oggettiva vocazione all’esteriorità. Kubrick però approfitta di questa divaricazione ontologica (la differenza letteratura/cinema) e ci mostra sin dalla prima sequenza (l’autopresentazione di Alex) il massimo dell’interio­rità (l’io della voce narrante) insieme al massimo dell’e­steriorità (la distanziazione progressiva dal primissimo piano di Alex alla sua riduzione a elemento indistinguibile del décor). Il romanzo di Burgess diventa così innanzitutto l’occa­sione per rimettere in discussione e sperimentare l’intero sta­tuto comunicativo del linguaggio cinematografico. Forse solo Jonathan Demme saprà in seguito fare altrettanto, per esem­pio giocando sui meccanismi percettivi azionati dal montag­gio alternato in Il silenzio degli innocenti (The Silence of the Lambs, 1991) oppure con le esplicitazioni argomentative del camera look in Philadelphia (id., 1993). Quella parte di post­moderno che già intuisce Kubrick sta proprio nel ripercorrere il passato non tanto come insieme di citazioni, quanto di pro­cedimenti: come un magma informe di segni da rimettere in circolo, non con la disinvoltura dei nostri giorni, bensì con una insistenza indagatrice che ha dell’ossessivo.
In Shining (id., 1979), nel Dottor Stranamore (Dr. Strangelove, 1963) o in Full Metal Jacket (id., 1987). le diffe­renze coi romanzi sono molto più nette che in Arancia mecca­nica (4). A rileggere il romanzo di Burgess ci si stupisce infat­ti di come il film lo ripeta passo per passo (mancano solo l’aggressione all’insegnante coi suoi libri e l’omicidio in carcere, ma sembrano solo tagli di ridondanze). Ritroviamo la simme­tria strutturale del plot (l’ascesa di Alex; la sua caduta; la pri­gione; la nuova caduta; la nuova ascesa); ritroviamo gli stessi personaggi (i Droogs, l’assistente sociale, i familiari, la donna dei gatti, il cappellano, Mr. Alexander, il primo ministro, persino la donna che canta l’«Inno alla gioia» nel Korova Milk Bar, persino la banda di Billy Boy), a volte anche gli stessi oggetti (la Durango 95 con cui i Droogs scorrazzano in cerca di svaghi). Se non ritroviamo il finale del romanzo, quell’happy end così posticcio e insopportabile, è solo perché Kubrick ha lavorato su una edizione da cui quel capitolo era ancora fortunatamente assente.
Anche per quanto riguarda la musica, l’idea è già presente in Burgess. Certo, qui i riferimenti comprendono alcuni titoli sulla cui reale esistenza è quanto meno lecito dubitare («Das Bettzeug» di Friedrich Gitterfenster [p. 38]; «Il nuovo concer­to per violino dell’americano Geoffrey Plautus, suonato da Odysseus Choerilos con la Macon Philarmonic» [p. 43]; la Sinfonia n. 2 di Adrian Schweigselber [p. 97]; la Sinfonia n.3 di Otto Skadelig [p. 1921; una versione “Nona” eseguita dalla Esh Sham Sinfonia diretta da L. Muhaiwir [p. 54] – e per i quali, tacendo “garzantine” & co., sarebbe quanto meno necessaria la consulenza di Comuzio), ma accanto a questi ci sono la «Jupiter» e la “Praga” di Mozart [pp. 44-45 e p. 163], i concerti brandeburghesi e la corale «Wachet Auf” di Bach [pp. 45 e 99] e infine la Sinfonia n. 9 di Beethoven. C’è insomma l’idea di fondo (l’esigenza della musica), ma cambiano i particolari: in realtà la differenza maggiore sta nel fatto che in un libro un brano musicale è solo un titolo, cui la memoria può aggiungere qualche emozione residua, mentre in un film tutto cambia, perché la musica vera è lì, sopra le immagini, e le emozioni sono riportate alla loro sacrosanta attualità. Fare cinema, in fondo, significa dare corpo audiovisivo a ciò che la parola – romanzo o sceneggiatura che sia – può soltanto evo­care. Che cosa sarebbero Quei bravi ragazzi (Goodfellas, M. Scorsese, 1990) o Mac (id., J. Turturro, 1992) o il già ricordato Philadelphia, se non potessimo sentire la musica lirica di cui sono anche fatti? Non un fondo sonoro, si badi bene, non un commento più o meno colto: no, un vero e proprio supporto strutturale, che va ben oltre gli effetti acustico-emotivi. Per dirla in poche parole: anni luce lontano da Fantasia (id., W. Disney, 1940) e da tutta Hollywood.

L’uomo: un bambino che gioca da solo
Un romanzo diventa così l’occasione per fare cinema e per parlare di cinema, ma anche per parlare dell’uomo. Il rappor­to è lo stesso: un film sta al cinema come un personaggio sta all’uomo. Un uomo che Kubrick considera in astratto, immes­so in narrazioni volutamente esemplari che hanno evidenti punti di riferimento nel romanzo settecentesco (Voltaire e Swift in primo luogo). È lo stesso regista a sottolineare l’arti­ficiosa pretestuosità della trama, il suo eccesso di simmetria, che «è uno degli aspetti più brillanti del romanzo», ma anche legato a «una serie di coincidenze inconcepibili in un film rea­lista». Il plot ha la funzione di organizzare sintatticamente la riflessione e l’argomentazione. Paradossalmente, per quanto pieno di segnali d’epoca come un museo della pop art, Aran­cia meccanica sfugge alla griglia rigida delle connotazioni: fotografa un qui ed ora esemplare in quanto occasione di un discorso più generale sull’Uomo, il mondo e la vita. Quel museo è in sé la Cultura, ovvero l’impotenza dell’Uomo a governare la propria Natura. Il presente non cancella il tem­po, lo riassume: ciò che l’Uomo è occasionalmente, lo è anche ontologicamente.
Il dualismo irrisolto (il contatto fra il sempre naturale dell’umanità e il qui ed ora culturale della storia) è perfet­tamente riassunto nella figura del “selvaggio” che ama Beethoven e l’«Inno alla gioia», forse il suo pezzo più noto, mentre gli scienziati del cervello non lo conoscono; oppure in un oggetto d’arredamento fatto a imitazione di un fallo e tra­sformato in arma mortale. In Arancia meccanica quest’uomo incompleto ha il volto contraddittorio e diacronico di Malcolm McDowell, giovane e vecchio allo stesso tempo. Sesso e vio­lenza seguono standard suggeriti dalla cultura di massa (i sogni stessi di Alex lo dichiarano). La violenza non ha altro scopo che se stessa (Alex conserva tutti gli oggetti trafugati e invenduti, come souvenir, svincolati da ogni profitto). Anche la pulsione erotica non prefigura mai un oggetto vero e proprio, ma colpisce a caso, obbedendo a una libido fine a se stessa, autosufficiente e cieca, indifferente e indifferenziata. L’ultraviolenza è un gioco infantile, dominato da impulsi primari, ma applicato a un mondo di cui vuole impossessarsi comportandosi come se fosse suo, non come un mondo da divi­dere con altri. In questo comportamento naturale in quanto infantile, lo stupro diventa un balletto, il fallo un oggetto d’arredamento, e questo a sua volta diventa prima un giocat­tolo (Alex ne ammira ripetutamente il funzionamento mecca­nico) e poi un’arma; anche la maschera, simile a quella di Sterling Hayden in Rapina a mano armata, fa parte del gioco di imitazione (ci si maschera per essere altri da sé, prima ancora che per nascondersi).
Non ci sono compiacimenti nel cinema di Kubrick, spietato nel prendere le distanze – ironicamente, grottescamente – da ciò che ci mostra. Alex è la caricatura dell’istinto, della vio­lenza e della sessualità, della espressione non ancora sovrastrutturata del potere: dell’uomo naturale immesso in un cir­cuito culturale insufficiente. Al tempo stesso, di conseguenza, è anche la caricatura del mondo che lo circonda, la nostra caricatura. La sua passione per i B-movies (tutti regolar­mente anonimi: non citazioni, ma evocazioni e simulazioni) esula da ogni presa di coscienza morale o estetica, è la pas­sione indifferenziata e solo apparentemente naïve della cultu­ra di massa. La sua sessualità è la forma iperbolica e fumetti­stica della nostra sessualità, una miscela di oscenità e imma­turità. L’ultraviolenza di cui parla e che pratica risponde almeno in parte – nella parte non ancora del tutto sottomessa dal contratto sociale – al desiderio di violenza che riaffiora, come un gioco innocente e di finzione, nei nostri pensieri e comportamenti. Ad Alex non piacciono né i barboni, né i vec­chi, ed esercita su di loro la stessa violenza che riserva alle donne – tutti esseri inferiori. Vive la propria libido in forme immature, infantilmente indifferenziate, come un bambino che sostituisce all’apprendimento e alla conoscenza l’aggres­sività, la fuga o il distacco, che non sembra mai prendersi sul serio, tranne che durante la «cura Ludovico», cerniera che segna il passaggio paradossale dalla fase adolescenziale a quella di una presunta maturità: l’integrazione nelle istitu­zioni passa attraverso una sorta di castrazione psichica e i suoi occhi si spalancano con un crescente terrore infantile di fronte al nuovo mondo che gli viene spalancato davanti-dentro (non c’è in realtà nessuna presa di coscienza, nessuna vera e propria maturazione, bensì un eterodiretto con­dizionamento biologico).
Il suo stato infantile è esplicitamente dichiarato nel finale, quando viene imboccato dal Ministro degli Interni, che lo compra regalandogli un giocattolo più grande e più bello dei precedenti, ma soprattutto quando può sognare se stesso al centro di un palcoscenico senza confini, tutto ciò che insomma per lui è il mondo: un mondo di oggetti, con cui nessuna comunicazione è possibile.
L’uomo-bambino di Arancia meccanica non respira altro che solitudine: il suo spazio è quello di una serie di celle d’iso­lamento, di frammenti apparentemente incomunicabili tra loro, monadici, del tutto funzionali alla solitudine dei perso­naggi (5). Ciascuno dei luoghi presenti (il bar, la casa, il Ta­migi, il carcere, ecc.) si lega strettamente ed esclusivamente all’azione di cui è scena, non induce alcuna continuità, alcun contatto – luogo della reclusione in cui tutto si consuma. Il Korova Milk Bar è il luogo di ritrovo dei Droogs; le case assal­tate disegnano la freddezza di habitat ideali per un intellettuale velleitario e ipocrita o per una donna non più gio­vane e istericamente aggressiva; quella dei genitori di Alex ha la calda, variopinta disponibilità al cattivo gusto e al kitsch di un ideale, squallido interno piccolo-borghese, per di più chiuso in un isolato numerato, come per i carcerati (il piccolo mondo antico di tanti più recenti film inglesi, tipo Frears e Loach); la stanza di Alex è chiusa con una serratura-cassaforte; e infine la prigione, la cella della clinica, la stanza da bagno di Mr. Alexander… Se c’è contiguità con l’esterno, è solo metaforica, allusiva, come può esserlo una sala di museo. Arancia meccanica è un film fortemente claustrofobico, anche alla lettera senza vie d’uscita. L’uomo kubrickiano è un animale solitario costretto dalla proliferazione a vivere in società, per il quale non esiste possibilità di integrazione.
È difficile chiamarsi fuori di fronte a una messa in scena così generale e precisa, così assoluta, delle nostre pulsioni e della contraddittorietà ipocrita delle nostre illusioni culturali. Se anche non ci riconosciamo direttamente in Alex, non pos­siamo non riconoscerci nel gioco perverso di contraddizioni che lo governa. Così come i protagonisti di Rapina a mano armata non erano altro che dei borghesi con i loro problemi economici e familiari, e i soldati di Orizzonti di gloria non erano che degli uomini destinati a scoprire una vita ingiusta ed eterodiretta, anche Alex non è che la proiezione di quello che siamo noi, i bastardi di un connubio impossibile fra Natu­ra (il cervello, l’inconscio, l’erotismo, la pulsione di morte) e Cultura (l’ordine sociale, la cultura).

I figli di Alex
Nei quasi trent’anni (una o due generazioni, insomma) che ci separa­no da Arancia Meccanica le cose sono ovviamente cambiate e non è pensa­bile che folle isteriche e puritane si scatenino contro il film come allora: addirittura oggi la sua visione viene vietata solo ai minori di 14 anni. Di fronte a uno schermo che è venuto riempiendosi di serial killer e di effe­ratezze splatter, Alex De Large sem­bra quasi un ragazzo maleducato, che – ancora una volta contraddittoriamente – fa di tutto per ultraviolentare il prossimo, ma alla fine uccide senza volere. Un uomo-bambino irresponsabile, insomma. Questo, sia chiaro, non lo giustifica, ma spiega che per lui la violenza è un gioco, come buttare sassi su un’autostrada e guardare chi si colpi­sce, assistere a un incontro di “rou­lette russa” puntando su Christopher Walken, sparare a una passante da una finestra dell’università, investire in macchina piccole zingare, rapire e violentare bambini, uccidere giovani donne per farsi un vestito di pelle umana: così, insomma, non si cresce e la vita oscilla fra un videogame e un B-movie. Anche quello del serial killer è in fondo un gioco, sospeso fra la dama e il gioco dell’oca (in cui i corpi umani sono le pedine o le caselle, ma le mosse sono estemporanee e i dadi li getta un giocatore solo), un rebus regressivo sospeso fra il colto catechismo di Seven (id., D. Fincher, 1995) e il narcisismo istintuale del Silenzio degli in­nocenti. E non è un gioco con bambole umane quello di Buffa­lo Bill?
La modernità di Arancia meccanica sta proprio nell’avere intuito e realizzato visivamente tutta la componente ludica di una violenza che non è necessità né malattia (le grandi, ipo­crite giustificazioni del passato), ma divertimento, gioco d’im­maginazione che non ha e non vuole regole (nel gioco si può sempre ricominciare tutto daccapo, anche la vita: e se questa, soprattutto quella degli altri, non ricomincia, pazienza, era solo un gioco).
Non stupisce nemmeno più che il Selvaggio-che-è-in-noi sia destinato a collaborare con il Potere, cioè con il suo doppio (Hannibal the Cannibal viene assunto come consulente dall’Fbi), né che l’immaginario elementare di Alex sia un’onda lunga della storia di cui fanno parte anche i giovani prota­gonisti di Cuore selvaggio (Wild at Heart, D. Lynch, 1990 ): non è Beethoven a fare la differenza, l’«Inno alla gioia» è un piacere estetico che non ha nulla a che vedere con l’etica e in questo vale quanto uno stupro (solo il ladro di Greenaway continuerà a riviverlo nella vecchia forma ancora “barbara”).
La sola differenza sta semmai nel fatto che, grazie alla sua voce monocentrica (l’io, ovviamente più forte nel romanzo che non nel film), Alex vive ancora una forma di coscienza di sé che i suoi figli non si porranno più, per accettare disperata­mente di essere sempre altri da sé, eterodiretti e condizionati come in Strange Days (id., K. Bigelow, 1995). Nel melange postmoderno è il linguaggio in sé che parla, non il soggetto (nemmeno i flash subliminali dell’inconscio nella sequenza dello stupro): le geometrie fictional di Tarantino mettono in scena un’astrazione ancora maggiore di quella, tutta filosofica, di Kubrick. Sul tavolo da gioco non c’è più posto nemmeno per l’Uomo e forse per questo oggi Arancia meccanica non è più così provocatorio come una volta: parla di cose che non (ri)conosciamo.

(1) Tra gli ultimi ricorderò appunto quello organizzato da Antonio Costa a Bologna nell’aprile di quest’anno, cui ho avuto l’onore di essere invitato.
(2) A. Burgess, A Clockwork Orange. Heinemann Ltd, Londra 1962: trad. it. di Floriana Bossi, Arancia meccanica, Einaudi, Torino 1969. L’edizione italiana qui citata è quella del 1996, in cui è presente anche una intervista di M. Ciment (pp. 225-235) cui si devono le dichiarazioni di Kubrick qui riportate. La derivazione letteraria è l’unica prospettiva che non ho preso in conside­razione quando mi sono occupato di recente del film (Stanley Kubrick. L’aran­cia meccanica, Lindau, Torino 1996): riferimenti a questo volume sono inevi­tabili, anche se il punto di vista del discorso è almeno in parte diverso.
(3) Se questa strana lingua rende l’originale di difficile lettura, la traduzione italiana è probabilmente ancora più ostica, visto che si sente in dovere di gareggiare con lo stesso Burgess in quanto a invenzioni linguistiche e scrive cose ancora più illeggibili di lui: non si può, per esempio, fare a meno di chie­dersi perché mai «Dim» diventi «Bamba» (termine dialettale forse chiaro nella Lombardia di una volta, ma oggi?), i «droogs» «soma», il «Korova Milkbar» che vende «latte-più» diventi «un posto di quelli col latte corretto» – e via dicendo.
(4) Di ogni romanzo Kubrick conserva quella «parte magica» che chiama «invenzione». In particolare «scrivere una storia come quella di Burgess, con dei personaggi unici e un interesse narrativo che non perde mai forza, è una specie di miracolo. La sceneggiatura è una creazione più logica. Non richiede l’ispirazione necessaria a scrivere una storia. […] Credo di poter rendere realistiche le scene o scrivere i dialoghi meglio di chiunque altro, secondo le mie esigenze. Ma se si tratta di scrivere una storia, nessuno può farlo su ordinazione. Se si inizia con una storia che già esiste, che si ha sotto gli occhi, si par­te da una base molto solida […], Partendo da una vicenda ricca di forza narra­tiva, si ha la libertà di sperimentare in altri ambiti». È chiaro che qui Kubrick non parla solo in quanto sceneggiatore, bensì in quanto regista di qualcosa cui deve ancora dare forma, ma la cui intuizione è già tutta nelle parole che for­mano il romanzo.
(5) Come già nel Dottor Stranamore e in 2001 Odissea nello spazio, anche in Arancia meccanica «i personaggi vivono in mondi chiusi, isolati, come reclusi in alveoli che non comunicano tra loro» (M. Ciment, Kubrick Milano Libri Milano 1981. p. 107).

Arancia meccanica
Titolo originale: A Clockwork Orange.
Regia e sceneggiatu­ra: Stanley Kubrick.
Soggetto: dal romanzo «A Clockwork Orange» di Anthony Burgess.
Fotografia: John Alcott.
Montaggio: Bill Butler.
Musica:
Ludwig van Beethoven (Sinfonia n. 9 in re minore op. 125);
Edward Elgar («Pomp and Circumstance», marce n. 1 e 4);
Gioacchino Rossini (Ouvertures da «La gazza ladra» e «Guglielmo Tell»);
Terry Tucker («Ouverture to the Sun»);
Henry Purcell («Music for the Funeral of Queen Mary»);
James Yorkston («Molly Malone»);
Arthur Freed & Nacio Herb Brown («Singin’ in the Rain»);
Nicolaj Rimsky-Korsakov («Sheherazade»);
Erika Eigen («I Want to Marry a Lighthouse Keeper»).
Musiche ori­ginali e arrangiamenti elettronici: Walter Carlos.
Suono: Brian Blamey.
Scenografia: John Barry.
Arredamento: Russell Haag & Peter Shields.
Pitture e sculture: Herman Makkink, Cornelius Makkink, Liz Moore, Christiane Ku­brick.
Costumi: Milena Canonero.
Interpreti: Malcolm McDowell (Alex De Large), Patrick Magee (Mr. Alexander), Adrienne Corri (sua moglie), Michael Bates (il capoguardia), Warren Clarke (Dim), John Cive (l’attore della “prova”), Carl Duering (il dottor Brodsky), Paul Farrell (il barbone), Clive Francis (Joe), Michael Gover (il direttore della pri­gione), Miriam Karlin (la “signora dei gatti”), James Marcus (Georgie), Aubrey Morris (l’assistente sociale Deltoid), Godfrey Quigley (il cappellano), Sheila Raynor, Philip Stone (i genitori di Alex), Madge Ryan (dottoressa Branom), Anthony Sharp (il ministro), Lindsay Campbell (l’ispettore), Virginia Wetherell (la ragazza della “prova”), Gillian Hills, Barbara Scott (le ragazze del negozio di dischi), Pauline Taylor (la psichiatra), John Savident, Margaret Tyzack (gli oppositori del governo), Steven Barkoff, Michael Tarn, Cheryl Grunwald, Katya Weith, John L. Carney, Vivienne Chandler, Jan Adair, Prudence Drage.
Produzione: Stanley Kubrick per Warner Bros/Hawk Film/Polaris Production.
Distribuzione: Warner Bros.
Durata: 137′.
Origine: Gran Bretagna, 1971.

Dopo una serata trascorsa al Korova Milk Bar, Alex e i suoi compagni Dim, Georgie e Pete picchiano un barbone irlande­se, ingaggiano in un teatro abbandonato una lotta feroce con una banda rivale che sta violentando una ragazza e infine raggiungono la casa dei signori Alexander, dove immobi­lizzano l’uomo e violentano sua moglie, al canto di «Singin’ in the Rain». Fatto ritorno a casa, Alex si risolleva il morale ascoltando la Nona di Beethoven. Al mattino seguente, deci­so a non andare a scuola, riceve la visita dell’assistente sociale Deltoid, che lo sospetta per gli incidenti della notte precedente. I problemi maggiori glieli danno però i suoi compagni, mettendo in discussione il suo ruolo di capo. Lui finge di accettare almeno in parte le loro proteste, ma poi, passeg­giando lungo il Tamigi, ristabilisce l’ordine picchiandoli. Dopo un’ennesima scorribanda in casa di una donna, Alex viene stordito dai suoi stessi compagni, arrestato e condotto in carcere con l’accusa di stupro e omicidio.
Dopo due anni di reclusione sente parlare della cura “Ludo­vico” che dovrebbe permettere a un detenuto di ottenere rapi­damente la libertà e decide di sottomettervisi. Entra così nel­la clinica del dottor Brodsky, dove viene trattato con psico­farmaci e sottoposto a visioni coatte di film di violenza e documentari sulle parate naziste. La sua reazione è una nausea violenta e disperata – che scatta anche a sentire la Nona di Beethoven, usata come fondo sonoro.
Terminata la cura, di nuovo libero e guarito, Alex torna a casa, ma trova la sua stanza abitata da un altro giovane, di cui i suoi genitori sono molto fieri. Vagabondando deluso e amareggiato lungo il Tamigi, incontra il barbone che ha pic­chiato all’inizio e che adesso si vendica. Viene salvato da Dim e Georgie, diventati poliziotti, che lo caricano su un fur­gone, lo portano in aperta campagna e lo picchiano tenendogli la testa immersa in un abbeveratoio.
Disperato e sanguinante, Alex raggiunge nuovamente la casa di Mr. Alexander: questi lo accoglie dapprima con sim­patia, ma soprattutto con l’intenzione di sfruttare il suo caso per un attacco al governo, poi, dopo averlo sentito cantic­chiare «Singin’ in the Rain», lo riconosce e decide di vendi­carsi. Drogato durante un pasto, Alex si risveglia al suono della Nona che adesso odia. Nausea e disperazione lo spingono a tentare il suicidio gettandosi dalla finestra. Si risve­glia tutto ingessato in ospedale, dove apprende che gli effetti della cura “Ludovico” sono ormai svaniti. Viene a fargli visi­ta anche il Ministro degli Interni: un patto di collaborazione fra i due garantirà ad Alex uno stipendio e al Governo la possibilità di salvare la faccia. «Ero guarito, eccome!», sono le ultime parole di Alex, mentre da un imponente stereo regalategli dal Ministro fuoriescono le note trionfali dell’«Inno alla gioia».

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La versione italiana

Intervista a Mario Maldesi e Riccardo Aragno

Signor Maldesi, lei è il direttore di doppiaggio degli ulti­mi quattro film di Kubrick (da Arancia Meccanica a Full Metal Jacket e del prossimo Eyes Wide Shut. Potrebbe dirci quando e come entrò in contatto con Mr. Kubrick la prima vol­ta?

Fui chiamato dalla Warner per conto di Kubrick nel 1971, per Arancia Meccanica. Fu Fellini, credo, a consigliare diret­tamente a Kubrick di rivolgersi a me. All’epoca mi occupavo soprattutto di film italiani – e quindi di post-sincronizzazione piuttosto che di doppiaggio – per Visconti, Monicelli, De Sica, Rosi, Petri… Le poche volte che avevo fatto un vero e proprio doppiaggio per dei film stranieri, pretendevo di seguire la fase finale di missaggio. Mi dissero che Kubrick missava a Londra, da solo, con pochi e stretti collaboratori. Nella mia presunzione e nel mio entusiasmo di allora dissi che non avrei fatto il film. Kubrick lavora con tutte le colonne separa­te ed avevo paura che non conoscendo l’italiano potessero esserci dei problemi. Quando Kubrick seppe che mi rifiutavo mi scrisse una lettera in cui, spiritosamente, mi disse che non avrebbe sciupato il mio lavoro. Mi fece sentire quasi ridicolo. Da allora il nostro rapporto non si è più interrotto.

Come si comporta Mr. Kubrick riguardo alla scelta degli attori per il doppiaggio e dei provini voce?

Il suo modo di lavorare con i collaboratori è semplice, ma deciso: si fida, ma non si affida. Pretende di essere sempre presente, di poter intervenire su ogni scelta. Per lui il dop­piaggio italiano non è una sorta di protesi, come per molti altri, ma un momento costitutivo della produzione del film, che in questa fase comincia a parlare italiano.

Ci parla di Arancia Meccanica?
Giancarlo Giannini – che poi doppiò Jack Nicholson in Shining e Ryan O’Neal in Barry Lyndon – fece anche il provi­no per Arancia Meccanica, ma Kubrick non lo scelse, e gli preferì Adalberto Maria Merli. Adalberto aveva questo cini­smo nella voce, questo fascino diabolico che Giancarlo allora non aveva. C’era una sorta di “disumanità” nella voce di Adalberto, perfetta per l’ambiguità di Malcolm McDowell/Alex de Large, criminale senza coscienza vestito di bian­co “purezza”.

E il Nadsat?
Questo dovete chiederlo a Riccardo Aragno, il lavoro gros­so di traduzione dall’originale è merito suo. Io mi sono limita­to a riadattare il linguaggio per la sincronizzazione e a fare in modo che i doppiatori lo possedessero come una lingua naturale, creata da loro stessi. E non è stato facile.

Professar Aragno, domanda di rito: come ha conosciuto Stanley Kubrick?

Stanley ci aveva invitato ad un party nella sua villa. Ci siamo conosciuti a tavola, Peter Sellers stava finendo Lolita ed io stavo scrivendo un film per lui, The Millionaires.

Come avvenne il contatto per Arancia Meccanica?

Ormai io e Stanley eravamo diventati amici. A mio giudi­zio non mi contattò per nessun motivo salvo il fatto che non si è mai discusso che fosse un altro che poteva farlo. Io conosce­vo l’autore del romanzo, Burgess. Ce l’avevo dentro, bastava renderlo nella mia altra lingua. Le ragioni che indussero Stanley a scegliere me, comunque, credo siano legate al mio passato di critico cinematografico radiofonico per la Bbc e alla mia professione di scrittore di commedie, film, saggi, romanzi, racconti nelle due lingue. Inoltre il linguaggio di Arancia Meccanica, il Nadsat, è composto di neologismi rea­lizzati con radici della lingua russa, che era un tipo di cultura che io frequentavo occasionalmente anche perché avevo mia figlia al Teatro Bolscioi. Per me era un gioco reinventare que­sta nuova lingua. Bisognava entrare in uno spirito infantile e nello stesso tempo “internazionale”. Con Stanley abbiamo in comune una qualità: essere sradicati dal luogo di nascita e quindi abituati ai “movimenti” della lingua, del suono. Io, cre­do che gli sradicati possiedano il linguaggio del futuro. È un pericolo restare provinciali, nazionali. Per me inventare quel linguaggio era un gioco al quale Stanley partecipava volentie­ri, anche se non parlava altre lingue eccetto le due variazioni dell’inglese.

(interviste tratte dal documentario per la televisione Stanley & Us, in fase di lavorazione da settembre ’97 – servizio a cura di Federico Greco)

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Il possesso di un’immagine

di Adriano Piccardi

Sue Lyon (Dolores Haze \ Lolita) and James Mason (Humbert Humbert)

Il momento in cui Lolita, prima di salire in automobile e partire per il campeggio femminile a cui l’ha destinata la madre, sale di corsa al primo piano per dire addio con un bacio al professor Humbert e per chiedergli di non dimenti­carla, è quello in cui si stabilisce in maniera definitiva la rovina del povero professore. Nella crudele parodia di quel luogo narrativo fondamentale del mèlo, che è la separazione forzata degli amanti, si riflette tutta la componente infantilmente romantica del legame ancora soltan­to virtuale, che la ragazzina ha elaborato nei confronti del maturo inquilino; la situazione è discretamente ridicola, ma Humbert non se ne avvede e firma in que­sto modo la sua condanna. Inebriato da quella richiesta e dal sapore di quel bacio, coglierà al volo l’occasione contenuta nel messaggio che la madre di Lolita gli ha lasciato, sentendosi ormai come un anima­le da preda che abbia fiutato la presenza della sua vittima. Patetica eccitazione senile? Ci ritorneremo.
Nel romanzo di Nabokov, l'”ingenuità” dell’uomo, che lo fa equivocare grottesca­mente sul gesto impulsivo e troppo platea­le di un’adolescente, portandolo a interpre­tarlo come l’invocazione di una donna innamorata, è a quel punto della vicenda abbondantemente resa comprensibile dalla narrazione delle vicissitudini sentimentali e sessuali di Humbert giovane, che costi­tuiscono l’antefatto e forniscono i dati necessari a comprendere la fissazione ossessiva sulle ragazzine, che ne accompa­gnerà l’esistenza. Nabokov figura nei credits come unico responsabile della sceneggiatura, ma tutti sanno che il film è il risultato di un drastico lavoro a togliere (e in qualche caso ad aggiungere di sana pianta) da parte di Kubrick, condotto su un adattamento fluviale in cui il grande scrittore si dimostrava poco comprensivo nei confronti delle regole della narrazione cinematografica.
Ciò che si può dire con la scrittura in molte pagine può essere concentrato al cinema in un’inquadratura. E quanto avviene nel nostro caso, nel corso della prima sequenza del film, ed esattamente nel momento cruciale in cui Humbert finisce Quilty, scaricandogli addosso il secondo caricatore del revolver appartenuto un tempo al defunto signor Haze, padre di Lolita. Nel romanzo l’esecuzione di Quilty si conclude nel letto, fra le cui coperte la vittima cerca un ultimo, inutile, rifugio; la soluzione di Kubrick semplifica le cose dal punto di vista dei tempi e del percorso, togliendo di mezzo l’itinerario che avrebbe condotto dalla sommità della scala alla camera, e contemporaneamente sviluppa una complessità significante in cui trovano spazio non solo le motivazioni dell’ossessione di Humbert, ma anche quelle della condanna a morte di Quilty, nonché una considerazione non secondaria di Kubrick sull’essenza del cinema. Consideriamo innanzitutto il dato: i proiettili attraversano la tela di un ritratto di damina settecentesca prima di conficcarsi nel corpo nascosto di Quilty. Quella damina ha boccoli biondi e copricapo a larghe tese, esattamente come Lolita nella sua prima apparizione agli occhi di Humbert, immersa a sua volta nell’arcadia doppia­mente artificiosa, costituita dal giardino domestico, di cui mamma Charlotte va così fiera. La damina del ritratto è dunque la diretta trasposizione di Lolita. Sul piano dell’intreccio il quadro anticipa la comparsa della fatidica ragazzina, men­tre al livello della fabula accomuna per procura nell’esecuzio­ne Quilty alla ninfetta fedifraga. Non solo; per tornare al punto da cui eravamo partiti, se assumiamo il punto di vista di Humbert abbiamo la conferma di ciò che lui ha sempre cer­cato, in fin dei conti, nella relazione fisica con Lolita: il pos­sesso esclusivo di un’immagine (ecco recuperata Lolita come ossessione, come “fantasma”; ecco la funzione dei colpi che la penetrano, in una “ricongiunzione” definitivamente metafori­ca). E naturalmente il punto di vista può essere rovesciato: dietro la presenza pervasiva di Lolita agli occhi di Humbert, Quilty si è sempre celato con l’intenzione di utilizzarla, ridu­cendola a immagine da consumare in quel rapporto feticisti­co, una volta per tutte scoperto, che lega lo spettatore al cinema porno (il film “artistico” che – lo verremo a sapere molto più tardi – Quilty avrebbe voluto realizzare con la ragazza). Progetto condotto a termine ironicamente, lo abbiamo visto soltanto ricevendo i colpi che azzerano una volta per tutte la sua sbrigliata creatività.
Questione di punti di vista, appunto. Naturalmente è quel­lo di Kubrick stesso che prevale e organizza tutti gli altri. Vedere in Quilty l’alter ego del regista può essere corretto, a mio avviso, soltanto annettendo a questa funzione una com­ponente parodica, sulla quale Kubrick dichiara da subito la superiorità di un controllo, che è prima di tutto controllo del senso complessivo, capacità di lettura dei dati e di una loro organizzazione estetica e concettuale, che Quilty non possie­de, perché il suo punto di vista risulta disturbato da una pro­pensione insopprimibile a negarne la realtà sostituendola con quella dei suoi motti di spirito che li distorcono senza annul­larli, esattamente come il suo trasformismo sfrenato nascon­de dietro lo scintillio del divertissement, sia pure crudele nei confronti di Humbert-bersaglio, le vere motivazioni da cui è spinto.
Questione di punti di vista: quello di Kubrick viene dichiarato subito, incalzante e ironico nell’inseguimento di Humbert che a sua volta si butta nella nebbia (per l’ennesima volta, verrebbe da dire, riguardo alla fabula: Haze, cognome di Lolita, letteralmente sta per “foschia”, “nebbia leggera” e, di conseguenza, “confusione mentale”) per andare a raccoglie” il frutto della sua disperata gelosia. In apertura, quella nebbia è, prima di tutto, una cifra interpretativa che il film si incaricherà poi di chiarire: la perentorietà dell’enunciazione è data dalla posizione della m.d.p. rispetto all’oggetto dell’in­quadratura, che ingenera ineluttabilità – un occhio del desti­no (o di Dio, per chi vuole), che ritornerà con ben più enfasi (come è giusto che sia, dal momento che il genere di riferi­mento sarà in quel caso l’horror) nell’incipit di Shining.
Il fatto è che se Humbert e Quilty lavorano instancabil­mente per riuscire ad offrire agli altri un senso fasullo dei propri gesti e delle proprie parole, al fine di nascondere quel­lo vero a cui mirano come realizzazione di una sorta di capo­lavoro privato, Kubrick si misura con la necessità opposta: quella di dare un senso (discorsivo, estetico) all’intreccio ubriacante della menzogna e dell’artificio, che costituisce la materia originaria di questa vicenda. E decide di farlo mostrando immediatamente, nella sequenza geniale che apre il film, che questo obiettivo potrà essere raggiunto solamente nella misura in cui sarà stata sfidata per il suo conseguimen­to la medesima componente di artificiosità che sta al cuore dell’espressione cinematografica.
Lolita? Lolita è, da subito, un’immagine, una costruzione mentale, la forma assegnata a un concetto. Quale sia l’effet­tivo statuto di verità della sua esistenza non importa più: come già affermato precedentemente, lei è ciò che i due rivali hanno deciso che sia nel momento in cui l’hanno vista per la prima volta. Da una parte Humbert e Quilty, dall’altra gli spettatori: la trappola sembra chiusa senza rimedio, ma è qui che interviene Kubrick, semplicemente inquadrando il ritratto di una damina bionda, per mettere in chiaro una vol­ta per tutte che quella è la sostanza oltre la quale non sarà dato di accedere. E non vale la pena di illudersi quando final­mente la ragazza, ormai sposata e incinta, ci racconta la sua versione di tutta la storia, soprattutto di ciò che è avvenuto dopo la sua fuga dall’ospedale. Parole. Dove arriva la verità, dove inizia la menzogna? E se avesse ragione Quilty: «Sì, deve aver fatto qualche telefonata da qui, ma non ha più importanza”? Si può soltanto dire che le sue parole sono ade­guate alla nuova immagine di normalità che Humbert (e lo spettatore con lui) si trova davanti. Qui Humbert, gran costruttore di immagini ad uso privatissimo, si dimostra ingenuo per la seconda volta dopo quella del «non dimenti­carti di me» sussurrato in cima alle scale: l’ingenuità, mador­nale per uno come lui, è proprio quella di scambiare l’imma­gine per realtà, la rappresentazione per il mondo, tout court. Ma del resto, come dargli torto: c’è sempre un momento nel film in cui questo succede ad ogni spettatore cinematografi­co…
Lolita è dunque, in qualche modo, il cinema o, quanto meno, il luogo da cui il cinema comincia: quei colpi che attra­versano la tela introducono la dimensione cronologica nella sospensione temporale propria dell’immagine pittorica, e con essa l’oscillazione continua della certezza circa lo statuto percettivo di ciò che scorre davanti ai nostri occhi sullo schermo. Quel che Kubrick persegue, dunque, realizzando Lolita, è innanzitutto una riflessione sul cinema come labi­rinto delle apparenze che, come una “magnifica ossessione”, spettatori e cineasta cercano – ognuno per quanto compete alla sua posizione nel dispositivo – di possedere e di piegare alle proprie volontà: a volte sembrano sul punto di cogliere il frutto, ma in definitiva il loro rimane un avvicinamento e un muoversi attorno all’oggetto, che resta in quanto tale inaffer­rabile. Lolita rimarrà, per Humbert e per Quilty e per noi, un mistero a tutti gli effetti; il suo nome, posto come titolo del film, è un vero e proprio mcguffin, la cui indicazione di percorso – se presa alla lettera – non può che portare fuori strada, verso la rassicurante illusione di una soluzione da trovare. E non a caso questa soluzione è lei stessa a darcela, in un delirio di autoreferenziale inappellabilità. Ancora una volta torna il riferimento a Shining. L’idea dell’ossessione, della fissazione sull’oggetto: il cerchio magico dell’hula hoop, che isola il corpo di Lolita e lo separa, in quanto visione, dal­la quotidianità di cui Lolita stessa è comunque parte, si tra­sformerà 20 anni dopo nell’albergo/labirinto popolato di visioni, ai richiami delle quali il protagonista finirà ancora una volta per prestare fede fino a soccombere nel tentativo di realizzarli. Nel movimento che chiude sulla fotografia di una festa svoltasi 60 anni prima andrà a collassare la domanda che era rimasta in attesa nell’inquadratura fissa sul ritratto sforacchiato di una giovane donna vissuta due secoli fa: l’e­nigma sembrerà così sottrarsi a ogni soluzione, la ricerca della verità a carico dell’atto della visione assumerà l’entità di una condanna (anzi, della Condanna), in un mondo popolato di revenants, in un’agghiacciante parodia dell’eterno ritorno dove il passato vampirizza il presente sanzionandone l’in­comprensibilità, almeno sul piano della ragione.
Lolita è un film che si interessa meno al ”cosa” che al “come”: un film in cui Kubrick, partendo da un terreno appa­rentemente condiviso, inizia subito a muoversi in una ina­spettata direzione epistemologico-metafisica, concedendo meno ancora che in occasione di altri suoi film alle richieste più prevedibili. Probabilmente per questo è da molti uno dei meno amati. E forse anche perché questo rifiuto radicale del­le certezze che lo contraddistingue si applica ironicamente a un tema (quantomeno a quello dichiarato: ma questo è ciò che per molti conta) tra i più antichi e sedimentati: la colpe­vole fissazione amorosa su una persona proibita. Ma provia­mo a trasferire all’ambito dell’espressione cinematografica le seguenti considerazioni di Merleau-Ponty sulla letteratura (1): «II senso di un libro è primariamente dato non tanto dal­le idee quanto da una variazione sistematica e insolita dei modi del linguaggio e del racconto o delle forme letterarie esistenti. Quell’accento, quella modulazione particolare della parola, se l’espressione è riuscita, è assimilata a poco a poco dal lettore e gli rende accessibile un pensiero al quale era talvolta indifferente o anche ribelle, in un primo tempo. La comunicazione in letteratura non è semplice richiamo dello scrittore a delle significazioni che farebbero parte di un a priori della mente umana: piuttosto le suscitano con la forza o con una sorta di azione obliqua». Questa ci pare l’indicazio­ne per una visione di Lolita che lo sappia riabilitare dalle incomprensioni che lo hanno accompagnato in passato. Che una tale riapertura di senso possa verificarsi è l’augurio migliore con cui salutare l’uscita della sua riedizione.

(1) La riflessione viene sviluppata in una relazione inviata da Maurice Merleau-Ponty a Martial Gueroult, in occasione della sua candidatura al Collegio di Francia (1952), ed è citata da Claude Lefort nell’avvertenza introduttiva a La prosa del mondo di Merleau-Ponty, Editori Riuniti 1984. p. 20.

Lolita
Titolo originale: id.
Regia: Stanley Kubrick.
Soggetto: dal romanzo omonimo di Vladimir Nabokov.
Sceneggiatura: Vladimir Nabokov.
Fotografia: (bianco e nero) Oswald Morris.
Montaggio: Anthony Harvey.
Musica: Nelson Kiddle (tema musicale di Bob Harris).
Scenografia: Andrew Low.
Costumi: Elsa Fennel, Barbara Gillet.
Interpreti: James Mason (il professor Humbert Humbert), Sue Lyon (Dolores “Lolita” Haze), Shelley Winters (Charlotte Haze), Peter Sellers (Clare Quilty), Diana Decker (Jean Farlow), Jerry Stovin (John Farlow), Suzanne Gibbs (Mona Farlow), Gary Cockrell (Dick), Marianne Stone (Vivian Darkbloom), Roberta Shore (Lorna), Cec Linder (il medico), Lois Maxwell (l’infermiera), William Greene (Swine), Isobel Lucas (Louise), Eric Lane (Roy), Shirley Douglas (la signo­ra Starch).
Produzione: James B. Harris per Mgm/Seven Arts/Anya/Transworid.
Distribuzione: Zenith.
Durata: 153′.
Origine: Gran Bretagna, 1961.

Un’automobile si ferma davanti a una villa: ne esce un uomo che entra nella dimora e vi si aggira alla ricerca di qualcuno di nome Quilty. Ai richiami del nuovo arrivato, Quilty compare, emergendo da sotto un lenzuolo che ricopre una poltrona. Tra i due inizia un dialogo bizzarro, nel corso del quale è sempre più evidente come Quilty sia ormai una vittima designata: nonostante i suoi tentativi frenetici di salvezza, finisce bucherellato di pallottole, dietro un quadro rappresentante una dama settecentesca.
Quattro anni prima. Il professar Humbert Humbert (e l’uo­mo che abbiamo appena visto uccidere Quilty), scrittore e conferenziere, cerca una stanza in affitto. La trova nella vil­letta di Charlotte Haze, vedova, che subito lo prende di mira come possibile secondo marito; ma ciò che convince Hum­bert ad accettare la stanza è la scoperta che Charlotte ha una figlia adolescente, Lolita, in cui si incarnano evidente­mente tutte le sue ossessioni erotiche. Tutto precipita quan­do Lolita viene mandata al campeggio estivo: la ragazza saluta Humbert con un bacio clandestino che gli fa perdere definitivamente la testa; Charlotte parte per accompagnare la figlia ma lascia ad Humbert un biglietto in cui si dichia­ra, chiedendogli di andarsene se non accetterà di sposarla; Humbert accetta, per poter restare accanto a Lolita. Dopo il periodo di luna di miele. Charlotte scopre un diario del maritino, che le fa capire come stiano effettivamente le cose. Sconvolta esce di casa e finisce sotto un’automobile. Hum­bert, vedovo “inconsolabile”, si reca al campeggio estivo a riprendere la fanciulla, a cui in un primo momento dice che la madre è gravemente malata. Insieme iniziano un viaggio, nel corso del quale diventeranno amanti; è nel corso di que­sto primo vagabondaggio che Fred Quilty, fingendosi un poliziotto chiacchierone, si mette per la prima volta alle costole dei due. Terminato il primo viaggio, Humbert e Loli­ta tornano a casa, dove riprendono le apparenze di una vita “normale”, dietro le quali continua il loro rapporto proibito, ma soprattutto cresce la gelosia del patrigno nei confronti dei maschi giovani, visti come possibili rivali. In realtà il suo vero rivale è già Quilty, ma non può neppure saperlo, non avendolo mai conosciuto in quanto tale. Humbert “convince” Lolita a rimettersi in viaggio; lei finge di accettare, ma sarà proprio nel corso di questo viaggio che fuggirà defi­nitivamente con Quilty, senza dare più notizie di sé.
Soltanto dopo quattro anni, Lolita scrive una lettera a Humbert, dicendogli che è sposata, incinta e senza soldi, e chiedendogli un aiuto economico. Humbert la raggiunge. Durante l’incontro, Lolita rivela a Humbert della sua vec­chia storia con Quilty, e di come lui tentò poi di farne un’at­trice di film erotici. Humbert cerca per l’ultima volta di por­tare la ragazza via con sé, ma di fronte alla sua risposta negativa se ne va: lo ritroviamo al suo arrivo nella villa del rivale in procinto di compiere ciò che già lo abbiamo visto fare all’inizio del film.

Cineforum n.375 – Giugno 1998 (pp. 2-13)

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