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FULL METAL KUBRICK – UN DOSSIER PROVVISORIO di Paolo Cherchi Usai

Full Metal Jacket (1987) di Stanley Kubrick. Recensione di Paolo Cherchi Usai, in "Segnocinema", n. 31, 1988

di Paolo Cherchi Usai

“Vorrei far esplodere la struttura narrativa del film”

“Quel che vorrei davvero è far esplodere la struttura narrativa del film. Qualcosa che faccia tremare la terra”. Tra le scarne dichiarazioni rilasciate da Stanley Kubrick per l’uscita di Full Metal Jacket, questa frase (raccolta da Jack Kroll per “Newsweek”, 29 giugno 1987: 43) è forse l’unica a rivelare le intenzioni del regista aldilà delle rituali risposte alle accuse di perfezionismo (“ripeto molte volte la stessa scena solo se l’attore non ha imparato la propria parte”), di ossessioni che coinvolgono la sfera privata (“mi hanno dipinto come un prigioniero dei computer, che guida l’auto a 30 miglia all’ora con un casco da football e si fa innaffiare il giardino da un elicottero”), di un modus vivendi ai limiti dell’ascetismo (“filmare non è divertente. Ti devi alzare prestissimo tutti i giorni”, ha detto a Daniele Heymann per “Le Monde” in un servizio tradotto su “La Stampa”). L’insistenza sul sogno di “far esplodere” l’ordine del racconto per immagini non deve sorprendere in sé, visto che la destrutturazione del tempo è l’elemento portante di tutta la filmografia kubrickiana: ma è degno di nota il fatto che tale concetto sia ribadito a proposito di un’opera il cui impianto drammatico appare convenzionale, a dispetto della netta (e proprio per questo problematica) separazione tra gli episodi di Parris Island e del Vietnam.

Mai come per Full Metal Jacket, d’altronde, Kubrick è stato parco di interviste: perfino Michel Ciment, abituato a incontrarlo all’indomani di ogni nuova uscita, ha dovuto questa volta accontentarsi di parlare a uno degli sceneggiatori (Michael Herr su “Positif” 320, settembre 1987); la televisione italiana, che pure aveva presentato l’intervista a Kubrick come uno scoop, ha finito per trasmettere (Rai 2, 30 ottobre 1987) pochi secondi di un confuso dialogo telefonico sul divieto del film ai minorenni (“anche nell’antica Roma esistevano le commissioni di censura: ma non dovevano essere sciocche come quelle di oggi. Altrimenti Giovenale e altri autori non avrebbero mai potuto essere conosciuti”). Pochi contatti con la stampa, poche foto per la pubblicità, pochi appigli per una lettura “formalista” della pellicola, che lascia sconcertati quanti si attendevano da lui l’ennesimo tour de torce tecnico dopo l’assenza di gravità sul set di 2001, le riprese a lume di candela per Barry Lyndon con un’emulsione ad altissima sensibilità, la steadycam di The Shining: la fotografia di Douglas Milsome, succeduto allo scomparso John Alcott, denuncia il riverbero delle fiamme sull’obiettivo, i “fuori quadro” della macchina a mano, la sgranatura del colore nelle scene d’esterni (“è tirata via alla maniera del cinegiornale”, scrive Tullio Kezich su “La Repubblica” del 10 ottobre 1987).

Estetica dell’implicito

L’impressione immediata è che Full Metal Jacket rappresenti lo stadio “minimalista” del progetto estetico kubrickiano, il più introflesso nel suo esito figurativo e verbale. A fronte di un impiego parsimonioso delle dissolvenze incrociate e del ralenti nelle precedenti prove, Full Metal Jacket è prodigo nelle une e negli altri, quasi a dimostrare che il rigore stilistico di Barry Lyndon e The Shining è ora trasferito a un livello più profondo, che rinuncia all’ordine esteriore della carrellata per istituire un’abnorme geometria del disordine. Il turpiloquio del sergente istruttore (espresso in una forma nella quale “non c’è praticamente una sola frase d’inglese corrente in tutto il film”, osserva Jack Kroll, cit: non si è lontani dalla frantumazione del linguaggio che fu di A Clockwork Orange) ha il proprio leitmotiv in metafore anali, che si richiamano all’atto della ritenzione e dell’espulsione degli escrementi: Andrew Hislop, sul “Times Literary Supplement” del 18 settembre (:1018) non ricorda di aver mai udito in un film un così frequente impiego del termine shit (merda).

È infine da notare che nella trasposizione dal romanzo di Gustav Hasford The Short-Timers la violenza di alcune situazioni è mitigata dalle immagini, rattenuta in allusioni che si riversano sui dialoghi, se ne troverà la traduzione nella rivista “Linea d’ombra”, o trasformata in senso ironico (così nella modifica al nome del sergente istruttore: Gerheim nel libro, Hartman, “uomo di cuore”, nel film) come già si vide in Dr. Strangelove, che condivide con Full Metal Jacket i temi della guerra in quanto sostituto dell’atto sessuale e dell’attentato nemico ai centri della fecondità maschile. Non è illegittimo interpretare questa spinta centripeta al “non detto”, all’estetica dell’implicito, come una conseguenza del dramma vissuto da Jack Torrance nei labirinti dell’Overlook Hotel in The Shining: la frase “all work and no play makes Jack a dull boy” (tradotta con “il mattino ha l’oro in bocca”) nella versione italiana scritta ad libitum sulla macchina da scrivere troverebbe così in Full Metal Jacket una corrispondente metafora dell’atrofia creativa.

Ma la dirompente realtà sperimentata dal soldato Joker in Vietnam è piuttosto un’atrofia di senso, una disperata presa di coscienza dell’assenza di qualsiasi motivazione razionale all’agire: in altre parole, la scoperta che l’ordine strategico delle manovre militari ha quale risultato la mancanza di un fine ulteriore distinto dalla mera sopravvivenza. “Vietnam can kill me but it can’t make me care”, sta scritto su uno dei manifesti pubblicitari del film; l’altro gli fa eco insistendo sul carattere autoriflesso della percezione e dell’esperienza sensoriale: “In Vietnam wind doesn’t blow, it sucks”. Jocker combatte dunque per uccidere, ma non gli importa di sapere perché; e accetta l’addestramento non tanto per far esplodere il proprio istinto alla violenza quanto per esserne risucchiato. Il progetto originario di Full Metal Jacket prevedeva l’inserimento di una voce narrante “fuori campo”, quella di Joker, per ribadire a più riprese tale concetto (in un film che è già tra i più “parlati” in tutto il cinema di Kubrick).

La decisione di eliminare quasi del tutto il commento “off” limitandone l’impiego alla presentazione del teatro degli eventi, alla stregua delle didascalie di The Shining, era però inevitabile, del tutto congruente alla logica dell’occultare un’idea allo scopo di renderne evidente la latenza. Ne rimane traccia in un trailer televisivo, una sequenza di immagini prive di sequenzialità narrativa e cementate da una frase-chiave: “quel che ho capito della guerra è che non c’è niente da capire”. Nichilismo radicale? Provocazione antimilitarista? Ma Full Metal Jacket non è un film antimilitarista, e sorprende che la critica italiana di sinistra l’abbia esaltato come tale solo perché il sergente Hartman apostrofa le reclute con insulti quali “chi è quel lurido stronzo comunista checca pompinaro che ha firmato la sua condanna a morte?”, Non c’è neppure l’ombra di una cosiddetta “analisi” delle ragioni strategiche all’origine della disfatta americana nel Sud-Est asiatico, e le domande ai marines nella sequenza delle interviste ottengono risposte in cui l’ideologia riveste un ruolo marginale all’espressione di smarrimento che l’operatore del cinegiornale raccoglie sul volto dei soldati. Più chiara è invece la natura delle loro dichiarazioni e la loro reazione agli eccessi dell’addestramento.

Era stato necessario cogliere al volo un’indicazione di Diane Johnson, co-sceneggiatrice di The Shining, per esplorare i corridoi dell’Overlook Hotel alla luce di un testo psicanalitico, “Il perturbante” di Freud, e si era avuto buon gioco nello spiegare con la fiaba, le sindromi di isolamento e le turbe infantili quelle parti del film che meglio corrispondevano ad alcuni passaggi del trattato. Full Metal Jacket anticipa l’eventuale nuova ricerca delle fonti culturali del film citando Jung nel dialogo fra Joker e un generale (con una frase assente nel romanzo: “io volevo soltanto fare riferimento alla dualità dell’essere umano, signore. L’ambiguità dell’uomo, una teoria junghiana, signore”); ma se di un suggerimento si tratta, è certo che esso solleva più problemi di quanti non ne risolva. In termini scientifici, lo studioso è posto di fronte a categorie d’analisi desunte da entrambi i padri della psicanalisi. La differenza è in questo caso di metodo. Con Freud il sorgere del comportamento aggressivo è descritto in termini fenomenologici, attraverso azioni a sfondo simbolico che spiegano come un individuo è trasformato in killer; con l’autore di Psicologia e alchimia ci si addentra nei motivi di questa trasformazione, per risalire al movente della frase pronunciata dal soldato Animal davanti al cadavere di un commilitone: “meglio a te che a me”.

HAL 9000 e il soldato Lawrence

Dal primo punto di vista, la frase “Born to kill” disegnata sull’elmetto di Joker è il pendant dell’espressione morituri te salutant pronunciata dai gladiatori di Spartacus prima del loro duello di fronte a Crasso (tutta la sequenza dell’addestramento di Spartaco si riverbera d’altronde su Full Metal Jacket; ed è significativo che entrambi gli istruttori, incarnazioni di altrettante figure paterne, siano uccisi dai rispettivi figli-allievi). Imparare a uccidere significa apprendere l’arte del disprezzo verso la morte, contenere l’impulso alla paura e all’autodifesa in una disciplina che non tende a trasformare l’uomo in una macchina (“Voi non siete robot. Siete dei killer”, dice il sergente Hartman) ma in un’entità capace di controllare, mediante il proprio corpo, il funzionamento del cervello, “Andare nella merda” (così i marines indicano il gettarsi nella mischia) equivale a mettere alla prova la propria capacità di essere padroni di un impeto aggressivo coltivato durante otto settimane di addestramento. Il soldato lawrence, “Palla di lardo” (Gomer pyle nell’originale), è vittima della propria inettitudine all’esercizio di tale controllo: Hartman lo punisce infatti secondo i rituali legati all’atto del defecare, del non trattenere, dell’ingerire (e lo obbliga a marce forzate con i pantaloni abbassati, a succhiarsi il dito mentre le altre reclute sono costrette a estenuanti esercizi di flessione, a mangiare una ciambella alla crema davanti all’intera camerata).

Dal sergente istruttore viene pure una fiammeggiante inventiva che integra oralità e analità in un’immagine disgustosa: “vi faccio venire i muscoli al buco del culo, che ci potrete succhiare il latte senza cannuccia”, Palla di lardo, infine, si spara in bocca dopo essersi messo seduto su una latrina dopo che Hartman si era scagliato contro di lui chiedendo “ma che cazzo di cinematografo è questo? Che vi prenda un accidente secco! Che cazzo ci state facendo nel mio cesso?”. A dispetto della linearità nella sua involuzione da recluta incapace a specchio della follia, il personaggio del soldato Lawrence è uno fra i più complessi in tutto il cinema di Kubrick. Colpisce, a prima vista, l’identità della sua espressione con quelle di Jack Torrance (The Shining), di Alex (A Clockwork Orange), di Bowman al termine del proprio viaggio oltre l’infinito (2001), di Redmond Barry durante il duello con Lord Bullingdon (Barry Lyndon). Ma a cosa corrisponde questa reincarnazione dello sguardo? Non alla caduta dello spirito nel baratro della violenza, poiché la lotta fra Bowman e Hal non ha come posta la sconfitta dell’avversario quanto la penetrazione di un mistero che l’elaboratore aveva tenuto nascosto a tutti; neppure a diverse manifestazioni dello squilibrio mentale, poiché Redmond Barry deve fronteggiare il figliastro a dispetto della propria intenzione di acquisire legittimità di padre di fronte a lui.

Palla di Lardo, inoltre, non ha avversari: egli è anzi il solo ad avere introiettato appieno l’insegnamento del sergente istruttore. Lui solo, a Parris Island, si trova già nella condizione che gli altri marines dovranno cercare nell’inferno del Vietnam: durante la notte del Tet, il capodanno buddista, un soldato esclama “vorrei andare nella merda”, mentre prima di suicidarsi Palla di Lardo risponde a Joker “sono già nella merda. Fino al collo” (nell’edizione originale “I am in a world of shit”). Palla di Lardo ha “lo sguardo che vede nell’aldilà” (così dice il marine che si trova di fronte a Joker, durante la notte del Tet) ma la sua autodistruzione ricorda la fine di HAL 9000 più che il precipitare di Bowman negli abissi ciclici del tempo o la fuga di Jack Torrance nei labirinti della reincarnazione. Proprio perché la sua morte è l’estremo risultato di un’educazione all’aggressività portata allo stadio estremo, impersonale (e dà ai marines l’immortalità, secondo una espressione cara al sergente Hartman), la figura del soldato Palla di Lardo riassume i tratti di una condizione che trascende l’individuo e che non può essere compresa con i soli dati dell’esperienza se non a costo di essere percepita come insensata. Tale condizione è, secondo Jung, connaturata all’uomo in quanto specie: le sue manifestazioni variano nelle epoche ma fanno parte di un quadro mentale indipendente dalle caratteristiche di ciascuna, “che non deriva da esperienze e acquisizioni personali, e che è innato.

Questo strato più profondo è il cosiddetto inconscio collettivo”. Nella fase di conseguimento della coscienza individuale, l’Anima, distinta dall’Animus femminile, si configura come “un caotico impulso vitale”, nel quale è tuttavia contenuto “uno strano significato, come una scienza segreta o una saggezza nascosta”. Il soldato Lawrence, al pari di HAL 9000, di Alexander De Large e di Jack Torrance, sembra giungere con la sua tragica catarsi alla scoperta che questa saggezza è fondata su un ordine che la tensione distruttiva rivela d’improvviso: “dietro il suo gioco crudele col destino umano, si nasconde qualcosa come un segreto disegno che sembra corrispondere a una superiore conoscenza delle leggi della vita. È proprio un caos improvviso, terrificante, a rivelare un “significato” profondo… la vita è folle e significante. E se non ridiamo della sua follia e non speculiamo sul suo significato, la vita è banale e tutto si riduce al livello più basso. Allora c’è poco senso e poco nonsenso. In fin dei conti, nulla ha significato, perché quando non c’erano ancora uomini dotati di pensiero non c’era nessuno che interpretasse quel che accadeva; soltanto a chi non comprende occorre fornire spiegazioni”

“Sono vivo. E non ho più paura”

Con ciò Full Metal Jacket porta alla superficie la ragione più intima della propria struttura a dittico e del carattere del suo personaggio principale. Il soldato Joker si avvicina alla comprensione dell’ordine che governa il mondo deridendolo con motti di spirito e gadgets sull’uniforme (basati entrambi sul principio della dualità: “saresti tu John Wayne? E io, chi sarei?” è la sua battuta preferita) e scrivendo storie immaginarie per “Stars & Stripes” (“Quando il narratore sorride e disprezza la morte il suo racconto si chiama romanzo comico”. Raymond Queneau, Une histoire modèle, Paris, Gallimard, 1966: 23). La sua iniziazione è segnata da due eventi speculari che dividono il racconto in altrettante entità dalla struttura simmetrica: un universo della disciplina ordine, regolato dalla vita di caserma, è fatto deflagrare nella cruenta protesta di un soldato che si toglie la vita; una geografia sconnessa, l’architettura del caos disegnata da edifici semidistrutti in seguito agli scontri con i vietcong, segna il ritorno di Joker a una logica che si giustifica in base alla propria incomprensibilità e si esprime nelle parole di una guerrigliera ferita a morte che lo implora d’essere uccisa.

Ciò che era ambiguo, contraddittorio, incompleto (la sua esitazione davanti a Palla di Lardo prima di colpirlo con un pezzo di sapone chiuso in un asciugamano, la successiva furia dei suoi colpi davanti a un corpo indifeso: una scena analoga era stata vista in A Clockwork Orange quando Alex cade vittima dei poliziotti ex-”drughi”) è ora diventato nitido, coerente, accessibile: “sono vivo; e non ho più paura”. Le due direzioni dell’avviamento di Joker alla violenza non possono non ricordare la vicenda di Alex in A Clockwork Orange: là il trattamento Ludovico lo rendeva impotente di fronte ai nemici, e solo una terapia contraria lo avrebbe ricondotto alla “normalità” (al “non aver più paura”); qui la normalità è raggiunta a spese di chi, morente (la giovane Vietcong non è stata infatti ferita da Joker), ha già visto l’aldilà. Con una differenza sostanziale: perseguitato dall’esperienza trascorsa Alex tenta il suicidio gettandosi da una finestra, inutilmente (e, nel periodo del coma, gli sarà sembrato di aver dormito “un milione di anni”); in Full Metal Jacket il suicidio è altrui, e Joker è spettatore inconsapevole di un viaggio nel tempo di cui non conosce il fine (“i morti sanno solo una cosa: che è meglio essere vivi”, dice davanti alla fossa comune che raccoglie i corpi di venti civili vietnamiti), ne il senso.

La vietnamita uccisa alla fine di Full Metal Jacket è il terzo personaggio-chiave del film. È la terza donna: le prime due sono prostitute che contrattano le loro prestazioni. È l’unico soldato vietcong visto in faccia da Joker dopo aver superato trappole minate, bombe che provengono da chissà dove e dilaniano i commilitoni, attacchi di truppe che egli intravede appena come sagome illuminate dai bengala durante l’offensiva del Tet. È spietata: attira i marines allo scoperto, infligge loro crudeli ferite che spingono gli altri ad accorrere e a diventare a loro volta bersaglio dei suoi micidiali colpi. “Niente più “bum-bum” per questa baby-san”, commenta un soldato mentre lei giace moribonda a terra; ma il suo sguardo fisso, implorante, non può essere compreso a fondo se non lo si mette in relazione con lo sguardo cui si allude nelle altre due occasioni in cui una donna fa la sua comparsa sullo schermo. La prima segna un momento “liberatorio” nel film: il dramma dell’addestramento è finito, “finalmente” si va in Vietnam (è interessante notare, al riguardo, il sospiro di sollievo del pubblico all’apparire della nuova ambientazione.

Tutto il film è d’altronde basato su un principio di “spiazzamento” delle attese dello spettatore; un esame approfondito delle sue aspettative, dapprima esaltate dal turpiloquio di Hartman, poi frustrate dal finale anti-epico, porterebbe senz’altro a risultati degni di nota). La dirompente insistenza sulla fisiologia orale e anale si stempera in un’ultima allusione (“io succhia-succhia… io fare tutto tutto”, assicura la prostituta) per subire una prima, significativa deviazione; Joker vuol farsi fare una foto, un ladro strappa la macchina fotografica dalle mani del commilitone e accenna a un colpo di kung fu prima di fuggire su una moto. È il primo atto di ostilità subìto in Vietnam; un’ostilità legata allo sguardo (in questo caso, all’obiettivo dell’apparecchio per immagini fisse) che lega l’atto del vedere a un tentativo di ricomporre nell’atto sessuale uno sfogo delle energie vitali altrimenti fatte confluire nell’ordine supremo della guerra.

M-i-c-k-e-y M-o-u-s-e

Intorno alla seconda prostituta condotta dinanzi a Joker non ci sono macchine fotografiche. C’è però un cinema in rovina (dove si proiettava il film Mao-Giang), ed è lì che il soldato Animai conduce la ragazza dopo una breve discussione con un marine di colore sulle dimensioni del suo pene (il tema del confronto razziale permea d’altronde tutto il film, dal “benvenuto” di Hartman alle reclute”, qui non si fanno distinzioni razziali. Qui si rispetta gentaglia come negri, ebrei, italiani o messicani”, al suo ribattezzare “Biancaneve” il soldato Brown). Durante i combattimenti fra le macerie di Hue la mano del fotografo Rafterman trema al punto che l’obiettivo della sua macchina fotografica non riesce a fissare le persone e gli oggetti; una successiva inquadratura in soggettiva, realizzata nello stile di un reportage televisivo o di un cinegiornale, è tutta un soprassalto a causa dei colpi sparati nei dintorni; in elicottero, mentre un commilitone sventola proiettili sui contadini vietnamiti, Rafterman è còlto da conati di vomito e non riesce a scattare una sola foto.

Le cose gli riescono meglio di fronte al cadavere del vietcong adagiato in posizione seduta accanto a un soldato del primo plotone H 25, dove Joker incontra il soldato Cowboy; e riescono meglio alla troupe che realizza la lunga panoramica sui soldati in assetto di guerra, “duplicata” dalla macchina da presa in altrettante inquadrature alle spalle e di fronte all’operatore; l’una parallela all’altra, come in un ideale corridoio dove l’autoriflessività dello sguardo si moltiplica all’infinito. Fino a The Shining la ricorrenza di questo tema iconografico il corridoio come linea in cui si incrociano diverse prospettive spazio-temporali, era legata alla geometria dei movimenti e delle architetture in cui i personaggi si muovevano. In Full Metal Jacket queste architetture sono distrutte, devastate dall’azione dell’uomo (il ritrovamento di una raffineria in disuso nei dintorni di Londra è stato un colpo di fortuna, certo, ma la sua scelta per le riprese del film trova origine in un passo del romanzo nel quale si fa riferimento a “una stazione di benzina bombardata”, come si legge a pag, 81 dell’edizione italiana di The Short-Timers, Nato per uccidere, Milano, Bompiani, 1987); ne sopravvivono le mura portanti, freddi parallelepipedi percorsi dalle sagome in ferro delle armature e squarciati dai colpi dei bazooka.

In queste aperture, a profilo irregolarmente circolare, il nemico invisibile trova una propria geometria dell’azione offensiva, come su un tavolo da biliardo o su un campo da baseball (cui allude del resto il primo ufficiale incontrato da Joker a Phu Bai, un ex-giocatore del Notre-Dame). I marines al comando di Cowboy sparano all’impazzata sugli edifici, crivellando senza scopo le superfici di spazi che il cecchino Vietcong penetra invece con pochi infallibili colpi; quello che uccide Cowboy passa, per l’appunto, attraverso una breccia di muro sorprendendolo mentre cercava di mettersi in contatto telefonico con la base (ecco un altro topos kubrickiano, visto l’ultima volta nella sequenza di The Shining in cui Wendy Torrance tenta di collegarsi con la stazione radio dei rangers; un’ulteriore costante, la menomazione agli arti inferiori, è “dichiarata” questa volta in maniera più discreta, ellittica, nel passo zoppicante di un marine dopo l’offensiva del Tet e nelle ferite inflitte dal cecchino durante l’imboscata). The Short-Timers presentava un altro riferimento alla forma circolare, una palla da basket collegata a una mina antiuomo (;158).

Qui la palla è sostituita da un coniglio di pezza, a sottolineare un ritorno (fatale, perché portatore di morte) alla condizione infantile ribadito nelle sequenze dedicate al soldato Lawrence, il quale si fa vestire come un bambino da Joker e impara da lui, con sguardo sorpreso, come si fa a montare i pezzi di un fucile, quasi fosse un giocattolo, e nella canzone di Mickey Mouse cantata nel finale (“Qualsiasi cosa sciocca o non necessaria o banale viene chiamata «Mickey Mouse», topolino, topolinata, o «Mickey Mouse shit», merdata topolinesca, in gergo”, annota Hasford in The Short-Timers, tr . it. cit.: 62;). Un perfetto cerchio si trova invece nel tempio che serve da quartier generale al plotone H 25, un’apertura che collega un ambiente all’altro e che la macchina da presa percorre nel lento movimento in avanti che presenta l’incontro fra Joker e Cowboy, quasi una replica di alcune inquadrature all’interno dell’astronave Discovery in 2001. Il proliferare dei riferimenti concettuali alle precedenti opere di Kubrick si fa, a questo punto, vertiginoso.

Cowboy si sta radendo nella stessa posizione di Redmond Barry prima che gli sia portato l’annuncio dell’incidente occorso al figlio Brian. Nel tempio-astonave di Full Metal Jacket si trova inoltre l’unico cadavere di vietcong visibile in tutto il film, e il suo biancore mortale lo fa sembrare un essere umano ibernato piuttosto che un corpo senza vita. La triade morte-ibernazione-bianco si ritrova del resto nell’asettica pulizia delle latrine in cui Palla di Lardo si toglie la vita, e nella fossa comune dove venti civili vietnamiti sono stati cosparsi di calce viva. Il ritmo primitivo, violento delle canzoni che accompagna l’ingresso di Joker nel tempio (Surfin’ Bird, dei Trashmen) e le riprese del cinegiornale (Woolly Bully, di Sam the Sham and the Pharoahs) sottolinea la cadenza negli spostamenti dei carri armati e nel succedersi degli spari, come già si verificò in Barry Lyndon con la marcia dall’Idomeneo di Mozart (nei passi di Redmond davanti a Monsieur de Bailbari) e con la Musica per archi, celesta e percussioni durante il dialogo fra Danny e Jack Torrance in The Shining.

Fear and Desire e oltre l’infinito

I motivi della tradizione vietnamita cui si accenna nelle musiche “sintetiche” (al pari di quelle composte da Wendy Carlos per A Clockwork Orange) di Abigail Mead sono ritmati su un rullare di tamburi memore della colonna sonora di Laurie Johnson per Dr. Strangelove e soprattutto a un tintinnio di xilofono che riprende le scansioni temporali del brano di Bartók impiegato in The Shining. L’ossessione del ritmo pervade pure la canzone-trailer Full Metal Jacket (I Wanna be your Drill Instructor), inclusa nella raccolta di brani presenti nel film e basata su un’interpretazione in stile disco dance delle litanìe oscene del sergente Hartman (il motivo è stato in testa alle classifiche di vendita negli Stati Uniti e in Inghilterra; non accadeva dai tempi di A Clockwork Orange); ma anche in questo caso si tratta di un’ossessione nascosta, più suggerita che dichiarata, elusa da frequenti richiami al battito del cuore umano (fra rumori d’ambiente sui quali i personaggi devono gridare per farsi sentire: eppure anche Full Metal Jacket, al pari degli altri film di Kubrick, con l’eccezione di Spartacus e 2001, non impiega la stereofonia, ed è forse l’unica grande produzione recente della Warner Bros, a non fare uso del sistema Dolby) e mimetizzata fra le pieghe di un racconto anti-epico, lontano dal wagnerismo di Coppola (Apocalypse Now) quanto dall’istinto melodrammatico rivelato da Oliver Stone in Platoon.

Lo stesso Kubrick ha voluto che lo slogan della pubblicità italiana al film fosse “una pagina epica della guerra del Vietnam”; ma la scelta era chiaramente provocatoria. Dopo dieci giorni di programmazione la frase è stata sostituita con una citazione dal quotidiano canadese “Toronto Globe and Mail”, “il più grande film di guerra mai realizzato”: eppure, anche in questo caso, si insiste, con una tipica operazione di retorica “rovesciata”, su una qualità che entusiasti e detrattori riconoscono a Full Metal Jacket, la sua calcolata frammentarietà e il suo rifiuto di ogni dimensione corale del racconto. Dai tempi di The Shining si comincia a credere che il “progetto kubrickiano” abbia una forma circolare, e che il cerchio sia sul punto di chiudersi. Il primo lungometraggio di Kubrick, Fear and Desire (1953) era anch’esso un film a soggetto bellico; come in Full Metal Jacket, la guerra era lo sfondo di un dramma “da camera” dedicato al problema del “doppio”: c’è una pattuglia di quattro soldati che elimina due militari nemici (interpretata dagli stessi attori che ricoprono il ruolo degli aggressori, secondo una logica che sarà di Dr. Strangelove), c’è un caso di follia, c’è una ragazza la cui figura riassume i temi della paura e del desiderio.

Kubrick ha ritirato tutte le copie di quel film, sostenendo che si era trattato dell’infelice tentativo di realizzare una pellicola d’azione in forma di apologo. Può darsi che, come sostiene Richard Combs sul “Monthly Film Bulletin” dell’ottobre 1987 (645: 304-306), la rassomiglianza tra le due opere dimostri soltanto che il regista “abbia imparato un modo più coerente di esprimere contenuti filosofici mediante l’azione”; ma sette anni di silenzio (un periodo più lungo della vera guerra americana in Vietnam, come nota ironicamente “American Film” in una nota di produzione del giugno 1987) non si giustificano solo per un ulteriore saggio di ciò che la struttura chiusa, rarefatta di The Shining aveva già mostrato all’interno di un “genere” più consono ai B-movies che ai capolavori. Neppure è detto che l’antico sogno kubrickiano di un film su Napoleone sia destinato a rimanere nella leggenda (“non ci ho ancora rinunciato”, ha detto a “Le Monde”, intervista cit.): la circolarità del “progetto” non riguarda infatti le occasioni di raccontare una storia (o di “farla esplodere”), ma il senso del raccontare e del conoscere il mondo sensibile.

Il dilemma del soldato Joker, combattuto fra l’istinto alla pietà e la volontà di distruzione, davanti alla vietcong morente è una prova della ricerca di quel senso che la vacua cantilena dei marines in marcia nella notte, oltre il Fiume dei Profumi, nega con sarcasmo (“io volevo tanto vedere l’esotico Vietnam, il gioiello dell’Asia orientale. Io volevo incontrare gente interessante, stimolante, con una civiltà antichissima, e farli fuori tutti. Volevo essere il primo ragazzo del mio palazzo e fare centro dentro qualcuno”). Il suo doppelganger, Palla di Lardo, è morto senza poter sfogare a colpi di fucile questa ambiguità che sfocia nel Nulla, e Kubrick ha lasciato che il Nulla diventasse il monolito oltre il quale l’astronave Discovery, il suo cinema, si sta dirigendo. Aldilà del Nulla…

Segnocinema, n. 31, 1988, pp. 19-28

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