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GERTRUD (1964) – Recensione di Giovanni Grazzini

Giovanni Grazzini recensisce per il Corriere della Sera il film "Gertrud" di Carl Theodor Dreyer

di Giovanni Grazzini

Dopo Godard, Dreyer; dopo Il bandito delle 11, Gertrud; dopo i fuochi d’artificio, la veglia funebre. Eppure, tutti e due sono modi d’intendere il cinema. Con questo di diverso: che il primo ci sbriglia e solletica, e il secondo ci blocca e allucchetta; e i vizi del primo derivano da giovanile entusiasmo, e quelli del secondo da senile sclerosi. Il rispetto dovuto a un maestro che ci ha dato Giovanna d’Arco, Dies Irae e Ordet, dì fronte a uno scavezzacollo cui dobbiamo tanto meno, non potrà infatti impedirci di dire che al Dreyer di oggi preferiamo il Godard di ieri, perché il regista danese guarda indietro, verso un illusorio matrimonio fra cinema e teatro, e l’autore francese almeno tenta, sia pure con esiti disuguali, di affrancare il cinema da antiche servitù letterarie. Questa distinzione fra «regista» e «autore» già sembrerà insolente. Ma Gertrud deriva dall’omonimo dramma dello svedese Hjalmar Sóderberg (vissuto dal 1869 al 1941), pubblicato nel 1907; al quale Dreyer si è limitato ad aggiungere una scena finale. La sua fatica è perciò consistita nel tra- sferire dalla ribalta allo schermo un’opera nata a tavolino. Se Gertrud è un film pieno di acciacchi, sarà anche perché in Dreyer non pulsa sangue fresco, e la sua fertilità mentale, anziché coltivata nell’orto del dramma religioso rivissuto nella sofferenza personale, è imbalsamata dall’ossequio per il verbo. Laddove il cinema è una arte che chiede azione, e poi azione e ancora azione.
Intendiamoci: con Gertrud, Dreyer casca in piedi, non fosse che per l’intransigenza con cui resta fedele al valore della densità dell’immagine e il giovanile coraggio mostrato nell’abbandonarsi a un esperimento; ma il fatto è che a settantacinque anni è difficile rinnovarsi; meglio far gli epigoni di se stessi che correre il rischio di sentirsi blanditi soltanto perché si hanno i capelli bianchi. Come appunto è accaduto al roseoazzurro vegliardo, che l’altra sera, nel cinema di Parigi dove si presentava Gertrud, alla fine del film si è visto circondare come un caro nonnino da quegli stessi critici impietosi che avevano costellato di risate l’anteprima mondiale. Perché Gertrud rivela che anche Dreyer, il quale sembrava aver raggiunto la compostezza dei classici, è stato morso dalla tarantola del nuovo, e poiché questo nuovo è in realtà la ripresa di un annoso discorso, si è costretti a parlare di prova senile? Perché il regista ha creduto di poter rilanciare una santa alleanza tra cinema e teatro, restituendo al parlato una posizione di privilegio che in lui, eroe del muto, assume tutti i caratteri di una rivalsa, di una scommessa con se stesso e forse di uno sgravio di coscienza. Ma sono memorabili le sue parole del 1933: «Il cinema è purtroppo finito nelle mani degli uomini di teatro; per divenire un’arte autonoma deve scendere nelle strade, tornare a essere reportage». E per decenni sono stati tenuti in onore i suoi dettami contro le scenografie artificiali e gli attori truccati… Ritrovarsi, ora, alle soglie del 1965, dopo che il cinema ha spalancato tante finestre e assunto finalmente l’azione fra i suoi caratteri precipui, nel chiuso di un appartamento borghese, fra coppie di attori che a turno si rimbalzano blocchi di dialogo, non è un richiamo all’origine bensì un soprassalto di candore reazionario. C’è, voi dite, l’esempio di Bergman: ma negli ultimi film del regista svedese l’urto della problematica morale è così forte che spezza la pietra dei muri. In Gertrud, invece, il dibattito delle idee resta prigioniero nell’involucro fisico dei personaggi, ed essi a loro volta sono legati a filo doppio a una età storica, gli anni intorno al 1912, che è troppo vicina perché gli spettatori di oggi non vi riconoscano con fastidio un sentimentalismo dal quale si sono da poco liberati (e tuttavia resiste in gran parte della narrativa rosa), e troppo lontana, nel modo di impostare i problemi, dalla sensibilità dei nostri giorni. Ne deriva che Gertrud è uscita, per la tematica e per lo stile, con almeno trent’anni di ritardo.
La trama lo conferma. C’è una donna Gertrud, non più giovanissima, sposa di un uomo politico, Gustav, che sta per divenire ministro. Faceva la cantante, ma ormai ha lasciato il teatro. Ora se ne pente: appassionata anima d’artista rimprovera al marito di pensare alla carriera, al denaro, ai sigari, a tutto fuorché a lei. E poiché ha conosciuto il giovane pianista Eriand, e il suo cuore ha riavuto un gran tuffo, comunica al consorte di voler divorziare. Gertrud è una donna che sogna l’amore totale, non si piega alle necessità della vita, e perciò va incontro a una delusione dopo l’altra. Ma ora è sicura che Eriand le apparterrà interamente: non sarà, come Gustav, schiavo delle ambizioni, ne come Gabriel, uno scrittore del quale fu l’amante prima di sposarsi, distratto dal lavoro. E come è malata d’orgoglio, così soffre di estetismo: confessato al marito di essere innamorata di un .altro, va a casa del pianista, e mentre gli scivola fra le lenzuola, gli chiede di suonare un «notturno». Sembra finalmente felice, tornata in se stessa. Ma nel frattempo è arrivato Gabriel, il quale in tutti gli anni che è stato lontano, in Italia, ha continuato a pensare a lei, ed ora, deluso della vita, convinto che il mondo non meriti d’esser preso sul serio, spera, giacché Gertrud sta per divorziare, di riaverla con sé. Perciò non gli dispiace di rivelarle che il giovane Eriand si è vantato pubblicamente con gli amici di averla conquistata. Gertrud è colpita, sa di aver fatto una pazzia, ma si giustifica: nella sua vita c’era un tal vuoto che non poteva comportarsi altrimenti. E benché sogni di essere, nuda, inseguita da una muta di cani, invoca, Eriand di fuggire con lei, disposta a mantenerlo. Il giovane la raggela: credeva che essa cercasse un’avventura, oltretutto è impegnato con una ragazza dalla quale ha avuto un figlio; e poi Gertrud ha un’anima troppo fiera: egli vuole una donna casta e obbediente. «Vorrei credere in un Dio per chiedergli di perdonarti», gli risponde lei. Da questo momento Gertrud è destinata alla solitudine, il suo cuore è pietrificato. Veste di nero, rifiuta Gabriel perché ormai è inutile tentare di ridestare l’antica passione, respinge le ultime offerte del marito, che pur sapendo cosa è accaduto sarebbe disposto a trattenerla (ma quando lei gli confessa di averlo amato soltanto coi sensi, la scaccia), e si trasferisce a Parigi. La ritroviamo, vecchia, ancora bisognosa di solitudine e di libertà ma senza rimpianti. « Ho molto sofferto, ma ho molto amato… e l’amore è tutto nella vita ». « Amor omnia » vuole che sia scritto sulla sua tomba.
Nell’universo di Dreyer l’amore prende dunque il posto della religione (ma Come in uno specchio ha chiuso il cerchio della «teologia cinematografica» dei nordici assicurandoci che l’amore a sua volta è Dio; e Bergman, avrebbe ragione di dire che anche Gertrud soffre del «silenzio di Dio»). Da questo punto di vista il vecchio Dreyer conclude con una affermazione che trasferisce- all’interno dell’uomo il valore ultimo della sofferenza, finora considerata uno strumento, di mistica associazione alla volontà celeste. Confrontate la finale solitudine di Gertrud con quella di Anna in Dies Irae per considerare come il tema si sia venuto elaborando. Ma proprio nella misura in cui Dreyer sottrae i problemi a una prospettiva metafisica, e afferma con Gertrud di credere nei piaceri dei sensi e nell’irrimediabile solitudine dell’individuo, senza tuttavia lasciare spazio alla tensione per il soprannaturale, egli riduce lo spessore della propria ispirazione artistica e involontariamente si allinea sulle posizioni meno stimolanti del decadentismo europeo. È probabile che egli non approvi il peccato d’orgoglio di Gertrud, tuttavia c’è qualcosa di ambiguo nel rimpianto del vecchio Dreyer per l’amore e la giovinezza.
È ovvio che ciò non sarebbe sufficiente motivo di scacco se le qualità del linguaggio risolvessero in invenzione stilistica la struttura borghese del dramma. In realtà la mediocrità del soggetto detta a Dreyer una forma rappresentativa che interessa soltanto quanti cercano qui il proseguimento di una ricerca sulla tensione espressiva, sulla purezza delle linee, sui rapporti armonici fra personaggi e ambiente. L’enorme maggioranza degli spettatori resta invece bloccata dal gelo di un processo di stilizzazione delle forme espresso con una recitazione che, lungo un arco psicologico potenzialmente ben ricco di sfumature, si mantiene così controllata da riuscire appiattita nell’uniformità tonale, con una geometrica alternanza di « duetti » in interno (interrotti soltanto da brevi flash-backs e dai rapidi scorci di un parco), con l’uso di didascalie in funzione di coro e di cesure, con la spoglia scenografia e il patetico commento musicale (persino Ridi pagliaccio). La stessa Gertrud (la peraltro splendida Nina Pena Rode), che parla e si muove come in trance, non suscita autentiche emozioni: la modernità della sua angoscia ci sfugge, assorbita negli schemi di una risaputa eroina tardoromantica. L’ultimo film di Dreyer è forse il sogno di un poeta rapito nell’astratta contemplazione della tragedia, una risposta definitiva al realismo: bisogna accettarla o respingerla in blocco. La tentazione di accoglierla è fortissima, perché tutta percorsa di un brivido magico. Ma per nostro conto Gertrud resta una palinodia del cinema, un rimpianto del palcoscenico. Dite voi se quando l’immagine s’appoggia sulla parola un film può essere un capolavoro.

Corriere della Sera, 21 dicembre 1964

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