Cineforum n.160 – Dicembre 1976 (pp.770-789)
Stanley Kubrick
BARRY LYNDON
di Marco e Paolo Vecchi
“Due tendenze ho scoperte, correggendo le bozze nei miscellanei scritti che compongono questo libro. Una, a stimare le idee religiose o filosofiche per il loro valore estetico e anche per quel che racchiudono di singolare e meraviglioso. Questo è forse indizio di uno scetticismo essenziale. Un’altra, a presupporre (e a verifìcare) che il numero di favole o di metafore di cui è capace l’immaginazione degli uomini sia limitato, ma che codeste contate invenzioni possano essere tutto per tutti, come l’Apostolo.”
J.L. Borges. (1)
IL RAPPORTO LETTERATURA-CINEMA IN KUBRICK
Uno degli aspetti più caratteristici del cinema di Kubrick ci pare sia rappresentato dalla quasi costante presenza, spesso a livello di pretesto, di una base letteraria più o meno illustre, e dalle complesse articolazioni che nel prodotto filmico viene ad assumere il rapporto con essa. Questo sia detto preliminarmente, non in funzione di una sterile esegesi comparata tendente a stabilire se illustrazione, interpretazione o stravolgimento abbiano informato le intenzioni del regista, ma di un’assunzione (metodologica) di un parametro, di un punto fermo a cui riferire la successiva dinamica di realizzazione dell’opera cinematografica. Cogliere il rapporto esistente tra i testi di Nabokov (“Lolita”), Burgess (“Arancia a orologeria”) e, più limitatamente, Fast (“Spartacus” fu controllato, a livello di sceneggiatura, da Dalton Trumbo) e i corrispondenti film di Kubrick, significa avere un quadro motivato della loro genesi, una parziale spiegazione delle scelte del regista (sempre responsabile o co-responsabile, dell’adattamento), significa in sostanza avere degli strumenti per una lettura filologicamente più accettabile, pur nel rispetto dell’autonomia del prodotto cinematografico. E diventa addirittura indispensapilé nei casi di “Allarme rosso” di Poter George e “La sentinella” di Arthur C. Clarke, diventati poi rispettivamente Il dottor Stranamore e 2001: Odissea nello spazio, dalla profonda rielaborazione dei quali viene messo in moto un ciclo che, partendo dalla letteratura, ritorna alla letteratura, passando attraverso la versione cinematografica: la sceneggiatura viene ad assumere qui la funzione di tramite per la riscrittura di un romanzo che porta il titolo del film e che ha, ovviamente, come autori gli sceneggiatori e Kubrick stesso.
Stupisce quindi come la critica dei quotidiani e settimanali italiani abbia frettolosamente liquidato il romanzo da cui è tratto Barry Lyndon come una specie di “remake” vittoriano di Tom Jones, chiedendosi al massimo, e non senza meraviglia, perché la scelta dell’autore di Orizzonti di gloria sia caduta su questa opera minore (che peraltro pare nessuno si sia preso la briga di leggere) di uno scrittore non più “a la page” come William M. Thackeray. Perché mai come in questo caso la derivazione letteraria ci sembra illuminante sulle intenzioni e sui limiti di un’operazione che, nel suo apparente formalismo, si presenta come una delle più complesse e ambigue di un autore che non cessa di stupire per il suo eclettismo e per la straordinaria capacità di rinnovarsi, e non solo dal punto di vista stilistico, giocando con grande dignità il proprio ruolo nell’ambito di un sistema produttivo regolato dalla ferrea legge del profitto.
WILLIAM M. THACKERAY: LE FRUSTRAZIONI DELLO SCRITTORE VITTORIANO
“Adotterei volentieri lo stile di Fielding e di Smollett, ma la società non lo tollererebbe”.
W.M. Thackeray. (2)
“The luck of Barry Lyndon” (In seguito intitolato “The memoirs of Barry Lyndon Esquire, by himself”), pubblicato a puntate dal “Fraser’s Magazine” nel 1844, è il primo romanzo impegnativo dell’autore della “Fiera delle vanità”. Visibilmente ispirato ai romanzi picareschi di Henry Fielding, in particolare a “Jonathan Wild il grande”, se ne differenzia, prescindendo dallo scarto stilistico, per l’ormai negata possibilità di legare alla complessità dell’intreccio quel piglio canagliesco e quella spregiudicatezza (anche nel mettere sulla scena argomenti sessuali) che i tempi mutati vietavano (quasi in parallelo a quanto è accaduto a Kubrick con Lolita, il cui risultato è stato non poco condizionato dall’impossibilità di rendere adeguatamente la tensione erotica che caratterizza l’opera letteraria). Tipico rappresentante della borghesia vittoriana, Thackeray vive drammaticamente il contrasto tra rigido moralismo e pulsioni, esorcizzando costantemente il proprio latente romanticismo con una freddezza di scrittura, con una distanziazione emotiva che danno una connotazione di aridità alla sua pagina. Tuttavia, sotto la corazza del sarcasmo, dietro il cinismo programmaticamente ostentato, traspare la frustrazione del perbenista “malgré lui”, la nevrosi “barocca” di chi forzatamente si adatta alle rigide norme di una società che fa del conformismo più ottuso la sua bandiera. Nelle “Memorie di Barry Lyndon” in particolare, ci pare evidente la ricerca di un “altrove” (il 18° secolo) e di un “alter ego” su cui riporre, superando il giudizio morale, che non può non essere negativo, la propria simpatia di “laudator temporis acti” e di moralista per necessità. “Che cosa sono diventati oggi quei sentimenti cavallereschi? Sessant’anni fa un uomo era veramente un uomo, nella vecchia Irlanda; e la spada che portava al fianco era pronta ad ogni questione cavalleresca, per i più lievi motivi. Ma i bei tempi antichi e le loro abitudini sono svaniti completamente. Si sente parlare raramente ormai, di un bei duello, e l’uso di queste vili pistole, in luogo della nobile e onesta spada, degna di gentiluomini, ha introdotto una quantità di nuove leggi cavalleresche nelle vertenze, che non possono essere abbastanza deplorate.” (3) Sono parole messe in bocca a Redmond Barry, cialtrone e arrivista, ma ci sembra che, pur dissociandosene, l’autore ne subisca il fascino. Il ‘700, colle sue brutali lotte e le sue passioni, ma anche colla sua vitalità e col suo stile, viene presentato con un atteggiamento in cui si mescolano, non senza una certa meschinità piccolo-borghese, attrazione e repulsione. Kubrick recupera questa ottica, elevandola a dimensioni ariostesche di superiore cinismo.
IL SOGGETTO
Parte prima: come Redmond Barry acquisisce il titolo di Barry Lyndon
Siamo in Irlanda, verso la fine del regno di Giorgio I. Redmond Barry, adolescente di piccola nobiltà e di scarso peculio, orfano di padre, ucciso in duello, si innamora, della cugina Nora, la quale, pur illudendolo, gli preferisce il capitano inglese John Quin. Questi è goffo e meschino, ma è “un uomo”, e, soprattutto, gode di una rendita di 1500 ghinee. Redmond, pazzo di gelosia, lo provoca e lo uccide (o almeno crede) in duello. Ascoltando il consiglio di Grogan, un capitano inglese che gli ha fatto da padrino, fugge verso Dublino per sottrarsi all’arresto. Derubato da due banditi, Redmond si arruola nell’armata inglese, dove si ricongiunge con Grogan. Questi gli spiega che il duello è stato una messa in scena architettata dai fratelli di Nora per togliersi di torno l’inopportuno pretendente: le pistole erano caricate con tamponi di stoppa, Quin è vivo ed ha sposato la fanciulla. Il reggimento viene trasferito in Europa, dove infuria la Guerra dei Sette Anni, e, in una sanguinosa battaglia coi Francesi, Grogan rimane mortalmente ferito. Impossessatosi dei documenti e della divisa di un ufficiale, Redmond diserta, cercando di raggiungere l’Olanda. Scoperto dal capitano Potzdorff, ufficiale di Federico II, viene costretto ad arruolarsi nell’esercito prussiano. Durante un’azione bellica, salva la vita al capitano il quale, a guerra conclusa, lo prende al suo servizio. Incaricato di spiare un avventuriero irlandese che si fa chiamare “Cbevalier de Balibari”, si commuove alla vista di un connazionale e con lui fugge dalla Prussia, iniziando una redditizia carriera di giocatore d’azzardo. A Spa incontra e seduce la contessa Honoria Lyndon, titolare di una delle più grosse fortune d’Inghilterra, la quale, dopo la morte del marito, diventa sua moglie.
Parte seconda: le disavventure di Barry Lyndon
Ottenuta col matrimonio l’autorizzazione a chiamarsi Barry Lyndon, Redmond tocca il culmine della sua parabola, che da questo momento comincia a diventare discendente. Egli trascura e tradisce apertamente la moglie, la quale nel frattempo gli ha dato un figlio, Bryan, che egli ama teneramente. Per assicurargli la discendenza, fa di tutto per ottenere un titolo nobiliare, ma invano. Intanto le sue spese rovinose e la scarsa attenzione che riserva alla moglie gli hanno inimicato il figliastro, lord Bullingdon, che egli spesso frusta personalmente, dopo diverbi che diventano sempre più frequenti. La morte di Bryan in seguito ad una caduta da cavallo precipita Redmond nella disperazione e nell’alcool e incrina definitivamente i rapporti fra i due coniugi. Lady Lyndon tenta di uccidersi, mentre il marito continua a dilapidare sistematicamente il patrimonio della moglie. Bullingdon, esasperato, sfida a duello Redmond. Questi scarica volutamente in terra la propria pistola, dopo che al figliastro è accidentalmente scivolato il percussore prima ancora di poter puntare l’arma. Non ritenendosi soddisfatto, Bullingdon spara ancora, e questa volta colpisce il patrigno, per il quale è necessaria l’amputazione di una gamba. Portate a termine le pratiche di divorzio, Lady Lyndon concede all’ex marito un’indennità di 500 ghinee annue purché lasci definitivamente l’Inghilterra. È il 1789.
Un epilogo avverte: “Fu sotto il regno di Giorgio III che i suddetti personaggi vissero e disputarono. Buoni o cattivi, ricchi e poveri, ora sono tutti uguali.”
DAL ROMANZO AL FILM: IDENTITÀ E TRASGRESSIONI
La trama del film, così come è stata sinteticamente esposta, rispetta le linee generali del romanzo. Certo, numerosi sono i tagli operati su personaggi e situazioni non strettamente necessari nell’economia della narrazione, così come i momenti di maggior rilevanza drammatica sono stati dilatati, ma questo rientra nella normale logica dell’adattamento cinematografico di un’opera letteraria. Ma il film è, ovviamente, altra cosa, e a nostro avviso due sono gli elementi che possono fornire, nella lettura comparata dei due testi, una traccia sicura per chiarire le intenzioni del regista.
a) La voce fuori campo.
Nel romanzo è lo stesso Redmond a raccontare le proprie avventure, che vengono così filtrate attraverso la sua natura di cialtrone e picaro. In questo modo il giudizio morale di Thackeray, ambiguo finché si vuole, come abbiamo visto, può emergere indirettamente, ma proprio per questo efficacemente, attraverso le parole del protagonista stesso. Kubrick, viceversa, non solo ha oggettivato la vicenda, ma l’ha fatta commentare da una beffarda “voce fuori campo” (nell’edizione italiana Romolo Valli) che, in luogo di una funzione censoria, assume il compito di far prendere allo spettatore le distanze dalla materia della narrazione. La quale si situa così in una lontananza raggelante, negata a qualsivoglia partecipazione emotiva, nella quale si muovono, più che uomini di carne e sangue, automi che fanno tutt’uno coi loro abiti e le loro parrucche.
b) L’iterazione simmetrica delle situazioni narrative.
Se 2001 e Arancia meccanica presentavano notevoli analogie per l’estremo rigore con cui erano strutturati, diremmo quasi, “dialetticamente” (l’uomo subisce la natura perché privo di ragione – la macchina, frutto della ragione, condiziona l’uomo fino al punto di tentare di avere il sopravvento su di lui – l’uomo sconfìgge la macchina, e, nietschianamente, muore e rinasce come superuomo; Alex violenza allo stato puro – A-lex coartato all’osservanza delle norme sociali – Alex che recupera la propria carica di violenza primordiale, ma la mette al servizio dell’establishment), Barry Lyndon rappresenta un ulteriore passo in questo senso. È infatti il film più “costruito” del suo autore, quello in cui trovano maggiore rilevanza rispecchiamenti e simmetrie e in cui il gioco delle corrispondenze e contrapposizioni viene spinto, come in una “finzione” di Borges, all’esasperazione.
Dire che questi due aspetti “trasgressivi” rispetto al testo letterario rispondono a due diversi criteri, sostanziale il primo e strutturale il secondo , significa fare una considerazione banale nella sua ovvietà, ma anche potenzialmente fuorviante, perché pur nella loro diversa natura, questi accorgimenti tendono allo stesso, omogeneo fine. Il primo, anzi, fa da necessario supporto al secondo, costituendo il più tangibile anello nella catena di elementi di distanziazione dalla vicenda, certo il meno “raffinato” ed il più facilmente rilevabile.
DUELLI E GIOCO COME “STRUGGLE FOR LIFE”.
“In tempi recenti un volgare pregiudizio nazionale volle gettare una macchia sulla personalità dell’uomo d’onore, che faceva del gioco la sua professione; ma io parlo dei buoni vecchi tempi europei, prima che la codardia degli aristocratici francesi nella vergognosa rivoluzione che li mise a posto come meritavano, gettassero il discredito e la rovina sulla nostra classe. Gridano vergogna oggi sugli uomini che vivono del gioco; ma mi piacerebbe sapere quanto i loro sistemi siano più onorevoli dei nostri. Gli agenti di borsa che giocano al rialzo, e vendono, comprano, guazzano in mezzo ai mutui giacenti, mercanteggiando segreti di stato, che altro sono se non giocatori? Il mercante che commercia tè o sego è forse qualcosa di meglio? Le sue balle di sporco indaco sono i suoi dadi, le sue carte vengono scoperte a fin d’anno invece che ogni dieci minuti e il mare è il suo tappeto verde. Chiamate onesta la professione dell’avvocato, in cui si mente per qualsiasi cliente; si mente contro la povertà per amore del compenso da parte della ricchezza, si mente contro la giustizia, perché, nel proprio interesse, si difende l’ingiustizia. Chiamate uomo onesto un medico, un ciarlatano imbroglione, che non ha la minima fiducia nei rimedi che prescrive, e che si intasca la sua ghinea per sussurrarvi all’orecchio che è una bella mattina, mentre un valoroso gentiluomo che siede al tavolo da gioco, sfidando tutti gli stranieri del mondo, col suo denaro, contro il loro denaro, fidando solo nella sua fortuna contro la loro, è prescritto dal mondo della vostra morale. È una cospirazione delle classi medie contro la loro, è proscritto dal mondo della vostra morale. È una cospirazione delle classi medie contro l’aristocrazia; è il trionfo dell’ipocrisia bottegaia contro la quale oggi si deve lottare. Io affermo che il gioco era una manifestazione di cavalleria: è stato proscritto come lo sono state tutte le prerogative delle persone di nobile nascita.”
W.M. Thackway. (4)
Nella sua “frontale” staticità, Barry Lyndon offre un’apparentemente disarmata disponibilità all’enucleazione dei momenti nodali della struttura narrativa. Come nel “fumetto” del “Miracolo dell’ostia” di Paolo Uccello, si possono fissare più che degli “scomparti”, delle situazioni simmetricamente ricorrenti, ciascuna delle quali assume il valore di tessera musiva rigorosamente necessaria, nella sua apparente “casualità”, alle direttrici evolutive che innervano il “progetto” complessivo. Proviamo a schematizzarle. (5)
a) I duelli.
1) Morte del padre di Barry (nel romanzo avviene per cause naturali). Motivo: una questione di cavalli. Armi: pistole. Modalità: tiro simultaneo. Esito: morte.
2) Col capitano Quin. Motivo: Nora. Armi: pistole. Modalità: tiro simultaneo. Esito: morte simulata.
3) Col caporale dei “Grenadiers”. Motivo: prestigio nel reggimento. Armi: pugni. Modalità: inquadramento in un ring con arbitro. Esito: K.O. del caporale.
4) Con Lord Ludd. Motivo: debiti di gioco. Armi: fioretti. Esito: ferimento del nobile.
5) Con Lord Bullingdon (non esiste nel romanzo). Motivo: odio (motivato d’altronde dal comportamento di Redmond verso Lady Lyndon e dalla progressiva dissipazione del suo patrimonio). Armi: pistole. Modalità: tiri successivi. Esito: amputazione della gamba di Redmond.
b) Il gioco
1) Con Nora (il fine è la seduzione).
2) Con Turbigen (lo scopo finale, il lucro, è raggiunto facendo ricorso alle arti del baro).
3) Con Lord Ludd (id).
4) Con Lady Lyndon (seduzione a fini di interesse e di promozione sociale).
5) Colla madre (abdicazione definitiva ad una posizione sociale faticosamente raggiunta).
c) Amore
1) Per Nora (passione).
2) Per Lischen (sensualità).
3) Per Lady Lyndon (interesse).
d) Educazione
1) Capitano Freney (il gatto)
2) Capitano Grogan (Fagan nel romanzo — scuola di realismo — prima figura paterna).
3) Capitano Potzdorff (la Volpe).
4) Chevalier de Balibari (scuola di cinismo – seconda figura paterna).
La ripetizione-variazione di questi motivi viene ad assumere una duplice funzione. La prima, e più evidente, amplifica ed approfondisce una tendenza già presente nel romanzo. Kubrick, come Thackeray, non ha voluto fare un’opera “storica”, che chiarisse da un punto di vista strutturale i rapporti economici e sociali nell’Inghilterra del ‘700. Tuttavia, in assenza di una vera e propria analisi, egli ha voluto alludere ad essi mediante una fitta catena di rimandi simbolici. Duelli e gioco, visti sotto questa prospettiva, vengono ad assumere la funzione di rappresentare la “struggle for life” dell’epoca, ambiguamente raggelata dall’autore nel manto obbligato dello “stile”, vera corazza sociale che fa risaltare la brutalità sostanziale, sempre presente dietro l’eleganza delle forme. La quale diventa contrappunto ironico rispetto alle effettive finalità a cui queste attività sono dirette e rispetto alla statura morale dei personaggi, spacconi tremebondi e meschini (Quin), bari cinici e spregiudicati (Balibari), nobili dalle apparenze raffinate, ma schiocchi e spregevoli (Lord Ludd). Sintesi suprema di questa concezione “etologica” è la sequenza della battaglia-balletto tra inglesi e francesi, coreograficamente perfetta nella sua agghiacciante mostruosità, lucidamente geometrica nel suo orrore, ma insieme oggetto di affascinata (affascinante) contemplazione. Come giustamente scrive Alberto Arbasino “Kubrick ha capito che una battaglia nella Guerra dei Sette Anni è una vetta figurativa dell’arte rococò: la feccia nordica del Continente si batte in divise stupende in una natura simile a un giardino inglese; calzoni bianchi, giacche rosse oppure blu, alamari, stivali, tricorni, sotto cieli da vacanze Italturist, tra ufficiali che fino a poco prima si parlavano affettuosamente di dame sotto la tenda, o facevano il bagno nel fiume col soldato preferito.” (6).
La seconda funzione che presiede alla sistemazione iterativa dei procedimenti narrativi è strettamente legata alla struttura del film ed alla rigorosa costruzione della figura del protagonista.
La parabola di Redmond, analoga per molti versi a quella dell’Alex di Arancia Meccanica, si può dividere in tre momenti fondamentali. Durante il primo vediamo il nostro eroe, molto meno cialtrone rispetto al romanzo, che, sia pure con giovanile sregolatezza, sembra possedere tutte quelle doti di umanità che viceversa non compaiono nelle figure che gli fanno da contorno. Il suo attaccamento a Nora, con tutto ciò che di irriflessivo e di infantile esso contiene, testimonia in lui una disponibilità incontaminata da fini di lucro di promozione sociale. I quali, viceversa, informano le azioni sia di Nora e dei di lei fratelli, sia del capitano Quin. Il contesto di questa prima parte della vicenda è significativamente rappresentato dall’Irlanda di una piccola nobiltà ricca più di orgoglio che di denaro. Il duello, con la susseguente, fittizia morte di Quin, mette in moto la seconda parte della vicenda, quella che ha di gran lunga maggior spazio nella narrazione. Nell’economia della quale vengono ad assumere notevole rilevanza quattro figure, due delle quali definiremo “magiche”, e due delle quali “paterne”. Le figure “magiche” sono rappresentate dai due capitani Freney e Potzdorff, uno fasullo e l’altro autentico. Il primo, elegante nei modi, quasi simpatico, è un famoso brigante che, derubando Redmond, lo spinge a scegliere la strada dell’arruolamento; il secondo, odioso, dalla cortesia aristocratica, ma assolutamente falsa, arruola forzatamente il protagonista nell’esercito di Federico II. Queste due figure, così scopertamente “speculari”, assumono nella struttura della “favola” una funzione non dissimile da quella del Gatto e della Volpe di “Pinocchio” (ai quali, tra l’altro, i due attori assomigliano in modo notevole): la loro simpatia e antipatia non derivano quindi dal ruolo narrativo eh essi giocano, che è sostanzialmente identico, ma dal diverso contesto, istituzionalizzato nel secondo caso, “individualistico” nel primo, in cui essi lo giocano. (7)
Le due figure paterne prendono forma nel capitano Grogan e nello “Chevalier de Balibari”. Il primo, col suo buon senso, colla sua bonomia, col suo sincero affetto per il focoso irlandese, costituisce una positiva fonte di educazione alla concretezza ed al realismo; il secondo, tipico avventuriero settecentesco, tra Giacomo Casanova e Lorenzo Da Ponte, disincantato tessitore di intrighi politici e baro impenitente ulteriormente disumanizzato da Kubrick, il quale non fa cenno al rapporto di parentela (è suo zio) che nel romanzo lo unisce al protagonista, gli è maestro di cinismo. Coerentemente colla progressiva presa di coscienza della realtà da parte di Redmond, e quindi col suo adattamento ad essa, anche gli episodi amorosi perdono la spontaneità che aveva caratterizzato il rapporto con Nora. Così si passa da un incontro fondato esclusivamente sulla reciproca attrazione fisica (Lischen) ad una seduzione programmata a fini di interesse (Lady Lyndon). Lo sfondo della vicenda si sposta in Prussia, durante la Guerra dei Sette Anni, ed in Inghilterra, e il contesto diventa quello devitalizzato e raggelante dell’aristocrazia. Colla terza parte della storia, consacrata alla rapida caduta di Barry Lyndon, le ordinate regole che governano lo svolgimento dell’esistenza nell’aristocrazia inglese del ‘700 vengono sconvolte dal riemergere violento delle passioni forzatamente sopite nell’animo del protagonista. L’amore per il figlio Bryan, la disperazione per la sua morte, l’odio, intenso quanto giustificato, del figliastro Lord Bullingdon, ripropongono l’urgere di quelle pulsioni, elementari quanto sconvolgenti, che l’organizzazione sociale ha invano cercato di formalizzare in rituali sublimazioni. Di questo aspetto ci pare che la scena del concerto interrotto rappresenti il culmine simbolico: l’irruzione nella sala in cui si sta suonando il “Concerto per due clavicembali e orchestra” di J.S. Bach da parte di Bryan che indossa le per lui enormi scarpe di Lord Bullingdon, assume il significato di una trasgressione ad una delle norme più consolidate che regolano i riti della “high society” dell’epoca. Ma ben maggiore rilevanza viene ad assumere la foga selvaggia con cui Barry si getta sul figliastro (in una delle poche sequenze enfatizzate dall’uso della “macchina a mano”), emersione incontrollabile di istinti primordiali, negazione viscerale di un cinismo altrimenti per lungo tempo coltivato, ma anche primo passo verso il suicidio sociale (secondo Kubrick, beninteso, non secondo Thackerav). A questo punto tutto risulta ormai scritto, e la morte del figlio adorato assume la consequenziale necessarietà del corollario, così come necessaria appare la definitiva autodistruzione del protagonista, che passa attraverso l’alcool ed ha il suo suggello nella straordinaria scena del duello-suicidio.
Termina la parabola, e Kubrick, dopo avere concesso (relativamente) spazio alle passioni, riprende a guardare la vicenda da lontananze stellari. “Fu sotto il regno di Giorgio III che i suddetti personaggi vissero e disputarono. Buoni o cattivi, ricchi e poveri, ora sono tutti uguali.” È il 1789, tramonta una classe sociale, coi suoi privilegi, la sua cultura, il suo stile di vita.
Astoricamente, la morte ha livellato tutti nella sua uguaglianza. Queste constatazioni, improntate ad una concezione deterministica della continuità storica, innervate da uno scetticismo sostanziale, rappresentano il punto di arrivo del pessimismo kubrickiano. Quest’autore, che nel bellissimo finale di 0rizzonti di gloria riaffermava la sua fiducia nell’uomo nonostante l’assurdità delle strutture che esso si era dato, che fino a pochi anni fa questa stessa fiducia poteva riporre in un’irrazionalistica prefigurazione del “superuomo” (2001: 0dissea nello spazio), oggi ripiega desolatamente in un passato “fantascientifico”, non rivissuto su di un piano “storico”, non colto nel pulsare delle sue contraddizioni, ma devitalizzato nelle sue sovrastrutture. Il rifiuto della psicologia, rigorosamente coerente con questa scelta del regista, lo porta a privare i personaggi di quella umanità che li caratterizzava nel romanzo, a fare di loro delle “figures in a landscape”, in un insieme in cui il paesaggio prevale sulle figure, l’atteggiarsi sull’essere. (8)
Essenziale, in questo processo di distanziazione-devitalizzazione, risulta l’uso che Kubrick fa della musica e della pittura, qui più che mai importanti nella definizione di un’ottica, nella scelta di un registro interpretativo, vere strutture semantiche “portanti” di un ambizioso affresco.
LA MUSICA: DA LUDWIG VAN A WOLFANG AMADEUS
Consapevole delle infinite possibilità espressive offerte dal patrimonio musicale esistente (quello europeo in particolare), Kubruck rinuncia ormai sistematicamente ad utilizzare composizioni originali per i propri film. Bisogna risalire a 2001: 0dissea nello spazio per comprendere il significato di questa scelta e l’influenza che ha esercitato sui procedimenti narrativi di questo autore, incidendo in modo rilevante sullo stile. Riconosciuta l’impossibilità di spezzettare la forma compiuta dei brani associati ad alcuni momenti dell’Odissea, dal “Bel Danubio Blu” di Strauss ad “Atmospheres” di Ligeti, Kubrick ha dovuto adattare il montaggio delle sequenze alle necessità strutturali della musica, in un processo che vede la colonna sonora non complementare all’immagine, bensì momento trainante che dell’immagine determina il ritmo e la dilatazione temporale: cinema costruito sulla musica, che si sviluppa nel tempo necessario a generare la coscienza di un centro tonale, secondo un procedimento di allontanamento e successivo ritorno al tema, attraverso corrispondenze e ripetizioni che comprendono momenti di indispensabile superfluo. Se le scelte operate in 2001: Odissea nello spazio potevano suscitare qualche dubbio in parte legittimo (la lunga sequenza del “viaggio nell’ignoto”, quando sono i colori a “raccontare” la musica di Ligeti, poteva far sospettare un descrittivismo di stampo impressionistico, pur con associazioni visive affascinanti), la puntigliosa ricerca portata a compimento nelle due opere più recenti rende l’esatta misura della serietà di Kubrick, “regista” nell’accezione più ampia del termine.
Tanto che per Barry Lyndon il discorso sulla raccolta e la sistemazione dei brani si fa estremamente complesso, come complesso e strutturato risulta il film, in apparenza chiara e lineare, seppur accuratissima ricostruzione d’ambiente. Nel senso che i pezzi in questione, al pari dei mobili e dei palazzi, dei giardini e delle parrucche, non assumono solamente una funzione di immediato rimando storico: rappresentano invece un determinato riflesso del periodo, che passa attraverso Haendel e Paisiello oltre che Hogarth e Gainsborough. Proprio questa volontà di illustrazione distaccata ha indotto Kubrick a rinunciare a qualsiasi forma di contrappunto sonoro. Il commento musicale, infatti, o sostituisce il narratore nelle sue funzioni, anticipando costantemente, nella successione delle immagini, gli avvenimenti che seguiranno, oppure ne sottolinea la freddezza, aiutando lo spettatore a prendere ulteriormente le distanze dalla vicenda. È opportuno a questo proposito citare la coppia Adorno-Eisler, che negli anni ’40 elaborò la più ampia ed acuta analisi sull’argomento: “…La produzione di massa del cinema ha condotto alla formazione di situazioni tipiche, di momenti emozionali sempre ricorrenti, di stimoli standardizzati di eccitazione. A ciò corrispondono gli effetti-cliché della musica. La musica tuttavia entra in azione proprio là dove, in nome della ‘stimmung’ e della tensione, ci si attende un effetto particolarmente caratteristico. Il forte effetto che ci si proponeva viene con ciò vanificato dal fatto che gli viene affidata la funzione di stimolo di innumerevoli situazioni analoghe.” (9) Kubrick utilizza superbamente l’effetto-cliché, stravolgendone ancora una volta l’uso comune. Basti pensare alla lunga vicenda della morte di Bryan, figlio prediletto, preannunciata con un buon anticipo dal narratore, quindi sottolineata, fino al funerale, da una tristissima “Sarabande” a tempo lento che grava sulla narrazione con opprimente senso di ineluttabilità, ancora durante l’educazione di Bryan al gioco e allo sport, oltrechè, in assenza del bambino, all’atto dell’acquisto del cavallo che sarà per lui fatale.
Come in un romanzo di Fielding, in cui le vicende dei protagonisti sono preannunciate ad ogni capitolo, così Barry Lyndon, più che mai alla ricerca di uno “stile” veramente settecentesco, spezza sistematicamente la tensione narrativa, non induce mai lo spettatore ad interrogarsi sull’esito del racconto, incentrando tutta l’attenzione sul “particolare”, che del film costituisce la vera essenza.
Alla pratica di anticipo della musica sull’immagine si sovrappone, in un certo senso complemento necessario, l’uso del “leit-motiv”, associato sia a personaggi che a situazioni. Si ascolta infatti due volte il “Trio” schubertiano, alla prima comparsa di Lady Lyndon (circa a metà film), e lievemente in anticipo sul notevole quadro finale, nel momento stesso in cui il narratore pronuncia il nome della contessa di Castle Hackton. Ci si è chiesti il perché dell’inserimento di un compositore ottocentesco in tale contesto: Kubrick si è giustificato affermando di non aver trovato nulla di meglio. “In un primo tempo avrei voluto servirmi esclusivamente di musica del ‘700. Credo di averla ascoltata tutta con molta attenzione, registrata su nastro. Ma ahimè, non ci si trova nessuna passione, niente che, nemmeno alla lontana, possa evocare un tema d’amore; niente, in particolare, che abbia il sentimento tragico del “Trio” di Schubert. Senza essere romantico del tutto, ha qualcosa di romanzesco e di tragico.” (10) Se la scelta di questo brano sia effettivamente dovuta ai motivi, peraltro discutibili, cui fa cenno il regista, non sappiamo: certo è che l’uso anacronistico del compositore viennese sembra regalare a Lady Lyndon la compostezza e la dignità di una creatura incolpevole guidata dagli uomini e dagli eventi ad un triste ed immeritato destino.
Tema del gioco con lo “Chevalier de Balibari” è invece la “Cavatina” dal “Barbiere di Siviglia” di Paisiello, mentre le scene d’amore con Nora e Lischen sono contrassegnate da “Women of Ireland”, una canzone popolare irlandese rielaborata da Sean O’ Piada. Va detto a questo proposito che la colonna sonora risulta strutturata in due blocchi, corrispondenti grosso modo al primo ed al secondo tempo del film: le vicende che vedono Redmond Barry nel suo ambiente natio e successivamente nell’esercito britannico, sono accompagnate da motivi tradizionali irlandesi e da marce militari inglesi; la “Hohenfriedberger” di Federico il Grande sottolinea il passaggio alle milizie prussiane, mentre la marcia da “Idomeneo” di Mozart sancirà definitivamente l’ingresso di Redmond nel bel mondo. Da questo momento in poi vengono utilizzati solo brani di compositori “classici” (anche Bach fa una timida comparsa), mentre il ricordo dei travagliati trascorsi riemergerà brevemente nel bordello frequentato dagli ufficiali che cantano sguaiatamente il loro “Bretish Grenadiers”. I singoli frammenti assumono così la connotazione di “particolari musicali” conformi all’idea generale di un film teso alla realizzazione di una unità stilistica generata dalla compenetrazione osmotica di suono e immagine, che si colloca in una dimensione differente sia rispetto al coinvolgimento emotivo (2001: Odissea nello spazio) che al contrappunto ironico (II dottor Stranamore, Arancia meccanica).
DIPINGERE ALLA MOVIOLA?
Il discorso sul rapporto cinema-arte figurativa in Barry Lyndon è stato talora ridotto dalla critica ad una annoiata elencazione dei nomi più o meno rappresentativi della pittura rococò, indicati come modelli che Kubrick avrebbe tentato di riprodurre il più minuziosamente possibile. Di qui l’accusa di “…calligrafismo leccato e perfetto” che riduce l’opera ad una serie di “tableaux snaturati in diapositive, i cui raccordi sono affidati al superfluo dell’azione”, oltrechè di “arbitrario consumismo nei confronti della pittura, che diventa così una scorciatoia per la storia e la delibazione delle sue sovrastrutture piuttosto che il canale per una sua lettura profonda e strutturale.” (11) I motivi principali che inducono a rifiutare un approccio critico di questo tipo, prima ancora delle conclusioni, sono due.
1) La particolare situazione di Kubrick regista, soggettista, sceneggiatore e spesso produttore dei propri film, nel “business” industriale che fa capo alle grandi case cinematografiche americane. Non bisogna infatti dimenticare che ciascuna delle opere realizzate da Kubrick, da Orizzonti di gloria in poi, ha rappresentato un grosso impegno produttivo che gli ha sempre permesso di utilizzare a fondo tutte le risorse tecnico-spettacolari offertegli dalla disponibilità di ingenti capitali. La logica del profitto non può contemplare il fallimento sul piano commerciale, ed in ossequio a questa ferrea regola le concessioni alla platea rientrano nella normale prassi, anche degli autori più affermati. (12)
Kubrick capovolge questi schemi, elevando la spettacolarità a rigore formale ineccepibile, esce dalla norma dilatando i tempi delle scene ed esasperandone alcuni caratteri (il realismo documentaristico, l’esibizione sfarzosa) tipici delle grandi produzioni. Al di là, quindi, di ogni considerazione sul “talento” del regista, gli vanno riconosciute quelle indubbie capacità tecnico-produttive che gli hanno consentito, durante tutto l’arco della sua carriera, di portare a compimento operazioni altamente spettacolari, senza per questo dover giungere a sostanziali compromissioni, sia sul piano stilistico, sia sul piano delle tematiche affrontate.
2) L’idea generale del film, come abbiamo già avuto modo di osservare non prende le mosse dalla volontà di analizzare un secolo inteso come successione storica di avvenimenti più o meno significativi, né vuole Kubrick rendere, attraverso l’opera cinematografica, i contrasti e le lotte fra le classi caratterizzanti un determinato periodo. Risulta quindi deviante, e disonesto nei confronti dell’autore, muovere da un’ottica che non è la sua, affrontare in maniera del tutto superficiale e con argomentazioni non sufficientemente motivate le tematiche principali dell’opera, tralasciando qualsiasi sforzo analitico serio che giustificherebbe adeguatamente un eventuale giudizio negativo. Si può certamente pretendere da Kubrick molto di più di un “documentario” storico, ma bisogna conseguentemente cercare, in sede critica, di andare oltre la superficie abbagliante della “genialità espressiva” e della “intuizione figurativa”, ricercando, nel gioco delle simmetrie e dei rimandi, delle scansioni spazio-temporali e dei riferimenti, l’idea complessa ed ambiziosa di un film apparentemente lineare.
PERSONAGGI COME “FIGURES IN A LANDSCAPE”
Già la prima scena ci rende adeguatamente le intenzioni dell’autore: nella rappresentazione del duello con conseguente morte del padre di Redmond, la macchina, in posizione esattamente frontale, non accenna a muoversi, mantenendosi nel contempo ben lontana dal luogo dell’azione. Un muretto a secco ed un grande albero, in primo piano, accentuano questa sensazione di immobilità, non contrastata dalle figure umane che ci appaiono come macchie lontane, la cui rigida compostezza al momento dello sparo fa tutt’uno con l’ambiente circostante. Il secondo duello ci presenta una natura ancor più bella e indifferente alle paure ed agli interessi degli antagonisti: Kubrick si sofferma però molto più a lungo sui preparativi, il rituale e le modalità, variando spesso l’angolo di ripresa. Utilizza inoltre uno zoom potentissimo che (qui come altrove) muove da un particolare, in questo caso la canna di una pistola, per scoprire gradualmente l’intera composizione, fissandosi poi sull’inquadratura frontale. Chiara è la volontà di comporre l’immagine cinematografica, fatta sì di oggetti, ma soprattutto di elementi naturali e personaggi viventi, secondo un’ottica prettamente pittorica, con la differenza che qui il mezzo, potenzialmente mobile, ricerca l’immobilità: ne consegue un ulteriore raggelamento rispetto all’immagine pittorica, che è fissa, ma costantemente alla ricerca di una vitalità e di un movimento sempre negati dalle necessità costruttive dell’immagine cinematografica. Si individua così una precisa funzione affidata al rimando pittorico, che costituisce, al pari della colonna sonora, ulteriore elemento di distanziazione dalla materia narrata. Richiamando l’attenzione sui procedimenti compositivi delle immagini, Kubrick fa scivolare costantemente in secondo piano l’evolversi della vicenda, trasferendo la concentrazione dello spettatore sugli aspetti formali della rappresentazione di un secolo secondo l’immagine che esso stesso ha voluto lasciare di sé. I riferimenti più immediati sono a Wilson o a Constable per quanto riguarda gli effetti luminosi degli esterni e le scene di paesaggio tipicamente nordiche, mentre, per la ritrattistica, il volto sanguigno della madre di Redmond o quello sensuale di Lischen si rifanno ai soggetti popolareschi di Greuze e Chardin. L’esatta cronologia del rapporto scena-periodo storico, la coincidenza perfetta tra soggetto della rappresentazione e riferimento stilistico, sono elementi necessari per chi scelga un approccio fenomenologico alla ricostruzione storica. La meticolosità diventa ora elemento necessario alla creazione di nuovi spazi e nuove dimensioni: sociali, psicologiche, organizzative. In questa prospettiva, risalire alle significazioni storiche partendo da manifestazioni sovrastrutturali, significa ricercare le motivazioni intrinseche degli ordinamenti, delle strutture e delle razionalizzazioni figurative. Modellare il volto e l’abbigliamento di Lady Lyndon sulla ritrattistica di Reynolds o Gainsborough non assume quindi solamente il significato di un prezioso richiamo culturale, ma individua immediatamente un ambiente sociale, un gusto ed un modo di concepire la vita. Lo stesso dicasi dei riferimenti ai vari Copley, Stubbs, Zoffany, che intervengono di volta in volta per mettere il cappello ad un neonato, evidenziare il profilo di un cavallo, rendere credibile un interno patrizio; ancora, Hogarth determina l’atteggiarsi di Redmond Barry nelle sue mattine dopo una notte di dissipazione, rivelando la pesantezza e il disgusto che accompagnano l’ascesa e la caduta di un libertino. Altri due momenti evidenziano la volontà di inserire nelle immagini il senso della “moda”, del gusto internazionale rococò: la scena sul ponticello, quando Redmond accoglie i suggerimenti della madre e decide di tentare l’ascesa al titolo di Lord, ed il momento del primo incontro, sul terrazzo, tra il protagonista e Lady Lyndon. La prima scena, infatti, si svolge a Stourhead nel Wiltshire, tipico giardino inglese della fine del ‘700, che vuole imitare i paesaggi della fantasia artistica di un pittore aderente alla corrente del “pittoresco”: il tempietto palladiano, il lago, la barca, le figure sul ponte, vengono ripresi collo zoom, che dissipa lentamente la percettibilità del movimento. La luce freddissima, che scivola sulla pelle dei due amanti nel loro primo incontro al chiaro di luna, richiama invece le statuine in ceramica di Chelsea o Worchester, complice una evidente staticità di recitazione. Per concludere questa carrellata, che non può che essere men che indicativa, non ci si può esimere dal citare le ormai famose lenti Zeiss ad alta velocità, che hanno permesso di effettuare le riprese al lume di candela, di una dozzina di scene che prendono modello tanto Wright of derby come Boucher e Fragonard. (13)
Solo in cinque brevi sequenze Kubrick ha rinunciato alle fissità amestose per ricorrere ad un mezzo inequivocabilmente cinematografico come la macchina a mano; tenuto conto che il film va oltre le tre ore di durata, si è propensi a credere che il regista abbia voluto attribuire una certa rilevanza, o quantomeno un significato particolare, a determinate situazioni, in modo da renderle decisamente contrastanti nell’affresco complessivo. Consideriamole singolarmente.
1) Redmond, fuggendo verso Dublino, incappa nel “capitano” Freney, noto fuorilegge. L’apertura è “in soggettiva”, e, l’immagine è scossa dai sussulti del cavallo: tuttavia il protagonista non ha ancora capito quello che sta per accadere, e l’atmosfera è di grande incertezza. La cinepresa ritorna all’immobilità quando Redmond si è ormai reso conto della situazione, ma un brano musicale di Sean O’ Riada, su strane tonalità, provvede a mantenere la tensione fino alla fine della scena.
2) Redmond, soldato dell’esercito britannico, sfida a pugni un camerata dopo averlo offeso. La macchina segue la boxe fra i due, rimanendo però all’interno del “quadrato” formato dal resto della truppa.
3) Redmond salva il capitano Potzdorff, ferito in battaglia: l’inquadratura del corridoio del fortino, “in soggettiva”, simula lo sforzo del protagonista sotto il peso del corpo dell’ufficiale.
4) Redmond, durante un concerto da camera, picchia selvaggiamente il figliastro Lord Bullingdon alla presenza di un nutrito gruppo di aristocratici che intervengono per dividere i contendenti.
5) La macchina a mano insegue Lady Lyndon che si rotola nella stanza in preda a spasmi lancinanti per il veleno ingerito.
Oltre ad una generica tensione insita in ciascuna delle situazioni elencate, si rileva il venir meno della abituale stabilità dell’immagine ogniqualvolta la vicenda, travalicando i limiti del previsto, si determina in momenti fondamentali nella propria evoluzione; l’inquadratura incerta evidenzia quindi l’imprevedibilità di quegli avvenimenti che sfuggono alla volontà dei protagonisti. Fa eccezione l’episodio che vede Redmond cimentarsi nella “noble art” con l’irsuto compagno d’arma semplice momento illustrativo sia del carattere del protagonista, sia di quelli che probabilmente erano gli svaghi maggiormente ricorrenti nella vita militare. In questo senso la sequenza assume il valore di vera e propria metafora visiva calata nella realtà militare, ma facilmente rapportabile a tutta l’organizzazione sociale del secolo. L’istinto belluino che spinge i protagonisti alla violenza per vendetta, è immediatamente raggelato, recuperato ed inquadrato. La Brutalità non viene quindi negata, risulta invece necessario ricondurre a procedimenti canonici ogni manifestazione spontanea. Una volta tracciate queste coordinate, qualsiasi libertà è ammessa, e la macchina a mano, rinchiusa essa stessa nel quadrato, può affrontare la descrizione con tutta l’agilità della quale dispone. Il seguito del film dimostra come non sia possibile per il protagonista ripetere simili esperienze, credere nella validità delle proprie reazioni istintive, dei propri sentimenti, senza un solido piedistallo sociale, senza un “mondo”, una classe, il cui riconoscimento può essere unicamente frutto di un’adesione totale ai principi ed alle regole da essa codificati. Così Redmond dà inizio alla propria rovina picchiando il nobile figliastro, senza tenere nella dovuta considerazione la presenza degli aristocratici; così provoca il tentativo di suicidio della moglie allontanando il reverendo Runt, vero colpo di grazia questo, che metterà in moto un processo irreversibile, e non lascerà più possibilità alcuna all’ex signor Lyndon. La lunghissima, complessa scena del duello finale, evidenzia poi in maniera drammatica questo contrasto tra coraggio istintivo e viltà calcolata, tra lealtà e cinismo, doti sì umane individuali, ma che nel contesto del film, rappresentano ragioni storiche ben determinate: le ragioni di una società consolidata che non ammette intrusioni e non ha bisogno quindi, di avventurieri dal cuore in fondo generoso, ma necessariamente privi di coscienza sociale. Questo duello-resa dei conti, pur se condotto in osservanza alle regole usuali, si presenta come qualcosa di “diverso”, non più momento canonico, rappresentazione-riproduzione di uno stile di vita, ma vero e proprio banco di prova che annulla tutte le convenzioni. Di fronte alla morte, cadono gli orpelli di un’organizzazione perfetta quanto cinica, e la natura umana si manifesta in paura, rabbia, vomito, salvo poi ricomporsi in gelida vigliaccheria non appena la minaccia si allontana. Finito il gioco leale, la questione si pone in termini di sopravvivenza, non solo personale, ma di un patrimonio e di un prestigio che coinvolgono un’intera classe: chi non l’ha capito non ha scampo, e rimarrà inesorabilmente castrato. Per la rappresentazione del duello finale, vero momento-rivelazione di tutta l’opera, Kubrick ha fatto uso di un rapido montaggio alternato che distingue nettamente la scena da tutto il film: c’è, nel montaggio, l’idea di uno sfaldamento completo di tutte le convenzioni e le regole che dettavano il comportamento di un gentiluomo settecentesco. Tanto che la vicenda risulta irriproducibile secondo i canoni figurativi del periodo, essendo l’unico approccio possibile ad una situazione talmente complessa quello drammatico, non sospeso in una gelida rappresentazione, ma direttamente calato nella psicologia dei personaggi.
Conclusioni provvisoriamente definitive
“Astotfo il suo destrier verso il palagio
che più di trenta miglia intorno aggira,
a passo lento fa muovere ad agio,
e quinci e quindi il bei paese ammira;
e giudica, appo quel, brutto e malvagio,
e che sia al cielo ed a natura in ira
questo ch’abitian noi fetido mondo:
tanto soave è quel, chiaro e giocondo.”
Ludovico Arrosto. (14)
Un giudizio sintetico, dopo uno sforzo analitico che aspira alla puntualità e si realizza in procedimenti accumulativi, rischierebbe di concretizzarsi in una tendenziosità critica antitetica rispetto alla metodologia adottata. Da sempre estimatori di Kubrick, pensiamo di avere già fatto sufficientemente pesare la nostra simpatia per questo autore. Rifiutiamo quindi il “delirio”, perché lo crediamo estraneo all’attività critica. Ci pare comunque che, davanti a questo ariostesco “volo dell’Ippogrifo”, in cui la verticalità è diventata frontalità, ma a cui è sotteso un analogo, affascinato cinismo, di fronte a questa borghesiana (wildiana coscienza dell'”inutilità” del prodotto artistico e della molteplicità infinità dei suoi rispecchiamenti, sia lecito il rifiuto, ma anche doveroso il riconoscimento di un’intima coerenza. All’esaltazione ed alla stroncatura, spesso ugualmente immotivate, preferiamo quindi l’approccio problematico. Concordiamo, in ogni caso, con Max Tessier, il quale afferma che Barry Lyndon invecchierà bene, ma altresì pensiamo che “la sua giustificazione nell’opera del suo autore resterà da verificare alla luce (naturale) di revisioni ulteriori.” (15)
NOTE:
(1) J. L. Borges, Altre inquisizioni, Feltrinelli, 1963
(2) Citato da M. Praz in La letteratura inglese dai romantici al novecento, Sansoni/Accademia, 1968.
(3) W. M. Thackeray, Le memorie di Barry Lyndon, Garzanti, 1976.
(4) id.
(5) Cfr. J. Segond, Le hasard et la nécessité, in Positif n. 179, un ottimo studio al quale facciamo parziale riferimento in questa schematizzazione.
(6) A. Arbasino, Simpatico mascalzone diventa una canaglia, in “Repubblica” del 23-7-76.
(7) Cfr. J. Segond, cit.
(8) In questo senso non siamo d’accordo con A. Arbasino (cit.) quando afferma che ««la tragedia del film è la scelta del protagonista: Ryan O’ Neal, boccolone paffuto e burroso ininterrottamente in campo, con l’occhione ceruleo e vuoto».
(9) T. W. Adorno – H. Eisler, La musica per film, Newton Compton, 1975.
(10) Da un’intervista di M. Ciment a Stanley Kubrick riportata in Panorama n. 543 del 14-9-76.
(11) M. Calvesi, Dipingere alla moviola, nel “Corriere della sera” del 10-10-76.
(12) Cfr. John Ford, «Nella nostra professione, un fiasco artistico non vuol dire niente, uno commerciale è una condanna», citato da G. Sadoul in Il cinema, Sansoni, 1965.
(13) Ringraziamo l’amica carissima Laura Gasparini per il suo prezioso studio sulla pittura del ‘700.
(14) Orlando Furioso, Canto XXXIV.
(15) M. Tessier, B. L., in “Ecran” ’76 n. 50.
Barry Lyndon
Inghilterra, 1975.
Regista e produttore: Stanley Kubrick. Una produzione Hawk Films Ldt/Peregrine.
Sceneggiatura: Stanley Kubrick, dal romanzo di William Makepeace Thackeray.
Direttore della fotografia (Eastmancolor): John Alcott (lenti Carl Zeiss per le scene a lume di candela adattate da Ed di Giulio).
Musica: da opere di J. S. Bach (Concerto per due clavicembali e orchestra in do minore), Federico II (Marcia “Hohenfriedberger”), G. F. Haendel (Sarabanda), W. A. Mozart (Idomeneo), G. Paisiello (Il barbiere di Siviglia), F. Schubert (Danza tedesca n. 1 in do maggiore, Trio per piano in mi bemolle), A. Vivaldi (Concerto per violoncello in mi minore). Musica tradizionale irlandese e di Sean O’ Riada interpretata da “The Chieftains”. Adattamenti musicali di Leonard Rosenman.
Direttore artistico: Ken Adam.
Scenografia: Roy Walker.
Montaggio: Tony Lawson.
Costumi: Ulla-Britt Soderlund, Milena Canonero.
Parrucchiere: Leonard.
Produttore esecutivo: Jan Harlan.
Produttore associato: Bernard Williams.
Assistente alla produzione: Andros Epaminondas.
Aiuto regista: Brian Cook.
Interpreti: Ryan O’ Neal (Barry Lyndon), Marisa Berenson (Lady Lyndon), Patrick Magee (lo “Chevalier de Balibari”), Hardy Kruger (il capitano Potzdorff), Steven Berkoff (Lord Ludd), Gay Hamilton (Mora Brady), Marie Kean (Mrs Barry), Diana Koener (Lischen), Murray Melvin (il reverendo Runt), Frank Middlemass (Sir Charles Lyndon), André Morell (Gustavus Adolphus, Lord Wendover), Arthur O’ Sullivan (il capitano Freney), Godfrey Quigley (il capitano Grogan), Leonard Rossiter (il capitano Quin), Philip Stone (Graham), Leon Vitali (Lord Bullingdon), Dominic Savage (Bullingdon Bambino), Michael Hordern, Romolo Valli nell’edizione italiana (il narratore).
Esterni girati in Irlanda, Inghilterra e Germania.
Distribuzione: P.I.C./Warner Bros.
Durata: 185 minuti.