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BARRY LYNDON – Speciale Cineforum

Stanley Kubrick's Barry Lyndon special published by Italian magazine Cineforum n.160, December 1976
Barry Lyndon, il duello

Cineforum n.160 – Dicembre 1976 (pp.770-789)

Stanley Kubrick
BARRY LYNDON

di Marco e Paolo Vecchi

“Due tendenze ho scoperte, correggendo le bozze nei miscellanei scritti che compongono questo libro. Una, a stimare le idee religiose o filosofiche per il loro valo­re estetico e anche per quel che racchiudono di singo­lare e meraviglioso. Questo è forse indizio di uno scet­ticismo essenziale. Un’altra, a presupporre (e a verifìcare) che il numero di favole o di metafore di cui è ca­pace l’immaginazione degli uomini sia limitato, ma che codeste contate invenzioni possano essere tutto per tutti, come l’Apostolo.”
J.L. Borges. (1)

IL RAPPORTO LETTERATURA-CINEMA IN KUBRICK

Uno degli aspetti più caratteristici del cinema di Kubrick ci pare sia rappresentato dalla quasi costante presenza, spesso a livello di pretesto, di una base letteraria più o meno illustre, e dalle complesse articolazioni che nel prodotto filmico viene ad assumere il rapporto con essa. Questo sia detto preliminarmente, non in funzione di una sterile esegesi comparata tendente a stabilire se illustrazione, interpretazione o stravol­gimento abbiano informato le intenzioni del regista, ma di un’assunzione (metodologica) di un parametro, di un punto fer­mo a cui riferire la successiva dinamica di realizzazione del­l’opera cinematografica. Cogliere il rapporto esistente tra i te­sti di Nabokov (“Lolita”), Burgess (“Arancia a orologeria”) e, più limitatamente, Fast (“Spartacus” fu controllato, a livel­lo di sceneggiatura, da Dalton Trumbo) e i corrispondenti film di Kubrick, significa avere un quadro motivato della loro genesi, una parziale spiegazione delle scelte del regista (sem­pre responsabile o co-responsabile, dell’adattamento), signifi­ca in sostanza avere degli strumenti per una lettura filologi­camente più accettabile, pur nel rispetto dell’autonomia del prodotto cinematografico. E diventa addirittura indispensapilé nei casi di “Allarme rosso” di Poter George e “La sentinella” di Arthur C. Clarke, diventati poi rispettivamente Il dottor Stranamore e 2001: Odissea nello spazio, dalla profonda rie­laborazione dei quali viene messo in moto un ciclo che, par­tendo dalla letteratura, ritorna alla letteratura, passando attraverso la versione cinematografica: la sceneggiatura viene ad assumere qui la funzione di tramite per la riscrittura di un romanzo che porta il titolo del film e che ha, ovviamente, co­me autori gli sceneggiatori e Kubrick stesso.
Stupisce quindi come la critica dei quotidiani e settimanali italiani abbia frettolosamente liquidato il romanzo da cui è tratto Barry Lyndon come una specie di “remake” vittoriano di Tom Jones, chiedendosi al massimo, e non senza meravi­glia, perché la scelta dell’autore di Orizzonti di gloria sia ca­duta su questa opera minore (che peraltro pare nessuno si sia preso la briga di leggere) di uno scrittore non più “a la page” come William M. Thackeray. Perché mai come in que­sto caso la derivazione letteraria ci sembra illuminante sulle intenzioni e sui limiti di un’operazione che, nel suo apparente formalismo, si presenta come una delle più complesse e am­bigue di un autore che non cessa di stupire per il suo ecletti­smo e per la straordinaria capacità di rinnovarsi, e non solo dal punto di vista stilistico, giocando con grande dignità il proprio ruolo nell’ambito di un sistema produttivo regolato dalla ferrea legge del profitto.

WILLIAM M. THACKERAY: LE FRUSTRAZIONI DELLO SCRITTORE VITTORIANO

“Adotterei volentieri lo stile di Fielding e di Smollett, ma la società non lo tollererebbe”.
W.M. Thackeray. (2)

“The luck of Barry Lyndon” (In seguito intitolato “The memoirs of Barry Lyndon Esquire, by himself”), pubblicato a puntate dal “Fraser’s Magazine” nel 1844, è il primo roman­zo impegnativo dell’autore della “Fiera delle vanità”. Visibil­mente ispirato ai romanzi picareschi di Henry Fielding, in par­ticolare a “Jonathan Wild il grande”, se ne differenzia, pre­scindendo dallo scarto stilistico, per l’ormai negata possibilità di legare alla complessità dell’intreccio quel piglio canaglie­sco e quella spregiudicatezza (anche nel mettere sulla scena argomenti sessuali) che i tempi mutati vietavano (quasi in parallelo a quanto è accaduto a Kubrick con Lolita, il cui ri­sultato è stato non poco condizionato dall’impossibilità di rendere adeguatamente la tensione erotica che caratterizza l’opera letteraria). Tipico rappresentante della borghesia vit­toriana, Thackeray vive drammaticamente il contrasto tra ri­gido moralismo e pulsioni, esorcizzando costantemente il proprio latente romanticismo con una freddezza di scrittura, con una distanziazione emotiva che danno una connotazione di aridità alla sua pagina. Tuttavia, sotto la corazza del sarca­smo, dietro il cinismo programmaticamente ostentato, tra­spare la frustrazione del perbenista “malgré lui”, la nevrosi “barocca” di chi forzatamente si adatta alle rigide norme di una società che fa del conformismo più ottuso la sua bandie­ra. Nelle “Memorie di Barry Lyndon” in particolare, ci pare evidente la ricerca di un “altrove” (il 18° secolo) e di un “alter ego” su cui riporre, superando il giudizio morale, che non può non essere negativo, la propria simpatia di “laudator temporis acti” e di moralista per necessità. “Che cosa sono diventati oggi quei sentimenti cavallereschi? Sessant’anni fa un uomo era veramente un uomo, nella vecchia Irlanda; e la spada che portava al fianco era pronta ad ogni questione ca­valleresca, per i più lievi motivi. Ma i bei tempi antichi e le lo­ro abitudini sono svaniti completamente. Si sente parlare ra­ramente ormai, di un bei duello, e l’uso di queste vili pistole, in luogo della nobile e onesta spada, degna di gentiluomini, ha introdotto una quantità di nuove leggi cavalleresche nelle vertenze, che non possono essere abbastanza deplorate.” (3) Sono parole messe in bocca a Redmond Barry, cialtrone e arrivista, ma ci sembra che, pur dissociandosene, l’autore ne subisca il fascino. Il ‘700, colle sue brutali lotte e le sue pas­sioni, ma anche colla sua vitalità e col suo stile, viene pre­sentato con un atteggiamento in cui si mescolano, non sen­za una certa meschinità piccolo-borghese, attrazione e repulsione. Kubrick recupera questa ottica, elevandola a dimensio­ni ariostesche di superiore cinismo.

IL SOGGETTO

Parte prima: come Redmond Barry acquisisce il titolo di Barry Lyndon
Siamo in Irlanda, verso la fine del regno di Giorgio I. Red­mond Barry, adolescente di piccola nobiltà e di scarso pecu­lio, orfano di padre, ucciso in duello, si innamora, della cugina Nora, la quale, pur illudendolo, gli preferisce il capitano inglese John Quin. Questi è goffo e meschino, ma è “un uomo”, e, soprattutto, gode di una rendita di 1500 ghinee. Redmond, pazzo di gelosia, lo provoca e lo uccide (o almeno crede) in duello. Ascoltando il consiglio di Grogan, un capita­no inglese che gli ha fatto da padrino, fugge verso Dublino per sottrarsi all’arresto. Derubato da due banditi, Redmond si arruola nell’armata inglese, dove si ricongiunge con Grogan. Questi gli spiega che il duello è stato una messa in sce­na architettata dai fratelli di Nora per togliersi di torno l’inop­portuno pretendente: le pistole erano caricate con tamponi di stoppa, Quin è vivo ed ha sposato la fanciulla. Il reggi­mento viene trasferito in Europa, dove infuria la Guerra dei Sette Anni, e, in una sanguinosa battaglia coi Francesi, Gro­gan rimane mortalmente ferito. Impossessatosi dei documenti e della divisa di un ufficiale, Redmond diserta, cercando di raggiungere l’Olanda. Scoperto dal capitano Potzdorff, ufficiale di Federico II, viene costretto ad arruolarsi nell’esercito prussiano. Durante un’azione bellica, salva la vita al capitano il quale, a guerra conclusa, lo prende al suo servizio. Incaricato di spiare un avventuriero irlandese che si fa chiamare “Cbevalier de Balibari”, si commuove alla vista di un connazionale e con lui fugge dalla Prussia, iniziando una redditizia carriera di giocatore d’azzardo. A Spa incontra e seduce la contessa Honoria Lyndon, titolare di una delle più grosse for­tune d’Inghilterra, la quale, dopo la morte del marito, diventa sua moglie.

Parte seconda: le disavventure di Barry Lyndon
Ottenuta col matrimonio l’autorizzazione a chiamarsi Barry Lyndon, Redmond tocca il culmine della sua parabola, che da questo momento comincia a diventare discendente. Egli trascura e tradisce apertamente la moglie, la quale nel frat­tempo gli ha dato un figlio, Bryan, che egli ama teneramen­te. Per assicurargli la discendenza, fa di tutto per ottenere un titolo nobiliare, ma invano. Intanto le sue spese rovinose e la scarsa attenzione che riserva alla moglie gli hanno inimicato il figliastro, lord Bullingdon, che egli spesso frusta personal­mente, dopo diverbi che diventano sempre più frequenti. La morte di Bryan in seguito ad una caduta da cavallo precipita Redmond nella disperazione e nell’alcool e incrina definitiva­mente i rapporti fra i due coniugi. Lady Lyndon tenta di ucci­dersi, mentre il marito continua a dilapidare sistematicamente il patrimonio della moglie. Bullingdon, esasperato, sfida a duello Redmond. Questi scarica volutamente in terra la pro­pria pistola, dopo che al figliastro è accidentalmente scivola­to il percussore prima ancora di poter puntare l’arma. Non ri­tenendosi soddisfatto, Bullingdon spara ancora, e questa vol­ta colpisce il patrigno, per il quale è necessaria l’amputazione di una gamba. Portate a termine le pratiche di divorzio, Lady Lyndon concede all’ex marito un’indennità di 500 ghinee an­nue purché lasci definitivamente l’Inghilterra. È il 1789.
Un epilogo avverte: “Fu sotto il regno di Giorgio III che i suddetti personaggi vissero e disputarono. Buoni o cattivi, ricchi e poveri, ora sono tutti uguali.”

DAL ROMANZO AL FILM: IDENTITÀ E TRASGRESSIONI

La trama del film, così come è stata sinteticamente esposta, rispetta le linee generali del romanzo. Certo, numerosi sono i tagli operati su personaggi e situazioni non strettamente ne­cessari nell’economia della narrazione, così come i momenti di maggior rilevanza drammatica sono stati dilatati, ma que­sto rientra nella normale logica dell’adattamento cinemato­grafico di un’opera letteraria. Ma il film è, ovviamente, altra cosa, e a nostro avviso due sono gli elementi che possono fornire, nella lettura comparata dei due testi, una traccia si­cura per chiarire le intenzioni del regista.

a) La voce fuori campo.
Nel romanzo è lo stesso Redmond a raccontare le proprie avventure, che vengono così filtrate attraverso la sua natura di cialtrone e picaro. In questo modo il giudizio morale di Thackeray, ambiguo finché si vuole, come abbiamo visto, può emergere indirettamente, ma proprio per questo effica­cemente, attraverso le parole del protagonista stesso. Kubrick, viceversa, non solo ha oggettivato la vicenda, ma l’ha fatta commentare da una beffarda “voce fuori campo” (nel­l’edizione italiana Romolo Valli) che, in luogo di una funzione censoria, assume il compito di far prendere allo spettatore le distanze dalla materia della narrazione. La quale si situa così in una lontananza raggelante, negata a qualsivoglia partecipa­zione emotiva, nella quale si muovono, più che uomini di carne e sangue, automi che fanno tutt’uno coi loro abiti e le loro parrucche.

b) L’iterazione simmetrica delle situazioni narrative.
Se 2001 e Arancia meccanica presentavano notevoli analogie per l’estremo rigore con cui erano strutturati, diremmo quasi, “dialetticamente” (l’uomo subisce la natura perché privo di ragione – la macchina, frutto della ragione, condiziona l’uo­mo fino al punto di tentare di avere il sopravvento su di lui – l’uomo sconfìgge la macchina, e, nietschianamente, muore e rinasce come superuomo; Alex violenza allo stato puro – A-lex coartato all’osservanza delle norme sociali – Alex che recu­pera la propria carica di violenza primordiale, ma la mette al servizio dell’establishment), Barry Lyndon rappresenta un ul­teriore passo in questo senso. È infatti il film più “costruito” del suo autore, quello in cui trovano maggiore rilevanza rispecchiamenti e simmetrie e in cui il gioco delle corrispon­denze e contrapposizioni viene spinto, come in una “finzio­ne” di Borges, all’esasperazione.
Dire che questi due aspetti “trasgressivi” rispetto al testo let­terario rispondono a due diversi criteri, sostanziale il primo e strutturale il secondo , significa fare una considerazione ba­nale nella sua ovvietà, ma anche potenzialmente fuorviante, perché pur nella loro diversa natura, questi accorgimenti ten­dono allo stesso, omogeneo fine. Il primo, anzi, fa da neces­sario supporto al secondo, costituendo il più tangibile anello nella catena di elementi di distanziazione dalla vicenda, certo il meno “raffinato” ed il più facilmente rilevabile.

DUELLI E GIOCO COME “STRUGGLE FOR LIFE”.

“In tempi recenti un volgare pregiudizio nazionale vol­le gettare una macchia sulla personalità dell’uomo d’o­nore, che faceva del gioco la sua professione; ma io parlo dei buoni vecchi tempi europei, prima che la co­dardia degli aristocratici francesi nella vergognosa rivo­luzione che li mise a posto come meritavano, gettasse­ro il discredito e la rovina sulla nostra classe. Gridano vergogna oggi sugli uomini che vivono del gioco; ma mi piacerebbe sapere quanto i loro sistemi siano più onorevoli dei nostri. Gli agenti di borsa che giocano al rialzo, e vendono, comprano, guazzano in mezzo ai mutui giacenti, mercanteggiando segreti di stato, che altro sono se non giocatori? Il mercante che commer­cia tè o sego è forse qualcosa di meglio? Le sue balle di sporco indaco sono i suoi dadi, le sue carte vengo­no scoperte a fin d’anno invece che ogni dieci minuti e il mare è il suo tappeto verde. Chiamate onesta la professione dell’avvocato, in cui si mente per qualsiasi cliente; si mente contro la povertà per amore del com­penso da parte della ricchezza, si mente contro la giustizia, perché, nel proprio interesse, si difende l’ingiu­stizia. Chiamate uomo onesto un medico, un ciarlata­no imbroglione, che non ha la minima fiducia nei rime­di che prescrive, e che si intasca la sua ghinea per sussurrarvi all’orecchio che è una bella mattina, men­tre un valoroso gentiluomo che siede al tavolo da gio­co, sfidando tutti gli stranieri del mondo, col suo denaro, contro il loro denaro, fidando solo nella sua for­tuna contro la loro, è prescritto dal mondo della vostra morale. È una cospirazione delle classi medie contro la loro, è proscritto dal mondo della vostra morale. È una cospirazione delle classi medie contro l’aristocrazia; è il trionfo dell’ipocrisia bottegaia contro la quale oggi si deve lottare. Io affermo che il gioco era una manife­stazione di cavalleria: è stato proscritto come lo sono state tutte le prerogative delle persone di nobile nasci­ta.”
W.M. Thackway. (4)

Nella sua “frontale” staticità, Barry Lyndon offre un’apparentemente disarmata disponibilità all’enucleazione dei mo­menti nodali della struttura narrativa. Come nel “fumetto” del “Miracolo dell’ostia” di Paolo Uccello, si possono fissare più che degli “scomparti”, delle situazioni simmetricamente ricorrenti, ciascuna delle quali assume il valore di tessera mu­siva rigorosamente necessaria, nella sua apparente “casua­lità”, alle direttrici evolutive che innervano il “progetto” complessivo. Proviamo a schematizzarle. (5)

a) I duelli.
1) Morte del padre di Barry (nel romanzo avviene per cause naturali). Motivo: una questione di cavalli. Armi: pistole. Mo­dalità: tiro simultaneo. Esito: morte.
2) Col capitano Quin. Motivo: Nora. Armi: pistole. Modalità: tiro simultaneo. Esito: morte simulata.
3) Col caporale dei “Grenadiers”. Motivo: prestigio nel reggi­mento. Armi: pugni. Modalità: inquadramento in un ring con arbitro. Esito: K.O. del caporale.
4) Con Lord Ludd. Motivo: debiti di gioco. Armi: fioretti. Esi­to: ferimento del nobile.
5) Con Lord Bullingdon (non esiste nel romanzo). Motivo: odio (motivato d’altronde dal comportamento di Redmond verso Lady Lyndon e dalla progressiva dissipazione del suo patrimonio). Armi: pistole. Modalità: tiri successivi. Esito: am­putazione della gamba di Redmond.

b) Il gioco
1) Con Nora (il fine è la seduzione).
2) Con Turbigen (lo scopo finale, il lucro, è raggiunto facen­do ricorso alle arti del baro).
3) Con Lord Ludd (id).
4) Con Lady Lyndon (seduzione a fini di interesse e di pro­mozione sociale).
5) Colla madre (abdicazione definitiva ad una posizione so­ciale faticosamente raggiunta).

c) Amore
1) Per Nora (passione).
2) Per Lischen (sensualità).
3) Per Lady Lyndon (interesse).

d) Educazione
1) Capitano Freney (il gatto)
2) Capitano Grogan (Fagan nel romanzo — scuola di reali­smo — prima figura paterna).
3) Capitano Potzdorff (la Volpe).
4) Chevalier de Balibari (scuola di cinismo – seconda figura paterna).

La ripetizione-variazione di questi motivi viene ad assumere una duplice funzione. La prima, e più evidente, amplifica ed approfondisce una tendenza già presente nel romanzo. Kubrick, come Thackeray, non ha voluto fare un’opera “stori­ca”, che chiarisse da un punto di vista strutturale i rapporti economici e sociali nell’Inghilterra del ‘700. Tuttavia, in as­senza di una vera e propria analisi, egli ha voluto alludere ad essi mediante una fitta catena di rimandi simbolici. Duelli e gioco, visti sotto questa prospettiva, vengono ad assumere la funzione di rappresentare la “struggle for life” dell’epoca, ambiguamente raggelata dall’autore nel manto obbligato del­lo “stile”, vera corazza sociale che fa risaltare la brutalità sostanziale, sempre presente dietro l’eleganza delle forme. La quale diventa contrappunto ironico rispetto alle effettive fina­lità a cui queste attività sono dirette e rispetto alla statura morale dei personaggi, spacconi tremebondi e meschini (Quin), bari cinici e spregiudicati (Balibari), nobili dalle appa­renze raffinate, ma schiocchi e spregevoli (Lord Ludd). Sinte­si suprema di questa concezione “etologica” è la sequenza della battaglia-balletto tra inglesi e francesi, coreograficamen­te perfetta nella sua agghiacciante mostruosità, lucidamente geometrica nel suo orrore, ma insieme oggetto di affascinata (affascinante) contemplazione. Come giustamente scrive Al­berto Arbasino “Kubrick ha capito che una battaglia nella Guerra dei Sette Anni è una vetta figurativa dell’arte rococò: la feccia nordica del Continente si batte in divise stupende in una natura simile a un giardino inglese; calzoni bianchi, giac­che rosse oppure blu, alamari, stivali, tricorni, sotto cieli da vacanze Italturist, tra ufficiali che fino a poco prima si parla­vano affettuosamente di dame sotto la tenda, o facevano il bagno nel fiume col soldato preferito.” (6).
La seconda funzione che presiede alla sistemazione iterativa dei procedimenti narrativi è strettamente legata alla struttura del film ed alla rigorosa costruzione della figura del protago­nista.
La parabola di Redmond, analoga per molti versi a quella dell’Alex di Arancia Meccanica, si può dividere in tre momenti fondamentali. Durante il primo vediamo il nostro eroe, molto meno cialtrone rispetto al romanzo, che, sia pure con giovanile sregolatezza, sembra possedere tutte quelle doti di umanità che viceversa non compaiono nelle figure che gli fanno da contorno. Il suo attaccamento a Nora, con tutto ciò che di irriflessivo e di infantile esso contiene, testimonia in lui una disponibilità incontaminata da fini di lucro di promozione sociale. I quali, viceversa, informano le azioni sia di Nora e dei di lei fratelli, sia del capitano Quin. Il conte­sto di questa prima parte della vicenda è significativamente rappresentato dall’Irlanda di una piccola nobiltà ricca più di orgoglio che di denaro. Il duello, con la susseguente, fittizia morte di Quin, mette in moto la seconda parte della vicenda, quella che ha di gran lunga maggior spazio nella narrazione. Nell’economia della quale vengono ad assumere notevole ri­levanza quattro figure, due delle quali definiremo “magiche”, e due delle quali “paterne”. Le figure “magiche” sono rap­presentate dai due capitani Freney e Potzdorff, uno fasullo e l’altro autentico. Il primo, elegante nei modi, quasi simpatico, è un famoso brigante che, derubando Redmond, lo spinge a scegliere la strada dell’arruolamento; il secondo, odioso, dalla cortesia aristocratica, ma assolutamente falsa, arruola forzatamente il protagonista nell’esercito di Federico II. Queste due figure, così scopertamente “speculari”, assumono nella struttura della “favola” una funzione non dissimile da quella del Gatto e della Volpe di “Pinocchio” (ai quali, tra l’altro, i due attori assomigliano in modo notevole): la loro simpatia e antipatia non derivano quindi dal ruolo narrativo eh essi gio­cano, che è sostanzialmente identico, ma dal diverso conte­sto, istituzionalizzato nel secondo caso, “individualistico” nel primo, in cui essi lo giocano. (7)
Le due figure paterne prendono forma nel capitano Grogan e nello “Chevalier de Balibari”. Il primo, col suo buon senso, colla sua bonomia, col suo sincero affetto per il focoso irlan­dese, costituisce una positiva fonte di educazione alla con­cretezza ed al realismo; il secondo, tipico avventuriero sette­centesco, tra Giacomo Casanova e Lorenzo Da Ponte, disin­cantato tessitore di intrighi politici e baro impenitente ulteriormente disumanizzato da Kubrick, il quale non fa cenno al rapporto di parentela (è suo zio) che nel romanzo lo unisce al protagonista, gli è maestro di cinismo. Coerentemente col­la progressiva presa di coscienza della realtà da parte di Red­mond, e quindi col suo adattamento ad essa, anche gli epi­sodi amorosi perdono la spontaneità che aveva caratterizzato il rapporto con Nora. Così si passa da un incontro fondato esclusivamente sulla reciproca attrazione fisica (Lischen) ad una seduzione programmata a fini di interesse (Lady Lyndon). Lo sfondo della vicenda si sposta in Prussia, durante la Guer­ra dei Sette Anni, ed in Inghilterra, e il contesto diventa quello devitalizzato e raggelante dell’aristocrazia. Colla terza parte della storia, consacrata alla rapida caduta di Barry Lyndon, le ordinate regole che governano lo svolgi­mento dell’esistenza nell’aristocrazia inglese del ‘700 vengono sconvolte dal riemergere violento delle passioni forzatamente sopite nell’animo del protagonista. L’amore per il figlio Bryan, la disperazione per la sua morte, l’odio, intenso quanto giustificato, del figliastro Lord Bullingdon, ripropongono l’urgere di quelle pulsioni, elementari quanto sconvolgenti, che l’organizzazione sociale ha invano cercato di formalizzare in rituali sublimazioni. Di questo aspetto ci pare che la scena del concerto interrotto rappresenti il culmine simbolico: l’irruzione nella sala in cui si sta suo­nando il “Concerto per due clavicembali e orchestra” di J.S. Bach da parte di Bryan che indossa le per lui enormi scarpe di Lord Bullingdon, assume il significato di una trasgressione ad una delle norme più consolidate che regolano i riti della “high society” dell’epoca. Ma ben maggiore rilevanza viene ad assumere la foga selvaggia con cui Barry si getta sul fi­gliastro (in una delle poche sequenze enfatizzate dall’uso del­la “macchina a mano”), emersione incontrollabile di istinti primordiali, negazione viscerale di un cinismo altrimenti per lungo tempo coltivato, ma anche primo passo verso il suicidio sociale (secondo Kubrick, beninteso, non secondo Thackerav). A questo punto tutto risulta ormai scritto, e la morte del fi­glio adorato assume la consequenziale necessarietà del corol­lario, così come necessaria appare la definitiva autodistruzio­ne del protagonista, che passa attraverso l’alcool ed ha il suo suggello nella straordinaria scena del duello-suicidio.
Termina la parabola, e Kubrick, dopo avere concesso (relati­vamente) spazio alle passioni, riprende a guardare la vicenda da lontananze stellari. “Fu sotto il regno di Giorgio III che i suddetti personaggi vissero e disputarono. Buoni o cattivi, ricchi e poveri, ora sono tutti uguali.” È il 1789, tramonta una classe sociale, coi suoi privilegi, la sua cultura, il suo stile di vita.
Astoricamente, la morte ha livellato tutti nella sua uguaglian­za. Queste constatazioni, improntate ad una concezione de­terministica della continuità storica, innervate da uno scettici­smo sostanziale, rappresentano il punto di arrivo del pessimi­smo kubrickiano. Quest’autore, che nel bellissimo finale di 0rizzonti di gloria riaffermava la sua fiducia nell’uomo nono­stante l’assurdità delle strutture che esso si era dato, che fi­no a pochi anni fa questa stessa fiducia poteva riporre in un’irrazionalistica prefigurazione del “superuomo” (2001: 0dissea nello spazio), oggi ripiega desolatamente in un passa­to “fantascientifico”, non rivissuto su di un piano “storico”, non colto nel pulsare delle sue contraddizioni, ma devitalizza­to nelle sue sovrastrutture. Il rifiuto della psicologia, rigorosa­mente coerente con questa scelta del regista, lo porta a pri­vare i personaggi di quella umanità che li caratterizzava nel romanzo, a fare di loro delle “figures in a landscape”, in un insieme in cui il paesaggio prevale sulle figure, l’atteggiarsi sull’essere. (8)
Essenziale, in questo processo di distanziazione-devitalizzazione, risulta l’uso che Kubrick fa della musica e della pittura, qui più che mai importanti nella definizione di un’ottica, nella scelta di un registro interpretativo, vere strutture semantiche “portanti” di un ambizioso affresco.

LA MUSICA: DA LUDWIG VAN A WOLFANG AMADEUS

Consapevole delle infinite possibilità espressive offerte dal patrimonio musicale esistente (quello europeo in particolare), Kubruck rinuncia ormai sistematicamente ad utilizzare com­posizioni originali per i propri film. Bisogna risalire a 2001: 0dissea nello spazio per comprendere il significato di questa scelta e l’influenza che ha esercitato sui procedimenti narrativi di questo autore, incidendo in modo rilevante sullo stile. Ri­conosciuta l’impossibilità di spezzettare la forma compiuta dei brani associati ad alcuni momenti dell’Odissea, dal “Bel Danubio Blu” di Strauss ad “Atmospheres” di Ligeti, Kubrick ha dovuto adattare il montaggio delle sequenze alle ne­cessità strutturali della musica, in un processo che vede la colonna sonora non complementare all’immagine, bensì mo­mento trainante che dell’immagine determina il ritmo e la di­latazione temporale: cinema costruito sulla musica, che si sviluppa nel tempo necessario a generare la coscienza di un centro tonale, secondo un procedimento di allontanamento e successivo ritorno al tema, attraverso corrispondenze e ripe­tizioni che comprendono momenti di indispensabile super­fluo. Se le scelte operate in 2001: Odissea nello spazio pote­vano suscitare qualche dubbio in parte legittimo (la lunga se­quenza del “viaggio nell’ignoto”, quando sono i colori a “raccontare” la musica di Ligeti, poteva far sospettare un descrittivismo di stampo impressionistico, pur con associa­zioni visive affascinanti), la puntigliosa ricerca portata a com­pimento nelle due opere più recenti rende l’esatta misura del­la serietà di Kubrick, “regista” nell’accezione più ampia del termine.
Tanto che per Barry Lyndon il discorso sulla raccolta e la si­stemazione dei brani si fa estremamente complesso, come complesso e strutturato risulta il film, in apparenza chiara e lineare, seppur accuratissima ricostruzione d’ambiente. Nel senso che i pezzi in questione, al pari dei mobili e dei palazzi, dei giardini e delle parrucche, non assumono solamente una funzione di immediato rimando storico: rappresentano invece un determinato riflesso del periodo, che passa attraverso Haendel e Paisiello oltre che Hogarth e Gainsborough. Pro­prio questa volontà di illustrazione distaccata ha indotto Ku­brick a rinunciare a qualsiasi forma di contrappunto sonoro. Il commento musicale, infatti, o sostituisce il narratore nelle sue funzioni, anticipando costantemente, nella successione delle immagini, gli avvenimenti che seguiranno, oppure ne sottolinea la freddezza, aiutando lo spettatore a prendere ulteriormente le distanze dalla vicenda. È opportuno a questo proposito citare la coppia Adorno-Eisler, che negli anni ’40 elaborò la più ampia ed acuta analisi sull’argomento: “…La produzione di massa del cinema ha condotto alla formazione di situazioni tipiche, di momenti emozionali sempre ricorrenti, di stimoli standardizzati di eccitazione. A ciò corrispondono gli effetti-cliché della musica. La musica tuttavia entra in azione proprio là dove, in nome della ‘stimmung’ e della tensione, ci si attende un effetto particolarmente caratteristico. Il forte effetto che ci si proponeva viene con ciò vanificato dal fatto che gli viene affidata la funzione di stimolo di innumerevoli situazioni analoghe.” (9) Kubrick utilizza superbamente l’effetto-cliché, stravolgendone ancora una volta l’uso comune. Basti pensare alla lunga vicenda della morte di Bryan, figlio prediletto, preannunciata con un buon anticipo dal narratore, quindi sottolineata, fino al funerale, da una tri­stissima “Sarabande” a tempo lento che grava sulla narra­zione con opprimente senso di ineluttabilità, ancora durante l’educazione di Bryan al gioco e allo sport, oltrechè, in as­senza del bambino, all’atto dell’acquisto del cavallo che sarà per lui fatale.
Come in un romanzo di Fielding, in cui le vicende dei prota­gonisti sono preannunciate ad ogni capitolo, così Barry Lyndon, più che mai alla ricerca di uno “stile” veramente sette­centesco, spezza sistematicamente la tensione narrativa, non induce mai lo spettatore ad interrogarsi sull’esito del racconto, incentrando tutta l’attenzione sul “particolare”, che del film costituisce la vera essenza.
Alla pratica di anticipo della musica sull’immagine si sovrap­pone, in un certo senso complemento necessario, l’uso del “leit-motiv”, associato sia a personaggi che a situazioni. Si ascolta infatti due volte il “Trio” schubertiano, alla prima comparsa di Lady Lyndon (circa a metà film), e lievemente in anticipo sul notevole quadro finale, nel momento stesso in cui il narratore pronuncia il nome della contessa di Castle Hackton. Ci si è chiesti il perché dell’inserimento di un com­positore ottocentesco in tale contesto: Kubrick si è giustifica­to affermando di non aver trovato nulla di meglio. “In un pri­mo tempo avrei voluto servirmi esclusivamente di musica del ‘700. Credo di averla ascoltata tutta con molta attenzione, re­gistrata su nastro. Ma ahimè, non ci si trova nessuna passio­ne, niente che, nemmeno alla lontana, possa evocare un te­ma d’amore; niente, in particolare, che abbia il sentimento tragico del “Trio” di Schubert. Senza essere romantico del tutto, ha qualcosa di romanzesco e di tragico.” (10) Se la scelta di questo brano sia effettivamente dovuta ai motivi, peraltro discutibili, cui fa cenno il regista, non sappiamo: cer­to è che l’uso anacronistico del compositore viennese sem­bra regalare a Lady Lyndon la compostezza e la dignità di una creatura incolpevole guidata dagli uomini e dagli eventi ad un triste ed immeritato destino.
Tema del gioco con lo “Chevalier de Balibari” è invece la “Cavatina” dal “Barbiere di Siviglia” di Paisiello, mentre le scene d’amore con Nora e Lischen sono contrassegnate da “Women of Ireland”, una canzone popolare irlandese riela­borata da Sean O’ Piada. Va detto a questo proposito che la colonna sonora risulta strutturata in due blocchi, corrispon­denti grosso modo al primo ed al secondo tempo del film: le vicende che vedono Redmond Barry nel suo ambiente natio e successivamente nell’esercito britannico, sono accompa­gnate da motivi tradizionali irlandesi e da marce militari inglesi; la “Hohenfriedberger” di Federico il Grande sottolinea il passaggio alle milizie prussiane, mentre la marcia da “Idomeneo” di Mozart sancirà definitivamente l’ingresso di Redmond nel bel mondo. Da questo momento in poi vengono utilizzati solo brani di compositori “classici” (anche Bach fa una timida comparsa), mentre il ricordo dei travagliati trascorsi riemerge­rà brevemente nel bordello frequentato dagli ufficiali che can­tano sguaiatamente il loro “Bretish Grenadiers”. I singoli fram­menti assumono così la connotazione di “particolari musicali” conformi all’idea generale di un film teso alla realizzazione di una unità stilistica generata dalla compenetrazione osmotica di suono e immagine, che si colloca in una dimensione differente sia rispetto al coinvolgimento emotivo (2001: Odissea nello spazio) che al contrappunto ironico (II dottor Stranamore, Arancia meccanica).

DIPINGERE ALLA MOVIOLA?

Il discorso sul rapporto cinema-arte figurativa in Barry Lyndon è stato talora ridotto dalla critica ad una annoiata elencazione dei nomi più o meno rappresentativi della pittura rococò, indicati come modelli che Kubrick avrebbe tentato di riprodurre il più minuziosamente possibile. Di qui l’accusa di “…calligrafismo leccato e perfetto” che riduce l’opera ad una serie di “tableaux snaturati in diapositive, i cui raccordi sono affidati al superfluo dell’azione”, oltrechè di “arbitrario consumismo nei confronti della pittura, che diventa così una scorciatoia per la storia e la delibazione delle sue sovrastrut­ture piuttosto che il canale per una sua lettura profonda e strutturale.” (11) I motivi principali che inducono a rifiutare un approccio critico di questo tipo, prima ancora delle con­clusioni, sono due.
1) La particolare situazione di Kubrick regista, soggettista, sceneggiatore e spesso produttore dei propri film, nel “busi­ness” industriale che fa capo alle grandi case cinematografiche americane. Non bisogna infatti dimenticare che ciascuna delle opere realizzate da Kubrick, da Orizzonti di gloria in poi, ha rappresentato un grosso impegno produttivo che gli ha sempre permesso di utilizzare a fondo tutte le risorse tecni­co-spettacolari offertegli dalla disponibilità di ingenti capitali. La logica del profitto non può contemplare il fallimento sul piano commerciale, ed in ossequio a questa ferrea regola le concessioni alla platea rientrano nella normale prassi, anche degli autori più affermati. (12)
Kubrick capovolge questi schemi, elevando la spettacolarità a rigore formale ineccepibile, esce dalla norma dilatando i tempi delle scene ed esasperandone alcuni caratteri (il reali­smo documentaristico, l’esibizione sfarzosa) tipici delle gran­di produzioni. Al di là, quindi, di ogni considerazione sul “talento” del regista, gli vanno riconosciute quelle indubbie capacità tecnico-produttive che gli hanno consentito, durante tutto l’arco della sua carriera, di portare a compimento operazioni altamente spettacolari, senza per questo dover giungere a sostanziali compromissioni, sia sul piano stilistico, sia sul piano delle tematiche affrontate.
2) L’idea generale del film, come abbiamo già avuto modo di osservare non prende le mosse dalla volontà di analizzare un secolo inteso come successione storica di avvenimenti più o meno significativi, né vuole Kubrick rendere, attraverso l’ope­ra cinematografica, i contrasti e le lotte fra le classi caratte­rizzanti un determinato periodo. Risulta quindi deviante, e di­sonesto nei confronti dell’autore, muovere da un’ottica che non è la sua, affrontare in maniera del tutto superficiale e con argomentazioni non sufficientemente motivate le temati­che principali dell’opera, tralasciando qualsiasi sforzo analiti­co serio che giustificherebbe adeguatamente un eventuale giudizio negativo. Si può certamente pretendere da Kubrick molto di più di un “documentario” storico, ma bisogna conseguentemente cercare, in sede critica, di andare oltre la su­perficie abbagliante della “genialità espressiva” e della “intui­zione figurativa”, ricercando, nel gioco delle simmetrie e dei rimandi, delle scansioni spazio-temporali e dei riferimenti, l’idea complessa ed ambiziosa di un film apparentemente li­neare.

PERSONAGGI COME “FIGURES IN A LANDSCAPE”

Già la prima scena ci rende adeguatamente le intenzioni del­l’autore: nella rappresentazione del duello con conseguente morte del padre di Redmond, la macchina, in posizione esat­tamente frontale, non accenna a muoversi, mantenendosi nel contempo ben lontana dal luogo dell’azione. Un muretto a secco ed un grande albero, in primo piano, accentuano questa sensazione di immobilità, non contrastata dalle figure umane che ci appaiono come macchie lontane, la cui rigida compostezza al momento dello sparo fa tutt’uno con l’am­biente circostante. Il secondo duello ci presenta una natura ancor più bella e indifferente alle paure ed agli interessi degli antagonisti: Kubrick si sofferma però molto più a lungo sui preparativi, il rituale e le modalità, variando spesso l’angolo di ripresa. Utilizza inoltre uno zoom potentissimo che (qui come altrove) muove da un particolare, in questo caso la canna di una pistola, per scoprire gradualmente l’intera com­posizione, fissandosi poi sull’inquadratura frontale. Chiara è la volontà di comporre l’immagine cinematografica, fatta sì di oggetti, ma soprattutto di elementi naturali e personaggi viventi, secondo un’ottica prettamente pittorica, con la diffe­renza che qui il mezzo, potenzialmente mobile, ricerca l’immobilità: ne consegue un ulteriore raggelamento rispetto al­l’immagine pittorica, che è fissa, ma costantemente alla ricer­ca di una vitalità e di un movimento sempre negati dalle ne­cessità costruttive dell’immagine cinematografica. Si indivi­dua così una precisa funzione affidata al rimando pittorico, che costituisce, al pari della colonna sonora, ulteriore ele­mento di distanziazione dalla materia narrata. Richiamando l’attenzione sui procedimenti compositivi delle immagini, Ku­brick fa scivolare costantemente in secondo piano l’evolversi della vicenda, trasferendo la concentrazione dello spettatore sugli aspetti formali della rappresentazione di un secolo se­condo l’immagine che esso stesso ha voluto lasciare di sé. I riferimenti più immediati sono a Wilson o a Constable per quanto riguarda gli effetti luminosi degli esterni e le scene di paesaggio tipicamente nordiche, mentre, per la ritrattistica, il volto sanguigno della madre di Redmond o quello sensuale di Lischen si rifanno ai soggetti popolareschi di Greuze e Chardin. L’esatta cronologia del rapporto scena-periodo sto­rico, la coincidenza perfetta tra soggetto della rappresenta­zione e riferimento stilistico, sono elementi necessari per chi scelga un approccio fenomenologico alla ricostruzione stori­ca. La meticolosità diventa ora elemento necessario alla crea­zione di nuovi spazi e nuove dimensioni: sociali, psicologi­che, organizzative. In questa prospettiva, risalire alle signifi­cazioni storiche partendo da manifestazioni sovrastrutturali, significa ricercare le motivazioni intrinseche degli ordinamen­ti, delle strutture e delle razionalizzazioni figurative. Modellare il volto e l’abbigliamento di Lady Lyndon sulla ritrattistica di Reynolds o Gainsborough non assume quindi solamente il si­gnificato di un prezioso richiamo culturale, ma individua im­mediatamente un ambiente sociale, un gusto ed un modo di concepire la vita. Lo stesso dicasi dei riferimenti ai vari Copley, Stubbs, Zoffany, che intervengono di volta in volta per mettere il cappello ad un neonato, evidenziare il profilo di un cavallo, rendere credibile un interno patrizio; ancora, Hogarth determina l’atteggiarsi di Redmond Barry nelle sue mattine dopo una notte di dissipazione, rivelando la pesantezza e il disgusto che accompagnano l’ascesa e la caduta di un liber­tino. Altri due momenti evidenziano la volontà di inserire nel­le immagini il senso della “moda”, del gusto internazionale rococò: la scena sul ponticello, quando Redmond accoglie i suggerimenti della madre e decide di tentare l’ascesa al titolo di Lord, ed il momento del primo incontro, sul terrazzo, tra il protagonista e Lady Lyndon. La prima scena, infatti, si svol­ge a Stourhead nel Wiltshire, tipico giardino inglese della fine del ‘700, che vuole imitare i paesaggi della fantasia artistica di un pittore aderente alla corrente del “pittoresco”: il tempietto palladiano, il lago, la barca, le figure sul ponte, vengo­no ripresi collo zoom, che dissipa lentamente la percettibilità del movimento. La luce freddissima, che scivola sulla pelle dei due amanti nel loro primo incontro al chiaro di luna, ri­chiama invece le statuine in ceramica di Chelsea o Worchester, complice una evidente staticità di recitazione. Per con­cludere questa carrellata, che non può che essere men che indicativa, non ci si può esimere dal citare le ormai famose lenti Zeiss ad alta velocità, che hanno permesso di effettuare le riprese al lume di candela, di una dozzina di scene che prendono modello tanto Wright of derby come Boucher e Fragonard. (13)
Solo in cinque brevi sequenze Kubrick ha rinunciato alle fis­sità amestose per ricorrere ad un mezzo inequivocabilmente cinematografico come la macchina a mano; tenuto conto che il film va oltre le tre ore di durata, si è propensi a credere che il regista abbia voluto attribuire una certa rilevanza, o quantomeno un significato particolare, a determinate situa­zioni, in modo da renderle decisamente contrastanti nell’affresco complessivo. Consideriamole singolarmente.
1) Redmond, fuggendo verso Dublino, incappa nel “capitano” Freney, noto fuorilegge. L’apertura è “in soggettiva”, e, l’immagine è scossa dai sussulti del cavallo: tuttavia il prota­gonista non ha ancora capito quello che sta per accadere, e l’atmosfera è di grande incertezza. La cinepresa ritorna all’immobilità quando Redmond si è ormai reso conto della situazione, ma un brano musicale di Sean O’ Riada, su strane tonalità, provvede a mantenere la tensione fino alla fine della scena.
2) Redmond, soldato dell’esercito britannico, sfida a pugni un camerata dopo averlo offeso. La macchina segue la boxe fra i due, rimanendo però all’interno del “quadrato” formato dal resto della truppa.
3) Redmond salva il capitano Potzdorff, ferito in battaglia: l’inquadratura del corridoio del fortino, “in soggettiva”, simu­la lo sforzo del protagonista sotto il peso del corpo dell’uffi­ciale.
4) Redmond, durante un concerto da camera, picchia selvag­giamente il figliastro Lord Bullingdon alla presenza di un nu­trito gruppo di aristocratici che intervengono per dividere i contendenti.
5) La macchina a mano insegue Lady Lyndon che si rotola nella stanza in preda a spasmi lancinanti per il veleno ingerito.
Oltre ad una generica tensione insita in ciascuna delle situazioni elencate, si rileva il venir meno della abituale stabilità dell’immagine ogniqualvolta la vicenda, travalicando i limiti del previsto, si determina in momenti fondamentali nella propria evoluzione; l’inquadratura incerta evidenzia quindi l’imprevedibilità di quegli avvenimenti che sfuggono alla volontà dei protagonisti. Fa eccezione l’episodio che vede Redmond cimentarsi nella “noble art” con l’irsuto compagno d’arma semplice momento illustrativo sia del carattere del protagonista, sia di quelli che probabilmente erano gli svaghi maggiormente ricorrenti nella vita militare. In questo senso la sequenza assume il valore di vera e propria metafora visiva calata nella realtà militare, ma facilmente rapportabile a tutta l’organizzazione sociale del secolo. L’istinto belluino che spinge i protagonisti alla violenza per vendetta, è immediatamente raggelato, recuperato ed inquadrato. La Brutalità non viene quindi negata, risulta invece necessario ricondurre a procedimenti canonici ogni manifestazione spontanea. Una volta tracciate queste coordinate, qualsiasi libertà è ammes­sa, e la macchina a mano, rinchiusa essa stessa nel quadra­to, può affrontare la descrizione con tutta l’agilità della quale dispone. Il seguito del film dimostra come non sia possibile per il protagonista ripetere simili esperienze, credere nella va­lidità delle proprie reazioni istintive, dei propri sentimenti, senza un solido piedistallo sociale, senza un “mondo”, una classe, il cui riconoscimento può essere unicamente frutto di un’adesione totale ai principi ed alle regole da essa codificati. Così Redmond dà inizio alla propria rovina picchiando il nobile figliastro, senza tenere nella dovuta considerazione la presenza degli aristocratici; così provoca il tentativo di suicidio della moglie allontanando il reverendo Runt, vero colpo di grazia questo, che metterà in moto un processo irreversibile, e non lascerà più possibilità alcuna all’ex signor Lyndon. La lunghissima, complessa scena del duello finale, evidenzia poi in maniera drammatica questo contrasto tra coraggio istinti­vo e viltà calcolata, tra lealtà e cinismo, doti sì umane indivi­duali, ma che nel contesto del film, rappresentano ragioni storiche ben determinate: le ragioni di una società consolida­ta che non ammette intrusioni e non ha bisogno quindi, di avventurieri dal cuore in fondo generoso, ma necessariamen­te privi di coscienza sociale. Questo duello-resa dei conti, pur se condotto in osservanza alle regole usuali, si presenta co­me qualcosa di “diverso”, non più momento canonico, rappresentazione-riproduzione di uno stile di vita, ma vero e proprio banco di prova che annulla tutte le convenzioni. Di fronte alla morte, cadono gli orpelli di un’organizzazione per­fetta quanto cinica, e la natura umana si manifesta in paura, rabbia, vomito, salvo poi ricomporsi in gelida vigliaccheria non appena la minaccia si allontana. Finito il gioco leale, la questione si pone in termini di sopravvivenza, non solo per­sonale, ma di un patrimonio e di un prestigio che coinvolgo­no un’intera classe: chi non l’ha capito non ha scampo, e rimarrà inesorabilmente castrato. Per la rappresentazione del duello finale, vero momento-rivelazione di tutta l’opera, Kubrick ha fatto uso di un rapido montaggio alternato che di­stingue nettamente la scena da tutto il film: c’è, nel montag­gio, l’idea di uno sfaldamento completo di tutte le conven­zioni e le regole che dettavano il comportamento di un genti­luomo settecentesco. Tanto che la vicenda risulta irriproduci­bile secondo i canoni figurativi del periodo, essendo l’unico approccio possibile ad una situazione talmente complessa quello drammatico, non sospeso in una gelida rappresenta­zione, ma direttamente calato nella psicologia dei personag­gi.

Conclusioni provvisoriamente definitive

“Astotfo il suo destrier verso il palagio
che più di trenta miglia intorno aggira,
a passo lento fa muovere ad agio,
e quinci e quindi il bei paese ammira;
e giudica, appo quel, brutto e malvagio,
e che sia al cielo ed a natura in ira
questo ch’abitian noi fetido mondo:
tanto soave è quel, chiaro e giocondo.”
Ludovico Arrosto. (14)

Un giudizio sintetico, dopo uno sforzo analitico che aspira al­la puntualità e si realizza in procedimenti accumulativi, ri­schierebbe di concretizzarsi in una tendenziosità critica anti­tetica rispetto alla metodologia adottata. Da sempre estima­tori di Kubrick, pensiamo di avere già fatto sufficientemente pesare la nostra simpatia per questo autore. Rifiutiamo quin­di il “delirio”, perché lo crediamo estraneo all’attività critica. Ci pare comunque che, davanti a questo ariostesco “volo dell’Ippogrifo”, in cui la verticalità è diventata frontalità, ma a cui è sotteso un analogo, affascinato cinismo, di fronte a questa borghesiana (wildiana coscienza dell'”inutilità” del prodotto artistico e della molteplicità infinità dei suoi rispecchiamenti, sia lecito il rifiuto, ma anche doveroso il riconosci­mento di un’intima coerenza. All’esaltazione ed alla stroncatu­ra, spesso ugualmente immotivate, preferiamo quindi l’approccio problematico. Concordiamo, in ogni caso, con Max Tessier, il quale afferma che Barry Lyndon invecchierà bene, ma altresì pensiamo che “la sua giustificazione nell’opera del suo autore resterà da verificare alla luce (naturale) di revisio­ni ulteriori.” (15)

NOTE:

(1) J. L. Borges, Altre inquisizioni, Feltrinelli, 1963
(2) Citato da M. Praz in La letteratura inglese dai romantici al novecento, Sansoni/Accademia, 1968.
(3) W. M. Thackeray, Le memorie di Barry Lyndon, Garzanti, 1976.
(4) id.
(5) Cfr. J. Segond, Le hasard et la nécessité, in Positif n. 179, un ottimo studio al quale facciamo parziale riferimento in questa schematizzazione.
(6) A. Arbasino, Simpatico mascalzone diventa una canaglia, in “Repubbli­ca” del 23-7-76.
(7) Cfr. J. Segond, cit.
(8) In questo senso non siamo d’accordo con A. Arbasino (cit.) quando af­ferma che ««la tragedia del film è la scelta del protagonista: Ryan O’ Neal, boccolone paffuto e burroso ininterrottamente in campo, con l’occhione ce­ruleo e vuoto».
(9) T. W. Adorno – H. Eisler, La musica per film, Newton Compton, 1975.
(10) Da un’intervista di M. Ciment a Stanley Kubrick riportata in Panorama n. 543 del 14-9-76.
(11) M. Calvesi, Dipingere alla moviola, nel “Corriere della sera” del 10-10-76.
(12) Cfr. John Ford, «Nella nostra professione, un fiasco artistico non vuol dire niente, uno commerciale è una condanna», citato da G. Sadoul in Il cine­ma, Sansoni, 1965.
(13) Ringraziamo l’amica carissima Laura Gasparini per il suo prezioso studio sulla pittura del ‘700.
(14) Orlando Furioso, Canto XXXIV.
(15) M. Tessier, B. L., in “Ecran” ’76 n. 50.

Barry Lyndon
Inghilterra, 1975.
Regista e produttore: Stanley Kubrick. Una produzione Hawk Films Ldt/Peregrine.
Sceneggiatura: Stan­ley Kubrick, dal romanzo di William Makepeace Thackeray.
Direttore della fotografia (Eastmancolor): John Alcott (lenti Carl Zeiss per le scene a lume di candela adattate da Ed di Giulio).
Musica: da opere di J. S. Bach (Concerto per due clavicembali e orchestra in do minore), Federico II (Marcia “Hohenfriedberger”), G. F. Haendel (Sarabanda), W. A. Mo­zart (Idomeneo), G. Paisiello (Il barbiere di Siviglia), F. Schubert (Danza tedesca n. 1 in do maggiore, Trio per piano in mi bemolle), A. Vivaldi (Concerto per violoncello in mi mino­re). Musica tradizionale irlandese e di Sean O’ Riada interpretata da “The Chieftains”. Adattamenti musicali di Leonard Rosenman.
Direttore artistico: Ken Adam.
Scenografia: Roy Walker.
Montaggio: Tony Lawson.
Costumi: Ulla-Britt Soderlund, Milena Canonero.
Parrucchiere: Leonard.
Produttore esecutivo: Jan Harlan.
Produttore associato: Bernard Williams.
Assistente alla produzione: Andros Epaminondas.
Aiuto regista: Brian Cook.
Interpreti: Ryan O’ Neal (Barry Lyndon), Marisa Berenson (Lady Lyndon), Patrick Magee (lo “Chevalier de Balibari”), Hardy Kruger (il capitano Potzdorff), Steven Berkoff (Lord Ludd), Gay Hamilton (Mora Brady), Marie Kean (Mrs Barry), Diana Koener (Lischen), Murray Melvin (il reverendo Runt), Frank Middlemass (Sir Charles Lyndon), André Morell (Gustavus Adolphus, Lord Wendover), Arthur O’ Sullivan (il capitano Freney), Godfrey Quigley (il capitano Grogan), Leonard Rossiter (il capitano Quin), Philip Stone (Graham), Leon Vitali (Lord Bullingdon), Dominic Savage (Bullingdon Bambino), Michael Hordern, Romolo Valli nell’edizione italiana (il narratore).
Esterni girati in Irlanda, Inghilterra e Germania.
Distribuzione: P.I.C./Warner Bros.
Durata: 185 minuti.

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