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ORIZZONTI DI GLORIA – di Enrico Ghezzi [Il Castoro Cinema]

Saggio critico di Enrico Ghezzi su "Orizzonti di Gloria", pubblicato nel numero monografico su Stanley Kubrick della collana Il Castoro Cinema
Paths of Glory (1957) Stanley Kubrick and Kird Douglas on set

di Enrico Ghezzi

[…] Rapina a mano armata ha più successo di critica che di pubblico. Dal prudente immobilismo dell’industria cinematografica tardano ad arrivare proposte per Kubrick e Harris ormai soci fissi. L’accoglienza da parte della tribù è freddina. I due acquistano insieme i diritti di un vecchio romanzo antimilitarista (Paths of Glory) che aveva molto impressionato Kubrick una quindicina d’anni prima, ne traggono una sceneggiatura e cominciano a bussare a diverse porte suscitando però poco interesse. Il «caso» è rappresentato questa volta dall’attore Kirk Douglas che, giunto alla maturità dei quarant’anni (nel 1956 ha fornito una delle sue più complesse prestazioni in Lust for Life, Brama di vivere di Minnelli, interpretando la figura di Van Gogh; e un anno prima ha fondato una sua casa di produzione, la Bryna), ha intenzione di partecipare a qualche impresa originale e si mostra colpito dal soggetto e dal personaggio principale. Col suo nome in cima al cast, il progetto interessa molto di più, e la United Artists lo finanzia per 935 mila dollari, senza più pretendere l’intromissione di una dolciastra storia d’amore. Il film, Orizzonti di gloria (1957), viene girato in Germania, negli studi di Monaco della Bavaria Film, con cast tecnico tedesco. La lavorazione dura due mesi e mezzo (contro i venti giorni del film precedente), gli esterni – la trincea con il campo di battaglia e l’isolato palazzo rococò del quartier generale – sono a una mezz’ora di macchina dagli studi. Trincea e palazzo, abbiamo detto.

1916, fronte franco–tedesco. Un generale dello Stato Maggiore francese Broulard, reca all’amico generale Mireau. il cui comando è installato in un’elegante palazzina barocca, il «consiglio» (in realtà un ordine) di attaccare e prendere un’importante e munitissima posizione nemica il «formicaio». Solleticato abilmente dal collega nelle sue ambizioni di carriera. Mireau rapidamente accetta l’ordine, dopo iniziali proteste in difesa della vita dei suoi uomini. Compie un giro per le trincee al fine di galvanizzare i soldati, e incarica il suo miglior ufficiale, il colonnello Dax, di guidare il giorno dopo l’impossibile attacco. Dax replica ribadendo al generale la follia dell’impresa che causerebbe la morte di almeno la metà dei partecipanti all’attacco, reagisce sarcasticamente anche agli appelli patriottici di Mireau, ma infine è costretto a dire sì, minacciato di trasferimento lontano dai suoi soldati. L’attacco non riesce. Per la violenza del fuoco nemico non tutti i plotoni lasciano le trincee. Mireau, che durante la battaglia ha perfino tentato di far cannoneggiare, per punizione esemplare, le proprie linee, esige dapprima una decimazione poi «si accontenta» (con la mediazione di Broulard) di tre soli uomini, scelti tra i loro soldati dai comandanti delle tre compagnie agli ordini di Dax. Questi, valente avvocato parigino prima della guerra, ottiene d’essere il loro difensore durante il processo per codardia che segue poche ore dopo. I tre, uno tirato a sorte, un altro indicato come «asociale», il terzo scelto dal suo ufficiale in quanto pericoloso testimone di un (vero) atto di vigliaccheria, vengono condannati a morte nonostante l’appassionata difesa di Dax. Il mattino della fucilazione, uno di loro viene addirittura portato al palo in barella, agonizzante per la frattura cranica procuratasi la sera prima in un violento diverbio con i compagni durante la visita del cappellano. A fucilazione avvenuta, Dax (che in un estremo tentativo di salvare i condannati aveva detto a Broulard del folle ordine non eseguito ma impartito da Mireau mentre l’attacco falliva) riceve le congratulazioni di Broulard per il modo intelligente con cui avrebbe mirato a sostituire lo stesso Mireau in un prossimo futuro; Il colonnello reagisce con violenza e con insulti. Tornando in linea, è attratto dai rumori provenienti da un’osteria piena di soldati. Dai vetri vede l’oste che presenta sul palco, a un branco di militari vocianti e ubriachi, una spaurita giovane tedesca. Dax è disgustato, ma quando la ragazza comincia a cantare, gli schiamazzi cessano quasi di colpo: i soldati, vecchi e giovani, ascoltano il suo canto triste, poi cominciano a ripeterne commossi le parole. Al messaggero che viene a portargli un ordine, Dax dice «lasci ancora qualche minuto agli uomini».  

Cobb, l’autore del romanzo, si era ispirato ai processi e alle fucilazioni verificatisi in più occasioni sul fronte francese durante la Grande Guerra. Kubrick, sempre teso a rafforzare l’effetto di «realtà» e di «verità», ricostruisce con tale cura l’ambiente bellico da meritare gli elogi di Churchill per quanto riguarda la verosimiglianza storica del film: parecchi giorni li passa a «preparare» il paesaggio per l’unica breve sequenza di battaglia. A parte ovviamente Douglas protagonista, anche il resto della distribuzione è ottimo: Menjou è l’astuto e cinico Broulard (ci sono voci – smentite da Kubrick – di violenti contrasti tra attore e regista; e Menjou, che pure paragona Kubrick a Chaplin, si lamentò – dopo aver visto il film – per la violenza antimilitarista dell’ingranaggio in cui lui, Legion d’Onore della repubblica francese, era stato inserito), George Macready (il cui volto sfregiato fu tante volte quello del cattivo contrapposto a Louis Hayward negli espressionistici «montecristi» e «maschere di ferro» del cinema americano anni 30–40) l’ottuso e crudele Mireau, Ralph Meeker (il protagonista di Kiss me Deadly, Un bacio e una pistola di Aldrich), Richard Anderson, Tim Carey (già in The Killing), ecc.

Sul set, Kubrick stupisce i tecnici tedeschi per lo scrupolo minuzioso, per le scene ripetute decine di volte, per come si impone all’operatore, infine per la perizia con cui manovra personalmente una delle sei m.d.p. in azione per le riprese dell’assalto. Si può prendere per sintomatica questa sua partecipazione in prima persona alla battaglia (egli anzi entra proprio in essa perché sulla sua macchina è montato lo zoom col quale viene seguito Dax, unico individuato nella massa). «Sono arrivato alla conclusione che la realizzazione di un film è uno dei più difficili problemi organizzativi e amministrativi che si possano dare, a parte le operazioni militari» dichiarerà anni dopo, portandoci a ricordare le parole che Godard mette in bocca a Fuller all’inizio di Pierrot le Fou: «un film è un campo di battaglia… in una parola, emozione» (per Godard ancora «un film è paragonabile a un’azione di commando»). Per Kubrick il film–battaglia non è però una metafora romantica, anzi non è per nulla metafora ma solo coincidenza strutturale di operazioni. Inoltre: «La guerra produce situazioni molto drammatiche e visivamente interessanti ai fini di una sceneggiatura. – In un breve arco di tempo le persone attraversano un fantastico periodo di tensione, il che, in una storia in tempo di pace, sembrerebbe in realtà artificioso e forzato, perché tutto succederebbe troppo rapidamente per essere credibile. Il film di guerra permette quindi di descrivere con straordinaria concisione l’evoluzione di un atteggiamento o di un personaggio. Così i problemi più velocemente si sviluppano fino alle loro conclusioni logiche».

Appare chiaro che (per quanto casuale possa essere stata la scelta del soggetto) nello spazio del cinema americano il genere di Kubrick è, per elezione, il film bellico, scelto proprio in quanto esaspera i caratteri fondanti di qualsiasi genere (le qualità particolari elencate sopra da Kubrick non sono altro che, potenziati, i vantaggi di sinteticità, formalizzazione tipizzazione delle storie, di caratterizzazione dei personaggi e insomma di «realistica» artificiosità dell’insieme, offerti da ogni genere). Se il genere, che è per quanto riguarda la narrazione il massimo di cultura sedimentata in proprio dal cinema, è in Kubrick figura mediata dell’artificio stesso che è il cinema (e vediamo che viene scelto il genere ritenuto più efficacemente artificioso), la ricerca spinta di «credibilità» non si riduce alla riproduzione minuziosa e naturalistica dei particolari (del resto in tutti i suoi film contraddetta dall’uso costante di obiettivi più o meno sensibilmente distorcenti, e dalla stilizzazione delle inquadrature). Kubrick è prima di tutto cosciente del carattere puramente filmico del verosimile ricercato (non bastando più l’efficacia pur notevole delle situazioni bellico–orrorifiche, sarà logico in questo senso l’approdo al genere SF in cui tutto o quasi può essere accolto), e mira perciò a una credibilità più «logica» che di suggestione, in quanto già all’interno delle suggestioni del genere–cinema.

Può sembrare cinico introdurre così freddamente il discorso su un film che tratta di un problema umano come la guerra. Ma il film non è immediatamente antimilitarista né militarista, le sue intenzioni sono diverse dalla violenta ironia cabarettistica di Lester (Come vinsi la guerra), da quella ripetitiva e granguignolesca ma amorfa con cui Nichols mette in scena uno scatenato romanzo di Heller (Comma 22), dalla scelta derisoria altmaniana di mostrare lo «spettacolo» disarticolato delle retrovie (MASH), dall’apologo brechtiano di Losey (Per il Re e per la Patria) dalla visione popolar–marxista di Rosi (Uomini contro), infine dal lirismo umanitario di Milestone (All’Ovest niente di nuovo). Kubrick non affida l’eventuale antimilitarismo dell’opera a un visibile punto di vista interno ad essa, o ad uno spostamento sugli aspetti beffardi del fatto bellico (vedi Lester e Altman), o a un’ambizione didattico–esplicativa sulla realtà (come Rosi), né comunque a un intervento più o meno critico della «regia» sul fatto–guerra raccontato dal film, né alla messa in scena di un soggetto già sufficientemente critico. Orizzonti di gloria è la costruzione della guerra e del suo funzionare. Lo è proprio perché ne ripete i riti glaciali, non perché mostri il nascere e lo svilupparsi del fenomeno. Esso è infatti già dato nella scritta iniziale («1916») e nella voce fuoricampo che brevemente puntualizza la situazione del conflitto, e le cui ultime parole sottolineano la posizione di stallo della guerra di trincea, nella quale «gli attacchi riusciti si misuravano in guadagni di qualche centinaio di metri, pagati con centinaia di migliaia di vite». In seguitola voce tace, e resta solo la situazione di guerra, una guerra storicamente determinata e con tutti i particolari al posto giusto (Churchill dixit), eppure guerra che pare astratta, guerra in cui non si vede un nemico, in cui non è mai questione di un nemico «aggressore» o ideologicamente «diverso». Il tutto non sembra meno astratto della «selva» di Fear and Desire, e il riferimento storico preciso crea solo l’incubo. In fondo Kubrick stesso lo dice: sceglie la Prima Guerra Mondiale perché è l’esempio immane di un conflitto gratuito, «una guerra scoppiata per caso», il cui senso non è comunque maggiore di quello della guerra dei Sette Anni. A parte la discutibilità del giudizio in questione, che è poi l’affacciarsi di un giudizio profondamente pessimistico su tutta la Storia, la situazione è chiara: anche qui ci troviamo nell’acquario, nella distanza della fiaba, nel gioco. La guerra come il gioco più complesso e crudele, nello stesso tempo forse il più tremendamente attraente.

Grazie all’elemento visivo, Kubrick sovrappone al vivido apologo letterario lo schematismo suggestivo della fiaba, specie nel continuo alternarsi dei due ambienti principali, il palazzo del comando e la trincea della truppa, geograficamente vicini e appunto lontani come l’antro della Strega e il palazzo del Principe (può essere anche Dracula principe delle tenebre). In questa direzione va la stessa scelta di Menjou e di un tipico «cattivo e sfregiato». Anche se Kubrick è stato criticato per questa connotazione dei due generali come «cattivi» tipici, che smorzerebbe la portata antimilitaristica della cosa, la patologia tipizzata dei due «deve» contrapporsi simmetricamente alla «nobiltà» di Douglas–Dax. Il gioco rituale era partito subito; sotto la data iniziale, appariva un armonioso castello, un plotone di soldati si schierava in due file di fronte all’ingresso, una macchina arrivava e ne discendeva Menjou che si recava a portare l’amabile ordine–consiglio di attacco al collega. Tutta la sequenza, regolata appunto come un rito immutabile. Se rito è una parola che si può facilmente associare alla guerra, senza troppe vergogne, il «gioco» fatto con vite umane è invece, da circa due millenni, severamente riprovato (lo praticano, in isole «fantastiques», nobili perfidi; The Most Dangerous Game, La pericolosa partita; e viene socializzato solo nella letteratura d’anticipazione tipo La settima vittima di Sheckley). L’opinabile giudizio storico (o astorico) di Kubrick riferito sopra si basa però su quella che fu la realtà bruta del fatto Grande Guerra: per anni, milioni di uomini nelle trincee, e gli insensati attacchi con ventimila morti per volta. La trincea come sanzione fisica di una guerra che si sapeva ormai di posizione, e decidibile non per offensive di soldati ma per potenza di artiglieria e ancor più per decisione di governi (vedi la pace di Brest–Litovsk). A noi è stato insegnato che Cadorna era stupido (o cattivo) per i suoi attacchi a tappeto suicidi, ma la maggior parte dei comandi, sui fronti principali nel 14–18, prese di continuo decisioni che votavano in partenza al massacro fino ai tre quinti degli effettivi in azione. Mireau che snocciola le percentuali di perdite previste nel folle assalto, forse è un sadico, ma soprattutto sta svolgendo un’indispensabile operazione logico–matematica: «metà dei suoi uomini periranno – dice a Dax – ma avranno permesso all’altra metà di prendere il Formicaio».

L’ironia di Kubrick sta nel prendere a esempio una guerra storicamente vera che, resa esattamente e «realisticamente», si rivela come puro assurdo. Non ha bisogno di sconvolgere apertamente il genere coll’invenzione fantastica o coll’evidenza della condanna o ancora mediante l’irrisione distorcente. Si capisce perché sia rimasto colpito dalla situazione proposta dal romanzo: il processo e la condanna per codardia, e ancor prima il tentativo di Mireau di far sparare sui propri soldati, sono la riproposta dell’assurdo meccanismo di previsione e pianificazione della morte all’interno di una sola delle parti in guerra. La frase di Mireau infuriato per il fallimento rassicura lo spettatore del film di guerra; qualcosa si vedrà, «se non hanno voluto affrontare i fucili tedeschi affronteranno quelli francesi». Non c’è scampo; poiché il rito della presa o del tentativo di presa del Formicaio col suo olocausto (rito perché in ogni caso non c’è un fine bellico dichiarato: l’azione serve a calmare il Comando e a saziare una sete di carriera, così come le fucilazioni serviranno a placare l’opinione pubblica) non si è svolto fino in fondo, a ciò si rimedia con un rito più sicuro, più facilmente controllabile (come le riprese di un film), ma che ha la stessa struttura: decimazione o estrazione a sorte o pallottola non firmata del nemico, si ha comunque casualità nello sfoltimento. Nei confronti di tale meccanismo, si ha un atteggiamento kubrickiano ambiguo di fascinazione–repulsione. Da una parte l’interesse (sadico, direbbe Di Giammatteo) per i meccanismi di massacro (per i «trionfi della morte» di cui parla Ranieri) e per quello che resta il gioco più affascinante e complesso (perché vi è coinvolto su vasta scala l’uomo, pedina insolita e affascinante), dall’altra la condanna (logica prima ancora che morale) di un gioco appunto incontrollabile perché utilizza uomini, dalle passioni non del tutto previste, uomini che possono rifiutare all’ultimo momento di uscire dalla trincea per essere magari difesi dal magnifico Dax. Se le trincee testimoniano di uno stallo, se il processo vede muovere protagonisti e comparse sul lucido pavimento a scacchiera, ciò non può che chiarire l’assurdità e l’improponibilità del paragone, ma questo è il paragone e la coincidenza istituita nella guerra: nonostante la mozione umanitaria di Dax, nonostante il suo esplicito criticare quelle che sembrano aberrazioni («Mi vergogno di essere uomo» dice durante il processo, e in precedenza aveva replicato a Mireau che lo pungolava con spregevole retorica all’assalto, con la celebre frase di Samuel Johnson: «Il patriottismo è l’ultimo rifugio delle canaglie»), il rituale va sino in fondo, senza neanche il minimo ritardo.

In pratica non c’è neanche partita, non c’è avversario (o è l’automa che muove e il bianco e il nero), e il matto è dato in partenza. La partita se la gioca se mai proprio Kubrick, costruendo il film su una serie quasi infinita di simmetrie e rinchiudendo quindi doppiamente gli uomini nella rete di un gioco in cui le regole sono solo sue. La simpatia evidente di Dax – dovuta alla bravura di Douglas ma anche al modo privilegiato in cui il personaggio è costruito rispetto agli altri – non riesce mai infatti a proporlo come soggetto eroe; egli non può né trasgredire le regole né crearne di nuove, è il «principe» (fallito) della fiaba, schematico come i «cattivi» e come loro (anche se per motivi opposti, e cioè per affezione ai soldati) letteralmente bloccato nel suo ruolo (all’inizio reagisce all’ipotesi di allontanamento dal suo posto, e accetta di guidare a morire quelli da cui non si vuole separare): la sequenza della battaglia (così deludente per chi la attende, spettatore o generale) ce lo mostra apposta, incerto, perplesso incapace di dominare l’azione, impossibilitato ad essere eroe. Gli stessi generali non hanno un vero disegno, a parte il carrierismo meschino, e quello di Menjou (quando nei colloquio finale si congratula con Dax promettendogli la promozione) non è superiore cinismo di chi conosce le regole e sa che sono solo regole, bensì chiusura monomane nell’universo dell’intrigo (vedi infatti il suo stupore sincero quando Dax reagisce scandalizzato: «Non capisco in che cosa ho sbagliato con voi…, vi compatisco come lo scemo del paese»). E chiaro che in questo ambito si trova poco «umanismo» quale oggetto immediato. Anzi la definizione di uomo è sempre doppia, rovesciata di continuo e senza sentenza definitiva: il luogotenente di Mireau osserva la stupidità dei soldati che quando scoppia una bomba si ammassano come bestie stringendosi tra loro, invece di sparpagliarsi, Dax ribatte che proprio questo li qualifica come uomini; infine Broulard dirà che «non c’è niente di più tonico e stimolante per degli uomini che veder morire dei loro simili», e nessuna delle tre frasi sembra del tutto frisa o vera.

La fascinazione–repulsione è già nell’accompagnamento musicale della sequenza dei titoli, una sforzata fanfara che esegue la Marsigliese non tanto una puntata banale sull’inno di libertà che si tramuta in introduzione all’oppressione, quanto l’indicazione lucida e disperata di una possibile contiguità o compresenza di barbarie e civiltà. Ugualmente, lo schematismo esasperato della struttura (ribadito quasi pleonasticamente anche nel «subplot» del soldato scelto tra i morituri per vendetta dal suo ufficiale, che a sua volta verrà sadicamente comandato da Dax a guidare il plotone di esecuzione), lo «schema filmato», il meccanismo da colonia penale, non possono che produrre il rifiuto. È quasi intollerabile infatti l’inevitabilità lungo la quale procede il film. Kubrick lo costruisce in meccano (come The Killing). Le dissolvenze sono tre o quattro (usate come espediente teatrale, da sipario di fine atto, e non in direzione lirico–temporale), mentre domina il passaggio secco, il taglio meccanico e spietato (non convulso, perché il ritmo è sostenuto ma classico) come gli incastri privi di gioco in un macchinario. La musica dopo la Marsigliese sarà solo un ritmo ossessivo, per concludersi in un battito di tamburi sordi che negano sulla parola «Fine» il finale romantico di poco prima apparentemente fiducioso, consolatorio, catartico. Dall’esempio più forte di simmetria «meccanica» in questo film possiamo comprendere perché esso abbia suscitato tanti (non solo «meccanici» o automatici) apprezzamenti e ardori politici.

Path, sentiero, traiettoria, orbita. È una parola che può servire per tutto Kubrick fino alle orbite e traiettorie di 2001. È stato notato preziosamente come il titolo indichi già il punto saliente, tecnicamente parlando, del film: il percorso tracciato dalla m.d.p. Essa è in movimento (panoramico) già al principio, ma il percorso cui si allude è quello seguito dal lungo e ininterrotto carrello indietro che segue la visita di Mireau alla trincea («Pronti ad uccidere altri tedeschi?» chiede meccanicamente). La cosa è famosa, Kubrick la lega addirittura (perfido) al fatto che nelle trincee venivano spesso allestite rotaie di scorrimento per i vagoncini dei collegamenti, per cui era «naturale» che la m.d.p. seguisse lo stesso tragitto. Con evidenza fisica quasi esagerata, il movimento integra la trincea in un’unica prospettiva, in una situazione quasi simbolica di monotonia cunicolare da talpe; ponendo inoltre il generale come centro costante dell’inquadratura, mentre i soldati gli «scorrono» ai lati. Puntuale, nella seconda parte del film lo stesso movimento indietro viene ripetuto sul vialone davanti al Commando. La situazione è esattamente ribaltata, la m.d.p. segue ora (anticipandoli nel percorso) i tre condannati che si avvicinano al luogo dell’esecuzione. Grandeggia nella sequenza (anche per la sua robustezza fisica) la figura di Tim Carey in lacrime, assistito dal cappellano. Il rovesciamento è totale e minuzioso: Carey, che viene a prendere «possesso filmico» del luogo dei generali nello stesso modo in cui Mireau aveva percorso la sua trincea, ripete anche lui ossessivamente una stessa frase «Non voglio morire… perché devo morire? Io non ho fatto niente». Questa volta però, pur all’interno del rito istituito dalla guerra, dai generali e dalla m.d.p., la frase non è fredda e automatica ripetizione, un uomo piange nel pronunciarla. È quasi impossibile non piangere durante questa sequenza, ed è per questo (oltre che per la minore delimitazione fisica del luogo: ci sono però i picchetti schierati ai iati) che la riproposta del movimento non ha qui colpito la critica (che ha in genere scorto un senso politico e quasi di classe nella continua opposizione formale tra mondo dei generali e mondo dei soldati, mentre il contrasto ripropone quello costantemente langhiano – Metropolis, Il sepolcro indiano – e quasi astorico tra alto e basso, suolo e sottosuolo)… Proprio la rigidezza del meccanismo provoca l’emozione, ed è fondamentale che a ribadire il gioco degli scambi sia il movimento indietro, o comunque in profondità, che in seguito avrà tanta parte nel cinema di Kubrick

Mentre lo scivolamento laterale della m.d.p., nel carrello laterale o nella panoramica, non provoca traumi nello spettatore, permettendo anzi al soggetto di allargare il suo dominio) sulla scena senza metterne in questione il voyeurismo passivo, il movimento in profondità chiama in causa il soggetto, riproducendo la struttura di una sua entrata nella terza dimensione, chiamandolo a costruire lo spazio. Il voyeurismo viene da esso esasperato e quindi contestato, perché il lungo movimento avanti e indietro ha quasi gli stessi effetti di un’insistita «soggettiva», illudendo il soggetto che guarda di «penetrare» il mondo–schermo con l’identificazione fisica occhio–m.d.p., ma provocandogli anche subito l’ovvio disagio di chi sente di essere solo «finto» dalla macchina come soggetto. Tale movimento è al cinema per definizione il luogo dell’emozione, del desiderio (indietro o avanti, il carrello è decisivo per produrre qualsiasi momento erotico) o della paura (come ha capito bene Herzog). Dalla pura descrizione, dall’oggettivismo spietato del percorso laterale (estremizzato e chiarito nelle sue funzioni da Godard nella lunga fantascientifica scivolata a lato della strada di Week–end) di Rapina a mano armata, la mobilità della camera di Kubrick entra d’impeto in questa nuova dimensione, senza incertezze lirico–erotiche alla Bertolucci, usando anzi «meccanicamente» anche questo procedimento, per di più all’indietro e quindi carico di ineluttabilità e della paura di qualcosa che –come direzione –«rientra in noi» allontanandoci dai luoghi che crediamo di possedere. Il riferimento spesso fatto ai lunghi e celebri carrelli di Lewis Milestone (non solo) in All’Ovest niente di nuovo, ma anche nella versione anni 30 di Prima Pagina) è fuorviarne, essendo troppo importanti le differenze: il momento di Milestone è quasi sempre laterale e funzionale alla descrizione di un percorso nell’ambiente (la redazione del giornale, il campo di battaglia) da parte di un personaggio, descrizione a volte monotona e statica; nel film tratto dal romanzo di Remarque, p. es., serve a mostrare la contiguità, la vicinanza spaziale degli uomini che si combattono, il loro appartenere a una stessa «terra». Nel film di Kubrick, invece, non c’è quest’umanismo, non c’è il tedesco con cui si parla da trincea a trincea scambiando la pagnotta: la situazione è molto più cruda, uomini dello stesso paese che uccidono dei connazionali, e neanche loro sono «fratelli» c’è solo chi ha il potere e chi no.

Procedendo per artifici, Kubrick chiarisce qual è l’unico realismo che poi perseguirà in tutta la carriera. Realismo di adeguamento della realizzazione al suo progetto, realismo esatto nella costruzione del meccanismo voluto. Un realismo quasi «solipsistico», rivolto alla struttura del film come riproduzione della macchina logica. Questo va detto proprio per Orizzonti di gloria, il film che causò, specie in Italia, l’imporsi nella maggioranza della critica di un’immagine kubrickiana fatta di mitico realismo  umanistico e progressista, immagine poi delusiva in quanto disattesa dallo stesso regista. Non è invece un caso che proprio la situazione bellica e il film di guerra (prima dell’approdo alla fantascienza della storia) costituiscano il corpus kubrickiano più esteso e omogeneo (Fear and Desire, Orizzonti di gloria, Stranamore, un po’ Spartacus) nel quale eventualmente rintracciare i diversi realistici meccanismi che di volta in volta Kubrick produce da una stessa realtà. E la forza di Orizzonti di gloria viene solo da questo: dalla consapevole raffigurazione di una realtà di «gioco». La guerra è veramente il gioco più bello per molti (su questo Kubrick non si fa illusioni), perché – se metafora è – è soprattutto metafora della vita, condensato e concentrazione di essa. «La sola storia di guerra davvero straordinaria, è l’Iliade». A parte il riferimento omerico che tornerà in 2001, c’è qui la coscienza delle ambiguità enormi della guerra, del fascino che le proviene dall’essere appunto metafora del tutto (come nell’Iliade; cfr. per questo le tesi di E Ferrucci nel suo L’assedio e il ritorno, Milano 1974). Se il film «commuove» (e commuove) è per il geometrismo rituale che dà la verità di una situazione che malgrado tutto siamo abituati a considerare come un enorme gioco. La sua violenza è quella del contrasto tra l’aspetto di gioco prevedibile (sempre prevedibile, o quasi, in Kubrick; come gli scacchi, gioco logicissimo eppure non ancora del tutto «risolto») e in fondo confortevole, e che magari vorremmo più sfrenato e selvaggio (come nel Fuller delirante eppur geometrico di L’urlo della battaglia), e il fatto flagrante che in questo gioco «si muore», si muore nelle spire del caso (come in qualsiasi «vita»). Come nel cinema di Lang, il fascino del meccanismo e della composizione figurativa è anche pericolosa fascinazione della morte (che verrà estremizzata in Barry Lyndon), sì che la figura “totale” della morte sarà costante in ogni film di Kubrick.

La specificità di Orizzonti di gloria non è quindi la guerra, o lo è talmente da divenire struttura del tutto e non solo della guerra. La condanna sorge solo dall’ammirazione inconscia per un “bel” meccanismo che è poi produttore di morte. La paura della situazione è quella del gioco rituale (il gioco eroico e catartico della lotta bellica) che si scopre con orrore essere un sacrificio umano. L’aspetto del conteggio della morte, della previsione dei suoi modi («preferisci la mitragliatrice o la bomba?» si chiedono i soldati la notte dell’attacco), del suo succedere implacabile (e Kubrick solo dopo molte discussioni riuscì a imporre alla United Artists l’esecuzione finale invece di una grazia salvatrice), del suo avvenire senza eroismi, è il punto nero in cui il meccanismo si rivela non essere limitato alla guerra. La Grande Guerra, la prima guerra nella storia che in larga parte abbia risparmiato – almeno come effetti diretti – la popolazione civile, riducendosi a confronto di soli eserciti su larghissima scala, quindi il primo esempio di guerra in qualche modo depurata e in sé «astratta» (la guerra che giunge alla «coscienza» dello Zeno di Svevo), proprio questa guerra «separata», diventa così immagine perversa, affascinante e odiosa, della vita, di una vita certo separata e in cui i margini di gioco sono inferiori a quelli sperati, in cui alcuni guardano altri uomini nel freddo spettacolo del binocolo (Mireau che scruta le trincee), in cui la vita stessa scorre in tunnel spietati, costruita in «profondità» di campo le due finestre di Killers Kiss). E diverso da Losey, nome che dovremmo richiamare spesso a proposito di Kubrick (Losey ammira Kubrick, e il suo Per il re e per la Patria si riferisce à Kubrick nella riproposta del processo per codardia, e il The Criminal–Concrete Jungle, Giungla di cemento 1960, citava la rapina all’ippodromo di cui sappiamo, anticipando – nelle sequenze di «aria» in prigione – analoghe sequenze di Arancia Meccanica. Entrambi, Losey però fuggendo il maccartismo, si sono stabiliti in Inghilterra). In Losey, l’astrazione del teorema si riferisce sempre all’assurdità della guerra, mentre qui l’antimilitarismo nasce proprio dal porsi in assoluto del problema di morire, essere uccisi, non esserci domani, e non tanto dalla sommarietà del processo o dalla patologicità dei personaggi, che anzi il processo è il momento più scacchisticamente «previsto», già concluso prima di essere istruito. Antimilitarismo, quindi, come dubbio generale sul «senso» della situazione, se neanche Dax riesce a far nulla per i suoi uomini; dubbio sulla speranza, se il finale viene definito dallo stesso Kubrick «abbastanza cinicamente romantico».

Il successo di pubblico è limitato, e nonostante la grande risonanza (il film fu tra l’altro proibito in Francia, dove è rimasto tabù fino agli anni 70; in Belgio provocò tafferugli tra associazioni combattentistiche e dimostranti pacifisti), e le molte lodi (si parla apertamente di capolavoro), Kubrick non ha affatto spianati di fronte a sé i sentieri della gloria.

Pubblicato in Stanley Kubrick, di Enrico Ghezzi, Firenze: La Nuova Italia

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