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FEAR AND DESIRE: KUBRICK “RIMOSSO” – di Paolo Cherchi Usai

Speciale sul film di Stanley Kubrick "Fear and Desire", pubblicato dalla rivista Segnocinema nel 1989
Paul Mazursky in Fear and Desire

Speciale sul film di Stanley Kubrick “Fear and Desire”, pubblicato dalla rivista Segnocinema nel 1989

SEGNOSPECIALE

Kubrick “rimosso”

FEAR AND DESIRE e THE SEAFARERS

A cura di Paolo Cherchi Usai

Con la collaborazione di Robin Blair Bolger

Il primo film di Stanley Kubrick, Fear and Desire, fu girato nel 1952, quando il regista aveva appena 24 anni.
Qualche anno più tardi quest’ope­ra era già introvabile: Kubrick in persona – pare cosa certa – si era adoperato perché le copie fossero ritirate dal mercato, insoddisfatto della riuscita artistica del suo primo lungometraggio.
Adesso, la nostra eccezionale sco­perta di una copia di Fear and Desi­re presso una collezione privata, ponendo termine a una ricerca du­rata oltre vent’anni, riporta alla luce – con dovizia di documenti anche iconografici – tutte quelle compo­nenti che avevano contribuito a far entrare nella leggenda Fear and De De­sire, questo film “maledetto” di Stanley Kubrick


35 anni prima di Full Metal Jac­ket

SCACCO AL GENERALE: ANALISI DI FEAR AND DESIRE

Abbiamo ritrovato il primo lungo­metraggio di Stanley Kubrick, gira­to nel 1952, rinnegato pochi anni dopo dallo stesso regista e virtual­mente scomparso dalle sale di proiezione. Eccone, finalmente, una descrizione “dal vero”

di Paolo Cherchi Usai

Il 16 novembre 1952 Joseph Burstyn trovò fra la posta recapitata al suo ufficio di New York, al 113 West sulla 42nd Street, una lettera firmata dall’allora ventiquattrenne Stanley Kubrick. Vi si parlava di un film dal budget quasi invisibile, ma che non nascondeva le ambizioni del suo autore.

La sua struttura: allegorica. La sua concezione: poetica. Il dramma di un uomo sperduto in un mondo ostile: un uomo privo di radici materiali e spirituali, che cerca di capire se stesso e la vita che lo circonda. La sua Odissea è messa in pericolo da un nemico invisibile e mortale che gli è addosso; ma è un nemico che, a ben guardare, è frutto della sua stessa matrice… tutto ciò dirà molte cose a diverse persone, e il film è d’altronde fatto per questol.

All’epoca in cui la lettera fu scritta, Fear and Desire era già una realtà: le riprese erano state terminate un anno prima, la post-produzione aveva richiesto un impegno finanziario di gran lunga superiore al previsto, ma ormai non si trattava che di trovare un distributore disposto a rischiare. Le credenziali a disposizione di Kubrick erano a quell’epoca fra le migliori (tenuto conto della giovanissima età), anche se le circostanze che avevano favorito i primi passi della sua carriera nella fotografia e nel cinema erano apparse avventurose e casuali piuttosto che il frutto di un progetto a lungo coltivato. Fortunosa era pure stata l’occasione del primo incontro — sia pure molto indiretto — con il mondo dello show business. La collaborazione alla rivista di reportages fotografici Look lo aveva in effetti tratto in salvo dalla disoccupazione dopo i disastrosi risultati conseguiti al college, dove una failure in Inglese e una media di 68/100 gli avevano chiuso le porte della Taft High School.

Molti anni più tardi, Kubrick dirà che il redattore capo di Look gli avrebbe dato di che lavorare più “per pietà” che per fiducia, ma il vantaggio dell’accordo che legò la rivista all’aspirante fìlmmaker era reciproco: quest’ultimo, “un magro, scombinato moccioso che nascondeva la macchina fotografica in un sacchetto di carta per non essere scambiato per un turista”2, poteva inseguire a distanza relativamente ravvicinata il proprio sogno di passare dietro alla macchina da presa; per Look, Kubrick costituiva una garanzia di servizi a buon mercato. Gli sceneggiatori che lavoravano con lui alla redazione dei reportages lo definivano “un tipo bizzarro… un fotografo straordinario”3; del tutto inconsueto era d’altronde il primo portfolio che Kubrick sottopose a Look, una serie di ritratti di un professore di letteratura inglese intento a declamare l’Amleto per la classe, nel college del Bronx che Kubrick aveva frequentato senza brillanti risultati.

L’autore di quelle foto aveva, allora, diciassette anni. Dovettero passarne altri cinque prima che alle stranezze (rodei volanti per la propaganda politica, ritratti di vita in un circo fermo nella stagione invernale) si aggiungessero i servizi più impegnativi: celebrità, viaggi in Europa, manifestazioni sportive4. Una di queste – un incontro di pugilato – aveva dato origine al primo progetto di film, Day of the Fight, sulle ultime ore del pugile Walter Cartier prima del match5. Come il progetto diventò realtà è ormai noto: un ex compagno di scuola, Alexander Singer (più tardi anch’egli regista), fece notare a Kubrick che la RKO-Pathe pagava quarantamila dollari per gli shorts della serie The March or Time; Kubrick calcolò che gliene sarebbero bastati millecinquecento per fare altrettanto, ne mise comunque insieme più del doppio – fra i propri risparmi, circa 800 dollari, e i prestiti6 – prima di recarsi al 1600 di Broadway, alla Camera Equipment Company, dove un impiegato, Burt Zucker, gli insegnò in una mattinata come adoperare una Eyemo a 35 millimetri7.

Fino ad allora l’esperienza di Kubrick in campo cinematografico era stata intensa quanto eterodossa: cinque film la settimana al Museum of Modera Art; almeno due novità di prima visione nei weekend, dai grandi cinema di Manhattan ai più sperduti locali di quarta visione a Staten Island; una sola lettura di carattere teorico, Pudovkin. Day of the Fight era il primo atto del passaggio dallo stadio di spettatore intraprendente a quello di cineasta, ma l’esperimento aveva comunque funzionato. Non ci sono dettagli sulle vicende produttive del cortometraggio, ma è certo che l’esperienza gli servì ad assimilare in poco tempo i rudimenti tecnici del mestiere: come montare un film, come far funzionare la moviola, come cavarsela con un sincronizzatore preso in affitto.

Immediata fu pure la presa di coscienza di ciò che significa chiedere e spendere denaro per lare un film. Secondo alcune fonti Day of the Fight sarebbe costato 3800 o 3900 dollari, secondo altri cinquemila; la RKO-Pathe avrebbe pagato almeno quattromila dollari per il prodotto finito (cifra notevole, visto che la serie The March of Time era ormai agonizzante), una somma forse sufficiente a coprire le spese ma non certo a far credere a Kubrick che il cinema avrebbe potuto diventare una fonte di lucro a breve termine8. La RKO-Pathe gli affidò un secondo cortometraggio, Flying Padre, sulla vita del reverendo Fred Stadtmueller e sul suo viaggiare su un piccolo aereo per raggiungere i fedeli sparsi nel territorio del New Mexico9; nonostante il film fosse più breve – nove minuti, contro i sedici di Day of the Fight  – i costi di produzione risultarono più elevati, soprattutto a causa delle riprese on location.

Neppure a proposito di Flying Padre sono noti i termini finanziari dell’accordo fra Kubrick e la RKO-Pathe, ma è quasi certo che Kubrick rientrò appena nelle spese10. La collaborazione a The March of Time si fermò a questo punto; Flying Padre non fu l’ultima esperienza di Kubrick nel campo del documentario (la realizzazione di The Seafarers, di cui si scrive in altra parte di questo dossier, è di poco successiva a quella di Fear and Desire), ma il fatto che l’obiettivo finale di questo apprendistato fosse l’esordio nel film a soggetto è dimostrato da alcune letture ulteriori (Stanislavskij, Gorchakhoz, Eisenstein, Schnitzler) e da scelte di vita: le dimissioni da Look, la ricerca di denaro presso parenti e amici, le discussioni con l’amico poeta Howard O. Sackler a proposito dell’idea per un lungometraggio.

Il progetto rimase per molto tempo senza un titolo, ma nei primi giorni del 1951 – quando Kubrick annunciò l’imminente inizio delle riprese – i termini dell’impresa erano già descritti con orgoglioso puntiglio. Perfino l’idea di fare del New York Times il portavoce ufficiale delle sue ambizioni rientrava in un progetto promozionale forse ingenuo ma tutt’altro che inefficace, un’anticipazione del funzionale quanto delicato rapporto fra il regista e i media. Le informazioni contenute nell’articolo di Thomas M. Pryor del 14 gennaio di quell’anno sono così precise da apparire citazioni indirette dallo stesso Kubrick:

Stanley dice di aver già studiato ogni inquadratura, e sostiene che dopo aver trovato i luoghi adatti per le riprese -“in California”, aggiunge – le riprese non dovrebbero creare problemi, e dovrebbero concludersi entro un termine variabile fra i quindici e i ventuno giorni. Sceglierà quattro attori professionisti, “ma non molto noti”, da Broadway, li porterà sulla West Coast e, poiché Stanley non è ancora iscritto al sindacato degli operatori cinematografici, ingaggerà un tecnico professionista. L’unica condizione richiesta è che il cameraman accetti preventivamente lo schema delle riprese preparato da Stanley, che produrrà e dirigerà il film11.

Incoraggiato dai risultati e dall’entusiasmo del nipote – e fors’anche cedendo alle sue insistenze – uno zio di Los Angeles proprietario di una drogheria, Martin Perveler, prestò a Kubrick una cifra variabile fra i novemila e i diecimila dollari. Con questa somma egli pensava di ingaggiare cinque attori, di affittare le apparecchiature necessarie alle riprese e di pagare tre manovali messicani per il loro trasporto. L’idea era inizialmente quella di girare il film nei territori settentrionali dello stato di New York; la successiva decisione di effettuare le riprese in California risultò alla fine la più conveniente, non solo per la maggiore clemenza delle condizioni atmosferiche. Nonostante la dichiarata intenzione di ingaggiare a New York quattro attori professionisti “non molto noti”, Kubrick ne trovò a Broadway soltanto tre: Kenneth Harp, che avrebbe dovuto interpretare il ruolo del soldato Corby; Steve Coit, cui era assegnato quello di Fletcher, e il non ancora ventunenne Paul Mazursky, installatosi al Greenwich Village subito dopo l’esordio nei teatri off della metropoli.

Kubrick si recò quindi sulla West Coast con la moglie Toba e con Sackler, alla ricerca di un ideale luogo di ripresa e di un quarto attore. Durante la discussione dello script deve essersi fatta strada, a questo punto, la necessità di trovare un ulteriore interprete. L’idea potrebbe essere emersa anche a New York, poco prima della partenza, convincendo Kubrick ad aggiungere un elemento maschile al cast del proprio film. Sta di fatto che, all’inizio delle riprese, gli interpreti erano diventati cinque: c’era una donna, la giovanissima Virginia Leith, e c’era un nome già noto a Hollywood, quello di Frank Silvera, veterano del teatro, che avrebbe esordito sullo schermo quello stesso anno per la regìa di Budd Boetticher in The Cimarron Kid (Universal, 1951).

Presa in affitto a venticinque dollari al giorno una macchina da presa Mitchell con quattro obiettivi Baltar da 25, 50, 75 e 100mm, Kubrick chiamò da New York il resto della troupe: Coit, Harp, Mazursky; alcuni amici disposti ad aiutarlo nell’impresa: Bob Dierks (unit manager), Chet Fabian (trucco), Herbert Lebowitz (scenografie); un aiuto regista iscritto al sindacato degli operatori, Steve Hahn. Due altre ragazze avrebbero completato il quadro delle comparse per una sola inquadratura sulla riva di un fiume. La scelta dei luoghi di ripresa cadde sul territorio circostante il Baker Field River, sulle San Gabriel Mountains, poche miglia a nord di Los Angeles.

Non è noto se le riprese siano durate due o tre settimane, come Kubrick aveva preventivato. La lavorazione non fu però turbata da alcun incidente di rilievo, e i problemi tecnici connessi alla scarsità di risorse furono risolti con i normali espedienti del caso: scene di tramonto girate in pieno sole con un filtro rosso davanti all’obiettivo, pellicola sottoesposta per accentuare la densità del grigio nelle inquadrature in penombra. Un solo problema di una certa importanza si verificò nel momento in cui erano previste le riprese di una scena in mezzo alla nebbia, e si scoprì che il prezzo d’affitto per una fog machine proveniente da Hollywood era proibitivo. Qualcuno del gruppo escogitò una soluzione a base di acqua e olio minerale, vaporizzata da un imponente spruzzatore di insetticida per uso agricolo; la densa foschia così ottenuta faceva tossire e dava fastidio agli occhi, ma l’effetto fu assicurato.

Kubrick tornò a New York con quindicimila metri di negativo safety e in nitrato Kodak e Dupont, circa un decimo della pellicola normalmente impiegata per una media produzione hollywoodiana. Se davvero Kubrick aveva preventivato nel dettaglio l’ordine e la durata delle inquadrature, c’è da presumere che poche settimane gli siano state sufficienti a scegliere i 1.811 metri di pellicola necessari a ottenere un prodotto finito pari a 66 minuti di proiezione, senza tenere conto dei titoli di testa e di coda. Fu a questo punto, tuttavia, che egli si rese conto di aver sottostimato i costi di doppiaggio e di sincronizzazione della colonna sonora. Poiché nulla – se non qualche promemoria verbale – era stato registrato nel corso della lavorazione, si trattava di aggiungere alle immagini i rumori e i dialoghi, insieme a un commento musicale. Il costo dell’operazione si aggirò sui trentamila dollari, più del triplo di quanto Kubrick aveva speso per portare a termine le riprese del film.

Passarono così nove mesi, durante i quali Kubrick divise il proprio tempo fra la disperata ricerca di denaro e il lavoro in studio. Amici e parenti, e soprattutto lo zio Martin Perveler, gli vennero di nuovo in aiuto, e alla fine dell’inverno del 1952 – dopo che Gerald Fried, un altro esordiente per il cinema, completò l’accompagnamento musicale, e dopo che Barney Ettengoff disegnò i titoli di testa e di coda: il metraggio complessivo corrispondeva ora a 68 minuti di proiezione12 – il film poté essere finalmente completato. L’opera aveva ora anche un nome, Fear and Desire, ma rimaneva da risolvere un ultimo, decisivo problema: la distribuzione. Superare l’ostacolo apparve subito assai più difficile che ai tempi di Day of the Fight. Nessuno, nel sottobosco degli indipendenti dalle majors di Hollywood, si mostrò interessato al film; un’altra primavera, e un’altra estate, passarono senza alcun risultato apprezzabile. A novembre, infine, l’idea: rivolgersi a un distributore d’essai, e mirare al circuito delle art houses per trovare l’eco del pubblico specializzato e della stampa di settore.

Fino ad allora, Joseph Burstyn non aveva mai distribuito film a soggetto di registi americani esordienti. Il suo listino di vendita andava sul sicuro: A nous la liberté di René Clair, Ladri di biciclette e Miracolo a Milano di De Sica, Francesco, Giullare di Dio di Rossellini13. È per il momento impossibile dire se la lettera inviata da Kubrick il 16 novembre corrisponda a una prima presa di contatto, né è possibile stabilire quanto tempo siano durate le trattative – se trattative ci sono state – e quali le condizioni discusse. Per Kubrick non si trattava più, a questo punto, di sperare in un congruo riscontro finanziario, ma di vedere il film proiettato e di suscitare reazioni; Burstyn accettò la proposta, e l’uscita di Fear and Desire fu programmata per la primavera del 1953. Dopo essere stato presentato alla stampa il 26 marzo, il film fu proiettato in pubblico per la prima volta il 31 al Guild Theatre di New York, a più di due anni di distanza dall’annuncio al New York Times.

Il giorno prima, 30 marzo, Joseph Burstyn aveva depositato il titolo, una copia e un riassunto di Fear and Desire all’ufficio del copyright alla Library of Congress di Washington14. Passarono meno di due mesi prima che una comunicazione ufficiale di Martin Perveler – datata 29 maggio – richiedesse la restituzione del film, forse in ragione del fatto che Fear and Desire era stato stampato in una quantità di esemplari troppo esigua per lasciarne una inutilizzata nei depositi del copyright office15. La sinossi del film è invece rimasta a Washington. Conviene citarla per intero, visto che essa costituisce il più preciso documento scritto sul contenuto dell’opera16.

Nel corso di un’immaginaria guerra, quattro soldati si trovano sperduti in una foresta dopo che il loro aereo è stato abbattuto. Il luogotenente Corby (Kenneth Harp) fa il punto della situazione: essi sono circondati dai nemici, non hanno cibo e la loro unica arma è una pistola. Egli propone di avvicinarsi al fiume che attraversa la linea del fronte per costruire una zattera sulla quale fuggire nottetempo. Gli altri esitano ma, non avendo altra scelta, finiscono per intraprendere il loro prudente cammino verso il fiume. Mentre il gruppo si fa strada fra gli alberi, si odono le loro voci interiori: il senso di responsabilità di Corby, l’incipiente isteria di Sidney (Paul Mazursky), l’odio ribollente di Mac (Frank Silvera), la stanchezza di Fletcher (Steve Coit).

Giunti sul fiume, gli uomini costruiscono una zattera di fortuna. Mac torna dal suo posto di guardia, e indica a Corby una postazione nemica sull’altra sponda del fiume. Un aereo vola a bassa quota sulla pattuglia; Corby, temendo che il nemico li abbia avvistati, ordina ai commilitoni di ritornare nella foresta. Mac ritiene che l’aereo sia atterrato nei pressi dell’accampamento nemico, ed è ossessionato dalla possibilità che in esso possa esservi un “Generale”.

Alcune ore dopo il gruppo si imbatte in una capanna, nella quale si intravedono due soldati nemici. Tentati dal cibo e dai fucili, la pattuglia irrompe nella costruzione e uccide i due militari senza sparare un solo colpo. Mac si avventa sullo stufato, mentre Sidney è così sconvolto che quasi non riesce a muoversi. Un terzo soldato nemico entra portando legna da ardere, ed è subito abbattuto a colpi di pistola. Il rumore degli spari rende pericolosa la loro presenza nella capanna, e i quattro decidono perciò di allontanarsene al più presto.

Il giorno dopo, ancora più stanchi, affamati e inclini al litigio, i soldati si recano di nuovo alla zattera, dove si imbattono in una giovane (Virginia Leith). Mac riesce a catturarla prima che la donna possa gridare; la prigioniera viene legata a un albero. Corby le pone alcune domande, ma lei mostra di non comprendere le sue parole né il suo linguaggio gestuale. Sidney sta diventando sempre più isterico; egli prega i commilitoni di non picchiare la ragazza. Incaricato di sorvegliarla – pistola alla mano – mentre gli altri vanno a controllare la zattera, egli accusa i compagni di averlo lasciato solo.

Di fronte alla giovane, Sidney perde completamente il senso della realtà: implora la donna di non provare ripugnanza per lui, di non disprezzarlo, e finisce per piangere sulla sua spalla.

Gli altri, nel frattempo, fanno ritorno alla zattera. Mac guarda di nuovo verso i quartieri nemici e vede il Generale con i suoi aiutanti e l’aeroplano fermo sulla pista. L’idea di uccidere il Generale si fa strada nella sua mente.

Sidney prosegue il suo folle tentativo di distrarre la ragazza recitando la storia della Tempesta. La giovane è terrorizzata.

Mac cerca di parlare a Corby a proposito del Generale. Corby taglia corto e gli ordina di tornare da Sidney mentre lui e Fletcher cercano di mimetizzare la zattera.

Sidney, il cui sguardo è ormai spiritato, offre acqua alla ragazza dalle proprie mani. Lei beve, grata, e Sidney l’accarezza. Si eccita, la bacia, balbettando che lei deve ora amarlo, e la libera. La giovane cerca di fuggire. Spaventato e privo di ragione, Sidney le grida di fermarsi, e poi le spara. Poi cade a terra, mormorando cose incomprensibili, proprio mentre Mac irrompe nella radura. Prima che Mac possa fermarlo, Sidney corre lontano nella foresta, ridendo e gridando istericamente. Gli altri ritornano e Mac spiega loro quel che è successo.

Nell’attesa dell’imbrunire, Mac – ormai assorbito completamente dall’idea di far fuori il Generale – convince Corby e Fletcher ad accettare il proprio piano. Sarà lui a prendere la zattera e ad attirare l’attenzione delle guardie lontano dalla casa con i suoi spari, mentre gli altri due uccideranno il Generale e fuggiranno sull’aeroplano.

Quella stessa notte, gli uomini mettono in acqua la zattera. Mentre gli altri attraversano furtivamente la foresta, verso i quartieri nemici, Mac scende lungo il fiume. I pensieri si affollano in lui caoticamente: il suo odio per il Generale, la sua solitudine, la sua accettazione della morte incombente, il suo disprezzo per il proprio passato.

Con il binocolo, Corby riesce a scorgere il Generale nella propria stanza. Il Generale è ubriaco. Vediamo che il Generale e il suo aiutante sono interpretati, rispettivamente, da Kenneth Harp (Corby) e Steve Coit (Fletcher): gli stessi uomini venuti ad ucciderli. L’aiutante è di buon umore, mentre il vecchio Generale parla con rammarico delle guerre da lui già combattute.

Mac comincia a sparare dal fiume. Le sentinelle afferrano i loro fucili e corrono nella direzione degli spari. Corby occupa la veranda lasciata incustodita, mentre Fletcher corre alla finestra e spara a entrambi gli ufficiali. Il Generale è soltanto ferito, e si trascina verso la porta d’ingresso.

La sparatoria presso il fiume è cessata; Mac è gravemente ferito. Il Generale riesce ad attraversare la porta dell’edificio, Corby gli spara a bruciapelo… e lo fissa in volto, riconoscendo il proprio viso in quello del Generale ucciso. Corre con Fletcher verso l’aeroplano, e i due sgombrano il campo appena prima che le sentinelle facciano ritorno.

Mac, mortalmente ferito, scende il fiume al chiaro di luna. Sidney attraversa la corrente verso di lui, e sale sulla zattera. È impazzito del tutto.

Giunti sani e salvi alla base, Corby e Fletcher cercano di intravedere la zattera nella foschia dell’alba. Corby ammette che, sebbene ce l’abbia fatta, egli è andato troppo in là rispetto ai propri confini per ritornare in se stesso. Fletcher confessa di sentirsi di colpo libero, ma ammette che tutti i suoi precedenti progetti e desideri sono andati in frantumi.

Essi odono una voce che canta, e la zattera emerge dalla foschia. Mac è morto; Sidney, a quattro zampe sulla zattera, guarda la nebbia e canta incoerentemente. I quattro sono di nuovo insieme.

Ci si trovava dunque di fronte a un film di guerra dall’ambigua identità genetica: una pattuglia sperduta, una missione da compiere, una fuga impossibile; uomini dalle personalità contrastanti, presenze femminili ridotte al minimo, un apparente pacifismo di fondo. Ma, se non c’è eroismo, dove sono gli antieroi? La missione è davvero tale? E perché far interpretare due diversi ruoli agli stessi interpreti? Evidentemente, dei luoghi comuni tipici del genere bellico c’era in sostanza poco o nulla. Vi si ravvisava, invece, un’estrema semplificazione dell’impianto narrativo, una sovrabbondanza di dialoghi, una dichiarata volontà di concentrare l’azione vera e propria a pochi eventi-chiave uniformemente distribuiti nel corso del racconto; e c’era aria di Rashomon, il film-sensazione del 1952, con la sua vicenda fatta di eventi inafferrabili, di verità multiple, di spiegazioni che si annullano vicendevolmente.

I dati sugli incassi potrebbero dire qualcosa sulla risposta del pubblico a un’opera dal carattere così dichiaratamente allegorico (una qualità del resto preannunciata dallo stesso Kubrick nella sua lettera a Burstyn); quel che rimane dell’eco di Fear and Desire all’epoca della sua distribuzione è, per il momento, la carta stampata, ma le informazioni che se ne ricavano sono assai meno lacunose del previsto, e possono anzi dare un’idea incompleta ma verosimile dell’accoglienza riservata al film. Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare per un’opera d’esordio nel lungometraggio presentata al di fuori dei festival, luoghi privilegiati per le ambizioni degli esordienti, Fear and Desire ricevette infatti da parte della critica un’attenzione largamente superiore alla media. Time, Newsweek, il New York Times e l’autorevole New Yorker recensirono il film, un onore non sempre tributato anche ad autori di ben più consolidata reputazione. Variety, TheatreArts, Commonweal, l’Herald Tribune, il Motion Picture Herald e, molto più avanti, la Saturday Review dedicarono spazio a Fear and Desire, che ottenne ampia menzione anche su una rivista specializzata, Modern Photography.

Nessuna di queste recensioni, per quanto negativa, negò a Fear and Desire parole diverse da quelle che si concedono di solito all’opera di un volenteroso dilettante. Variety parlò di “un colto, inconsueto dramma bellico, notevole per la freschezza della messinscena e per la poesia dei dialoghi”. Con l’anodino stile tipico delle recensioni di Variety negli anni Cinquanta, dal tono a metà strada fra il bollettino di consigli agli esercenti e la segnalazione dal giudizio tranchant per chi non ha tempo da perdere, l’anonimo autore sosteneva che “alcune sequenze hanno un efficace impatto, ma il risultato complessivo non è del tutto convincente”. In definitiva,

Anche se Fear and Desire può rivelare alcune pretenziosità e diversi superflui interventi della voce narrante (David Allen), si tratta senz’altro di un prodotto della miglior qualità che ci si può aspettare da un film dal budget così limitato17.

Sempre nell’ambito della sommaria ricognizione sul contenuto, ma con ben altra proprietà di termini, il New York Times cercava di separare gli aspetti visivi del film da quelli verbali, deplorando questi ultimi e sottolineando tuttavia che le migliori intuizioni di Fear and Desire non ne avevano sofferto più del dovuto:

Se la descrizione delle tensioni mentali e delle tribolazioni dei soldati ha meno successo del tentativo di questi ultimi di raggiungere sani e salvi le proprie linee, ciò è principalmente dovuto a una sceneggiatura ridondante, troppo esplicitamente poetica, e alla regìa dello stesso Kubrick, che qua e là si rivela tutt’altro che ispirata. Eppure, il talento di Kubrick in quanto fotografo appare chiara anche a chi non è addetto ai lavori. Egli si è dimostrato capace di rendere con efficacia le grottesche positure dei corpi morti, la crudeltà e la bestialità degli uomini affamati, e in una sequenza anche la pietosa espressione di libidine in un puerile soldato di fronte alla giovane che egli dovrebbe sorvegliare18.

Il commento di Newsweek proseguiva lungo questa linea interpretativa, sbilanciandosi però nettamente a favore del regista, “un ventiquattrenne esordiente che è destinato a lasciare il segno nell’immediato futuro”. Si ammetteva che Fear and Desire “è un misto di promesse e di frustrazioni”, che “il sonoro è un flusso di coscienza narrativa che distrae dall’azione” e che “ci sono forti somiglianze rispetto alle immagini fortemente chiaroscurate, translucide, dell’ottimo film giapponese uscito lo scorso anno, Rashomon“; preso nel suo complesso, però,

Fear and Desire dovrebbe essere visto da chiunque abbia uno speciale interesse per il cinema… Tecnicamente, Kubrick non ha realizzato nulla di nuovo; ma dal punto di vista intellettuale ed espressivo egli è riuscito in qualcosa di assai ben fatto per un principiante19.

Pur nell’ambito di un giudizio complessivamente benevolo, pochi giorni dopo, Philip K. Hartung correggeva però il tiro sulle ambizioni e sui limiti del regista esordiente. Secondo Hartung la sceneggiatura di Fear and Desire era

appesantita da una quantità di simboli: troppi per il comune spettatore, che non ha voglia di decifrare i significati nascosti dietro ai significati… Benché alcune parti di Fear and Desire abbiano una splendida fotografia, altre sembrano realizzate da un dilettante. Nel complesso, tuttavia, il film si presenta come un potente atto d’accusa contro la guerra, e merita l’attenzione del pubblico più avveduto20.

Il critico di Commonweal aveva avuto buon gioco nel semplificare i termini del suo commento a un film così prodigo di volenterosi messaggi fra le rigne, e nello stesso tempo così diretto, apparentemente privo di sottili mediazioni culturali: “un altro piccolo film, [che] potrebbe essere definito «d’arte», «sperimentale» o altro… la sua idea di fondo è che la guerra è un inferno, e che le campane dell’inferno suonano per noi”: nulla di nuovo davvero, ma a parere di Hartung Fear and Desire aveva se non altro il merito di dire “in sessantotto minuti assai di più di quanto molti altri non dicano in un paio d’ore”. Gli faceva eco Parker Tyler su Theatre Arts, affermando che “Fear and Desire non è un «grande» film nella comune accezione del termine… e da molti punti di vista è una fortuna che esso non abbia mai ambito a diventare «grande», o qualcosa del genere”. Proprio per questo, secondo Tyler, la sincerità nella presa di posizione da parte di Kubrick nei riguardi della guerra in Fear and Desire rendeva il film “eccezionalmente «grande», anche se una certa fragilità nella concezione estetica e nei mezzi fa sì che esso non riesca a conseguire appieno l’obiettivo”. Fear and Desire era dunque “ingenuo, improvvisato”, ma al tempo stesso coglieva la natura più intima dell’aggressività umana, l’universalità della mentalità militare e della sua latente coscienza omicida. Fear and Desire, eccezionale esempio di quanto lo stesso film avrebbe potuto essere, è un vero e proprio riassunto di ciò che un’ispirazione seria e approfondita potrebbe ottenere nel campo delle immagini in movimento, ma ottiene in realtà assai di rado. Andatelo a vedere, assimilate le sue potenzialità e sperate in giorni migliori per il cinema del futuro21.

L’auspicio formulato da Tyler costituisce forse il commento più lusinghiero che Fear and Desire abbia mai ricevuto. Ben altra accoglienza fu riservata a Kubrick dal prestigioso – e notoriamente severo – New Yorker, che trattò il film senza pietà. Kubrick, “un giovanotto che si ritiene dotato di grandi idee e di una rara sensibilità”, ha prodotto un’opera che “promette d’essere un ricco, succoso esempio d’arte somma” e che si risolve invece in un logorroico teorema sulla “disapprovazione per la guerra: un’idea ormai piuttosto diffusa, salvo che presso alcune popolazioni del Kenya”:

per sottolineare l’idea che la guerra è un gioco inutile, Fear and Desire utilizza gli stessi attori per rappresentare i soldati e i loro nemici. Tutto ciò crea, come prevedibile, qualche confusione, e il fatto che nessuno degli interpreti possa essere considerato un maestro in fatto di tecnica recitativa rende le cose ancora più difficili. Forse non dovrei insistere tanto nell’uccidere un uomo morto, ma a me sembra che – considerata la libertà di espressione di cui Kubrick ha evidentemente goduto – egli avrebbe potuto fare di meglio. Dopotutto, se proprio si deve trovare un alternativa convincente ai risibili clichés estetici hollywoodiani, bisognerebbe almeno avere le idee un po’ più chiare22.

Con il sarcasmo tipico dello stile New Yorker, l’autore dell’articolo, John McCarten, giudicò negativamente quasi ogni aspetto del film, non risparmiando neppure la decisione del distributore, Joseph Burstyn (“un uomo che tutti ritengono sappia riconoscere un buon film al primo colpo d’occhio”), di presentare la pellicola al pubblico, né i dettagli delle scene d’azione:

In una successiva scena, i viandanti inciampano in un gruppo di nemici, e li ammazzano tutti. È un peccato – per loro e per me – che quei poveri cristi abbiano dovuto dire addio alla vita proprio all’ora di cena, perché Kubrick ci si è messo di impegno nel combinare i rantoli che precedono la morte con gli schizzi di minestra23.

McCarten non aveva evidentemente alcuna intenzione di separare i propri umori stagionali dal giudizio estetico sul film (“Virginia Leith, l’unica presenza femminile nel gruppo, mi sembra un gran pezzo di ragazza, ma forse è per via della primavera”); il malcelato tono di sufficienza che trasuda dall’articolo del New Yorker finì comunque per rappresentare efficacemente l’atteggiamento dello stesso Kubrick nei riguardi di Fear and Desire. Del film si perde traccia – nella letteratura critica sul regista – dal 1956, anno in cui la Saturday Review si soffermò sull’atteggiamento di Kubrick nei riguardi della guerra. Dovettero passare due anni prima che lo stesso Kubrick si degnasse di menzionare un’opera che egli ricordava con un imbarazzo perfino eccessivo:

Fear and Desire (1953) è stato prodotto, scritto, diretto e deplorato da Kubrick, che si limita a parlarne con queste parole: “il dolore è un ottimo maestro”24.

Non era vero che Kubrick aveva scritto il film (anche se è assai probabile che la sceneggiatura di Fear and Desire sia stata scritta a quattro mani, oppure per mano di Howard Sackler ma sotto l’assidua supervisione del regista); era invece vero che Kubrick non voleva più sentirne parlare. Più che “deplorato”, Fear and Desire era già un film “rimosso”. Non è da escludere che l’avversione sia dovuta anche a circostanze personali (il divorzio da Toba Metz risale allo stesso anno in cui furono completate le riprese del film; secondo James B. Harris, produttore di alcuni successivi film di Kubrick, quest’ultimo si sarebbe rivolto a lui alla disperata ricerca di denaro per proseguire l’attività: lo stesso Kubrick gli avrebbe fra l’altro chiesto di aiutarlo a vendere Fear and Desire alla televisione25), e che la spettacolare maturazione stilistica rappresentata da Paths of Glory abbia fatto sì che Kubrick sentisse la necessità di prendere drasticamente, e pubblicamente, le distanze dal suo periodo d’apprendistato. Ma perché Kubrick se l’è presa tanto con Fear and Desire e non, ad esempio, con i primi cortometraggi, o con Killer’s Kiss? La parziale spiegazione proveniente dallo stesso Kubrick, secondo il quale Fear and Desire sarebbe stato “un tentativo serio, condotto con inettitudine”, mentre Killer’s Kiss avrebbe costituito “un’operazione frivola portata a termine con migliore cognizione di causa, anche se pur sempre alla maniera tipica di uno studente di cinema”26, non basta a rendere conto della virtuale scomparsa del film dalle sale di proiezione.

La “rimozione” di Fear and Desire è stata infatti, prima di tutto, fisica: vedere il film diventò, con il passare degli anni, un’impresa sempre più ardua, e alla fine praticamente impossibile, da che Kubrick avrebbe provveduto – in circostanze ancora da chiarire – a ritirare il maggior numero possibile di copie dalla circolazione. Per vent’anni nessuno ne poté scrivere nulla se non in generiche voci d’enciclopedia, e Kubrick non fece alcunché per incoraggiare il contrario. Nel 1964, in un’intervista alla New York Review of Books, egli definiva Fear and Desire “un presuntuoso fallimento”27; sei anni dopo il suo atteggiamento era tutt’altro che mutato, da che le domande rivoltegli da Joseph Gelmis per la raccolta di interviste dal titolo The Film Director as Superstar ricevevano drastici no comment come il seguente: “non è un film che ricordo con orgoglio, se non per il fatto che l’ho portato a termine”28.

Fear and Desire stava diventando così, malgrado le intenzioni dell’autore, un mito. Mito negativo, da che i suoi difetti sarebbero stati tali e tanti da rendere necessaria questa soppressione della memoria critica e della possibilità da parte di altri di resuscitarla. Wallace Coyle scriveva nel 1980 che “tutte le copie del film sono state restituite a Stanley Kubrick”; un altro studioso americano, Mark Carducci, arrivava a sostenere – senza però fornire prova alcuna – che Kubrick abbia realizzato un proposito ancora più drastico distruggendo il negativo del film dopo la scomparsa di Burstyn: “l’intera faccenda puzza di tentativo alla Howard Hughes, da parte di Kubrick, di cancellare una parte del proprio passato”29. Dal 1956 a oggi, soltanto due autori affermano esplicitamente di aver visto il film: il primo, Jackson Burgess, scriveva nel 1964 su Film Quarterly a proposito di Fear and Desire in rapporto agli altri film di Kubrick sulla guerra30; meno di dieci anni dopo, nel 1972, Norman Kagan affermava che “Fear and Desire non e più disponibile sul circuito commerciale”, ma che gli era stato possibile “consultare una copia per un’analisi critica” del film.31

I pochi altri autori che accennano a Fear and Desire addentrandosi in particolari non dichiarano di averlo esaminato nel dettaglio, ma neppure ammettono il contrario32. Tutti gli altri saccheggiano in sostanza l’analisi di Kagan (qualche volta senza dargliene credito), ricorrono alle recensioni d’epoca oppure si affidano alla semplice trama del film, riprodotta fra l’altro dallo stesso Kagan e ulteriormente segmentata, ridotta e deformata – di riassunto in riassunto – con il passare degli anni. La fortuna critica di Fear and Desire è nella sostanza una storia di congetture e speculazioni, intercalata da giudizi di valore basati su testimonianze altrui e da paragoni tematici che brancolano nella filmografia del regista, da Killer’s Kiss a Spartacus, da Dr. Strangelove a Barry Lyndon, fino a Full Metal Jacket 33.

Proprio in quanto eccezioni, le analisi di Fear and Desire basate sull’esperienza concreta del film acquistano perciò un valore particolare, che trascende la qualità intrinseca dei contributi o il loro acume critico. Nella sua esplorazione dei temi bellici nel cinema di Kubrick, Jackson Burgess non esitò a definire Fear and Desire “un film dolorosamente dilettantesco”, ma al tempo stesso rimase colpito da dettagli quali “l’indimenticabile sfracellarsi del viso del generale” e, in senso lato, dalla “straordinaria purezza e onestà d’intenti” dell’opera, che

è senza dubbio il prodotto di una risoluta volontà individuale. La sua trama è governata da decisioni meditate e sentite piuttosto che da formule preconcette e da eccessi di prudenza.34

Era troppo facile, secondo Burgess, stigmatizzare “l’insulsaggine delle battute assegnate al luogotenente” e il miscuglio di stili “che ci si aspetta di solito da un esordiente che ha studiato la propria arte”. Altrettanto facile sarebbe stato prendersela con l’inesperienza degli attori (“anche se bisogna ammettere che una sceneggiatura del genere avrebbe messo alla prova interpreti più stagionati”) e con le lacune tecniche degne della “mise en scène di un allestimento teatrale di ginnasio”. Nonostante tutti i difetti, Fear and Desire si affermava dunque come qualcosa di più che una promessa: un esordiente nel lungometraggio accettava finalmente di sporcarsi le mani “con la farina del mulino di Hollywood”, imparando quel che significa commettere errori in un’attività nella quale ogni errore costa un’ingente quantità di denaro.

Fear and Desire non è soltanto un film inconsueto; in esso sono convogliate potenti e complesse emozioni, insieme a una visione del perenne conflitto fra autorità e virtù e dell’incertezza che avvolge qualsiasi scelta morale. È una visione di cristallina trasparenza (nonostante l’insulsaggine delle battute assegnate al luogotenente) e di profonda dignità, rappresentata principalmente mediante le immagini35.

Poco più avanti, Burgess introduceva – pur senza coglierne le possibili implicazioni – un’idea che si farà strada molto più avanti nel cinema di Kubrick:

… questa nozione di una perturbante identità delle morali, o di un’ancor più perturbante instabilità dei caratteri, costituisce la visione nitidamente realizzata tre anni più tardi in Paths of Glory, ed è la fonte dei disperati schiamazzi di Dr. Strangelove 36.

Burgess ricorre due volte al termine disturbing, qui tradotto come perturbante37, e l’accezione data all’accostamento della parola con altri concetti inerenti la morale e l’equilibrio della personalità denota un’intuizione che rimarrà sommersa nella successiva saggistica su Kubrick, e che riemergerà soltanto quindici anni dopo, all’uscita di The Shining. La circostanza è degna di nota anche perché Burgess ha evitato – a differenza di quasi tutti gli altri esegeti della prima ora di Fear and Desire – di assimilare il dato dell’inesperienza tecnica (“il sonoro doppiato è terribile”) e dell’eccessiva ambizione filosofica (“un vago pessimismo adolescenziale mascherato da Pensiero Profondo”) alla sostanza delle idee di Kubrick: a ciò che Kubrick voleva a tutti i costi dire e che Fear and Desire ha detto con inflessioni “nebulose e declamatorie”.

Nessuno, comunque, raccoglie il suggerimento. Non lo raccoglie neppure Norman Kagan, l’unico che si sia addentrato in Fear and Desire al punto di dedicargli un intero capitolo di libro. Eppure è proprio lui a introdurre un’idea complementare a quella di Burgess, anch’essa divenuta un leitmotiv nell’ermeneutica kubrickiana subito dopo l’uscita di Barry Lyndon: il conflitto fra ragione e passione, e più in generale l’inconciliabilità fra emozioni e progetto nella ricerca da parte dell’uomo di un criterio morale di conoscenza del mondo38.

L’uomo più intelligente della pattuglia, il luogotenente Corby, è così distaccato che non sa perché è vivo, e si limita a collezionare ragioni (“come farfalle”)… Anche le emozioni, in Fear and Desire, sono considerate dannose. Il soldato più giovane, Sidney, finisce per aggredire e uccidere sotto la spinta della paura e della libidine39.

Per due volte, nella stessa pagina, Kagan sfiorava inoltre i temi dell’ossessione in quanto specchio deformante della responsabilità individuale di fronte al gruppo, e del motto di spirito come valvola di sfogo delle tensioni collegate a quest’ultima. Corby “usa il proprio cervello soprattutto per lanciare «scherzi intellettuali» che nessuno raccoglie”, e “si accorge di giocare con le idee soltanto per aiutare se stesso a sopravvivere in un mondo ostile”. D’altra parte, “tutti e quattro i soldati rappresentano i frammenti di una personalità deflagrata: pensiero intellettuale e ludico, spinte emotive quali la lussuria e la paura, controllo delle emozioni e autodisciplina, modi comportamentali della sopravvivenza”. Mac è tormentato dall’idea di uccidere il generale nemico, ma il suo spirito d’iniziativa sembra dettato da una spinta alla realizzazione di sé (o di purificazione) più che dall’odio verso il nemico. Nel compiere la propria missione egli “si redime, raggiunge la propria catarsi mediante un atto socialmente approvato” nell’ambito delle regole del gioco in guerra, pur essendo “votato inconsapevolmente all’autodistruzione”. La coppia di omicidi-suicidi, Sidney e Mac, “è tipica di quasi tutti i film di Kubrick: Lolita (Humbert Humbert, Quilty); Dr. Strangelove (il generale Ripper, il maggiore Kong); e 2001: A Space Odyssey (HAL-9000, l’astronauta Bowman)”. Ma, a parere di Kagan, “i ritratti di questi personaggi guidati dalle loro passioni e da impulsi che essi non possono comprendere del tutto” non saranno mai enunciati con la chiarezza del lungometraggio d’esordio di Kubrick: Fear and Desire “rimane il suo film più personale fino a Lolita”, “l’affascinante contenitore d’una moltitudine di idee, immagini e temi che continueranno da allora ad apparire nei successivi film”, anche se la chiarezza dell’assunto ha dato luogo a imbarazzanti insistenze e disinvolte semplificazioni:

Non c’è nessuno sforzo per mostrare sotto una luce favorevole i generali nemici, cosicché la loro morte non è un fatto così sconvolgente come lo è quella della ragazza. Neppure è credibile il fatto che un sognatore come Corby rimanga nell’esercito più del tempo strettamente necessario. Infine, la disperata situazione dei quattro dispersi non è per nulla paragonabile alle fatalistiche e compiaciute meditazioni degli ufficiali nemici40.

Il dossier critico riguardante Fear and Desire si chiude virtualmente a questo punto. Alexander Walker, nel suo Stanley Kubrick Directs, rinunciò ad esprimere alcun giudizio, limitandosi a citare un’ulteriore stroncatura dello stesso Kubrick (“era poco più di una versione in 35 millimetri di ciò che gli studenti di una scuola di cinema saprebbero fare in 16 millimetri”) e ad esprimere “il sospetto che egli non sia per nulla dispiaciuto del fatto che l’unica copia di cui si conosce l’esistenza si trovi in mano di privati, e non sia attualmente disponibile alla proiezione”. Michel Ciment si azzardò finalmente a porre in relazione Fear and Desire con l’estetica del film noir41, proponendo un’interpretazione del finale diametralmente opposta a quella di Kagan:

… in Fear and Desire quattro soldati, in una guerra senza nome, si infiltrano dietro le linee nemiche, si aprono un passaggio attraverso la foresta e massacrano una pattuglia prima di attaccare un avamposto nemico, rendendosi così conto che la loro impresa è priva di significato, e che essi si ritrovano nella situazione di partenza42.

Thomas Alien Nelson aveva infine ri-definito il punto di vista dei più severi critici di Fear and Desire alla luce di un giudizio complessivo sul decennio in cui il film fu realizzato. L’opera si rivela così

un pot-pourri di negatività bohémienne tipica degli anni Cinquanta (il film prende di mira la guerra al pari di altre istituzioni sociali, e mostra i fallimenti della ragione e i pericoli nascosti in un inconscio lasciato inesplorato) e autocompiacimento esistenziale (quando James Mason/Humbert, in Lolita, afferma di essere in procinto di andare a Hollywood per girare un film sull’esistenzialismo, “allora assai di moda” come egli stesso commenta ironicamente, e probabile che lo stesso Kubrick abbia voluto dire qualcosa a proposito dei propri esordi)43.

In alcune parti della sua breve analisi, Nelson lasciava supporre che la misteriosa copia superstite in mano di privati, più volte citata a proposito della scomparsa di  Fear and Desire, gli sia stata messa a disposizione a scopo di studio. Egli descriveva infatti con una certa precisione una sequenza dove le baionette dei soldati “prendono d’assalto l’obiettivo”, nonché le immagini di “corpi straziati sui quali sono sparsi i resti di un pasto”. D’altro canto, egli identificava come “nazisti” i soldati nemici e affermava che tutti quanti escono “da un cuore di tenebra collettivo verso l’alba di una nuova coscienza”: il che, pure accettando il punto di vista di Kagan sull’auto-sacrificio di Mac come segno di una catarsi raggiunta mediante “un atto socialmente approvato”, appare una lettura decisamente ottimistica per un film che si mantiene lungo la linea di una negatività totalizzante, priva di compromessi44.

Nelson scriveva di Fear and Desire nel 1982. Indipendentemente dal fatto che egli ne abbia visto o meno una copia, la cortina di silenzio intorno al film era allora così fitta che esso faceva già parte – nonostante l’epoca relativamente recente in cui esso era stato realizzato – del ristretto novero di opere “perdute” in drammatiche o affascinanti circostanze in cui si trovavano già la versione integrale di Greed, il Don Chisciotte di Welles e il Claudius di Josef von Sternberg. Con una sola, decisiva differenza: gli altri titoli rappresentavano altrettanti capolavori scomparsi (in tutto o in parte), mentre Fear and Desire sembrava celare soprattutto – sotto le apparenze di un volenteroso e fallimentare tentativo – il nucleo più profondo delle idee di Kubrick, il ricettacolo di intuizioni rimaste latenti per quasi vent’anni ed emerse soltanto con i suoi ultimi due film, The Shining e Full Metal Jacket.

L’esame di Fear and Desire alla luce del dittico kubrickiano tratto dai libri di Hasford (The Short Timers) e Herr (Dispatches) sortisce così un duplice effetto. Da un lato, esso consente di comprendere perché il regista si sia adoperato con tanta energia alla rimozione di un film che – in quanto tentativo giovanile -avrebbe altrimenti potuto essere trattato con assai più indulgenza dallo stesso autore. Dall’altro, Fear and Desire dimostra quanto fossero rilevanti certi dettagli disseminati da Kubrick in un film – quale è Full Metal Jacket – così introflesso, in più punti volutamente anodino, così privo di referenti drammatici (soprattutto nella seconda parte) da provocare una sensazione di pesante disagio dopo quarantacinque minuti condotti al limite della violenza verbale e psicologica. Dal primo punto di vista, le parole pronunciate da una voce fuori campo (David Alien) all’inizio di Fear and Desire rafforzano la spiegazione più ovvia del disprezzo di Kubrick per la propria opera prima di lungometraggio: non sono un’introduzione, sono un manifesto.

There is war in this forest. Not a war in that has been fought or one that will be, but any war, and the enemies who struggle here do not exist until we call them into being. This forest then, and all that happens now, is outside history; only the unchanging shapes of fear, and doubt, and death are from our world. There soldiers that you see keep our language and our time, but have no other country but the mind.

[In questa foresta c’è la guerra. Non una guerra già combattuta, né una guerra futura, ma la guerra, e i nemici che si fronteggiano qui non esistono finché non ne suscitiamo l’esistenza. Perciò questa foresta, e tutto quello che ora vi accade, è al di fuori della storia; solo le forme immutabili della paura, del dubbio e della morte provengono dal nostro mondo. I soldati che vedete parlano la nostra lingua e vivono il nostro tempo, ma non hanno altra patria che la mente.]

Le inquadrature d’apertura giustificano appieno le parole d’apprezzamento dei critici dell’epoca per la fotografia del film: Fear and Desire contiene immagini di smagliante precisione, così nitide che nei frequenti primissimi piani dei soldati (come quello di Paul Mazursky, intento a fissare un aereo in volo) la pelle del viso assume un rilievo quasi plastico, senza il supporto di alcuna luce radente (Figura 1). Quali che fossero le ambizioni e i limiti del giovane Kubrick, la regìa appare solo leggermente impacciata, e non mostra alcuna arroganza d’autore alle prime armi. La sovrabbondanza verbale, invece, si sente tutta, e pesa parecchio. Si mette in chiaro che Fear and Desire non è un film di guerra nel senso corrente del termine, si insiste sul fatto che l’unica realtà con la quale i suoi personaggi hanno a che fare è psicologica e non fisica, si accenna a “forme immutabili della paura, del dubbio e della morte” che fanno parte dell’esperienza mentale quotidiana; in altre parole, il film si vede negare in partenza ogni identità di genere e se ne vede attribuire un’altra, quella di esplorazione dell’inconscio. I “nemici che si fronteggiano” al suo interno sono creati da un atto di volontà (di chi li presenta allo sguardo, di chi li osserva), e sono il prodotto di pulsioni che trascendono la Storia e si annidano nella coscienza.

Per quanto discutibile in quanto incipit per un film destinato alla distribuzione commerciale, il commento d’apertura a Fear and Desire contiene almeno due elementi d’interesse. Il primo è la consapevole rinuncia ad attribuire alla vicenda che sta per iniziare un connotato temporale chiaramente definito. Non si parla di “una guerra già combattuta, né [di] una guerra futura”, ma della guerra come situazione archetipica, solo incidentalmente riconoscibile mediante “la nostra lingua” e “il nostro tempo”; la precisazione proviene inoltre da un attore invisibile, la voce narrante, che si impone subito quale elemento di controllo dell’ordine narrativo. Il raconteur invisibile del primo Kubrick – quello che più tardi scandisce i minuti in Rapina a mano armata (The Killing 1956) e governa l’ampia traiettoria drammatica di Barry Lyndon (1975) – è già onnisciente, conosce già il punto d’arrivo della vicenda e ne rivela in partenza il senso. L’impatto di tale dichiarazione è così marcato che l’intero film procede idealmente sotto quest’impulso esterno, e non v’è bisogno che esso si ripeta, né che se ne replichi il senso alla fine della storia (come avviene in altri film hollywoodiani dominati da un commento che si frappone tra lo schermo e lo spettatore).

Il narratore-demiurgo di Fear and Desire interviene sul film in maniera più immediata, diretta, imprimendo in almeno tre occasioni una diversa velocità allo scorrimento del tempo nella mente dei personaggi e nel loro trasformare il pensiero in azione. La prima interrompe l’estenuante lentezza nel ritmo della prima parte, così volutamente priva di eventi cruciali da insinuare la possibilità che tutto il film non sia altro che un susseguirsi di false piste, di azioni possibili e dilazionate senza soluzione di continuità, di esiti che appaiono a tutta prima inevitabili e che di colpo sono annullati dall’incertezza sul loro significato.

Si tratta di una circostanza apparentemente marginale, in ogni caso assai meno importante del fatto che la pattuglia abbia appena intravisto, dall’altra parte del fiume, un avamposto nemico. Da una capanna occupata da soldati della parte avversa proviene odore di cibo; attirati dalla fame, più che dal significato strategico dell’azione, i quattro massacrano le loro vittime a colpi di baionetta nell’istante in cui esse stanno per consumare il loro frugale pasto (Figura 2). La sequenza, fulminea e crudele, si conclude nel giro di pochi secondi frantumati in inquadrature senza dubbio assai calcolate in fatto di angolazione e chiaroscuri ma non per questo meno efficaci: si passa rapidamente dalle immagini di una scodella di minestra lasciata cadere a terra (Figura 3), a soggettive delle vittime infilzate dai pugnali degli assalitori (l’attore che aggredisce la macchina da presa, un espediente tipico del cinema russo rivoluzionario), a spruzzi di cibo e coltelli sul pavimento (Figura 4), al dettaglio di una mano che stringe il cibo in poltiglia prima di irrigidirsi (Figura 5) sotto gli occhi del luogotenente Corby, al centro di una stanza costellata da corpi, oggetti e luci che disegnano quadri di geometrico orrore (Figura 6).

Prima che sia terminata, la sequenza presenta tuttavia altri due momenti rivelatori. Il primo è di natura stilistica, e rinvia direttamente a un altro “film di guerra” kubrickiano, nonché a un’immagine ricorrente in quasi tutti i film di Kubrick successivi a Fear and Desire: pochi istanti dopo la colluttazione, un terzo soldato nemico entra nella capanna ed è anch’egli ucciso, questa volta con un colpo d’arma da fuoco. La macchina da presa inquadra Corby nell’atto di osservare la scena del massacro; lo sfondo scuro dell’immagine e lo sguardo attonito del personaggio richiamano immediatamente alla memoria i primi piani di Sterling Hayden in Dr. Strangelove (Figura 7). L’obiettivo indugia ancora per pochi secondi intorno alla figura di Corby, che nel frattempo incita i propri compagni a sgomberare la capanna nel timore che altri soldati nemici abbiano sentito il colpo d’arma da fuoco: il tempo di descrivere – abbassandosi a livello del pavimento – una macabra prospettiva di corpi senza vita e di penombre, dalla perfezione marcatamente pittorica (Figura 8), e di impennarsi d’improvviso in una plongée che rivela la grottesca positura di due arti inferiori, forse appartenenti a due diverse vittime, forse a una sola e orrendamente spezzati (Figura 9). È questo il punto di partenza di una catena di personaggi – centrali o di contorno – menomati alle gambe, un florilegio d’infermità e di mutilazioni che non si è fermato neppure con Full Metal Jacket e che percorre praticamente l’intera filmografia kubrickiana45.

Rivelatrice è pure la descrizione del comportamento dei soldati dopo l’eccidio, nell’insistita affermazione di una corrispondenza fra la componente sessuale, l’impulso aggressivo e l’istinto della sopravvivenza nell’agire del gruppo.

CORBY: Better grab something to eat. It may be a long time ’till our… next “feast”. Better eat something.
FLETCHER: How’s the stew, Mac?
MAC: Hmmm… kinda’ cold, but cold stew’s all right.
CORBY: Cold stew on a blazing island. We ‘ve just made a perfect definition of war, Mac.
MAC: That’s ducky!
CORBY: Of course. A blazing island with a tempest of gunfire around it that fans the blaze.

[- Meglio buttare giù qualcosa. Potrebbe passare un bel po’ di tempo prima della nostra prossima… festa. Meglio mangiare qualcosa.
– Com’è lo stufato, Mac?
– Hmmm… un po’ freddo, ma lo stufato va bene anche così.
– Stufato freddo in un’isola in fiamme. Ecco un’ottima definizione di guerra, Mac.
– Ma che bello…
– Certo. Un’isola infuocata con una tempesta d’armi da fuoco che soffia sulle fiamme.]

I soldati si siedono fra i cadaveri (Figura 10); Sidney trova riposo sul tavolo davanti al quale i soldati nemici avevano appena trovato la morte, e il suo viso immobile si confonde con quello delle vittime. Fra i primi piani di Corby, assorto nelle proprie meditazioni, e le ombre dei morti sull’impiantito della stanza, Mac si avventa sull’ultima scodella di cibo e la svuota d’un fiato; un liquido denso, biancastro gli scorre lungo il mento, in un’inquadratura che si sofferma su dettagli ripugnanti e allusivi (Figura 11). Un breve monologo interiore di Corby comprime subito l’atmosfera sotto il peso di citazioni letterarie (un riferimento al romanzo di Mark Twain Huckleberry Finn era venuto poco prima da Fletcher, subito dopo la costruzione della zattera sul fiume):

We spend our lives running our fingers down the lists and directories, looking for our real names and our permanent addresses… “No man is an island”? Humph! Perhaps that was true a long time ago, before the ice age. The glaciers have melted away, and now we’re all islands, parts of a world made of islands only.

[Spendiamo la nostra esistenza facendo scorrere le dita su indici e liste, alla ricerca dei nostri veri nomi e dei nostri indirizzi permanenti… “Nessun uomo è un’isola”? Già… Forse ciò era vero tanto tempo fa, prima delle glaciazioni. Ora che i ghiacciai si sono sciolti siamo tutti come isole, frammenti di un mondo fatto soltanto di isole.]

Subito dopo, tuttavia, il tema dell’antropofagia a sfondo erotico-rituale riemerge prepotentemente in una battuta che Mac rivolge all’inquieto Sidney, subito dopo che i soldati sono tornati all’aperto:

What’s the matter… what’s the matter, sweetheart? I heard that they’re cannibals… so that even if we get caught, you’re pretty safe!

[Che succede?… Che cosa ti succede, tesoro? Ho sentito dire che (i nostri nemici) sono cannibali. Così, anche se ci prendono, tu non hai nulla da temere…]

Anche la prima comparsa di una presenza umana esterna al gruppo coincide con un’immagine di ricerca del cibo e di stilizzato erotismo. Tre fanciulle, intente a pescare nel letto del fiume, sono inquadrate in una perfetta diagonale di classica semplicità (Figura 12), anch’essa memore del cinema giapponese importato in Occidente nei primi anni Cinquanta. Ma, nel momento in cui la giovane al centro della composizione raggiunge la riva e si insospettisce per i rumori che provengono da dietro la radura, l’interesse di Kubrick per la storia si sposta dal piano simbolico-figurativo verso connotazioni più dirette. Temendo di essere scoperti, Corby e compagni rimangono immobili a osservare i movimenti della ragazza (Virginia Leith), che si avvicina sempre più al punto in cui gli uomini si sono rifugiati. L’intensa inquadratura in soggettiva di uno dei soldati, il cui sguardo incontra quello di lei che si avvicina tra le fronde di un cespuglio (Figura 13), dà inizio alla parte più spregiudicata di Fear and Desire, dal punto di vista delle idee e della tecnica. I fatti sono narrati con ruvida concisione: la fanciulla è catturata, legata a un albero e interrogata per sapere se lei o le compagne hanno avvistato la loro zattera. Dopo aver inutilmente tentato di strapparle una risposta, Corby, Mac e Fletcher tornano sulla riva del fiume a completare i preparativi, lasciando la prigioniera sotto la custodia di Sidney. Quest’ultimo inscena dapprima di fronte a lei un lungo e incoerente monologo, poi tenta di sedurla, infine la uccide per impedirle di fuggire sotto gli occhi dei commilitoni.

Se Fear and Desire è, in nuce, l’intera galassia Kubrick nel momento della propria esplosione, la sequenza ne è il nucleo primordiale, l’attimo che contiene tutti gli attimi successivi dell’esperimento kubrickiano con il tempo. Per cominciare, Virginia Leith è nel film quel che Tracy Reed è in Dr. Strangelove, una Lady Foreign Affairs che – come più volte sottolineato dalla critica dell’epoca – pronuncia una sola parola, per di più con aria interrogativa:

MAC: I hope she doesn’t start screaming.
CORBY: She’s a pretty little thing.
FLETCHER: Why don’t we just leave her here and get going?
CORBY: Don ‘t rush me. If we can make her understand us, perhaps she can tell us whether they found the raft.
SIDNEY: CORBY: Habla español? I’ll handle this, Sidney. I’m quite sure she wasn’t educated abroad. Now, let’s see. You-see-boat? Our-boat? [Figura 14].
GIRL: Boat?

[- Speriamo che non si metta a gridare.
– Bel pezzo di figliola.
– Lasciamola qui e andiamocene.
– Non mettermi fretta. Se ci facciamo capire, forse ci dirà se hanno trovato fa zattera.
– Habla español?
– Lascia fare a me, Sidney. Sono sicuro che non è stata educata all’estero. Vediamo… Tu-visto-barca? Nostra-barca? Barca?]

Quando Corby decide di legare la ragazza a un albero, Sidney reagisce immediatamente:

Please don’t beat her! She’s just scared, like we are. She doesn’t even talk!

[Non picchiarla! È solo spaventata, come noi. Non riesce neppure a parlare!]

Il dialogo è dominato da nuovi riferimenti a dominante alimentare: “lasciamo qui anche il pesce?”, chiede ironicamente Fletcher; poco più tardi, alludendo al fatto che forse la giovane stava procurando cibo al generale nemico, Mac inizia a descrivere quel che il generale potrebbe volere per cena: “pesce, stoccafisso, fragole fresche, capretto…”, un catalogo la cui eco sarà amplificata dal personaggio di Hallorann (Scatman Crothers) nella dispensa di The Shining (1980). Poco dopo, Sidney è solo di fronte all’ostaggio (“voglio che tu stia lì a tenerla d’occhio”, dice Corby allontanandosi con i compagni, “potrebbe esserci utile qualora la zattera sia stata scoperta”), È un peccato che la sequenza successiva sia introdotta da immagini, sovrimpresse alla scena, del massacro nella capanna: l’insano comportamento di Sidney sembra così trovare spiegazione nella memoria recente del soldato anziché in un richiamo più profondo, ancestrale. A quest’ultimo, in effetti, sembrano obbedire le incoerenti suppliche pronunciate sotto gli occhi attoniti della giovane:

I’m really glad they let me stay. I’m not foolin’!

Please don’t be afraid to like me! Please! That’s… that’s why they let me stay: they thought you would like me. (…) If you have to hate me, please try to like me also!

[Sono contento che mi abbiano lasciato stare qui. Non sto scherzando! Ti prego, non aver paura di volermi! Ti prego! È per questo… è per questo che mi hanno lasciato qui: ti piaccio, ecco quel che hanno pensato. (…) Se proprio devi odiarmi, ti prego, fa’ anche in modo di volermi un poco!]

L’azione rimbalza più volte dalla riva del fiume, dove gli altri si occupano della zattera e osservano con il binocolo le enigmatiche azioni dei nemici, alla radura in cui Sidney dà libero sfogo al proprio sdoppiamento mentale fingendo di essere egli stesso il generale di parte avversa (intento a mangiare e ad emettere rapporti strategici), rivolgendosi alla prigioniera, recitando per lei la Tempesta di Shakespeare:

Do you want to hear more? Do you? All right. Then the spirit in the magician’s power goes back to the island and tells Miranda that her father is dead. The spirit sings how he’s dead at the bottom of the ocean. His bones are coral; his eyes are pearls – and Miranda: her father’s dead. Dead! Can’t you understand anything? Dead! Dead! Dead! Now do you understand?

[Vuoi saperne di più? Vuoi? Bene. Allora lo spirito in potere del mago fa ritorno all’isola e dice a Miranda che suo padre è morto. Lo spirito canta come è morto in fondo all’oceano. Le sue ossa sono diventate corallo; i suoi occhi sono perle… e Miranda: suo padre è morto. Morto! Ma non capisci? Morto! Morto! Morto! Capisci, ora?]

(Alla luce della prima parte di Full Metal Jacket46, è interessante notare che Paul Mazursky abbia completato la propria interpretazione fingendo di strangolarsi con le proprie mani). I propositi di Sidney si fanno infine più chiari e la giovane intravede una possibilità di fuga. Sidney si inginocchia davanti a lei: lo scambio di sguardi fra i due (Figure 15 e 16) è del tutto simile a quello fra Alexander de Large e la modella seminuda di A Clockwork Orange, durante la dimostrazione della “cura Ludovico” (una semi-plongée in soggettiva su di lui; lo sguardo ambiguo di lei, a metà strada fra la finzione, il desiderio, il disgusto e la pietà). Sidney le porta un po’ d’acqua: lei beve, poi gli lecca le mani (Figura 17); accenna un rituale erotico (Figure 18 e 19), al quale egli risponde slegandola. L’attimo in cui la ragazza mette in atto il proprio disegno di salvezza provoca un brusco passaggio dal registro del grottesco alla secca concitazione del film noir, di cui è esempio fondamentale in Kubrick la brevissima sequenza del massacro in The Killing. Anche qui la teoria (la lettura di Pudovkin, i formalisti russi), e l’idea (lo sdoppiamento, il “perturbante” che già trionfa nel primo film a soggetto del regista), prevalgono sulla loro attuazione. La scena dell’omicidio consiste in pratica di tre inquadrature, due delle quali sono ripetute per quattro volte. La prima è un piano americano su Sidney (ripreso sotto una luce che esaspera la profondità delle zone d’ombra) pronto a sparare (Figura 20), le altre sono primi piani dello stesso Sidney, in piena luce e in penombra, alternativamente (Figure 21-24). La metafora è anche troppo chiara. Palese è anche l’intenzione di frantumare il corso temporale in inquadrature così brevi che l’occhio non può percepirle (le più lunghe durano un quarto di secondo, la più breve consiste in un solo fotogramma), rendendo così un ingenuo tributo all’Ejzenŝtein di Oktjabr (1927) ma affermando al contempo una distinzione che sarà fondamentale nel successivo cinema di Kubrick: il montaggio non è uno strumento per la riorganizzazione del significato (nel senso ritmico, musicale, di “contrappunto” visivo propugnato da Ejzenŝtein) ma un modo di interpretare il tempo come dato della coscienza, soprattutto in circostanze conflittuali o traumatiche. Si comprende così perché la sequenza si concluda con un’altra inquadratura “impossibile”, una soggettiva dal corpo senza vita della ragazza, alla quale Sidney chiude gli occhi coprendo con una mano l’obiettivo della macchina da presa.  L’invenzione è gravida d’intellettualismo, ma ha una ragione d’essere: è l’immagine conclusiva di un evento vissuto nella mente, l’atto finale dell’identificazione di Sidney con il pensiero della sua vittima e con i propri fantasmi:

She was tired. She went to lie down. Over there! Don’t annoy her, Mac. Come here! It wasn’t my fault: the magician did it! Honest! Prospero the Magician! First we’re a bird and then we’re an island. Before, I was a General! And now I’m a fìsh! Hurrah for the magicians!

[Era stanca. È andata a coricarsi. Laggiù! Lasciala in pace, Mac. Vieni qui! Non è stata colpa mia: è stato il mago! Lo giuro! Prospero, il Mago! Prima eravamo uccelli, e ora siamo un’isola. Prima, ero un Generale. E ora sono un pesce! Evviva i maghi!]

Il tema del doppio, dominante in Fear and Desire, non si ripresenta con altrettanta complessità d’implicazioni nel resto del film, che consiste soprattutto in una meccanica dimostrazione del teorema sulla natura speculare dell’intelletto: il generale e il capitano dell’esercito nemico hanno gli stessi volti di Corby e Fletcher; ne traducono le ansietà e i terrori; denunciano un parallelo atteggiamento di fronte alla morte. Quando Mac si offre di attirare su di sé, sulla zattera, il fuoco nemico mentre Corby e Fletcher faranno irruzione nella stanza del Generale, il dialogo assume di colpo un tono altisonante ma rivelatore:

MAC: What are you living for, anyway? To make talk? Why? Why is your life so precious?
CORBY: [monologo interiore] Why? The only reason is to hunt for the reason. But can I stand in the way of a man with a reason to die?
FLETCHER: You’ll do it, won’t you, Corby?
MAC: Do it for me.
CORBY: Well, we have nothing to lose but our futures.

[- Insomma, per che cosa vivi? Per parlare? Perché? Perché la tua vita è così preziosa?
– (monologo interiore) Già, perché? L’unica ragione è che cerchiamo una ragione. Ma come posso oppormi a un uomo che ha una ragione per morire?
– Lo farai, non è vero Corby?
– Fallo per me.
– Insomma… non abbiamo null’altro da perdere, se non il nostro futuro].

Dall’altra parte del fiume, il Generale ha appena finito di discutere con il capitano sul cibo con il quale nutrire il proprio Dobermann, tornato al quartier generale dopo due giorni trascorsi a vagare dall’altra parte del fiume (era apparso per pochi istanti anche di fronte a Corby e ai suoi compagni, all’inizio del film):

Frankly, I become quite uneasy when I find myself trapped, directing the courses of frightened men. I cannot quite admit that it is I who am creating slaughter in this abyss, or that I left the road, and that I ordered this or that. I’m trapped. What is a prison for me? I make a grave for others.

[A dire la verità, provo disagio nel ritrovarmi in trappola, costretto a dirigere le azioni di uomini terrorizzati. Non riesco ad ammettere d’essere io colui che crea il massacro in quest’abisso, o colui che ha lasciato il sentiero, o colui che ha ordinato questo o quello. Sono in trappola. Cos’è mai, per me, una prigione? Io preparo la tomba degli altri.]

Meno prevedibili sono l’atteggiamento di Mac nei riguardi del gruppo, e quello di Kubrick di fronte alla necessità di descrivere il momento della collisione fra i due poli del doppelgänger. Il primo è importante soprattutto in relazione a Full Metal Jacket, altro film sulla responsabilità individuale di fronte al gruppo in una situazione di pericolo collettivo, e sull’indifferenza davanti alla morte47:

No more Sundays. No more a thousand things. I’m a little scared, though. Just a little. Like kissing my great-grand-mother when she was dying.

[Niente più domeniche. Basta con le mille cose da fare. Ho solo un po’ paura. Solo un poco. Come quando ho dovuto baciare la mia bisnonna, mentre stava morendo.]

Lungi dall’agire nel nome di un improbabile istinto eroico, Mac considera il sacrificio di sé come l’accettazione di una sfida esistenziale:

… when you walk and walk through the woods and then suddenly they dangle a General in front of you like magic, and you know it’s only for this once; you can ‘t turn your back on him! None of us asked to be here, but we all have to gamble… it’s not as if we could refuse! We had to gamble once we crashed. That general raised the stakes, and we’ve been so lucky, why shouldn’t we put up a little more than we have to?

[… dopo che cammini e cammini nella foresta, e ad un tratto ti fanno balenare davanti agli occhi un Generale, così, come per incanto, e sai che sarà solo per questa volta; non puoi voltargli le spalle! Nessuno di noi ha chiesto d’essere qui, ma adesso dobbiamo correre il rischio… non possiamo più rifiutare! Una volta precipitati con l’aereo, dovevamo rischiare. Quel generale ha fatto la sua scommessa, ha puntato, e noi siamo stati così fortunati, perché non dovremmo puntare anche noi un po’ più dello stretto necessario?].

Il gioco – altro tema kubrickiano per eccellenza – assume così una valenza non più solo strategica, ma morale. Rischiare, mettersi a repentaglio, significa sfidare la morte, puntare le proprie energie su una promessa d’eternità. Una delle ultime inquadrature di Fear and Desire riprende appunto Mac, riverso sulla zattera come un moribondo del Radeau de la Méduse di Géricault (Figura 25), nella densa penombra di un fiume che l’esplicito allegorismo del film qualifica come l’indistinto scorrere del tempo (e come uno spartiacque cronologico e interiore: la linea di divisione fra i soldati e i loro nemici, il luogo in cui ricompare Sidney, l’unico a non aver partecipato all’azione contro il Generale).

Rimane da vedere come Kubrick abbia risolto in immagini la descrizione dell’impatto fra Corby, Fletcher e i loro deuteragonisti. In termini d’azione, il criterio adottato è identico a quello già visto nelle sequenze dell’uccisione dei soldati nella capanna e della ragazza del fiume: una raffica di brevissime inquadrature, fatta precedere e seguire da un montaggio decontratto, quasi amorfo. In quest’ultimo caso c’è di più: Mac attira su di sé l’attenzione delle guardie, che sparano. I colpi e le urla riecheggiano nella stanza del generale e del capitano, che tuttavia non si muovono (Figura 26), e accennano appena una debole reazione (Figura 27) prima di essere scaraventati al suolo dal fuoco delle armi. Kubrick insiste sul grottesco rigore di un cadavere (Figura 28), ma aggiunge alle immagini un crudo commento sonoro: un viso che si sfracella al suolo, le ossa del naso fracassate come noci sotto un pugno. Il generale si trascina a terra, cerca di guadagnare l’uscita; la luce proveniente dall’esterno mette in risalto i rivoli di sangue che gli colano dalla bocca. L’uomo riesce appena a mormorare “… mi arrendo…”, e Corby gli spara due colpi a bruciapelo. Mentre Fletcher e Corby fuggono verso l’aereo, il cane del generale si avvicina al cadavere del padrone: non per annusarlo, bensì per leccarne il sangue sul pavimento.

Uno studio iconologico delle costanti kubrickiane troverà dunque in Fear and Desire un impressionante catalogo di riferimenti. Quelli sul doppio (ivi compreso il progetto di un adattamento dalla Traumnovelle di Schnitzler, poi accantonato), sul tempo48 e sulla violenza (dal naso rotto di Alex in A Clockwork Orange alla passiva attesa dell’inevitabile da parte di Sterling Hayden nelle penombre di Dr. Strangelove, così simili a quelle in cui sono immersi il Generale e il capitano nemico) sono solo i più evidenti; dalla sequenza appena descritta appare tuttavia chiaro che Kubrick abbia successivamente voluto liberarsi del film per molti buoni motivi, ma non certo perché Fear and Desire gli apparisse nient’altro che uno sforzo presuntuoso e dilettantesco. Il problema era, ed è, altrove: nel fatto che il film proclamava senza reticenze, nel 1953, la strategia creativa di tutta l’attività seguente del regista; di tale attività Fear and Desire rivelava subito i segreti, i percorsi privilegiati, le motivazioni più intime. In altre parole, Kubrick aveva commesso l’errore più imperdonabile per un giocatore di scacchi: l’annunciare con le proprie mosse d’apertura il proprio metodo d’assedio al Re (al Generale) avversario.

NOTE AL TESTO

1 La lettera è parzialmente riprodotta in Norman Kagan, The Cinema of Stanley Kubrick. New York: Holt, Rinehart and Winston, 1972. La presente citazione, e quelle che seguono, sono ricavate dall’edizione Grove Press, 1975: 9.
2 Così Kubrick descrive se stesso in “Words and movies”, Sight and Sound, inverno 1961: 14.
3 Thomas M. Pryor, “Young Man With Ideas and A Camera”, The New York Times, 14 gennaio 1951.
4 Va notato, tuttavia, che già nel settembre 1949 la rivista specializzata Modern Photography dedicava a Kubrick una foto nella pagina del sommario (Vol. XIII, 9: 20): è il ritratto di un piccolo lustrascarpe di New York al lavoro, ripreso con l’obiettivo della macchina fotografica a pochi centimetri da terra.
5 La più recente analisi del film è dovuta a Richard Combs, “Day of the Fight”, Monthly Film Bulletin, Vol. XLVII, 563, Dicembre 1980: 248-249.
6 Wallace Coyle, Stanley Kubrick, A Guide to References and Resources. Boston, Mass.: G.K. Hall & Co., 1980: 2.
7 La più utile fonte sugli esordi di Kubrick in qualità di regista è tuttora Norman Kagan, The Cinema of Stanley Kubrick, cit.: 2 segg.; il testo contiene tuttavia numerose imprecisioni, parzialmente risolvibili mediante il confronto con l’intervista di Joseph Gelmis a Kubrick in The Film Director As Superstar, Garden City, N.Y.: Doubleday, 1970, in particolare alle pagine 312-315.
8 Nell’intervista di Gelmis a Kubrick in The Film Director as Superstar, cit.: 312, il regista dichiarò di aver guadagnato quattromila dollari per Day of the Fight, con un ricavo complessivo di cento dollari. Ciò confermerebbe l’ipotesi secondo cui il cortometraggio costò 3900 dollari anziché cinquemila.
9 Richard Combs, “Flying Padre”, Monthly Film Bulletin, vol. XLVII, 563, Dicembre 1980: 249.
10 Wallace Coyle afferma che la RKO avrebbe finanziato il film con la somma di 1500 dollari. Cfr. Stanley Kubrick, A Guide to References and Resources, cit.: 2.
11 “Young Man With Ideas and A Camera”, cit.
12 La durata di proiezione di Fear and Desire era, secondo tutti i documenti d’epoca, di 68 minuti. La copia consultata è di sette minuti più corta, e appare tuttavia omogenea. Vista la successiva abitudine di Kubrick di intervenire sulla versione “definitiva” delle proprie opere, non si può escludere che egli sia direttamente intervenuto sulla copia esaminata, che rivela d’altronde l’esistenza di diverse giunte (non tutte immediatamente identificabili come riparazioni ad altrettanti strappi della pellicola).
13 Outstanding Feature Films Now Available In 35mm., New York: Joseph Burstyn, Inc., s.d. [1952 circa] (ciclostilato): 1-2.
14 Catalog of Copyright Entries, Cumulative Series. Motion Pictures, 1950-1959. Washington. D.C.: United States Copyright Office, The Library of Congress, I960: 104. Nella scheda di deposito del film, conservata alla Library of Congress, Fear and Desire è definito un “photoplay in 8 reels“.
15 Request for Return of Copyright Deposits. Dichiarazione firmata da Martin Perveler al Register of Copyrights della Library of Congress, Washington D.C., LP 2595. Il documento, al pari della sinossi di Fear and Desire, può essere consultato presso la Motion Picture, Broadcasting and Kecorded Sound Division della Library of Congress.
16 Le sole altre fonti scritte disponibili sono il riassunto a cura di Norman Kagan in The Cinema of Stanley Kubrick, cit.: 9-17, che contiene però numerose inesattezze, e la synopsis riprodotta da Wallace Coyle alle pagine 32-34 di Stanley Kubrick, A Guide to References and Resources, cit., basandosi tuttavia sul testo di Kagan (v. la nota a pagina 32 del volume). Coyle indica due diverse date per l’uscita di Fear and Desire in altrettante parti del volume: 29 marzo (:3) e 1° aprile 1953 (:34), quest’ultima indicata come data di release.
17 Anon., “Fear and Desire”. Variety, 1 aprile 1953: 6.
18 A. Weiler, “The Screen in Review”. The New York Times, 1 aprile 1953: 35.
19 Anon., “Fear and Desire”. Newsweek 41, 13 aprile 1953: 106.
20 Philip K. Härtung, “What Are the Little Films Saying”, in Commonweal 58, 24 aprile 1953: 73.
21 Parker Tyler, “A Dance, A Dream and A Flying Trapeze”. Theatre Arts 37, 5, Maggio 1953:82-83.
22 John McCarten, “The Current Cinema: Amateur”. The New Yorker 29, 11 aprile 1953: 128-129.
23 McCarten, cit.: 129.
24 Joanne Stang, “Film Fan to Film Maker”. The New York Times Magazine, 12 ottobre 1958: 36.
25 Intervista di Michel Ciment a James B. Harris, in Kubrick. Paris: Calmann – Lévy, 1980: 201.
26 Alexander Walker, Stanley Kubrick Directs. New York: Harcourt Brace Jovanovich, Inc., 1971. Le citazioni sono tratte dall’edizione ampliata, 1972: 18.
27 Robert Brustein, “Out of This World”. The New York Review of Books, 6 febbraio 1964: 12-14; cit. in Kagan, The Cinema of Stanley Kubrick: 17. L’articolo di Brustein si trova riprodotto in Julius Bellone (ed.), Renaissance of the Film. London: Collier Macmillan, 1970: 71-78.
28 Joseph Gelmis, The Film Director As Superstar. Garden City, New York: Doubleday & Company, 1970: 313.
29 Cit. in Adrian Turner, “Stanley Kubrick”, in World film Directors, Volume II. New York: The H.W. Wilson Co., 1988: 545. Turner fa riferimento all’articolo di Mark Carducci “In Search of Stanley Kubrick”, in Millimeter 3, dicembre 1975: 32-37, 49-53.
30 Jackson Burgess, “The Antimilitarism of Stanley Kubrick“. Film Quarterly 18,1, autunno 1964: 4-11.
31 The Cinema of Stanley Kubrick, cit.: 9.
32 Ciò vale soprattutto per i due maggiori libri su Kubrick editi negli ultimi anni: Michel Ciment, Kubrick, cit., e Thomas Alien Nelson, Kubrick: Inside A Film Artist’s Maze (Bloomington, Indiana: Indiana University Press, 1982).
33 Da ciò non è immune neppure il mio recente intervento su Kubrick a proposito di Full Metal Jacket. “Full Metal Kubrick , in Segnocinema VIII, 31, gennaio 1988: 20-24.
34 Jackson Burgess, “The Anti-Militarism of Stanley Kubrick’, cit.: 5.
35 Ibid.
36 Ibid.,: 6.
37 Va detto, a onor del vero, che il termine disturbing non compare fra le traduzioni in inglese del termine tedesco Unheimlich menzionate da Sigmund Freud nel suo celebre saggio sul “perturbante” pubblicato per la prima volta in Imago, Bd. V, 1919; per esso egli ricorre ai termini uncomfortable, uneasy, gloomy, dismal, uncanny, ghastly.
38 L’idea è fra l’altro ripresa da Michel Ciment nel titolo del saggio “Entre raison et passion”, pubblicato nel 1980 su Positif e poi riprodotto dallo stesso Ciment nel suo Kubrick, cit.: 59-122.
39 Kagan, The Cinema of Stanley Kubrick, cit.: 19.
40 Kagan, op. cit.: 20.
41 Michel Ciment, Kubrick, cit.: 102.
42 Ibid.,: 75.
43 Thomas Alien Nelson, op. cit.,: 21.
44 Le descrizioni delle sequenze citate da Nelson potrebbero fra l’altro essere state adattate dal riassunto di Fear and Desire a cura di Kagan.  Quest’ultimo allude in effetti a uomini che “pugnalano la macchina da presa” e a soldati che rantolano “fra gli schizzi di minestra” (The Cinema of Stanley Kubrick, cit.: 11).
45 Full Metal Jacket presenta in effetti almeno due momenti di esibizione della violenza – subìta o in atto – agli arti inferiori del corpo umano: la prima è nell’immagine di un soldato americano che si trascina insieme ad alcuni commilitoni di fronte all’accampamento di Hué dopo l’offensiva del capodanno vietnamita; l’altra è nell’agguato del cecchino vietcong, che colpisce preferibilmente le gambe e i piedi delle proprie vittime prima di ucciderle. Sulla costante iconografica dei personaggi kubrickiani affetti da menomazioni agli arti inferiori si ricordino almeno lo zoppicare di Jack Nicholson nel labirinto di The Shining (1980); l’amputazione della gamba sinistra di Redmond Barry in Barry Lyndon (1975); lo scrittore condannato a una sedia a rotelle in A Clockwork Orange (1971); e così via, fino al killer storpio di Rapina a mano armata (The Killing, 1956) e al gangster azzoppato durante l’inseguimento sui tetti di Il bacio dell’assassino (Killer’s Kiss, 1955). Un’interessante ipotesi di spiegazione di questo leitmotiv potrebbe scaturire dalla lettura di un saggio ai Georges Bataille su “L’orecchio tagliato di Van Gogh e la mutilazione sacrificale”, in Documents 8 (1930): 10-20.
46 Hartman ordina al soldato Pyle: “Don’t pull my fucking hand over there! I said choke yourself! Now lean forward and choke yourself!” [Non ti ho detto di tirarmi la mano! Ho detto, strangolati da solo! Vieni avanti e strangolati da solo!]. I dialoghi del film sono riprodotti in Stanley Kubrick, Michael Herr e Gustav Hasford, Full Metal Jacket. London: Secker & Warburg, 1987: 11.
47 Si confronti, a tale riguardo, anche la battuta finale di Fletcher in Fear and Desire (“Yeah. I’m glad in a way, too. And I feel free all of a sudden [“Sì, anch io sono contento, in un certo senso. E mi sento di colpo così libero”]) con quella di Joker in Full Metal Jacket: “I am so happy that I am alive, in one piece and short… And I am not afraid” [“Sono contento di essere vivo e tutto d’un pezzo… e non ho più paura”] (Kubrick, Herr e Hasford, Full Metal Jacket, cit.: 120).
48 Thomas Allen Nelson (Kubrick, cit: 4) colloca giustamente Fear and Desire fra gli “speculative-science fiction films” del regista.


SCHEDA TECNICA

Fear and Desire

Regìa, fotografia, montaggio, produzione: Stanley Kubrick
Sceneggiatura: Howard O. Sackler
Produttore associato: Martin Perveler
Aiuto regista: Steve Hahn
Unit manager: Robert Dierks
Direzione dei dialoghi: Toba Kubrick
Trucco: Chet Fabian
Scenografia: Herbert Lebowitz
Titoli di testa: Barney Ettengoff
Musica: Gerald Fried
Interpreti: Frank Silvera (Mac)
Kenneth Harp (Luogotenente Corby/Il Generale)
Paul Mazursky (Sidney)
Steve Coit (Fletcher/Il capitano)
Virginia Leith (La ragazza)
David Allen (voce narrante)
Prima proiezione pubblica: 31 Marzo 1953, New York, Guild Theatre
Durata: 68 minuti.


I giudizi della stampa all’uscita e nel corso degli anni

FEAR AND DESIRE: ANTOLOGIA CRITICA

Un’esauriente scelta dei brani critici che hanno “accolto” e poi “inseguito” il primo film di Kubrick

a cura di Paolo Cherchi Usai

Stanley Kubrick è un giovanotto del Bronx appassionato ai fotografia e deciso a costruirsi una reputazione nel mondo del cinema. Sono caratteristiche e ambizioni piuttosto comuni, è vero, ma Stanley Kubrick non è un principiante come gli altri. All’età di ventidue anni ha già alle spalle quattro anni e mezzo di attività quale reporter di classe, e la scorsa primavera ha diretto, fotografato e prodotto due cortometraggi che saranno presto distribuiti dalla RKO Pathe. Ora vorrebbe realizzare un lun-ometraggio a soggetto, dall’incredibile budget di soli cinquantamila dollari. Fotografo tra i più giovani dello staff di Look, Stanley si e fatto strada nella professione vendendo tre storie per immagini alla rivista e decidendo di lasciar perdere la scuola durante il primo anno al City College. Per avere un’idea delle sue capacità basta dare un’occhiata agli incarichi ottenuti da Look, che vanno dai servizi su celebrità dello spettacolo e della politica a un tour in Portogallo per illustrare una storia di viaggio. La rivista gli ha inoltre assegnato servizi sui quartieri invernali di un circo a Sarasota, Florida, e su un rodeo volante preelettorale organizzato dal senatore Taft nell’Ohio. Gli scrittori che hanno lavorato con Stanley lo definiscono con simpatia “un tipo bizzarro… uno straordinario fotografo”. Stanley Kubrick può dire, in tutta onestà, di aver iniziato la propria carriera a partire da un hobby del padre. Aveva quindici anni, ed era studente alla Taft High School nel Bronx, quando egli cominciò ad andarsene in giro con la Graflex di papà. Un giorno portò addirittura la macchina fotografica a scuola e fece alcune fotografie a un insegnante di inglese, una bestia rara “che leggeva e recitava le parti dell’Amleto ad alta voce per la classe”. Look acquistò e pubblicò quelle fotografìe.

Una delle migliori storie realizzate per Look era The Day of the Fight, uno studio su un pugile nelle sue ore immediatamente precedenti l’incontro sul ring. L’idea gli sembrò del tutto adatta per un film, e con il contributo artistico e i suggerimenti di alcuni amici Stanley decise i lasciare il proprio lavoro e di realizzare un cortometraggio – chiamato, appunto, The Day of the Fight, che la RKO acquistò a un prezzo considerevolmente più alto rispetto ai cinquemila dollari di costo del progetto. La compagnia gli assegnò subito dopo, l’estate scorsa, un altro breve documentario sul prete volante del sudovest, il reverendo Fred Stadtmueller, che viaggia su un Piper per raggiungere i propri fedeli sparsi nel New Mexico intorno alla sua parrocchia nella cittadina di Mosquero.

The Day of the Fight non solo impressionò favorevolmente i dirigenti della RKO Pathe, ma incoraggiò anche Martin Perveler, un negoziante di Los Angeles amico di famiglia, a mettere insieme un pacchetto di finanziamenti per il primo tentativo di Kubrick nel lungometraggio. Perveler è riuscito a mettere insieme, secondo quanto afferma Kubrick, la maggior parte di quei cinquantamila dollari.

Se credete che Stanley sia nervoso riguardo all’inizio delle riprese del suo prossimo film (che non ha ancora un titolo) nel mese di marzo, ebbene vi sbagliate di grosso. Con la collaborazione di un amico, un ventunenne poeta di nome Howard Sackler, Stanley na sviluppato la storia di quattro soldati in battaglia, intrappolati dietro le linee nemiche. Egli stesso descrive il soggetto come “uno studio su quattro uomini, sulla loro ricerca del significato della vita e sulla loro responsabilità individuale di fronte al gruppo”.

Stanley dice di aver già studiato ogni inquadratura, e sostiene che dopo aver trovato i luoghi adatti per le riprese – “in California”, aggiunge – le riprese non dovrebbero creare problemi, e dovrebbero concludersi entro un termine variabile fra i quindici e i ventuno giorni. Sceglierà quattro attori professionisti, “ma non molto noti”, da Broadway, li porterà sulla West Coast e, poiché Stanley non è ancora iscritto al sindacato degli operatori cinematografici, ingaggerà un tecnico professionista. L’unica condizione richiesta è che il cameraman accetti preventivamente lo schema delle riprese preparato da Stanley, che produrrà e dirigerà il film.

Un giovane cui piace l’avventura? Senza dubbio. Ma anche un giovane che, a quanto pare, sa come cavarsela.

(Thomas M. Pryor, “Young Man With Ideas and A Camera”, in The New York Times, 14 gennaio 1951)

*   *   *

Fear and Desire è un colto, inconsueto dramma bellico, notevole per la freschezza della messinscena e per la poesia dei dialoghi. Particolarmente adatto ai circuiti d’essai, è un possibile outsider quale complemento di programma per la distribuzione commerciale.

Lo ha diretto Stanley Kubrick, 22 anni, già fotografo di Look, il quale ha prodotto, diretto, fotografato e montato il film con un modesto budget da 100.000 dollari. Il film è stato scritto dal ventitreenne poeta Howard O. Sackler, anch’egli – come Kubrick – fresco di diploma alla Taft High School, Bronx, New York. Egli ha realizzato una combinazione di filosofìa e violenza; gli ingredienti lievitano solo in parte ma creano qua e là una potente miscela. Alcune sequenze hanno un efficace impatto, ma il risultato complessivo non è del tutto convincente.

La storia tratta di quattro soldati, sperduti sei miglia all’interno delle linee nemiche, e di quel che accade al loro morale mentre essi cercano di fuggire. Kenneth Harp, la cui figura è probabilmente quella di un loquace intellettuale stanco della propria affettazione. Paul Mazursky, ipersensibile alle scene di violenza, è un debole che cerca di accattivarsi l’amicizia di una ragazza nemica appena catturata, [Virginia] Leith (una preda appetitosa); la uccide, e gli dà di volta il cervello. Steve Coit è un tranquillo uomo del Sud, anch’egli turbato riguardo ai propri valori. Frank Silvera e il tipico personaggio di colui che non chiede niente a nessuno: è un rude, coraggioso primitivo che attira su di sé il fuoco del nemico da una zattera sul fiume, così che Harp e Coit possano uccidere un generale e poi trovare la fuga secondo un piano preordinato.

Silvera, l’unico veterano del cast, è il più convincente fra gli interpreti. Ma gli onori devono andare soprattutto a Kubrick, per la sua versatile regìa e fotografia. Kubrick ha girato tutti i 68 minuti del film sulle San Gabriel Mountains e su un fiume nei pressi di Bakersfield, sulla costa occidentale, utilizzando nebbie artificiali e foglie di bosco con risultati efficaci.

La musica è sapientemente inserita nell’azione da Gerald Fried, 24 anni, della Juilliard [School of Music]. Anche se Fear and Desire può rivelare alcune pretenziosità e superflui interventi della voce narrante (David Allen), si tratta senz’altro di un prodotto della miglior qualità che ci si può aspettare da un film dal budget così limitato.

(Variety, 1° aprile 1953)

*   *   *

Un talento da incoraggiare, la freschezza d’ispirazione, l’inevitabile audacia di chi è giovane: mai qualità del genere furono richiamate con più pertinenza a proposito di Fear and Desire, il film presentato ieri da una pattuglia di cineasti indipendenti al Guild Theatre. Con la loro dissezione dei pensieri di un gruppo di uomini sottoposti alla tensione di un’azione di guerra, il regista, produttore e fotografo Stanley Kubrick e i suoi altrettanto giovani collaboratori hanno prodotto un suggestivo e a tratti sconvolgente studio sulle pulsioni represse.

Se Fear and Desire appare irrisolto, rivelando una struttura più sperimentale che classica, il suo effetto complessivo è comunque del tutto degno degli sforzi compiuti per portarlo a termine. Girato e prodotto con risorse finanziarie miserrime (rispetto agli standards di Hollywood) sulle montagne californiane di San Gabriel, il film descrive una storia estremamente semplice, priva di riferimenti a specifici tempi, popoli e luoghi.

Vi si tratta, come dichiara una voce narrante all’inizio del film, di “una guerra qualsiasi, nella quale i nemici non esistono finché non siamo noi a richiamare la loro esistenza”. Poiché il tema della pellicola è “l’eterna forma della paura”, Kubrick si preoccupa soprattutto delle consapevoli azioni e dei corrispondenti pensieri di quattro soldati, perduti dietro le linee nemiche dopo che il loro aereo è stato abbattuto, e delle reazioni di una giovane da essi catturata.

(…) Se la descrizione delle tensioni mentali e delle tribolazioni dei soldati ha meno successo del tentativo di questi ultimi di raggiungere sani e salvi le proprie linee, ciò è principalmente dovuto a una sceneggiatura ridondante, troppo esplicitamente poetica, e alla direzione dello stesso Kubrick, che qua e là si rivela tutt’altro che ispirata. Eppure, il talento di Kubrick in quanto fotografo appare chiaro anche a chi non è addetto ai lavori. Egli si è dimostrato capace di rendere con efficacia le grottesche positure dei corpi morti, la crudeltà e la bestialità degli uomini affamati, e in una sequenza anche la pietosa espressione di libidine in un puerile soldato di fronte alla giovane che egli dovrebbe sorvegliare.

Kenneth Harp interpreta il ruolo del luogotenente (e del generale) con intelligenza e senso della misura. È lacerato dall’ansia, ma il suo disgusto per la guerra non gli impedisce di prendere decisioni che coinvolgono la propria vita e quella dei suoi uomini. Frank Silvera, l’unico interprete del film che abbia alle spalle un’esperienza in grandi produzioni, è un duro e sbrigativo soldato, sdegnoso delle incertezze dei commilitoni assediati.

Paul Mazursky, il giovane esagitato, appare convincente soltanto nei suoi rari momenti di lucidità. Steve Coit ha poche opportunità di dare sfogo al proprio istinto istrionico, mentre Virginia Leith, la bella prigioniera i cui dialoghi nel film si riducono a una sola parola, riflette timidezza, disgusto e terrore grazie a una regìa particolarmente studiata.

Benché la sceneggiatura del film sia più intellettuale che provocatoria, e il cast si riveli più ciarliero che espressivo, Fear and Desire si rivela infine uno sguardo meditato, sovente incisivo e pregnante, su uomini “che si sono spinti al di là dei propri confini interiori”. Ed è una promessa per gli esordienti che hanno realizzato il film.

(A.W.[eiler]., “The Screen in Review”, in The New York Times, 1° aprile 1953: 35)

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Fino al momento in cui si attraversa l’ingresso del cinema e ci si siede nell’oscurità, Fear and Desire promette d’essere un ricco, succoso esempio d’arte somma. Il film è stato infatti realizzato sulle montagne della California, lontano dalla confusa influenza dei maitre à penserei Sunset Boulevard; è stato prodotto e diretto da un ventiquattrenne dilettante di nome Stanley Kubrick, un giovanotto che si ritiene dotato di grandi idee e di una rara sensibilità; ed è distribuito da Joseph Burstyn, un uomo che tutti ritengono in grado di riconoscere un buon film al primo colpo d’occhio, e che si è reso benemerito per l’importazione di opere quali Roma città aperta, Paisà e Ladri di biciclette. Nonostante tutto questo, le attese sono deluse. Kubrick, che si è messo in testa di mostrare tutta la sua disapprovazione per la guerra – un’idea ormai piuttosto comune, se si eccettuano alcune popolazioni del Kenya – si mette a parlare della propria idea della morte, e quando la sua loquacità è venuta meno per sfinimento chiunque potrebbe essere facilmente perdonato per il lasciar perdere tante cerimonie a favore di un buon boccale di birra.

Tanto per andare sul concreto, diremo che Fear and Desire ha a che fare con una pattuglia di quattro soldati, di incerta nazionalità, sperduti dietro le linee nemiche. Non è una compagnia particolarmente entusiasmante: c’e un luogotenente che somiglia a un portiere d’albergo, un sergente che sogna di farsi un nome facendo fuori un generale e un paio di soldati semplici, uno dei quali appare assai vicino all’isteria. Il nostro quartetto si trova faccia a faccia con un gruppo di ragazze intente a pescare nel fiume; in men che non si dica una delle fanciulle – che non apre mai bocca – si trova legata a un albero e costretta ad ascoltare le folli blandizie del più esagitato membro del gruppo.

La ragazza non è male, d’accordo, ma gli aspetti più piacevoli della sua persona sono un po’ difficili da mettere a fuoco mentre il folle militare spara raffiche di opinioni sulle verità della vita. In una successiva scena, i viandanti inciampano in un gruppo di nemici, e li ammazzano tutti. È un peccato – per loro e per me – che quei poveri cristi abbiano dovuto dire audio alla vita proprio all’ora di cena, perché Kubrick ci si è messo di impegno nel combinare i rantoli che precedono la morte con gli schizzi di minestra.

Per sottolineare l’idea che la guerra è un gioco inutile, Fear and Desire utilizza li stessi attori per rappresentare i solati e i loro nemici. Tutto ciò crea, come era prevedibile, qualche confusione, e il fatto che nessuno degli interpreti possa essere considerato un maestro in fatto di tecnica recitativa rende le cose ancora più difficili. Forse non dovrei insistere tanto nell’uccidere un uomo morto, ma a me sembra che – considerata la libertà di espressione di cui Kubrick ha evidentemente goduto – egli avrebbe potuto fare di meglio. Dopotutto, se proprio si deve trovare un’alternativa convincente ai risibili clichés estetici hollywoodiani, bisognerebbe almeno avere le idee un po’ più chiare.

Il cast di Fear and Desire è guidato da Frank Silvera nella parte del sergente. Con lui sono Kenneth Harp nel ruolo dell’ufficiale e Paul Mazursky e Steve Coit nelle parti dei commilitoni. Virginia Leith, l’unica presenza femminile nel gruppo, mi sembra un gran pezzo di ragazza, ma forse è per via della primavera.

(John McCarten, “The Current Cinema. Amateur”, in The New Yorker 29,11 aprile 1953: 128-129)

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Fear and Desire dovrebbe essere visto da chiunque abbia uno speciale interesse per il cinema. Con ciò non si vuol dire che si tratta di un film di eccezionali qualità, o che esso meriti più attenzione di quella che ha finora ottenuto. Fear and Desire è stato prodotto, diretto, fotografato e montato da Stanley Kubrick, un ventiquattrenne esordiente che è destinato a lasciare il segno nell’immediato futuro. Ma, come per la maggior parte delle realizzazioni individuali – soprattutto quelle dei giovani, degli sperimentatori, e di coloro che devono fare i conti con problemi di budget – il primo film a soggetto di Kubrick è un misto di promesse e di frustrazioni.

(…) Dal punto di vista della fotografìa, ogni inquadratura è eccezionale, e ci sono forti somiglianze rispetto alle immagini fortemente chiaroscurate, translucide, dell’ottimo film giapponese uscito lo scorso anno, Rashomon. Nell’insieme, tuttavia, il risultato è raggiunto con una consapevolezza tale da tradire, alla fine, il proprio intento drammatico. Fear and Desire sovrabbonda di dettagli ed è sovente insistito in fatto di montaggio. Il sonoro è un flusso di coscienza narrativa che distrae dall’azione. Tecnicamente, Kubrick non ha realizzato nulla di nuovo; ma dal punto di vista intellettuale ed espressivo egli è riuscito in qualcosa di assai ben fatto per un principiante.

(Newsweek, 13 aprile 1953: 106)

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Un altro “piccolo film”, Fear and Desire, potrebbe essere definito “d’arte”, “sperimentale” o altro, ma la sua idea di fondo è che la guerra è un inferno, e che le campane dell’inferno suonano per noi: il tutto in un film che dice in sessantotto minuti assai di più di quanto molti altri non dicano in un paio d’ore.

Quattro uomini costretti a un atterraggio di fortuna, sei miglia all’interno delle linee nemiche, cercano di ritornare alla base. Come vi riescano, e quel che accade loro, è raccontato da un obiettivo attento al reale e da una sceneggiatura dal tono impressionista. Il leader della pattuglia, un luogotenente, pensa a tutta prima che la vecchia idea del “nessun uomo è un’isola” non valga più nulla; ma il succedersi degli eventi, soprattutto l’uccisione di un generale nemico, gli fanno cambiare opinione, convincendolo anzi che noi tutti siamo andati troppo al di là dei nostri propri confini: l’uomo non può sopportare la guerra, e non è fatto per essa.

Stanley Kubrick ha prodotto, diretto, fotografato e montato questo film, del quale Howard O. Sackler ha scritto la sceneggiatura. È una sceneggiatura appesantita da una quantità di simboli: troppi per il comune spettatore, che non ha voglia di decifrare i significati nascosti dietro ai significati. Ma la scelta di far interpretare a Kenneth Harp il ruolo del luogotenente e del generale nemico offre la chiave di lettura del film, la non scindibilità della mente umana: quando il luogotenente uccide il generale, egli uccide in realtà se stesso.

Benché alcune parti di Fear and Desire abbiano una splendida fotografìa, altre sembrano realizzate da un dilettante. Nel complesso, tuttavia, il film si presenta come un potente atto d’accusa contro la guerra, e merita l’attenzione del pubblico più avveduto.

(Philip T. Hartung, “What are the Little Films Saying?”, in Commonweal 58, 24 aprile 1953: 73)

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Fear and Desire (Burstyn) non è un “grande” film nella comune accezione del termine – è stato realizzato con un budget incredibilmente basso – e da molti punti di vista è una fortuna che esso non abbia mai ambito a diventare “grande”, o qualcosa del genere. Eppure, l’importanza della sua seria analisi della guerra in quanto attività umana lo rende eccezionalmente “grande”, anche se una certa fragilità nella concezione estetica e nei mezzi fa sì che esso non riesca a conseguire l’obiettivo appieno. Di fronte a una produzione hollywoodiana, di solito florida in fatto di qualità tecniche, Fear and Desire può apparire ingenuo, improvvisato; ma mentre Hollywood fa un uso costante di banalità e di romantici stereotipi, Fear and Desire procede diritto lungo una direzione attentamente meditata.

(…) È bene non anticipare ai potenziali spettatori la sorpresa psicologica che aspetta [i soldati] allorché il mutamento di strategìa dà i suoi frutti. Essa rivela la sottigliezza e la profondità emotiva di Fear and Desire, un film che centra in pieno l’universalità della mentalità militare, e della sua latente coscienza omicida. Fear and Desire, eccezionale esempio di quanto lo stesso film avrebbe potuto essere, è un vero e proprio riassunto di ciò che un’ispirazione seria e approfondita potrebbe ottenere nel campo delle immagini in movimento, ma ottiene in realtà assai di rado. Andatelo a vedere, assimilate le sue potenzialità e sperate in giorni migliori per il cinema del futuro.

(Parker Tyler, “A Dance, a Dream and a Flying Trapeze”, in Theatre Arts, Maggio 1953: 82-83)

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Avete ventidue anni. Avete trovato una sceneggiatura che fa al caso vostro, e che credete di poter trasformare in qualcosa di simile ad un film a soggetto. Ma i vostri risparmi dopo quattro anni di attività nel campo della fotografia non bastano neppure a coprire le spese iniziali per un film del genere. Che fare? Stanley Kubrick, ex fotografo di Look, si è messo in tasca la sceneggiatura, ha raccolto le sue foto migliori (vedi Modem Photography, Settembre 1949) e ha cominciato a cercare contatti con alcuni potenziali produttori. Risultato: nel giro di tre mesi Kubrick è riuscito a trovare denaro sufficiente a trasformare Fear and Desire in realtà, sempre che egli fosse in grado di lavorare su un budget minimo e con attori disposti a riunire il loro talento per una partita rischiosa.

Fear and Desire è la storia di quattro soldati intrappolati entro le linee nemiche. Lo spettatore non conosce la nazionalità dei soldati, e non sa in quale paese abbia luogo la vicenda; ma si rende conto che il film ha più a che fare con le idee dei personaggi che con l’avventura e il realismo. Tutti e quattro i soldati combattono infatti sul campo di battaglia della loro propria mente, dove ciascuno di essi scopre che egli stesso è il suo peggior nemico. Durante la costruzione di una zattera con la quale i quattro uomini vorrebbero fuggire, essi catturano una ragazza nemica la quale viene uccisa dal soldato cui era stato affidato l’incarico di sorvegliarla. I sopravvissuti riescono infine a sfuggire ai loro reali nemici, ma la persistenza di un conflitto all’interno delle loro menti impedisce il “lieto fine” nel senso corrente del termine.

Poiché Kubrick ha fotografato, montato e diretto Fear and Desire praticamente da solo, egli è stato in grado di produrre il film a una frazione del normale costo di produzione. Retrospettivamente, Kubrick ritiene che il maggior vantaggio gli sia venuto dall’esperienza acquisita durante la sua attività di fotografo. Insieme all’esperienza ottenuta alle prese con macchine fotografiche e impianti di illuminazione, la fotografia gli ha insegnato l’arte del riconoscere il potenziale valore emotivo e la coerenza interna di ciascuna immagine. Tutte le scene girate nel corso della lavorazione sono incluse nella versione definitiva, montata, del film.

Kubrick intendeva in un primo tempo effettuare le riprese a New York, ma l’inverno era sopraggiunto prima che egli avesse raccolto il denaro sufficiente a cominciare. L’unica alternativa consisteva nel girare in California. Prima di partire perla costa occidentale, Kubrick ha fatto il giro del circuito teatrale off di Broadway alla ricerca di attori dotati di talento, fiducia, e dalle moderate ambizioni economiche. Tre dei principali ruoli in Fear and Desire furono così affidati a interpreti provenienti da New York. Una volta giunto sulla West Coast, Kubrick ha ingaggiato Virginia Leith, le cui battute di dialogo si riducono a una sola parola: la sua reazione a una brutale profferta amorosa costituisce uno fra i momenti più emozionanti di tutto il film. In California, Kubrick ha pure ingaggiato il caratterista Frank Silvera, che qui interpreta il ruolo di un sergente dal testardo eroismo.

Ci sono volute sei settimane affinché Kubrick, sua moglie e lo sceneggiatore trovassero un luogo adatto alle riprese nei pressi del Baker Field River e preparassero il terreno ai tecnici e agli interpreti in procinto di unirsi a loro da New York. Ogni volta che ciò era possibile, Kubrick ha affittato l’attrezzatura necessaria alle riprese. Il pezzo più costoso era una macchina da presa Mitchell a 35 millimetri, affittata a venticinque dollari al giorno. Altri accessori ottenuti in affitto erano quattro obiettivi Baltar (25 mm., 50 mm., 75 mm. e 100 mm.), quattro riflettori piatti a superfìcie argentata e altri elementi, quali schermi paraluce e strutture pieghevoli. Laddove un regista di Hollywood impiega di solito 500.000 piedi circa di pellicola per produrre un film a soggetto di media durata, Kubrick si è accontentato di 50.000 piedi di pellicola in bianco e nero, dai quali ha ricavato i 5.940 piedi di film utilizzati per un film della durata di un’ora e sei minuti.

Per attenersi al budget disponibile, Kubrick e la sua troupe hanno dovuto in più di una occasione ricorrere alle più ingegnose soluzioni. Le scene di crepuscolo sono state girate nella piena luce del sole ponendo un filtro rosso davanti all’obiettivo e sottoesponendo la pellicola di tre misure rispetto al necessario. Nel momento in cui si doveva ottenere un effetto di fitta nebbia sul fiume, Kubrick si è reso conto che il costo dell’affitto di una macchina per la nebbia artificiale, proveniente da Hollywood, sarebbe stato proibitivo. Dopo molte consultazioni e prove, la troupe ha risolto il problema con una nebbia artificiale prodotta da un robusto spruzzatore di insetticida dal quale è stata fatta fuoriuscire una soluzione liquida avente come base un olio minerale.

Quasi tutti i critici concordano sul fatto che il risultato fotografico del film supera in qualità quello del soggetto, fondamentalmente troppo debole per apparire davvero convincente. Il talento visivo di Kubrick trova forse la sua migliore esemplificazione nell’uso dei piani ravvicinati, e nella maniera in cui egli utilizza lo sfondo delle montagne di San Gabriel per sottolineare la condizione emotiva dei personaggi.

Tipico di questa tecnica del dettaglio è il modo in cui Kubrick ha realizzato la sequenza di un massacro facendo seguire a una breve sparatoria una serie di inquadrature a breve distanza di una scodella di minestra, delle mani e degli stivali dei soldati uccisi. Ugualmente efficaci sono i drammatici primissimi piani sui volti dei protagonisti, le azioni simboliche, i rapidi passaggi da un luogo dell’azione all’altro: tutto ciò crea un’atmosfera di tensione e un clima di attesa che la storia, di per sé, non riesce sempre a creare.

Lungo tutto il film, Kubrick ha fotografato il paesaggio in maniera tale da far sì che esso rifletta la condizione mentale degli uomini. Quando i soldati sono ottimisti sulla propria sorte, il fiume e i monti sono inquadrati in piena luce. Quando gli uomini sono spaventati, le montagne appaiono cupe, minacciose. Nella sequenza finale, in cui la pattuglia brancola nell’incertezza, il fiume è seminascosto da una nebbia strisciante.

A parte alcuni promemoria registrati su nastro, il suono del film non è stato ottenuto sul set. Ciò significa che tutti i dialoghi e i commenti musicali sono stati aggiunti a New York molto tempo dopo la fine delle riprese. Sono stati necessari nove mesi per montare il film e inserirvi il suono; quest’ultima operazione è costata almeno quanto tutte le altre spese di produzione messe insieme.

Quando un film abbandona il sentiero battuto dei metodi di produzione hollywoodiani, il maggior problema per colui che lo ha realizzato consiste nel trovare qualcuno disposto a distribuirlo. Kubrick e i suoi hanno corso questo rischio, per l’appunto, con Fear and Desire. Per fortuna ne è valsa la pena, almeno fino ad ora. Joseph Burstyn, già elogiato per aver portato film stranieri quali Paisà, Roma città aperta e Ladri di biciclette in America, ha ora in distribuzione Fear and Desire. La prima ha già avuto luogo a New York, al Guild Theatre, i critici hanno reagito bene, e ora il film sta affrontando il corrosivo test del tempo. Nel frattempo Kubrick è già in piena attività per un secondo film a soggetto: anch’esso prodotto con il proverbiale argent de poche.

(Iris Owens, “«It’s movies for me»”, in Modem Photography, Vol. XVII, 9, Settembre 1953: 84-85, 98)

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Fear and Desire è un film dolorosamente dilettantesco. La sceneggiatura di Howard O. Sackler è banale in misura imbarazzante, una storia virtualmente incomprensibile escogitata con l’ausilio di un vago pessimismo adolescenziale mascherato da Pensiero Profondo. Il sonoro doppiato è terribile: il livello del suono non cambia mai, e una voce appare esattamente la stessa sia in un primo piano girato in interni, sia in un campo lungo in esterni, e in entrambi i casi le voci appaiono a un tempo nebulose e declamatorie.

Gli attori sono privi di esperienza (anche se bisogna ammettere che una sceneggiatura del genere avrebbe messo alla prova interpreti più stagionati), e alcuni particolari della produzione rivelano una qualità da film fatto in casa non lontana dalla mise en scène di un allestimento teatrale di ginnasio.

(…) Dal punto di vista estetico, Fear and Desire è quel guazzabuglio che ci si aspetta di solito da un esordiente che ha studiato la propria arte: un paio di inquadrature alla Rashomon, un’altra alla Renoir. Nel complesso, tuttavia, il film si dimostra sorprendentemente personale e originale. Nonostante diversi errori e numerose sfilacciature, Fear and Desire rivela una straordinaria purezza e onestà d’intenti, ed è senza dubbio il prodotto di una risoluta volontà individuale. La sua trama è governata da decisioni meditate e sentite piuttosto che da formule preconcette e da eccessi di prudenza. Il film ottenne una distribuzione assai limitata, come è inevitabile per un’opera realizzata al di fuori degli schemi commerciali consueti, ma fu premiato da una buona reputazione critica e da una rispettosa menzione sul New York Times (“è una promessa per gli esordienti che lo hanno realizzato ‘) e da una condiscendente quanto superficiale segnalazione da parte di Time.

Fear and Desire fu un onorevole fallimento in un campo in cui gli insuccessi sono ancora più pericolosi delle riuscite. Pochi registi, fra quelli che si sporcano con la farina del mulino di Hollywood (o di qualsiasi altro mulino del cinema) hanno l’opportunità di imparare dagli onesti errori che si danno per scontati nelle altre arti, se non altro a causa del denaro che vi si impiega. Due o tre fallimenti di uno scrittore costano a quest’ultimo quattro o cinque anni di lavoro e venti dollari di carta per scrivere; un pittore dilettante si dibatte sulle tele con tubetti di colore prestati o rubati; ma i primi passi di un regista cinematografico costano migliaia di dollari ogni minuto: il che significa, in altri termini, che i cosiddetti primi passi non sono virtualmente consentiti. Kubrick rappresenta un caso unico fra i registi americani di oggi per il solo fatto di aver avuto un apprendistato degno di questo nome.

Ma Fear and Desire non è soltanto un film inconsueto; in esso sono convogliate potenti e complesse emozioni, insieme a una visione del perenne conflitto fra autorità e virtù e dell’incertezza che avvolge qualsiasi scelta morale. È una visione di cristallina trasparenza (nonostante l’insulsaggine delle battute assegnate al luogotenente) e di profonda dignità, rappresentata principalmente mediante le immagini. Tale visione, in effetti, è descritta con più chiarezza ed efficacia da una cruciale inquadratura del film, più di quanto potesse qualsiasi dichiarazione o parafrasi. Si tratta della sequenza dell’uccisione del generale – prototipo dell’autorità e dell’età – da parte del luogotenente, prototipo della gioventù, della ribellione e dello struggimento morale: il generale ferito si trascina sul ventre fino alla porta della fattoria con una progressione lenta, dolorosa, piena di suspense; raggiunge la veranda, sul limitare del fascio di luce che proviene dall’interno, e leva il capo di fronte ai suoi assalitori. Il luogotenente, la cui figura è immersa nella penombra, prende la mira, e gli sguardi dei due uomini si incontrano. Un’altra straziante esitazione, poi il luogotenente apre il fuoco e la testa del generale cade in avanti, il viso sfracellato sul pavimento. Il confronto fra gioventù e vecchiaia, ribellione e autorità, conflitto e lassismo morale, è tuttavia sottolineato da Kubrick mediante i doppi ruoli. Uno stesso attore, Kenneth Harp, interpreta il luogotenente e il generale. È un modo terribilmente ovvio di suggerire l’idea dell’ambiguità dei personaggi e della difficoltà di decidere, ma almeno non c’è traccia di romanticismo, e l’idea è enunciata in termini essenzialmente visivi. E questa nozione di una perturbante identità delle morali, o di un’ancor più perturbante instabilità dei caratteri, costituisce una visione nitidamente realizzata tre anni più tardi in Paths of Glory, ed è la fonte dei disperati schiamazzi di Dr. Strangelove.

Sarebbe un errore trarre giudizi definitivi sulla carriera di un regista da un solo film, soprattutto se si tratta di un brutto film d’esordio di cui il regista ha disconosciuto la paternità (Kubrick ha rinnegato Fear and Desire, e il solo fatto di nominargli quel film sembra deprimerlo alquanto). Neppure voglio basare la discussione sulle fragili basi della mia interpretazione del semplice fatto che Kubrick abbia scelto gli stessi interpreti per il luogotenente e per il generale. Nonostante ciò, i limiti stessi del film, insieme alla sua trasparenza, rendono le sue immagini particolarmente accessibili. Quando queste immagini riappariranno nei successivi film di Kubrick, i temi del dubbio morale e del tragico destino dell’uomo diventeranno sempre più cruciali nell’opera del regista. Devo altresì notare che mai, da Fear and Desire a Strangelove, Kubrick si fa vittima dell’ambiguità da lui descritta, né indulge a quella comune falsa ironia che consiste nel giudicare con la mano destra e nell’annullare con la sinistra il giudizio appena formulato.

(Jackson Burgess, “The ‘Anti-Militarism’ of Stanley Kubrick“, in Film Quarterly, Vol. XVIII, N. 1, autunno 1964: 4-6)

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A mio giudizio, Fear and Desire costituisce l’affascinante contenitore d’una moltitudine di idee, immagini e temi che continueranno da allora ad apparire nei successivi film di Kubrick. Senza dubbio, poiché egli ha realizzato il film da solo, senza alcun vincolo da rispettare di fronte a una società di produzione e con l’aiuto di uno sceneggiatore che era al tempo stesso un coetaneo e un amico intimo, Fear and Desire rimane tuttora il suo film più personale fino a Lolita. E, dato che il film vide la luce quando Kubrick aveva soltanto ventidue anni, le sue idee e i suoi obiettivi sono a mio avviso chiarissimi.

Il primo tema di Fear and Desire, dichiarato nella poesia d’apertura, è sul fatto che la storia è costruita sulla base di “mondi immaginari”: ogni “guerra”, ogni “nemico” e ogni “conflitto’ umano non sono altro che un modo escogitato dalla mente per affrontare gli enigmatici eventi e le incoerenti azioni che lo circondano. Ciò è reso evidente lungo tutto il film, dalle sconvolgenti immagini di bestiale passione, alle fughe in un’atmosfera di sogno, nelle caotiche carneficine, nelle pigre e assurde conversazioni “filosofiche”. Le immagini degli uomini uccisi sono grottesche, sinistramente illuminate: non sono più di persone, bensì di “nemici” astratti, corpi stilizzati in idee. (…)

Altre due idee collegate a questa sono costituite dalla futilità dell’intelligenza e dalla sfiducia nelle emozioni. L’uomo più intelligente della pattuglia, il luogotenente Corby, è così distaccato che non sa perché è vivo, e si limita a collezionare ragioni (“come farfalle”). Egli usa il proprio cervello soprattutto per lanciare “scherzi intellettuali” che nessuno raccoglie. Il suo contributo alla sopravvivenza del gruppo, la zattera, deve essere abbandonato perché un aeroplano potrebbe avere avvistato il natante per caso. Se la zattera viene infine utilizzata, ciò accade solo perché la fortuna ha voluto che nessuna pattuglia nemica l’abbia minata o distrutta. È bene notare, fra l’altro, che l’unico individuo davvero dominato dalle emozioni, Mac, escogita un piano migliore degli altri, e Corby non gli si può opporre con il proprio desiderio di autodistruzione, e in effetti non vi prova neppure.

Anche le emozioni, in Fear and Desire, sono considerate come inutili. Il soldato più giovane, Sidney, finisce per aggredire e uccidere sotto la spinta della paura e della libidine. Kubrick affronta il tema dell’erotismo in maniera grottesca e perversa, ma non irrealistica; il suo è un atteggiamento che si ritrova lungo tutta la sua opera, anche se i film successivi a Fear and Desire sono relativamente privi di sesso. Mac, ossessionato dal proprio desiderio di uccidere un generale e di dimostrarsi così il miglior soldato, è votato inconsapevolmente all’autodistruzione. Questa coppia di omicidi-suicidi, Sidney e Mac, è tipica di quasi tutti i film di Kubrick: Lolita (Humbert Humbert, Quilty); Dr. Strangelove (il generale Ripper, il maggiore Kong); e 2001: A Space Odyssey (HAL-9000, l’astronauta Bowman). Ma i ritratti di questi personaggi guidati dalle loro passioni e da impulsi che essi non possono comprendere del tutto non sono mai così chiari come lo sono qui.

Tutti questi concetti (il mondo come sogno, la futilità dell’intelligenza, il pericolo delle emozioni) sono piuttosto pessimistici. Nel film ci sono però altre due idee più incoraggianti.

La prima è l’idea del viaggio verso la libertà, l’Odissea. È possibile cercare la conoscenza e la sicurezza, e anche se l’uomo si dibatte nel dubbio, il fatto che egli ne sia consapevole è di per sé una salvezza. Presi singolarmente, tutti i personaggi procedono lungo la strada dell’autocoscienza. Il luogotenente Corby si accorge di giocare con le idee soltanto per aiutare se stesso a sopravvivere in un mondo ostile. Il ragazzo, Sidney, oltrepassa i confini della paura e dell’isteria, anche se l’una e l’altra riescono a sopraffarlo. Mac diventa cosciente del proprio odio verso gli altri e verso se stesso, se ne purifica e ritrova infine la pace. Anche lo stoico Fletcher sa di volere qualcosa di diverso nella propria vita. In un certo senso, tutti e quattro i soldati sono come i frammenti di una personalità deflagrata: pensiero intellettuale e ludico, spinte emotive quali la lussuria e la paura, il controllo delle emozioni e l’autodisciplina, i modi comportamentali della sopravvivenza. Alla fine tutti hanno trionfato, sono sopravvissuti, e si sono riuniti agli altri.

L’altro tema positivo è il trionfo della personalità responsabile, ossessionata. Mac, in ultima analisi, è un eroe. Egli escogita il piano per uccidere il Generale, si assume l’incarico più pericoloso e lo porta a termine con successo. Anche se la sua spinta ad agire non è delle più nobili (in fondo egli è tutt’altro che un patriota!), essa è nondimeno pura in un senso più ampio, aristocratico del termine: egli purifica se stesso, si redime, raggiunge la propria catarsi mediante un atto socialmente approvato. Egli è cosciente della propria identità, sa quel che deve fare, conosce il prezzo che deve pagare. E non esita mai.

Alcune delle più esplicite idee di Fear and Desire sono, peraltro, meno felici. Il concetto secondo il quale il generale nemico e il suo aiutante non siano altro che versioni invecchiate del luogotenente Corby e di Fletcher, di modo che questi ultimi uccidono in realtà se stessi, non emerge a sufficienza. Non c’è nessuno sforzo per mostrare sotto una luce favorevole i generali nemici, cosicché la loro morte non è un fatto così sconvolgente come lo è quella della ragazza. Neppure è credibile il fatto che un sognatore come Corby rimanga nell’esercito più del tempo strettamente necessario. Infine, la disperata situazione dei quattro dispersi non è per nulla paragonabile alle fatalistiche e compiaciute meditazioni degli ufficiali nemici.

(Norman Kagan, The Cinema of Stanley Kubrick. New York: Holt, Rinehart and Winston, 1972, 1975: 18-20)

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Nel 1953, per 30.000 dollari, Kubrick e Howard Sackler [The Great White Hope), il quale scrisse la sceneggiatura, realizzarono un film a soggetto dal titolo Fear and Desire riguardante quattro soldati dispersi nel corso di una non meglio specificata guerra. Lo stesso Kubrick, oggi, definisce il film “tutt’altro che coinvolgente [undramatic] e presuntuoso in misura imbarazzante”, ma l’esperienza fu comunque utilissima.

Oggi, ritengo che chiunque si aggiri intorno a una troupe anche di minime dimensioni creda di avere di fronte a sé una realtà tecnica e logistica di vaste dimensioni, ne sia intimidito e ne concluda che tutto ciò sia necessario allo scopo di ottenere un risultato più o meno valido dal punto di vista professionale. Quest’esperienza, e quella che seguì con Killer’s Kiss (quest’ultima portata a termine su più agevoli basi economiche), mi liberarono da qualsiasi preoccupazione sugli aspetti pratici o tecnologici del fare cinema.

Il film successivo, Killer ‘s Kiss, realizzato nel 1955, è riuscito un po’ meglio, e a differenza di Fear and Desire è ancora in distribuzione. Si tratta, fondamentalmente, di un film d’azione intorno a “una ragazza che viene rapita dal sadico proprietario di una sala da ballo, ed è salvata da un giovane e coraggioso pugile”. Così Kubrick mette a confronto i due film:

Fear and Desire era un tentativo serio, condotto con inettitudine, mentre Killer’s Kiss… è risultato essere, credo, un ‘operazione frivola portata a termine con migliore cognizione di causa, anche se pur sempre alla maniera tipica di uno studente di cinema.

(Daniel De Vries, The Films of Stanley Kubrick. Grand Rapids, Michigan: William B. Eerdmans Publishing Company, 1973: 10)

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Fear and Desire e Killer’s Kiss non possiedono la complessità e la coerenza narrativa tipica della maggior parte delle opere di Kubrick. Le sceneggiature sono entrambe creazioni originali (Kubrick collaborò allo script di Killer’s Kiss) di Howard O. Sackler, un poeta-drammaturgo più tardi autore di The Great White Hope e di un intelligente, surreale atto unico sull’impotenza suburbana in America, dal titolo The Nine O’Clock Mail. Entrambi i film mostrano un’ingenua passione per l’analisi degli stati di “paura e desiderio” mediante strutture narrative allegoriche di debole tenuta, che diedero tuttavia a Kubrick l’opportunità di operare alcune sperimentazioni di carattere tecnico e di tentare ambiziose meditazioni tematiche, non rare nel cinema underground degli anni Cinquanta.

(…) Fear and Desire inizia con una poesia alla Conrad recitata da una voce fuori campo, prosegue con diverse scemenze a carattere soggettivo mentre vediamo quattro soldati aggirarsi in un’immaginaria foresta, e si conclude con la fuoriuscita da un cuore di tenebra collettivo verso l’alba di una nuova coscienza. Il luogotenente Corby (Kenneth Harp), l’intellettuale del gruppo, scopre la fittizia natura del razionalismo allorché egli “uccide” simbolicamente se stesso uccidendo il suo doppio, un generale nazista (anch’esso interpretato da Kenneth Harp), mentre il rude Mac (Frank Silvera) combatte contro la propria paranoica rabbia scendendo il fiume su una zattera, in mezzo alla nebbia. I temi del film sono un potpourri di negatività bohémienne tipica degli anni Cinquanta (il film prende di mira la guerra al pari di altre istituzioni sociali, e mostra i fallimenti della ragione e i pericoli nascosti in un inconscio lasciato inesplorato) e autocompiacimento esistenziale (quando James Mason/Humbert, in Lolita, afferma di essere in procinto di andare a Hollywood per girare un film sull’esistenzialismo, “allora assai di moda” come egli stesso commenta ironicamente, è probabile che lo stesso Kubrick abbia voluto dire qualcosa a proposito dei propri esordi).

Dal punto di vista visivo, Fear and Desire rivela il talento di Kubrick nel creare paesaggi mentali che alternano il grottesco alla bellezza surreale: baionette prendono d’assalto l’obiettivo poco prima dell’immagine di corpi straziati sui quali sono sparsi i resti di un pasto (una scena che, insieme ad altre, è brevemente richiamata in una serie di sovrimpressioni nella sequenza in cui i quattro soldati riescono a fuggire, presi da una frenesia da incubo); nell’irreale apparizione della ragazza (Virginia Leith) nelle acque del fiume; più avanti, nella sequenza della zattera che galleggia in mezzo alla nebbia. E poiché Fear and Desire fu soprattutto un’impresa privata, indipendente, a basso costo, Kubrick poté confrontarsi direttamente con problemi che più avanti si sarebbero estesi in ampiezza piuttosto che in numero, al sopraggiungere del successo artistico e commerciale.

(Thomas Alien Nelson, Kubrick: Inside A Film Artist’s Maze. Bloomington, Indiana: Indiana University Press, 1982: 21-22) 5

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Kubrick ha dichiarato a Joseph Gelmis: “ero l’operatore, il regista, e quasi tutto il resto. Il film fu girato a 35 mm., senza sonoro. Il doppiaggio fu un colossale errore da parte mia: le riprese costarono di per sé soltanto 9.000 dollari, ma poiché non sapevo nulla del sonoro quest’ultimo mi venne a costare altri trentamila dollari. Fear and Desire ha fatto il giro dei circuiti d’essai e alcune critiche sono state incredibilmente positive, ma non è un film che ricordo con orgoglio, se non per il fatto che l’ho portato a termine”.

La sceneggiatura era stata scritta da un amico di Kubrick, Howard Sackler (autore del successivo The Great White Hope), e riprendeva il tema dei “gemelli” o del doppio già adombrato in Day of the Fight. Due soldati americani, sperduti in una landa selvaggia, affrontano due soldati nemici interpretati dagli stessi attori. L’intellettuale luogotenente Corby (Kenneth Harp) distrugge simbolicamente se stesso uccidendo il suo doppio; il più rude Mac (Frank Silvera), scendendo il fiume su una zattera, riesce a lottare contro il vuoto della mente.

In una lettera al distributore del film, Joseph Burstyn, Kubrick descrisse il film nei termini seguenti. “La sua struttura: allegorica. La sua concezione: poetica. Un dramma sull’uomo perduto in un mondo ostile, alla ricerca di un suo modo di comprendere se stesso e la vita intorno a sé. Un pericolo mette in forse la sua odissea; è un invisibile, mortale nemico che lo circonda; ma è un nemico che, a ben guardare, sembra essere nato dalla stessa matrice. Ciò significherà probabilmente molte cose per diverse persone; così dovrebbe”. Kubrick potrebbe aver descritto negli stessi termini qualunque film successivo, soprattutto 2001: A Space Odyssey (1968) e The Shining, poiché la lettera allude al suo interesse per l’ambiguità e per la metafora, evocando così un universo kubrickiano di isolamento e di immortalità: l’uomo non progredisce, bensì perpetua antichi e istintivi dèmoni.

Kubrick respinge oggi Fear and Desire definendolo “tutt’altro che coinvolgente, e presuntuoso in misura imbarazzante”. Benché quasi tutti i critici abbiano ravvisato difetti nelle interpretazioni degli attori (fra questi il futuro regista Paul Mazursky), molti ammirarono la tecnica e le idee di Kubrick. Parker Tyler scrisse su Theatre Arts: “il film è al tempo stesso una parabola e un’opera di fantasia, e va diretto al centro del problema universale della psicologia del soldato, della sua cattiva coscienza di killer“. Sfortunatamente Fear and Desire è un film perduto. Uno studioso, Mark Carducci, sostiene che Kubrick abbia distrutto il negativo in seguito alla morte di Joseph Burstyn: “l’intera faccenda puzza di tentativo alla Howard Hughes, da parte di Kubrick, di cancellare una parte del proprio passato”.

(Ad.[rian] T.[urner], “Stanley Kubrick”, in World Film Directors, Volume II, a cura di John Wakeman. New York: The H.W. Wilson Company, 1988: 545)


Il documentario a colori di Stanley Kubrick

NOTA SU SEAFARERS

Il documentario realizzato da Stanley Kubrick per la Seafarers International I Union (Atlantic and Gulf Coast District, American Federation of Labor) non ha nulla di segreto: il film è disponibile a scopo di studio alla Library of Congress di Washington, è il primo film a colori di Kubrick, ha una durata di circa mezz’ora. Dovrebbe sorprendere, allora, il fatto che il film sia ancora più sconosciuto di Fear and Desire, al punto che solo due monografie fra quelle di lingua inglese (Wallace Coyle e Thomas Alien Nelson) ne fanno menzione, senza azzardarsi in alcuna descrizione dettagliata. Una spiegazione di ciò si trova forse nella storia produttiva del film: The Seafarers non ebbe mai una vera e propria distribuzione, e fu utilizzato a scopo interno – in tempi e modi tuttora da chiarire – dal sindacato atlantico dei marittimi. Eppure il film è importante almeno quanto gli altri due cortometraggi del primo Kubrick, Day of the Fight (1950) e Flying Padre (1951), beneficiati negli ultimi anni dalla distribuzione del British Film Institute, che ne ha così garantito una certa notorietà nei circuiti non commerciali. Presumibilmente girato in 16 millimetri, The Seafarers è stato completato nel 1953, lo stesso anno in cui Kubrick lottava per trovare i fondi destinati alla post-produzione di Fear and Desire. È dunque possibile che Kubrick si sia offerto di assumere l’incarico per la Seafarers International Union allo scopo di ricavarne un benefìcio economico immediato, tale da sottrarlo allo scacco di fronte al suo primo lungometraggio a soggetto.

L’evoluzione tecnica dai tempi di Day of the Fight e Flying Padre dimostrata da The Seafarers è comunque spettacolare. A parte l’uso del colore, per il quale non sembra probabile che Kubrick abbia potuto esercitare alcuna sostanziale forma di controllo, il film segna il definitivo distacco del regista dall’estetica del cinema “fotografato” di cui gli altri cortometraggi erano diretta emanazione, e sul quale Fear and Desire appoggiava ancora buona parte delle proprie risorse espressive. Seppure costretto, anche questa volta, a lavorare con un personale tecnico numericamente ridotto, Kubrick godette con ogni probabilità di risorse mai avute prima d’allora: non è accertato se il regista abbia dovuto chiedere l’aiuto di un operatore di professione, come era accaduto per Fear and Desire, ma la presenza nel film di ampie carrellate laterali in interni fa ritenere che i mezzi finanziari a disposizione fossero meno limitati rispetto alle precedenti occasioni.

Il risultato è “uno studio sulla vita degli aderenti al sindacato dei marittimi durante il quotidiano lavoro sulle navi e sulle banchine” (Coyle) condotto dalla voce fuori campo di Dan Hollenbeck e scandito da appelli a partecipare alla vita associativa della Seafarers Union: le interviste a marinai in attività o in ritiro (fra essi c’è il primo personaggio kubrickiano su sedia a rotelle) si alternano a scene di vita comunitaria e a inquadrature in dissolvenza incrociata sulle elezioni dei nuovi rappresentanti dell’organizzazione. Non ci sono impennate di ritmo, e non c’è la tensione drammatica dei reportages sul prete volante e sul pugile prima del match; ci sono in compenso una fluidità d’eloquio e una sicurezza nell’intrecciare i fili di una narrazione di per sé uniforme, che dimostrano con quanta rapidità Kubrick avesse acquisito la necessaria confidenza nei propri mezzi.

The Seafarers segna anche il primo e l’ultimo incontro di Kubrick con il mare. L’unica eccezione a tutt’oggi va fatta risalire al 1975, con l’inquadratura (una sola) di un veliero in Barry Lyndon. (P.Ch.Us.)


SCHEDA TECNICA

The Seafarers

Regìa e fotografìa (colore): Stanley Kubrick
Produzione: Lester Cooper
Distribuzione: Seafarers International Union, Atlantic and Gulf Coast District, American Federation of Labor
Sceneggiatura: Will Chasen
Narratore: Dan Hollenbeck
Assistenza tecnica: personale del Seafarers Log
Prima proiezione pubblica: 1953
Durata: 30 minuti

Pubblicato in Segnocinema anno IX n.40, novembre 1989, pp. 11-32

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