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Indro Montanelli: Chi fischia “La dolce vita” non vuol vedere la verità

Indro Montanelli, dietro lo pseudonimo di Marmidone con cui firmava sull’Europeo, rispose nel 1960 all’ondata perbenista che si era levata contro La dolce vita di Federico Fellini.

Indro Montanelli, dietro lo pseudonimo di Marmidone con cui firmava sull’Europeo, rispose nel 1960 all’ondata perbenista che si era levata contro La dolce vita di Federico Fellini. Dopo un suo pezzo entusiasta sull’opera, un lettore gli scrisse: “Spero che anche lei vorrà levare la voce contro l’infame film di Fellini, La dolce vita, che tanto discredito getta sul nostro Paese”. E lui rispose con questo articolo, che ora fa parte di Indro Montanelli. Contro ogni censura, a cura di Guendalina Sertorio (ed. Rizzoli).

di Marmidone/Indro Montanelli

Lei evidentemente è uno di quelli che hanno fischiato il film e il suo autore. È il suo diritto. Ma non la invidio, perché si trova in compagnia di coloro che di questo diritto hanno abusato insultando Fellini, e perfino sputandogli addosso (…). La violenta e scomposta protesta del pubblico milanese (…) testimonia il rifiuto a riconoscere la verità. Prevedo le obbiezioni: qualcuno mi dirà che questa non è la verità. Ed è un punto su cui dobbiamo preventivamente intenderci. È molto probabile che anche i romani di diciotto secoli orsono obbiettassero che Tacito non diceva la verità quando, confrontandoli alle virtù morali e guerriere dei barbari, faceva il ritratto che tutti sanno dei vizi romani (…). Ma ciò non impedisce che la Storia abbia dato ragione a Tacito, e che abbia trovato valido il ritratto suo, non quello dei suoi contraddittori (…).

La verità è sempre composita. Nessuno si è mai sognato di sostenere che tutte le signore di provincia francesi del secolo scorso fossero delle Bovary. Ma nessuno, spero, vorrà negare che quella di Flaubert le riassume tutte e ne costituisce l’esemplare più compiuto. Nessuno ha mai voluto sostenere che tutti i giovani francesi che furono giovani dopo Waterloo erano come i personaggi di Stendhal. Ma nessuno vorrà negare ch’è stato Stendhal a darcene il ritratto più persuasivo. Disturbo a ragion veduta questi grandi personaggi della letteratura, perché Fellini, pur servendosi di un altro e più labile mezzo espressivo, ha raggiunto i loro stessi risultati. L’obbiezione che egli abbia, di proposito, voluta cogliere di Roma soltanto gli aspetti più negativi, è semplicemente idiota. Si capisce, ed è sempre sottinteso, che un artista coglie soltanto certi aspetti, e non certi altri. L’arte, si sa, è scelta.

Ma io sfido tutti quei gentiluomini e quelle gentildonne che lo hanno fischiato e insultato in nome della loro moralità offesa, a dirmi, occhi negli occhi, se è vero o non è vero che esiste una Roma come quella della Dolce vita. E se mi rispondono di no, mi dicano allora che cosa leggono, quando aprono il giornale. È Fellini che ha inventato quegli affari di cocaina in cui sono regolarmente implicati alcuni tra i più bei nomi dell’aristocrazia italiana? (…) O non è, tutta l’Italia, un sussurro sugl’intrallazzi, sui mercimoni, sulle orgette che si perpetrano nella nostra cara Capitale? O non è la via Veneto di Fellini la via Veneto che tutti conosciamo e di cui tutti, un po’ più un po’ meno, ci scandalizziamo: questa fiera delle vanità, questo grande Barnum delle tresche e dei sotterfugi, dello sfacciato e del fasullo? Se è vero quanto riportano i giornali, hanno gridato a Fellini: “Traditore!… Ci getti nelle braccia dei comunisti”. E forse glielo hanno gridato in buona fede, convinti di quello che dicevano. Già, perché noi viviamo in un Paese in cui il delitto consiste non nel farle, ma nel dirle. Ah, come vorrei condividere la ingenua fede di questi poveri sprovveduti, i quali credono che i comunisti stiano aspettando Fellini per misurare fino a che grado di decomposizione è giunta la nostra società borghese. Come se Togliatti e compagni vivessero in Russia o sulla luna. Sono italiani anche loro, amici miei, vivono in mezzo a noi, e ci guardano. Credete che non abbiano la vista abbastanza buona per vedere ciò che noi d’altra parte ci guardiamo bene dal nascondere?

Lungi dal mimetizzarsi fra la gente qualunque, i nostri sceicchi passano sulle “fuori-serie” rombanti, i nomi delle loro amiche sono sulle bocche di tutti, le loro evasioni al fisco sono documentate da sfarzi di ogni genere, i Principi si fanno ritrarre dai fotografi mentre cazzottano o si fanno cazzottare per difendere l’onore delle attrici, le Principesse indicono conferenze stampa per precisare l’anno in cui iniziarono la loro carriera di peccatrici. E noi diamo del traditore a chi? A Fellini. È un vecchio vizio nazionale. Il fascismo, che non fu un regime politico, ma la caricatura degl’italiani, ne aveva fatto addirittura la sua regola. Esso non eliminava la malaria, anzi lasciava che le zanzare facessero allegramente il comodo loro. Ma proibiva di parlarne. Guadalajara? Si sopprime, imponendo ai giornalisti di trasformarla in una vittoria (il sottoscritto ne sa qualcosa). I furti e i delitti? Incompatibili con l’etica e i costumi littori, sono stati aboliti con l’abolizione della cronaca nera. Allora (Dio mio, com’ero giovane!) credevo che questo spicciativo metodo fosse il sopruso di un pugno d’ipocriti prepotenti. Poi mi sono accorto (…) che non è così: questo tartufismo, questa paura di guardare in faccia la verità perché essa c’imporrebbe per lo meno un esame di coscienza a cui non siamo più da secoli abituati, ce li portiamo nel sangue, e sono quelli a ispirare il nostro sdegno contro chi osa turbare la quiete morta della gran palude in cui noi stessi imputridiamo (…).

Caro amico, creda a me: se noi italiani continuiamo a illuderci che per eliminare i nostri guai basta eliminare o coprire di sputi i Fellini che li denunziano, vuol dire che non ci sono proprio più speranze di salvezza. Queste reazioni sono il documento di una codardia che non trova attenuanti in nulla: nemmeno nel brillante passato militare, nei nastrini e nelle decorazioni di coloro che vi si sono associati, a quanto ho letto, in nome della Patria da essi fedelmente servita. Perché si ricordino bene questi signori che nel nostro Paese ci vuole più coraggio a dire la verità che a difendere una trincea. Questo vezzo di dare del comunista o dell’alleato dei comunisti a chiunque si rifiuti di unire il suo silenzio a quello di coloro i quali hanno un interesse a che le cose continuino ad andare come vanno, cioè a disfarsi nel fango, puzza di ricatto e non vale più dello stratagemma che usavano ai cosiddetti “bei tempi” le nostre soubrette sfiatate per farsi applaudire, quando si presentavano a fare sgambetti, con polpacci coperti di vene varicose, vestite da bersagliere e ammantate dal tricolore. È un secolo che l’Italia cura i suoi malanni, terribili e profondi, con questi pannicelli. È un secolo ch’essa copre di reticenza le sue disfunzioni morali e d’indulgenza i responsabili (…).

E ora vorrei dire qualcosa a coloro (ce ne sono certamente) che hanno protestato non per viltà o per tartufismo, ma perché sinceramente non credono, non vogliono credere che le cose stiano come Fellini le racconta. La diagnosi, amici miei, purtroppo è esatta. Ma non perdete, per l’amor di Dio, la vostra fede nella possibilità di una terapia. La dolce vita porta già in sé la sua condanna, e Fellini stesso ne ha fornito la più esemplare dimostrazione in quel livido e disperato finale. Nel nostro sangue, nel sangue della nostra società, quelle tossine ci sono. Sta a noi isolarle. A noi, voglio dire a ognuno di noi. Non invochiamo, come al solito, la legge e i carabinieri. Essi possono molto contro il delitto, ma non possono nulla contro il malcostume. Non diamo, come al solito, in appalto allo Stato, all’Autorità, al Parroco quelle profilassi che solo noi possiamo esercitare. Risparmiamo il nostro sdegno contro Fellini, e facciamone un po’ più d’uso contro coloro che a Fellini hanno fornito la materia del suo film. Sono squallidi e tristi personaggi. Mettiamoli fuori dai nostri ranghi. Facciamola anche noi un po’ d’epurazione, credetemi, amici miei; è sputando su loro, non su Fellini, che potremo rimediare qualcosa (…).

L’Europeo, 21 febbraio 1960

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