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I film di Michelangelo Antonioni: Blow-Up (1966)

Con Blow up Antonioni ci ha dato il suo film più personale, dopo Il grido, quello in cui meglio ci comunica le sue inquietudini di uomo di cinema. («La realtà io l'ho conosciuta fotografandola quando ho cominciato a riprenderla con la macchina da presa, un po' come in Blow up; in questo senso credo che sia il mio film più autobiografico. È stato proprio fotografando e ingrandendo la superficie delle cose che io ho cercato di scoprire quello che c'era dietro. Non ho fatto altro nella mia carriera».)

Il progetto di Blow up trae liberamente spunto da un “racconto morale” dello scrittore argentino-parigino Julio Cortazar, «La bava del diavolo», pubblicato da Einaudi nel 1965, nel volume intitolato «Bestiario». Traduttore dell’opera di Poe, Cortazar vi narra la strana avventura capitata ad un «traduttore e fotografo dilettante a tempo perso» certo Roberto-Michel, di nazionalità franco-cilena, una bella mattina di novembre nel cuore della vecchia Parigi. Mentre si sta godendo il sole nell’intima, semideserta (c’è solo una coppietta), piazza dell’Ile St. Louis, il fotografo dilettante viene colpito dallo strano comportamento del giovane — «era nervoso, inquieto» — in affettuosa compagnia di una signora troppo più matura di lui. Osservando meglio Roberto-Michel scopre che «quella che avevo scambiato per una coppietta era piuttosto simile ad un bambino con la madre. Non ci voleva molto a capire quello che era successo pochi minuti prima: il ragazzo si era spinto fino all’estremità dell’isola, vede la donna e la trova meravigliosa. Lei non aspettava altro perché era lì appunto per aspettare cose del genere». Attratto dall’“aria inquietante” di quell’insolita seduzione il fotografo rimane ad osservare l’esito: il ragazzo si sarebbe lasciato accalappiare «fingendosi un veterano», oppure allegando un pretesto sarebbe fuggito? «Quella donna — gli occhi cadevano addosso alle cose come due aquile, due raffiche di fango verde — invitava alla invenzione, dando forse le chiavi sufficienti per scoprire la verità…

Ma forse essa non cercava nel ragazzo un amante ma un’eccitazione per qualcun altro». Che lo strano individuo seduto nell’auto in sosta poco lontano avesse anch’egli «una parte nella commedia» risulta chiaro nel momento in cui il fotografo scatta un’istantanea della coppia: l’uomo al volante della macchina accorre a dare man forte alla donna. Mentre si difende dalle «imprecazioni particolareggiate» dei due loschi individui, Roberto-Michel tiene d’occhio il ragazzo: superata la sorpresa, questi si volta e parte di corsa, «perdendosi come un filo di ragnatela nell’aria della mattina. I fili di ragno, al mio paese, si chiamano anche bava del diavolo». Soddisfatto per essere riuscito ad aiutare quel ragazzo a «scappare in tempo» il fotografo se ne torna tranquillamente a casa e riprende il suo lavoro. «Vari giorni trascorsero prima che sviluppasse le fotografie della domenica. La negativa della donna bionda e dell’adolescente erano così belle che preparò un ingrandimento. Venne così bene che ne fece un altro più grande, che attaccò su una parete, e il primo giorno rimase un po’ di tempo a osservarlo e a ricordarsi, in quell’operazione comparativa e malinconica del ricordo davanti alla realtà perduta: ricordo pietrificato, come tutte le fotografie, in cui non mancava nulla, nemmeno e soprattutto il nulla, che era in verità quello che aveva captato la scena». (Sono parole-chiave per capire il racconto).

A poco a poco quell’immagine comincia ad ossessionare il fotografo: «Ora mi attirava il ragazzo, ora la donna». Un giorno la fotografia prende ad animarsi, come una scena di un film surrealista («In ultima analisi un ingrandimento somiglia a uno schermo cinematografico»). Nel “film” che si proietta davanti ai suoi occhi viene finalmente alla luce il ruolo giocato nella commedia dell’adescamento dall’«uomo dal cappello grigio»: mentre gli parla all’orecchio. il ragazzo si volta «al di sopra delle spalle della donna, verso il punto in cui si trovava la macchina con l’uomo».

Quello che il fotografo aveva immaginato «era molto meno orribile della realtà: quella donna non era lì per sé», «il padrone che sorrideva petulante non era il primo che spediva in avanguardia una donna per farsi portare i prigionieri ammanettati con i fiori». Un sentimento di impotenza si impadronisce del fotografo: «Essi erano vivi, decidevano ed erano decisi… Io, prigioniero di un altro tempo, questa volta non potevo farci assolutamente nulla; la mia (orza era stata una fotografia, quella lì, dove si vendicavano di me […]. Ero soltanto la lente del mio obiettivo, qualcosa di rigido, di incapace d’intervento. […] L’impalcatura di bava e di profumo si stava montando. Credo di aver gridato…». Il grido ottiene lo stesso effetto dello scatto, quella mattina nell’isola: «Il ragazzo sfuggiva per la seconda volta, per la seconda volta lo aiutavo a salvarsi. Mi copersi il volto e scoppiai in pianto, come un idiota». Quando riapre gli occhi, la visione non c’è più: nel “cielo puro” (il rettangolo appeso con gli spilli sulla parete della stanza) vede passare “una nuvola bianca”. «Quello che rimane da dire è sempre una nuvola, due nuvole…».

Che cosa ha ritenuto il regista del misterioso racconto di Cortazar? La situazione di partenza (un fotografo, una coppietta in un parco, l’idea dell’ingrandimento che rivela la realtà nascosta dietro la facciata), e un clima spirituale: anche se la problematica del film, come vedremo, è molto diversa da quella del racconto, le avventure parallele dei protagonisti ci comunicano lo stesso sentimento di impotenza, la stessa tensione metafisica.

La novità non sta tanto nel fatto che il protagonista di Blow up — Thomas — sia un fotografo di professione, quanto nel suo atteggiamento verso la vita, e quindi verso la scena di cui è casuale spettatore nel parco. A differenza di Roberto-Michel (un moralista: come suggerisce anche il titolo, il tema del “racconto morale” di Cortazar sembra essere, più che una riflessione sui “media”, la scoperta dell’invisibile immanenza del male), Thomas non vuol intervenire, rimane estraneo al gioco della seduzione, anche perché non ha il sospetto che si tratti di una commedia. Le sue fotografie inoltre non hanno alcun riflesso sull’esito finale della seduzione (il delitto). Si potrebbe dire che ad Antonioni non interessa tanto la scena del parco, quanto ciò che avviene, in seguito, nel «reparto del negativo», come direbbe Serafino Gubbio, il celebre operatore di Pirandello. Non a caso la sequenza centrale del film è quella dell’ingrandimento — non uno solo, ma molti — che non figura nel racconto. (Del resto non poteva figurarvi perché, nell’unica foto scattata da Roberto-Michel, il destinatario della seduzione non c’è, è rimasto fuori dell’inquadratura; la sua presenza «si rifletteva negli occhi del ragazzo»; nel film il fotografo scoprirà il destinatario- killer seguendo la direzione dello sguardo della donna).

Non il rapporto psicologico-morale tra il fotografo e la coppia intriga Antonioni, ma quello ontologico tra il professionista dell’obbiettivo e la realtà ultima. Thomas crede di averla catturata, come Roberto-Michel crede di aver salvato il ragazzo dalle grinfie dell’omosessuale, ma alla fine si accorge che questa gli sfugge: «Il nulla era. in verità, quello che aveva captato la scena».

Diversamente da Cortazar. prima di raccontarci l’avventura del fotografo Antonioni presenta il personaggio nel suo ambiente di lavoro. Quello che vediamo nelle prime sequenze è una sorta di documentario su una giornata tipo di un fotografo di successo.

La giornata del nostro fotoreporter, regolata come un cerimoniale, inizia molto presto. Travestito da barbone, lo vediamo uscire di prima mattina da un dormitorio pubblico; le “formidabili” istantanee, scattate di nascosto in quei “bassifondi”, sono destinate a un libro sulla Londra “vera” di oggi che prepara con l’amico Ron (gli deve mostrare le foto quel giorno stesso, a colazione). Allo studio è atteso con impazienza: oltre Verushka, la diva del momento, che deve partire subito per Parigi, al piano di sotto ci sono altre cinque modelle. «Fa sviluppare, di corsa» dice all’assistente consegnandogli i rubini dell’ospizio, si toglie le scarpe, entra nel “tempio” dove l’attende Verushka («Sono pronta da più di un’ora» protesta la modella sfilandosi lo scialle e mettendosi in posa; indossa un lungo abito nero molto scollato che fa risaltare la sua funebre magrezza).

Dispone dei pennacchi di piume multicolori contro il fondale cupo, si mette dietro il cavalletto su cui è la macchina, c la seduta ha inizio. Quello a cui assistiamo è una sorta di balletto allusivamente erotico.

Saltellando, sempre più vicino, intorno alla “tigre” — mimando la seduzione. la modella assume pose sempre più provocanti — il “domatore” fa scattare l’otturatore con una rapidità sorprendente. Quando la ragazza, seguendo i suoi ordini, si stende sulla schiena e comincia a contorcersi con calcolata lentezza, al ritmo di una musica jazz piuttosto sensuale, Thomas le si mette sopra a gambe divaricate, continuando a scattare si piega lentamente su di lei, «Datti da fare… toccati la bocca… stirati… di più, di più…» mormora sempre più eccitato. Al termine dello spettacolare amplesso mimato fotografo e modella si lasciano andare spossati. («Forse mai il cinema era penetrato con maggiore disincanto nella realtà di un rapporto tipico della nostra epoca, a mostrare un uomo e una donna grottescamente deformati dall’impossibilità di prescindere dalla condizione professionale» scrive Kezich). Dopo questo originale psicodramma erotico sappiamo che per Thomas la macchina fotografica è tutto: il suo feticcio, il suo mezzo di conoscenza e di penetrazione della realtà. «Nulla resiste al mio obiettivo» è il motto di questo frenetico cacciatore di immagini.

Il tempo di radersi, di dare un’occhiata ai provini delle foto scattate la notte, e il lavoro riprende. Thomas è uno che non ha tempo («Non ho due minuti nemmeno per farmi l’appendice») né per sé né per gli altri. Insegue l’attimo fuggente senza porsi domande, senza cercare risposte. Le cinque modelle, nel salone al piano di sotto, sono così rigide ed inespressive — si muovono come bambole meccaniche — che dopo un po’ Thomas le pianta in asso. (Stupendo il carrello laterale che scopre lentamente i cinque “robot” dietro la linea obliqua dei pannelli di cristallo). Intimando loro di tenere gli occhi chiusi e di «stare così», va a scambiare qualche parola con il vicino di casa, l’amico Bill, professione pittore. Entrando nello studio, l’occhio del fotografo viene attratto da un quadro adagiato sul pavimento, una nebulosa di tanti piccoli puntini di colore. «Quando li faccio — commenta l’amico — non mi dicono niente. Un pasticcio. Dopo un po’ però trovo qualcosa cui attaccarmi… E allora viene fuori da solo. È come trovare la chiave in un libro giallo». Mentre Bill gli spiega il segreto della creazione artistica, sua moglie Patricia offre da bere all’ospite. La tenerezza con cui Patricia tratta Thomas lascia intuire che tra loro c’è una misteriosa complicità. (Dopo la sua incredibile avventura nel parco, quella notte Thomas tornerà a trovare l’amico. La casa sembra deserta. Avvertendo un rumore, Thomas si avvicina alla porta della stanza da letto. Bill e Patricia stanno facendo l’amore. Accorgendosi del fotografo, per nulla contrariata Patricia gli rivolge con gli occhi un chiaro invito a rimanere: continua a fissarlo come se a provocarle l’orgasmo non fosse l’uomo che le è sopra ma Thomas. Turbato, il fotografo distoglie gli occhi dai due per fissarli sul quadro che lo aveva colpito la mattina. Quell’ammasso di puntini di varia grandezza somiglia in modo impressionante all’ultimo ingrandimento delle foto scattate nel parco, quello che riproduce il cadavere dello sconosciuto).

Le foto dell’ospizio sono pronte. Senza preoccuparsi delle modelle — ringrazino Dio che lavorano per lui — Thomas risale in macchina e parte. Il negozio d’antiquariato che ha intenzione di acquistare è situato in una stradina tranquilla vicino a un parco solitario. Per ingannare l’attesa — la proprietaria si è assentata — tira fuori il suo apparecchio e si abbandona al passatempo preferito, progettare inquadrature. Quando scorge il parco alle sue spalle, quasi obbedisse a un misterioso richiamo (la cinepresa sembra risucchiarlo all’interno) si avvia lungo il viale alberato. Mentre fotografa dei piccioni vede una coppia solitaria. Dopo aver seguito a distanza quelli che sembrano due “innamorati” si mette in posa dietro una staccionata e comincia a scattare. La luce è bellissima.

La sequenza rispecchia abbastanza fedelmente il racconto di Cortazar. Con la differenza che lo spettatore interessato a quella schermaglia amorosa — il terzo uomo — rimane nell’ombra, la sua presenza sarà rivelata soltanto dagli ingrandimenti; inoltre, ad aver paura questa volta non è la “vittima” ma la seduttrice, che blandamente ma tenacemente trascina il compagno verso un punto prestabilito.

L’irritazione della donna quando avverte la presenza del fotografo non è quella di un’adescatrice che vede sfuggire un cliente: e nella sua invocazione «Mi dm quella loto » non c e solo disappunto ma disperazione. Quando, dopo il diverbio con il fotografo, la ragazza si accorge che il compagno è scomparso si mette a correre come terrorizzata. Mentre la donna si allontana in fondo al prato, prima di andarsene Thomas non resiste alla tentazione di riprenderla ancora. Il fotografo non si domanda perché la fuggitiva, in fondo al prato, si fermi improvvisamente dietro a un cespuglio a guardare qualcosa — come una macchia scura — sull’erba. Quella “macchia”, percepibile (si noti) sul fotogramma, è il cadavere del suo amico. Se l’occhio distratto del fotografo potesse vedere quello che non è sfuggito invece alla sua macchina, e alla cinepresa, scoprirebbe il «corpo del delitto».

«Ho una cosa favolosa per chiudere il libro» annuncia trionfante all’amico Ron, al ristorante. Allude alle foto scattate poco prima nel parco. Quelle istantanee indiscrete non finiranno mai nel progettato libro perché fanno troppo gola a qualcun altro: mentre parla con l’amico, Thomas nota che uno sconosciuto si aggira con aria sospetta intorno alla sua Rolls-Royce (la macchina fotografica è chiusa nel cruscotto); più tardi quando arriva davanti al suo studio si trova di fronte la ragazza del parco, trafelata per la corsa che ha fatto; è venuta a chiedergli il rullino che Thomas le aveva rifiutato nel parco. (Dopo la scena nel parco il film prende una strada totalmente diversa da quella del racconto).

Intrigato dal mistero di quella ragazza irrequieta e sfuggente, così diversa dalle modelle che gli ronzano attorno, Thomas cerca di guadagnare tempo per osservarla meglio. Mette su un disco, porta due bicchieri con il whisky. «Che diavolo c’è di tanto importante in quelle fotografie?» domanda. «Sono affari miei» risponde lei nervosa. «La mia vita privata è già un tale pasticcio… sarebbe un disastro se…». «E allora? Un disastro è quello che ci vuole per vedere chiaro nelle cose». Thomas non sa che sta parlando di se stesso. Visto che non c’è altro mezzo per riavere il prezioso rullino — ha tentato invano di eclissarsi con la macchina fotografica di Thomas — la sconosciuta comincia a togliersi la camicetta. Quando stanno per entrare in camera da letto qualcuno suona alla porta. È destino che il nostro eroe, campione del provvisorio, curioso senza passioni, non riesca a portare in tondo nessun rapporto. Dopo avergli lasciato un (falso) recapito, la sconosciuta se ne va soddisfatta con il (falso) rullino che Thomas le ha dato. Rimboccandosi le maniche della camicia Thomas entra nella camera oscura e si mette al lavoro. Ha inizio la sequenza più elettrizzante, quella che dà il titolo al film: “blow up” significa a un tempo ingrandimento, rivelazione ed esplosione.

Dopo aver osservato i negativi con una lente, Thomas segna i particolari che sembrano interessarlo, inserisce il fotogramma nell’ingranditore, preme un pulsante, stacca il foglio, lo immerge nella vasca di stampa: con l’ingrandimento ancora gocciolante in mano si dirige verso lo studio, lungo la passerella. (Quando esce di campo, la prima volta, la cinepresa che lo segue in panoramica si sofferma ad inquadrare una gigantesca macchia sul muro bianco: sembra un quadro di Bill. Questo indugio della cinepresa su un dettaglio informale non è una civetteria d’astrattista, ma un’anticipazione poetica dell’ingrandimento finale. Partire dalle cose per arrivare ai personaggi è una delle caratteristiche inconfondibili dello stile di Antonioni). Sdraiato sul divano, Thomas osserva gli ingrandimenti appesi alla trave che taglia in due lo studio. Collegando sguardi e situazioni (mentre stringe a sé l’uomo, la ragazza fissa preoccupata qualcosa, un punto, fuori quadro; seguendo con una lente la direzione dello sguardo, il fotografo scopre nella vegetazione una macchia simile a un viso d’uomo; un ingrandimento successivo rivela la sagoma di un uomo che impugna una pistola con cannocchiale e silenziatore) a poco a poco Thomas ricostruisce l’intero avvenimento di cui è stato testimone quella mattina nel parco. Eccitato dalla scoperta (la sua deduzione, come vedremo, è prematura) telefona all’amico Ron: «Un uomo stava cercando di uccidere un altro. Gli ho salvato la vita…». Come il fotografo di Cortazar, crede di aver fatto una buona azione.

La visita di due teenagers che vengono senza appuntamento per farsi fotografare distrae Thomas dalla sua appassionante indagine sul giallo del parco. Mentre le due aspiranti modelle si provano dei vestiti scoppia tra loro una comica disputa su chi è “fatta meglio”; Thomas divertito interviene; giocando a togliersi i vestiti, i tre rotolano sul pavimento tra grida e risate coperti dal rumore della carta dei fondali. (La lunga sequenza, forse un po’ gratuita, serve a rompere la tensione e a rivelarci un nuovo aspetto del personaggio protagonista: Thomas è anche un po’ voyeur). Improvvisamente il giovane si astrae da quell’innocente gioco erotico. Il suo occhio è colpito da un particolare dell’ultimo ingrandimento (pensiamo al «tremito furtivo delle foglie», alla mano della donna che si muove, nel racconto di Cortazar). Mentre osserva con una lente la macchia vicino al cespuglio, un pensiero atroce gli attraversa il cervello. In un ulteriore ingrandimento si intravede una forma che somiglia a un corpo disteso sull’erba. Sgomento, Thomas si passa una mano tra i capelli e si lascia cadere sul divano. Il delitto è stato commesso sotto i suoi occhi e lui non ha potuto fare nulla per impedirlo. Durante un sopralluogo nel parco — è notte fonda; il riverbero lunare dell’insegna pubblicitaria, sulla collinetta, avvolge il prato in un’aura misteriosa, irreale; il biancore fosforescente dei suoi jeans ha qualcosa di spettrale — Thomas può toccare con le mani il corpo del delitto: il cadavere è ai piedi del cespuglio, gli occhi ancora aperti.

Bisogna fare subito delle foto, pensa Thomas, e si precipita a casa per prendere la macchina. Ma durante la sua assenza qualcuno è penetrato nello studio e ha fatto sparire ingrandimenti e negativi. L’unico ingrandimento, dimenticato in un angolo (intenzionalmente?), raffigura il primo piano del cadavere, «un rettangolo di puntini bianchi e neri» che — fa notare Patricia — somiglia in modo impressionante ai quadri astratti di Bill. Patricia è salita per parlargli di lei, ma Thomas è troppo preso dal suo problema per starla a sentire. E poi è incapace di cercare delle risposte al di fuori del suo mestiere. Non «chiama la polizia», come gli ha suggerito di fare Patricia. È un fotografo, e deve fotografare il cadavere.

Mentre corre a cercare l’amico Ron, per strada crede di scorgere la ragazza del parco. Inseguendo il fantasma della donna nei vicoli, entra in una sala dove si tiene un concerto pop. Quando uno dei musicisti fa a pezzi la chitarra e getta i resti in pasto al pubblico, nasce una furibonda zuffa in cui viene coinvolto anche Thomas. Alla fine è proprio lui — forse il più scatenato di tutti — a impossessai m del pezzo di chitarra. Una volta raggiunta la strada, Thomas getta via quell’inutile reliquia: fuori dal “santuario” non ha più alcun valore. (La disponibilità di Thomas va di pari passo con un’assoluta indifferenza).

Quando ritrova finalmente l’amico Ron, questi è completamente “high”. Al party, tutti fumano marijuana. «Devi assolutamente vedere il cadavere. Bisogna che gli facciamo delle foto» insiste Thomas. «Io non sono un fotografo» replica Ron, assente, tendendogli una sigaretta di marijuana che Thomas passa meccanicamente alla vicina, la modella del giorno innanzi. «Cosa hai visto in quel parco?» riprende l’amico, senza molta convinzione. «Niente», mormora Thomas abbassando gli occhi, amareggiato, deluso.

Quando all’alba Thomas ritorna nel parco (il luogo dell’attesa, della prova, dello scacco, ma anche della promessa di senso, come dice Ropars-Wuilleumier) lo attende un’altra sorpresa: il cadavere è sparito senza lasciare segni sull’erba. Sgomento, Thomas (si è chinato per guardare meglio) tamburella nervosamente sul manto erboso con l’inutile apparecchio fotografico che ha portato con sé. Come il fotografo di Cortazar. Thomas si sente vittima di «un’orrenda burla»: «la sua forza era stata una fotografia», ma «il tempo è passato», la realtà non e più la stessa. E non la si può fermare, né guardare in faccia.

L’epilogo visualizza, ed evidenzia, questo sentimento di frustrazione, di scacco di fronte al mistero della realtà. Mentre il nostro eroe sconfitto si avvia verso l’uscita del parco, il feticcio della macchina fotografica penzoloni, una jeep stracarica di giovani vestiti da clowns — gli stessi che aveva incontrato in città la mattina precedente uscendo dall’ospizio — si ferma all’ingresso dei campi da tennis. Davanti ai compagni che assistono in fila lungo la rete metallica, un giovane e una ragazza iniziano una singolare partita senza racchette né palle. I giocatori mimano gesti e movimenti con una precisione, una naturalezza tali che Thomas si lascia coinvolgere nella simulazione. Quando la palla immaginaria finisce oltre la rete, sul prato, Thomas dopo un momento di esitazione posa la macchina fotografica, raccoglie la palla, la fa sobbalzare sulla mano poi la rilancia in campo. Con quel gesto ratifica la finzione, rinuncia a distinguere realtà e apparenza, accetta l’illusione: quando la partita riprende, Thomas muove impercettibilmente la testa al ritmo dell’immaginario palleggio e comincia a “sentire” il tipico suono dei colpi della palla sulle corde della racchetta. Non c’è niente di tragico in questa resa finale di Thomas all’apparenza, alla finzione: «Il mondo, la realtà in cui viviamo — ha commentato il regista — è invisibile, e quindi dobbiamo accontentarci di quello che vediamo». Ma la scoperta della «indistinzione tra realtà e finzione, dunque dell’inautenticità che si cela nella sensibilità stessa» — come dice Cuccu — turba il protagonista, che abbassa gli occhi e lentamente si allontana. Inquadrata dall’alto in campo lunghissimo, la sua figura si dissolve nella “nuvola” verde del prato. «Scompare, ma solo ai “nostri” occhi» ha precisato il regista. Nel racconto di Cortazar, quando Roberto-Michel riapre gli occhi. «tutto è trasformato in una massa confusa». «Quello che rimane da dire — conclude Cortazar — è sempre una nuvola, due nuvole, o lunghe ore di cielo perfettamente limpido, rettangolo purissimo appeso con gli spilli sulla parete della mia stanza».

Questo affascinante, enigmatico “conte philosophique” sull’irriducibile ambiguità del reale («Un’incursione nel cuore dell’oscurità che ci avvolge» così definisce Blow up un critico inglese) si presta ad un’infinità di interpretazioni. Qual è quella di Michelangelo Antonioni? «Io non so com’è la realtà — ci ha detto. — La realtà ci sfugge, muta continuamente. Quando crediamo di averla raggiunta, la situazione è già un’altra. Io diffido sempre di ciò che vedo, di ciò che un’immagine mi mostra, perché “immagino” quello che c’è al di là; e ciò che c’è dietro un’immagine non si sa. Il fotografo di Blow up. che non è un filosofo, vuol andare a vedere più da vicino. Ma gli succede che. ingrandendolo troppo, l’oggetto stesso si scompone e sparisce. Quindi c’è un momento in cui si afferra la realtà, ma il momento dopo sfugge. Questo è un po’ il senso di Blow up. Parrà strano dirlo, ma Blow up è un po’ il mio film neorealista sul rapporto tra l’individuo e la realtà, anche se ha una sua componente metafisica proprio per quell’astrazione dell’apparenza. Dopo questo film ho voluto andare a vedere cosa c’era dietro, quale era l’apparenza di me stesso dentro me stesso, un po’ come avevo fatto nei miei primi film. Ed è venuto fuori Professione reporter, altro passo in avanti nello studio dell’uomo d’oggi. In Blow up il rapporto individuo-realtà è forse il tema principale, mentre in Professione reporter il rapporto è quello dell’individuo con se stesso».

La realtà è dunque solo apparenza, per Antonioni? «Non direi che l’apparenza della realtà sia uguale alla realtà — ha precisato l’autore. — Le apparenze infatti possono essere tante. Anche le realtà possono essere tante, ma questo io non lo so, e non ci credo. La realtà, forse, è un rapporto».

Benché Antonioni eviti di identificarsi con il protagonista — osservato con l’abituale distacco, — in Blow up non si limita a porre in discussione i limiti dello “sguardo”. Dietro l’occhio del fotografo Thomas c’è quello del regista che si interroga anche sul proprio mestiere, «sull’arte come strumento di conoscenza della realtà» (Morandini), sul mistero e i limiti dell’immagine filmica. «Che cosa, come, vede l’occhio della cinepresa?» si domanda Delahaye. «Il cinema, sempre e necessariamente realista, è allo stesso tempo sempre e necessariamente fantastico: è ciò che deve permetterci di veder sorgere dalla realtà più elementare quel qualcosa di più, quel qualcosa d’altro che ne esprime la faccia nascosta o l’invisibile essenza. Dove finisce il gioco e comincia la vita?». «Insistendo sul divario tra immagine (realtà nel suo apparire) e sua indagine (ingrandimento) — scrive Tinazzi — Blow up giunge ad affermare che il “più” di significato che essa può avere sembra coincidere con un “più” di ambiguità. (…) Il massimo di obiettività (la riproduzione fotografica del reale) coincide con l’indecifrabilità». «Il significato di un’opera — precisa Ropars-Wuilleumier — non si può ridurre alla somma delle apparenze rappresentate (…] che solo il compimento di una struttura può rendere significative. Come per il quadro di Bill, il senso di Blow up non può nascere che da uno sguardo interiore, da un’organizzazione che si chiarisce a poco a poco».

Con Blow up Antonioni ci ha dato il suo film più personale, dopo Il grido, quello in cui meglio ci comunica le sue inquietudini di uomo di cinema. («La realtà io l’ho conosciuta fotografandola quando ho cominciato a riprenderla con la macchina da presa, un po’ come in Blow up; in questo senso credo che sia il mio film più autobiografico. È stato proprio fotografando e ingrandendo la superficie delle cose che io ho cercato di scoprire quello che c’era dietro. Non ho fatto altro nella mia carriera». Abbiamo citato un frammento del breve discorso pronunciato dal regista nel dicembre 1982 a Ferrara). «Antonioni ci introduce nel problema essenziale della nostra presenza nel mondo e del suo significato. Nei film precedenti si trattava di una fenomenologia dell’esistenza; qui scende al livello radicale di una ricerca ontologica. Il regista non era mai andato così lontano nell’allegoria e nell’espres­sione dell’inesprimibile» (Jean Clair). Il grande merito di Antonioni è di esser riuscito a tradurre un soggetto così astratto ed enigmatico in immagini di una splendida concretezza, a coinvolgere lo spettatore nella straordinaria avventura interiore del protagonista — una autentica iniziazione — come se si trattasse di un giallo. Questo giallo della realtà semina il dubbio, «ci fa provare la suspense dell’essere» (Ropars-Wuilleumier). «Il miracolo — ha scritto Lachize — è che si esce dalla visione del film storditi, inquieti, ma più lucidi di prima». Questo, non il fatto che sia ambientato nella Londra dei mitici anni Sessanta e contenga delle sequenze osées, spiega il vasto successo che il film ha ottenuto in tutto il mondo. Con tutta evidenza il regista è riuscito a farsi interprete di un sentimento largamente diffuso.

Nel suo primo fortunato film internazionale Antonioni non rinnova solo la sua problematica, «andando alle radici stesse della percezione» (Collet), rinnova anche il suo linguaggio. Il ricupero del montaggio (un montaggio “strutturale, non più lineare” nota Ropars-Wuilleumier) impone al racconto un ritmo più nervoso. Come rileva Micciché, «la lentezza introspettiva, il sovraccarico espressivo di ogni inquadratura» riscontrabili nei film precedenti «sono sostituiti qui da un periodare spezzato, fatto di bruschi sobbalzi, rapidi spostamenti, squarci folgoranti, illuminazioni improvvise. Le qualità ritmiche evidenziano una diversa orchestrazione. Smentendo quanti avevano visto in Deserto rosso i sintomi di una pericolosa “impasse” ispi­rativa , con Blow up Antonioni firma il suo film più risolto e più significativo, uno dei massimi risultati cinematografici degli anni Sessanta».

Cesare Biarese, Aldo Tassone, I film di Michelangelo Antonioni, Gremese Editore, 1985

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