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BARRY LYNDON: SETTECENTO – RECENSIONE DI ENZO UNGARI

Lontano dal cinema di formule e procedimenti a cui rimanda soltanto per la sua mole produttiva, Barry Lyndon si situa in quella zona dove il cinema è invenzione, ricerca, esperimento. Ma dove tutti, coraggiosamente e confusamente, cercano, Stanley Kubrick trova. Non domanda, risponde.

di Enzo Ungari

Il silenzio ostinato che circonda Barry Lyndon, l’ultima fatica di Stanley Kubrick, uno dei film più belli che si siano mai visti – un film che, come 2001, non ci stancheremo mai di vedere e di rivedere – è incomprensibile.

Ancora una volta Kubrick travolge ogni idea definitiva che ci si poteva essere fatti del suo lavoro. Chi, come me, lo considerava, dopo Arancia meccanica, una promessa non mantenuta, un gigante rovinosamente crollato, adesso è servito da questo film sublime, il più importante, in senso assoluto, realizzato dall’industria del cinema degli anni 70, così come Intolerance lo è stato per gli anni 10, Metropolis per gli anni 20, 2001 per gli anni 60. È difficile credere all’esistenza di un artista, di un cineasta contemporaneo, che ha realizzato film sublimi come Lolita, 2001, Barry Lyndon e insieme film detestabili come Il bacio dell’assassino, Il dottor Stranamore, Arancia meccanica. Per noi, che non siamo liberali nietzschiani come Kubrick, è inusuale e imbarazzante giocare col mito terroristico della genialità, ma non si può fare a meno, davanti a questo film, di restare stupefatti dalle sue proporzioni smisurate, dalla sua assoluta originalità. Qualità, o meglio caratteristiche, che siamo obbligati a ritrovare anche quando, come nei film citati sopra, Kubrick va a fondo nell’errore.

Se l’entusiasmo, che a ogni visione di Barry Lyndon si rinnova, mi impedisce, ancora oggi dopo la terza volta, di parlarne ragionando, a maggior ragione mi rende incomprensibile l’atteggiamento quieto, sufficiente, distratto, con cui il film è stato accolto. È più facile accettare il rifiuto netto di chi, come Callisto Cosulich su Paese Sera, stronca il film definendolo un’opera che solletica gli alti istinti, che non l’accoglienza calorosa ma svagata e gli apprezzamenti grigiamente positivi che Barry Lyndon incontra in Italia, in Inghilterra, in America. Barry Lyndon è un film di tale splendore che dovrebbe accecare (e dunque sono assolti quelli che, chiudendo gli occhi, conservano un debole ricordo di bei quadri e la sensazione di belle musiche assordanti) oppure infiammare: ogni altra reazione tiepida rientra nel paragrafo della patologia del pubblico e va senza dubbio ascritta a quella che è stata definita la caduta della percezione sensoriale, malattia propria delle società dello spettacolo.

Il film racconta la storia di un plebeo senza qualità, testardo, violento, poco intelligente e assai rapido a colpire di spada, a barare, a ingannare, che sale rapidamente i gradini della rozza piramide sociale del suo tempo, ma che non riesce, malgrado i suoi sforzi, a diventare nobile. Anzi, questa irresistibile ambizione, questo ingenuo e ostinato desiderio, travolgeranno Barry facendolo precipitare di nuovo nel baratro della miseria dove attenderà solo, infelice e fisicamente rovinato, la fine dei suoi giorni. Questa storia piuttosto comune, desunta con relativa fedeltà da un romanzo di Thakeray, permette a Kubrick di darci un quadro del settecento alle porte della rivoluzione francese di una profondità e di una verità sconcertanti. Grazie a un talento difficilmente misurabile, e a 11 milioni di dollari, il film apre un paragrafo nuovo e luminoso in quel genere lussuoso, vuoto e sostanzialmente regressivo che siamo abituati a chiamare film in costume. Barry Lyndon opera, in rapporto a questo genere, lo stesso profondo e radicale mutamento che 2001 ha effettuato sul cinema di fantascienza. I costumi, gli ambienti, gli oggetti scenici, il paesaggio, la luce degli interni (una pellicola speciale, ad alta sensibilità, fabbricata dalla Kodak e una macchina da presa progettata per adattarsi a un obbiettivo fotografico della Zeiss hanno permesso a Kubrick di filmare servendosi soltanto della luce delle candele), il maquillage degli attori, in una parola tutto ciò che, da Scaramouche a Via col vento, da Cleopatra a Il dottor Zivago, definisce il genere, non è qui utilizzato come vestito, come costume del film (costume che dovrebbe garantirne, come un lussuoso travestimento, la commestibilità estetica). Barry Lyndon va al di là, distrugge l’idea ingenua che si cela sempre dietro il film d’epoca minuzioso, si difende da quel kitsch e da quel naif involontari, da quell’amore infantile e rimosso per il museo delle cere, che fanno capolino perfino in Senso.

Chi vede in Barry Lyndon una prodezza glaciale e inerte, un esercizio di altissima calligrafia applicata al nulla, è lo spettatore ancora convinto che Tom Jones sia un capolavoro, o magari quello che prende sul serio il formalismo informe de I duellanti di Ridley Scott. La leggendaria pignoleria di Stroheim, quella più vicina al nostro tempo di Luchino Visconti, la sapiente ricostruzione d’epoca in cui sa eccellere qualche volta Joseph Losey, hanno portato, nei casi migliori, a un realismo tanto minuzioso quanto falso, ad una menzogna e a un artificio preziosi come possono esserlo le piccole o le grandi verità “teatrali”, a una qualità illusionistica che non va assolutamente confusa con il realismo documentario di Barry Lyndon, che è altrettanto convenzionale, ma diverso e opposto nei risultati. Nel film di Kubrick la meticolosa veridicità dei dettagli non suggestiona mai col fascino indiscreto e malsano dell’imbalsamazione del passato, ma costruisce, inventa, immagina (esattamente come succede con i modellini, i fondali e le prospettive di 2001) lo spazio vitale, lo spazio psicologico, lo spazio sociale, lo spazio percettivo così come si costituiscono in un dato momento della storia. L’atteggiamento di Kubrick davanti al settecento è l’opposto di quello di Bertolucci davanti al novecento, non solo per la differenza di due secoli: mentre per il secondo il passato sembra essere, prima di tutto, ideologia, e i personaggi che mette in scena idee e pensieri, per il primo esso è l’intreccio dei modi e dei luoghi reali dell’esistenza sociale di uomini reali.

Forse per questo Novecento è un film sul mito, mentre Barry Lyndon è un film sulla storia. Ma la cosa più sorprendente di questo film abnorme, che sembra nutrirsi tanto di una coscienza “mediologica” nordamericana (televisione, film pubblicitario, alta tecnologia e alta fedeltà della rappresentazione) quanto di uno spirito “materialista” europeo (l’economia drammatica del film è tutta giocata sui problemi del denaro, della legge, della casta sociale, della famiglia; l’atteggiamento dell’autore è più scientifico che umanistico; i riferimenti pittorici e musicali non sono il saccheggio “americano” di una presunta e venerata cultura europea ma, quasi, delle “citazioni” ideologiche), è forse un’altra. Mi sembra che Barry Lyndon, che batte in verosimiglianza, trasparenza ed effetto di realtà anche il più lussuoso tentativo illusionistico del cinema spettacolare, assomigli irresistibilmente (ma vedremo come) a La presa del potere di Luigi XIV di Roberto Rossellini, a La Marsigliese di Jean Renoir, a La religiosa di Jacques Rivette, a Cronaca di Anna Magdalena Bach di JeanMarie Straub, a L’eroe sacrilego di Kenji Mizoguchi, e non ai film monstre dell’industria del travestimento e dell’intrattenimento. Ma questa somiglianza è attenuata da uno scarto. Infatti in Barry Lyndon la domanda brechtiana sulla rappresentazione, cioè la domanda di una distanza e della ricerca di questa distanza (domanda che, da Godard a Straub, il cinema degli anni 60 aveva inseguito affannosamente, e che adesso sembra abolita, o formulata diversamente), è trasportata dentro un punto di vista “spettacolare”, grazie a un uso, apparentemente ovvio e pigro ma in realtà geniale, della voce fuori campo che non commenta gli avvenimenti che vediamo, non li enfatizza, ma ne costituisce il controcanto, la distanza critica e la coscienza storica.

La differenza finale tra Barry Lyndon e il cinema, diciamo così, brechtiano, è che il primo non rifiuta e non combatte la domanda di spettacolo e di partecipazione emotiva che il pubblico formula, ma in qualche modo la eccede. Infatti ecco i duelli alla spada e alla pistola, le battaglie, le seduzioni, le danze: ci sono tutti, e affatto vergognosamente (non come Bresson che, in Lancillotto e Ginevra, presenta un torneo facendoci vedere soltanto gli zoccoli dei cavalli, o come Altman, ancora più represso e cerebrale, che in Gang si diverte a farci vedere, degli assalti alle banche, il prima e il dopo ma non il durante). Ma questi nuclei drammatici, le scene canoniche intorno alle quali il film in costume si è costruito come il western intorno al duello alla pistola, sembrano avvenire per la prima volta. Questi momenti sono esplorati nei loro tempi reali tanto minuziosamente da svelare, bruscamente, la meccanicità con cui gli altri film in costume li hanno quasi sempre rappresentati, riducendoli a retoriche pietrificate. Svelamento, rivelazione e verità che non si risolvono nella frustrazione dello spettacolo interrotto, nel sacrificio dell’emozione uccisa a maggior gloria della ragione, ma nella produzione di uno spettacolo espanso, di un’emozione ancora più profonda, di una partecipazione totale da parte dello spettatore, che quanto più è messo in grado di seguire “a distanza” la storia poco edificante del signor Barry Lyndon, tanto più ne è commosso e incantato. Qualunque cosa si dica di questo film, si avrà sempre l’impressione di avere dimenticato l’essenziale.

Mi limiterò, se non a giustificare il mio entusiasmo, a individuare almeno la ragione principale per cui Barry Lyndon rappresenta per me, e mi auguro per molti altri, un’autentica gioia e una rivelazione. Lontano dal cinema di formule e procedimenti a cui rimanda soltanto per la sua mole produttiva, Barry Lyndon si situa in quella zona dove il cinema è invenzione, ricerca, esperimento. Ma dove tutti, coraggiosamente e confusamente, cercano, Stanley Kubrick trova. Non domanda, risponde.

Gong, Settembre 1976

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