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LEONE CHI È, UNA APOLOGIA

Profilo di Sergio Leone pubblicato nel numero monografico della rivista Bianco e Nero nel 1971

Sergio Leone è figlio d’arte. Il padre era il regista della celebre diva del cinema muto Francesca Bertini. Firmandosi Roberto Roberti aveva diretto molti film di successo. Dopo aver iniziato dal primo gradino, facendo cioè l’assistente in un gran numero di film (fu primo assistente durante le riprese della scena delle corse delle bighe di Ben Hur), divenne aiuto regista e, come tale, prese parte alla lavorazione di 58 film, lavorando con quasi tutti i registi italiani e con alcuni americani, tra i quali William Wyler, Fred Zinnemann, Robert Wise, Raoul Walsh, ecc. Fu spesso a capo della seconda unità di grosse produzioni.
Diresse, quasi per gioco, il suo primo film Gli ultimi giorni di Pompei, che Mario Bonnard — impegnato in un altro film — non poteva dirigere e che Leone non firmò. Il film incassò oltre un miliardo di lire, spingendo così numerosi produttori a gettarsi nel filone che Leone aveva così inaugurato, senza volerlo, e che diede origine a una interminabile serie di film che si possono definire pseudo-storici o mitologici, moltissimi dei quali di modestissima fattura.
Fu proprio a causa di questa proliferazione che Leone rifiutò molte proposte per realizzare altri film del genere. Ma per non rimanere troppo a lungo inattivo fu costretto ad accettare di dirigere Il Colosso di Rodi, il primo da lui firmato. Anche questo film, realizzato con cura ed impegno inconsueti, incassò quasi un miliardo e rinnovò le pressanti richieste dei produttori che Leone però non prese mai in considerazione, pur desiderando dirigere altri film.
Passarono quattro anni prima che gli venisse offerta l’opportunità di dirigere il primo film proprio come lui lo voleva. Era un western e si intitolava Per un pugno di dollari. Probabilmente Sergio Leone avrebbe scelto un altro genere di film, se in quel tempo, a causa della crisi in corso, non fosse stato indispensabile realizzare film commerciali ad esito garantito, in co-produzione con altri paesi, come per esempio la Germania e la Spagna. Sulla scia di un felice esperimento tedesco, i produttori italiani avevano nel frattempo prodotto alcuni western di discreto successo commerciale. Quando si giunse al momento di girare il film, il filone appariva praticamente esaurito. Insieme a Per un pugno di dollari la stessa produzione stava realizzando un altro film, Le pistole non discutono di Mario Caiano, cui erano andati tutti i mezzi. Nel cast di questo film, per esempio, c’era un attore americano, Rod Cameron, che costava da solo più dell’intero cast di Per un pugno di dollari. Ma Leone seppe avere ragione di tutte queste limitazioni. Forse per puntiglio, o forse per dimostrare che un film, indipendentemente dall’epoca in cui lo si realizza, non può mancare di incontrare successo, se girato con pulizia formale, sicura tecnica e con l’onesto intento di ottenere un buon spettacolo. Ciò cui Leone teneva di più era che il film venisse realizzato come lui lo voleva, e cioè con realismo, smitizzando le figure leggendarie dei western americani. L’atteggiamento di Leone nei confronti del western americano non si limitava però a questo progetto di demitizzazione e di risarcimento realistico. Dai migliori western americani Leone seppe trarre la lezione del gusto del particolare, della ricostruzione fedele, della resa in termini di azione. Pochi registi in senso assoluto si sono presi come lui la briga di documentarsi in maniera rigorosa sulla storia americana e in particolare sulla storia del West, così com’era nel secolo scorso.
Dopo l’incredibile successo di Per un pugno di dollari Leone diresse la seconda parte della trilogia, Per qualche dollaro in più, che curò ancora di più della prima. In dodici mesi il film incassò quanto il primo, cioè oltre tre miliardi. Un caso senza precedenti nella storia del cinema italiano.
L’ultima parte della trilogia si ebbe con Il buono, il brutto, il cattivo, che pur ripresentando tutti quegli elementi che il pubblico aveva gradito nei precedenti poté valersi di un più ampio respiro e di una maggiore resa spettacolare.
Con questo terzo film Leone aveva deciso di concludere il ciclo western e di indirizzarsi verso un altro genere di film, C’era una volta l’America, basato sul gangsterismo americano durante gli «anni ruggenti». Tuttavia, dopo aver scritto, insieme a Bernardo Bertolucci, il soggetto di C’era una volta il West, con l’intenzione iniziale di farlo dirigere ad un altro regista, si innamorò talmente della vicenda e dei personaggi che decise di dirigerlo personalmente. Ma sarebbe stato un film completamente diverso dai precedenti. Leone voleva rendere esplicito il suo congedo dalla «trilogia del dollaro» facendo eliminare da parte di Charles Bronson, il protagonista di C’era una volta il West, proprio all’inizio del film, Clint Eastwood, Lee Van Cleef e Eli Wallach, i protagonisti della trilogia. Ma ciò non fu possibile e Leone dovette dirottare su altri interpreti, pur rimanendo fedele al progetto di aggiungere un nuovo capitolo al suo excursus della storia del West: l’era nuova, spietata, del boom economico.
Anche Giù la testa avrebbe dovuto essere diretto da un altro regista. Leone avrebbe voluto soltanto produrlo. Nel caso che la regia fosse stata affidata al suo aiuto regista, Alfredo Santi, ne avrebbe curato la supervisione. Ma a poco a poco Leone venne coinvolto sempre di più nella lavorazione del film e ben presto dovette mettersi dietro la macchina da presa, finalmente deciso a padroneggiare una materia originariamente non completamente sua, collocata durante il periodo della rivoluzione messicana.
Il cinema di Sergio Leone costituisce un fenomeno di immensa portata: esso costituisce il primo tentativo di un cinema critico, cioè non più in presa diretta con la cosiddetta realtà (il ricorso alla verità storica, che Leone conosce molto bene, ha mero valore strategico: nulla di più esatto storicamente degli armamenti esibiti in Giù la testa, pure la presenza di «tanks» e pistole automatiche concorre a produrre una generale impressione di astrazione). Il referente più immediato del cinema di Sergio Leone è un genere, una tradizione cinematografica, un sistema di apparenze e di convenzioni, un testo globale, il solo ad aver conosciuto una diffusione mondiale: il western. Al cinema di Leone si potrebbe applicare questa frase di Paul Valéry: «le belle opere sono figlie della loro forma che nasce prima di esse».
Nell’immediato dopoguerra la cultura americana fu oggetto di interrogazione costante da parte delle avanguardie culturali in Italia. Ciò avvenne in un clima di generale aggiornamento che portò a non poche sopravvalutazioni (tale è il caso di quel James M. Cain che tanta influenza ha avuto su Pavese e Visconti), contribuì a garantire l’equivoco del neorealismo, alimentò il mito democratico di un’America idealizzata. Leone non si è accontentato di continuare questa interrogazione della cultura e del cinema americano: ha aggiustato il tiro. Oltre ad essere il meno neo-realista dei registi, Sergio Leone non ha mai incoraggiato nessun mito o «sogno americano».
A partire dagli anni cinquanta anche in America non mancano western umanitari, prosaici, nostalgici o crepuscolari. Tuttavia non si è mai andati al di là del semplice senso critico (segno che erano finiti i tempi del western beato, ingenuo, trionfalistico e razzista). Si era dunque ancora ben lontani da un cinema critico, da un western elaborato in uno spazio e in una prospettiva completamente diversi da quelli tradizionali. Più che dalla parte di Delmer Daves, Burt Kennedy, Sam Peckinpah e l’ultimo Ford il cinema di Sergio Leone va collocato da quella di Monte Hellman (The Shooting e Ride in the Whirlwind), Luc Moullet (Une aventure de Billy le Kid) e Andy Warhol (Lonesome Cowboys), tutti registi «moderni» per i quali il riferimento al western si è posto quasi necessariamente.
E non è un caso che Sergio Leone, uno dei più grandi «director» di tutti i tempi, e Andy Warhol, il più illustre rappresentante di tutta una schiera di febbrili e temerari «film-maker» si fronteggino in uno stesso spazio. È ai limiti di questo spazio che il cinema contempla adesso il proprio silenzio.

Bianco e Nero, fascicolo 9/10 settembre-ottobre 1971, pp. 4-7

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