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C’ERA UNA VOLTA IN AMERICA: LA VERTIGINE DEL TEMPO – di Morando Morandini [Segno Cinema]

'C'era una volta in America' e altri ricordi. Il sentimento del passato e degli errori compiuti, il senso del tradimento e del rimorso nel capo d’opera di Sergio Leone. Saggio critico di Morando Morandini

Il sentimento del passato e degli errori compiuti, il senso del tradimento e del rimorso nel capo d’opera di Sergio Leone

di Morando Morandini

Il mio pensiero del momento è molto confortante perché sono rimasto piacevolmente sorpreso dal fatto che il film è piaciuto, in quel modo che è piaciuto, soprattutto ai giovani: non pensavo che avessero lo voglia – a meno che non fossero stati dei cinefili – di questo tipo dì cinema, che bene o male loro non avevano, non hanno potuto godere in pieno… Ecco, questo è il film che ho voluto fare e mi pare adesso, a distanza dì tempo, che sia proprio quello che traspare dalla sua lettura…
—Sergio Leone

1. Di Sergio Leone sentii parlare o per la prima volta nell’autunno del 1964. Capitato a Roma in casa di Bernardo Bertolucci che un anno prima inopinatamente mi aveva proposto una parte in Prima della rivoluzione, fui invitato ad andare con lui a vedere “un western italiano che vale la pena”. Era Per un pugno di dollari con la regia di Bob Robertson. Fu la prima volta che vidi un film in terza o quarta fila, a distanza ravvicinata. Come molti cinéphiles della sua generazione, Bertolucci praticava, da spettatore, la teoria dell’avvolgimento sensoriale. Probabilmente la pratica ancora, così come io continuo, da critico, a seguire un altro metodo: quello di sistemarmi a metà della sala, in modo da far coincidere press’a poco il mio campo visivo con quello dello schermo, leggermente spostato a sinistra. Non ricordo che cosa ci si disse all’uscita, quali impressioni o giudizi ci scambiammo. So che ci divertimmo assai.
Qualche settimana dopo, ritornato a Roma, andai ad intervistare Bob Robertson cavandone quello che fu uno dei primi articoli-inchiesta sul fenomeno del neonato spaghetti-western. Mi fece una curiosa impressione. Pur avendo quarant’anni, ero – o mi sentii – un giovane critico: Leone che ne aveva cinque di meno (ma non lo sapevo) mi apparve come un professionista “adulto”, un artigiano del cinema che, dietro la modestia del suo comportamento (fu, di primo acchito, un po’ stupito di quella mia intervista), nascondeva una tranquilla consapevolezza del proprio valore e parlava di cinema come un intellettuale cinéphile.
Passarono alcuni anni durante i quali non ebbi più rapporti con Leone né di persona come giornalista né sullo schermo come critico. Pur continuando a frequentare accanitamente le sale cinematografiche, mi occupavo sul “Giorno” di critica televisiva. Quando nel ’71 uscì Giù la testa, cominciai la mia recensione sul settimanale “Tempo” in questo modo: “Ripulsa e attrazione sono i sentimenti che, fin da Per un pugno di dollari, suscita in me il cinema di Sergio Leone. Da una parte m’irrita la sua mancanza di finezza e di pudore… dall’altra mi sbalordisce la sua capacità di giocare fino in fondo il suo gioco, e allora mi richiama a Flaubert: in arte non bisogna mai aver paura di essere esagerati… ma l’esagerazione dev’essere continua, proporzionale a se stessa…”.
La recensione proseguiva in quel tono da doccia scozzese. Da Roma mi arrivò una sua lettera che oggi, nel mio scombinato e affastellato archivio, non sono riuscito a ripescare. Era garbata, rispettosa, ma polemica. Terminava con l’invito di fargli visita a Roma: mi avrebbe proiettato Giù la testa in moviola per dimostrarmi come e perché, secondo lui, avessi torto almeno su alcuni punti. Non rividi in moviola Giù la testa, ma quella lettera fu l’inizio di un’amicizia, sia pure nella lontananza geografica e con lunghi intervalli tra un incontro e l’altro. (Amicizia? Proprio perché do molta importanza a questo sentimento – “Cuori che siano delicati e gentili, e lingue che siano tutto il contrario, ecco la miglior compagnia del mondo!” – esito a spendere una parola così impegnativa. Ma non esiste nella nostra lingua – e in nessun’altra, credo – una parola che indichi una persona che sia qualcosa di più di “conoscente” e qualcosa di meno di “amico”: c’è un limbo, un’anticamera dell’amicizia, no?).
Nel 1968, come a duecento e più altri critici di cinema, mi fu chiesto dalla rivista “Bianco & Nero” di compilare una lista dei dieci migliori film nella storia del cinema italiano. Quella lista mi costò più tempo e fatica di un articolo. Dopo cancellazioni, pentimenti e sostituzioni misi in ordine cronologico i miei dieci film: il decimo era C’era una volta in America. C’incontrammo a Bari – e fu l’ultima volta – nell’ottobre dello stesso anno. Mi disse, stringendomi la mano con quel sorriso un po’ ironico e vescovile che gli conoscevo da sempre: “Grazie”. Lì per lì non capii e domandai: “Perché?”; rispose: “Lo sai bene”. E cominciammo a parlare del suo ambizioso progetto sull’assedio di Leningrado, film alla cui preparazione, tra trattative infinite e continui rinvii, aveva dedicato gli ultimi anni. Un motivo in più per rimpiangere la sua partenza così repentina e imprevista, scrissi alla sua morte nel maggio dell’89. E se fosse riuscito a farlo, quel film, mentre il nome della città tornava a essere Pietroburgo? Le ironie della storia: era un tema che l’affascinava e di cui parlava volentieri.

2. Come Flaubert, Sergio Leone avrebbe potuto dire: C’era una volta in America sono io. A me era venuto di pensarlo dopo aver visto il film per la prima volta in una proiezione privata, senza comprenderlo a fondo perché era l’edizione originale in inglese senza sottotitoli. Ne ero uscito stordito, abbacinato, esausto prima ancora che affascinato e soddisfatto, con la sensazione di aver assistito a un film totale, una sorta di testamento. Avevo avuto la stessa sensazione con Fanny e Alexander, ma con una differenza: nel caso di Bergman sapevo che era una “summa” di trent’anni di lavoro, un solenne passo d’addio, un congedo in grande stile.
Pochi giorni dopo, con qualche sorpresa, ritrovai quella mia riflessione, formulata in modo esplicito, in un articolo di Leone sul “Corriere della Sera”: “Così non penso a C’era una volta in America soltanto come al mio nuovo film, dopo dodici anni di silenzio e molti guai con la produzione, ma come a una parte importante della mia vita che ho potuto, finalmente, impressionare sulla pellicola… C’era una volta in America è il mio modo di vedere le cose. Dico a tutti che si tratta del mio film migliore, probabilmente è così e di sicuro lo penso davvero, ma quello che voglio precisamente dire è che C’era una volta in America sono io. Uno sguardo sul cinema e su me stesso”.
Sono io? Che cosa aveva da spartire Sergio Leone, italiano del 1929, borghese romano, regista di cinema e figlio di regista, con Mano armata (The Hoods), “gangster story senza gloria ma a suo modo perfetta”, romanzo di quattrocento pagine firmato da Harry Grey (grigio) che nasce dalle memorie di David Aaronson detto Noodles, gangster ebreo di mezza tacca? Leone lo spiega così: “… Harry Grey aveva messo in cartellone tutte le passioni che, in un momento o nell’altro della mia vita, avevo provato io stesso. E non solo io. Passioni universali come la gioia, l’arroganza, l’avidità, l’amore, la paura. C’erano morte, sesso, violenza, tradimento e sacrificio. C’erano innocenza e candore. C’era addirittura la passione per il cinema, si pure rovesciata come in un obiettivo cinematografico, in una negazione freudiana”.
Nella prefazione all’edizione italiana del romanzo (Longanesi 1983) Leone annota: “M’incuriosiva e mi divertiva il realismo grottesco del vecchio teppista che, giunto alla fine della sua corsa attraverso l’epopea metropolitana, per raccontarci com’era veramente la vita del gangster in carne e ossa, fuori del mito e della leggenda, non poteva fare altro che mettere nero su bianco un tale repertorio di citazioni cinematografiche, di gesti e battute già visti e sentiti infinite volte sul telone bianco, da far arrossire il più scafato dei cinefili. Mi colpirono la vanità di questo tentativo e la grandezza del suo fallimento… Che la narrativa moderna imiti il cinema è cosa risaputa da molto tempo. Ma Noodles, più radicalmente, era un esempio di come la vita stessa, oramai, può imitare il cinema o perlomeno ispirarsi alle regole del suo galateo”.
Leone aggiunge: “Ma soprattutto c’erano il tempo e la sua vertigine”. Dal punto di vista temporale, cioè come struttura narrativa, C’era una volta in America è un labirinto alla Borges, un giardino dei sentieri incrociati, una nuova confutazione del tempo. La sua vicenda abbraccia un arco di quasi mezzo secolo e si svolge in tre momenti: 1922-23, quando i protagonisti sono ragazzini, angeli dalla faccia sporca alla dura scuola della strada nel Lower East Side di New York; 1932-33, quando sono diventati una banda di giovani gangster; 1968, quando Noodles, come emergendo dalla nebbia del passato, ritorna a New York alla ricerca del tempo perduto.
Sotto i titoli di testa il film si apre con uno spettacolo di ombre sul muro, materia prima del cinema, in un teatrino cinese con suonatori di tamburi e campane e pochi spettatori sonnacchiosi. L’eroe della storia – il Noodles di De Niro – sta fumando oppio in una fumeria attigua al teatro: è il 1933. Tre ore e mezza dopo, nel 1968, Noodles è un sessantenne imbolsito dal passo stanco. Esce dalla casa del senatore Bailey e nel parco incrocia due automobili cariche di gaudenti che nel 1933 festeggiano la fine del proibizionismo. Il giovane Noodles entra nella fumeria d’oppio, s’allunga sul materassino e comincia a succhiare dalla pipa il fumo del sogno.
Basta sfogliarlo per vedere che del romanzo di Harry Grey, la cui vicenda si chiude nel 1933 e ha un impianto cronologicamente lineare, è rimasto poco. C’è nel film la sua dimensione proterva, spericolata, persino divertita, propria dei giovani che a vent’anni sono già criminali induriti e feroci, ma che ancora vedono la vita come una successione di azzardi, tiri di dadi, momenti della verità. “Ma ero solidale col vecchio galeotto – scrive Leone nella prefazione al romanzo di Grey – anche per una seconda ragione. Il suo libro mi confermava una vecchia idea. L’idea che l’America, dopotutto, fosse un mondo di bambini”.
C’è nel film – esplicita all’inizio, poi sotterranea come un fiume carsico lungo la narrazione per emergere verso la conclusione – una dimensione che nel libro è assente: il sentimento del tempo irrimediabilmente perduto, la consapevolezza degli errori compiuti, il senso dell’inganno, del tradimento, del rimorso. L’azione si stende attraverso una catena di sconnessioni temporali che comprendono simmetrie, ripetizioni, circolarità, ritorni all’indietro, prospettive in avanti, illuminazioni di ritorno, accelerazioni, dilatazioni, scambi, strappi, trappole. Ne consegue un ritmo solenne di narrazione, quasi pomposo qua e là alla maniera dei western leoni ani, ma a tratti vertiginoso come una gara di fondo sugli sci in un percorso pianeggiante, rotto da improvvise, fulminee discese e faticose risalite.
Il tempo scorre sul volto dei personaggi attraverso i trucchi d’invecchiamento: rughe, capelli che ingrigiscono e si stempiano, corpi più grevi, andature più fiacche. Se De Niro dà un’altra prova del suo straordinario talento mimetico, altri personaggi sembrano, nonostante il trucco, sempre eguali a se stessi: Fat Moe (Larry Rapp) non perde la sua paciosa mansuetudine e Deborah (Elizabeth McGovern) appare, mentre si strucca – nel camerino del teatro dove recita Antonio e Cleopatra – fissata in una perenne giovinezza: la maschera è il volto. Ha ragione Oreste De Fomari (Tutti ì film di Sergio Leone, Ubulibri 1984) quando dice che nel film il presente sembra un tempo di simulacri e di fantasmi, e non è meno improbabile del passato: “ Anzi, per essere esatti, il presente non esiste. Se gli episodi del 1923 e 1932 sono flashback rispetto al 1968, è anche vero che il 1968 è un flashforward rispetto al 1932, il Noodles anziano è una proiezione che il Noodles ha avuto nella fumeria d’oppio. C’è solo passato visto dal futuro e futuro visto dal passato, memoria che si confonde con la fantasia, senza punti di riferimento”. C’era una volta in America è una sfilata di fantasmi nello spazio incantato della memoria. O di un sogno, di un’allucinazione che dà l’oppio?
Alle sconnessioni del tempo corrispondono le dilatazioni dello spazio. Con sapienti incastri fra esterni autentici ed esterni ricostruiti in teatro di posa Leone accompagna lo spettatore in un viaggio attraverso l’America metropolitana (attraverso la storia del cinema su quella dell’America) che è, insieme, reale e favoloso, archeologico e rituale. Sono spazi in cui l’iperrealismo delle scenografie trasforma il cinema in teatro e la realtà in spettacolo onirico. Sono spazi (scene) che, danzando con sinuosi movimenti dolly alla Bertolucci, la cinepresa dilata e trasfigura. C’è, inoltre, lo spazio sonoro con invenzioni che fanno l’altalena tra l’uso realistico dei rumori e l’asincronismo più allucinato: l’ossessivo squillo del telefono all’inizio di un piano-sequenza sonoro; i singhiozzi di Deborah,
stuprata da Noodles in auto, mescolati con le strida dei gabbiani. C’è la musica di Morricone che ora stempera, ora rafforza le emozioni, ma anche motivi famosi che fungono da “madeleines”: Amapola, Summertime, Night and Day, Yesterday.
Oltre a violenza, piombo e sangue, scaricati quasi per intero nella prima ora, c’è il sesso. E l’amore di Noodles per Deborah che attraversa il racconto, sia pure subordinato al tema dell’amicizia virile, altro caposaldo mitico del cinema americano: l’amicizia tra Max e Noodles che trova nella rivelazione finale il suo teatralissimo epilogo. Anche su questo versante Leone si diverte a imbrogliare le carte. Nel suo cinema la donna non è mai vezzeggiata né idealizzata: in questa fiaba di maschi violenti le donne – Peggy, Carol, Deborah – sono brutalmente maltrattate. La pulsione sessuale è collegata all’analità, alla golosità, alla morte e specialmente alla violenza: quella di Noodles sulla masochista Carol durante la rapina è giustificata dal contesto di beffarda insolenza, ma quella assurda su Deborah che senso ha? Dissacrazione dell’unica (apparente) componente romantica? Umiliazione del suo antieroico eroe (Noodles = taglierini, spaghettini) così poco eroico? Anticipata rivalsa di Noodles su Max e soprattutto su un’esistenza alla fine della quale rimane con un niente in mano? (“La verità di Noodles – scrive ancora il regista – era il disastro, puro e semplice, della sua vita”).
Piccolo gangster senza gloria, Noodles diventa vero protagonista soltanto nell’epilogo quando si rifiuta di uccidere Max. Forse perché, soltanto allora, ormai vecchio, è diventato uomo.

Segno Cinema n. 68, Luglio-Agosto 1994; pp. 26-28

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