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PORCILE O NO tiriamo le somme su PASOLINI

Piero Sanavìo intervista Pier Paolo Pasolini per la rivista 'Il Dramma', Settembre 1969

di Piero Sanavìo

La prima cosa che lessi mai di Pier Paolo Pasolini fu Le ce­neri di Gramsci. Gli echi del successo critico m’erano giunti anche negli Stati Uniti, dove ormai abitavo da anni : su riviste e giornali nazionali. Il libro arrivò più tardi, per posta normale, impigliandosi tra i colli più eterogenei che una nave può tra­sportare tra due continenti, non per via aerea come i quotidiani o magari via radio come le notizie. Me lo depositò il postino al numero 10 di Linnaean Street, e tornando da un seminario mattutino su Scève e i petrovchisti me lo portai in biblioteca. Quando non insegnavo, vi passavo i pomeriggi a leggere i Pu­ritani. Quelli veri, non l’opera : quelli che impiccarono le stre­ghe a Salem, pacifica cittadina costiera dove un secolo dopo, due anzi, Hawthorne doveva mangiarsi il cuore, salvando (loro : gli assassini) la legittimità dello Stato e preparando l’indipen­denza delle Colonie. Gente tutta d’un pezzo, lungimiranti. Con quei tragici nasi romani che neppure l’accademismo degli in­cisori riuscì a raddolcire sui risguardi dei libri. Riapparivano in carne e ossa tra le strade di Boston, quelle che strisciano giù dalla collina, camuffati da vecchi rentiers o banchieri o più semplicemente pensionati (ex capitani di marina, ex mercanti, ex qualsiasi cosa: in attesa del sole, a Louisville Square, che sul loro volto pareva coincidere con l’approssimarsi della morte), e in realtà non erano né banchieri né rentiers né pensionati: solo un’altra generazione, vecchi yankees stolidi, bel­lissimi e un po’ sospettosi, sopravvissuti all’ondata di irlandesi abbattutasi sulla Nuova Inghilterra l’anno della carestia delle patate c alle invasioni successive. Guardavano nel vuoto e i loro occhi, tra le rughe del viso, esprimevano un misto d’orgoglio, indifferenza e stanchezza. Ombre d’un altro clima.

Non aspettavano la morte : aspettavano qualcosa. Qualsiasi cosa? una causa, nella quale giustificarsi. J.F.K. passò loro sul capo come un fenomeno della corruzione dei tempi: un irlan­dese nuovo- ricco, cattolico per di più, e d’una famiglia che loro non avevano mai frequentato. Si mossero poco prima della sua morte, alle esplosioni dei negri. La madre del gover­natore del Massachusetts, una Peabody (come dire, in Inghil­terra, una cugina della regina), finì in galera nel Sud, a ottant’anni, nel corso d’una marcia con Luther King, in favore della integrazione.

Una volta al mese, da Cambridge di gusto falso-inglese, scen­devo a Washington per visitare un vecchio, rinchiuso in mani­comio. Ezra Pound, dal quale ho imparato quel poco che so, tolta la politica (ma questa è un’altra storia), almeno nel senso d’un certo gusto e interessi specifici, dalla letteratura all’eco­nomia e viceversa, sparava i suoi tic verbali da sotto la visiera di celluloide, verde come d’un telegrafista del vecchio West: caustico e buffonesco e con la capacità di toccar giusto pur partendo da presupposti che talvolta erano tanto sbagliati da parere impossibili. In ogni caso, offrendo l’esempio umano più assoluto del rifiuto d’ogni compromissione, anche nell’errore. Pagato fino in fondo, questo, e nel modo più spietato : e di cui, dietro il paravento in fondo al corridoio, dove riceveva, o sdra­iato su una chaise longue in giardino, più tardi, tra le urla dei pazzi, non raccontava mai. Parlava dell’Italia, di Londra, di Parigi. Di tanto in tanto mi dava dei consigli su ciò che dovevo leggere. In una lettera, per esempio, mi esortava a la­sciar perdere la «STEW-pi-DI-taaaaaa dei puritani» e con­centrarmi invece su un certo Matt Quay, «che leggeva i clas­sici greci nell’originale e nascondeva il fatto ai suoi elettori, per paura di perderne i voti».

Doveva essere un novembre. Il cielo era grigio, dietro i vetri della Widener Library, e l’umidità che veniva dal Charles, dal Mystic, dalla baia o chissadove, s’estendeva più definitiva d’una macchia d’olio in un bicchier d’acqua. Dalla finestra contro cui Increase Mather, John Cotton, Governor Winthrop, John Hooker, Cotton Mather, che credeva nelle streghe, e il fedelis­simo Cartesio (cioè: i loro libri), spalla a spalla, appoggiavano il peso dei propri dubbi, rigidi del pari che i minutemen di Lexington quel giorno famoso (che permise a Emerson di in­ventare una frase e a John Reed di migliorarla), vedevo i soliti camini di Cambridge, e il Main Street di Cambridge, Mass Ave, e Pintrico di fili elettrici che marcava l’inizio di Harvard Square. Sudavo, nel mio cubicolo in biblioteca, per l’umido: e imprecavo contro gli obblighi universitari, ma a pensarci adesso dall’ignobile piazza di Spagna, quegli anni sembrano straordinari. Mitologici, addirittura. Perché erano la libertà. Ognuno, da dovunque venisse, era non chi conosceva o ciò che era stato: piuttosto, quanto poteva dare. Molto spesso il «dare» si riduceva a una specifica curiosità: un fatto abba­stanza piacevole che implicava molta onestà, anzitutto l’ammis­sione della propria ignoranza. Forse era per questo che quegli anni avevo persino l’impressione che servisse qualcosa parlare. Fu pensando al vecchio nella casa dei pazzi, dal quale avevo appena ricevuto una lettera irritata e irritante, ma che pareva una poesia, che cominciai a leggere Pasolini. Avevo allora, bi­sogna dirlo, delle idee abbastanza precise sul come scrivere certe cose: anche sulla politica. Quanto a Gramsci, m’ero già accorto che ciò che si pubblicava in Italia su di lui nasceva da presupposti idealistici, per non dire ottocenteschi, uscissero le glosse al classico dalla penna di irreprensibili membri del Partito che, magari, in Spagna, s’erano imboscati dalla parte di Franco. Sicché, nell’edizione Einaudi, me l’ero riletto tutto con pazienza. Per quanto importante possa essere stato per me, non me n’ero fatto un dio: né un padre o una madre o un fra­tello maggiore cui chiedere la risposta a problemi che non riu­scissi a risolvere da solo. Il dogma, o l’attaccamento sentimen­tale a un’ideologia, m’hanno sempre fatto paura.

Non che a questo non creda anche adesso, incluso ciò che si riferisce al modo di scrivere certe cose: tutte. So però, adesso, che parlarne serve poco. E che scrivere rimane un atto privato, come lo è ogni tipo di scoperta artistica e, per noi occidentali perlomeno (da Vladivostok ad Anchorage, passando per l’Eu­ropa), ogni forma di «cultura»: privato, ovviamente, nel senso che la ricerca è strettamente personale e non implica, né richiede, nessun «riconoscimento»: hegeliano o meno, questo. È un’attività sotterranea, simile allo scavar gallerie due centimetri più giù del livello dell’asfalto o dell’erba. Un bel giorno si avrà scavato tanto, ognuno per conto suo, che i due centimetri di spessore cederanno e molte cose che ancora esi­stono in superficie andranno in fumo. L’arte è il solo nemico naturale dello Stato.

Dunque leggevo Pasolini. Lessi un bel pezzo prima di alzare gli occhi e guardar fuori, le luci nel buio, adesso: e prima di confessarmi il mio stupore e una certa ilarità. Non provavo nient’altro. Pareva assurdo, tutto qui. Qualcuno dal nome at­traente, siglabile all’americana, nascondeva la propria igno­ranza di periferico maestro di scuola in una scrittura pseudoautomatica, da poveracci, mediata attraverso uno squallido sen­timentalismo piccolo borghese. Con qualche bel verso : e molto gesticolare e cattivo gusto e autoamore. Non capivo davvero cosa avessero inteso, o vi avessero visto, i critici. Vi pensai per un po’. Non con la dovuta attenzione. L’avessi fatto, forse mi sarei accorto che la pubblicazione e il successo di quel libro segnavano una data importante nella cultura italiana del dopo­guerra: l’inizio di certa politica culturale, mediata attraverso una compromissione dell’intelligentia con l’industria del libro (e non solo del libro). Che il paese, insomma, entrava in un conformismo di tipo New Deal: con qualche ritardo sugli Stati Uniti.

Mi illudo. Anche se v’avessi pensato per mesi, v’erano cose che non avrei capito, della penisola. Ero assente da troppo tempo. E non potevo sospettare che dopo avere esitato tra America e Russia, e aver subito la dittatura di quell’idealista staliniano che, fino all’entrata in Bucarest dei carri armati khruscioviani, fu Lukàcs – un Croce dei paesi d’oltrecortina – il paese scopriva la tecnologia, e nell’euforia del boom dei fri­goriferi gli uomini di cultura mescolavano tutto, Hegel e Hei­degger, Lukàcs e Merleau-Ponty, Goldmann e Sartre, l’800 ro­mantico e Gramsci, vivendo per citazioni e riducendo il discorso critico al solipsismo d’un pendolare moderatamente bibliofago, in moto perpetuo tra Roma. Milano, Palermo e Forte dei Marmi. Né potevo immaginare, e qui però la colpa era mia. la storia d’Italia la conoscevo, che sotto la patina di po­pulismo, neorealismo, libertarismo e mammistico ingaggio po­litico (tutte tendenze che dovevano presto sfociare nel recupero del gusto liberty, in loro logica morte e trasfigurazione: in attesa d’una prossima riproposta del gusto dannunziano, per il ritorno emblematico delle immagini del poeta-eroe come no­stra realtà quotidiana: magari sulla pubblicità d’un detersivo), la scrittura in Italia fosse rimasta «ufficiale». Avrei dovuto saperlo. Dante che sogna l’incoronazione con fronde d’alloro e Petrarca che l’ottiene, non sono degli esempi isolati d’epoche di barbarie. Hanno come corrispettivi tutti quegli artisti che tra le due guerre accettarono il «regime» per un posto all’Ac­cademia, e questi altri, più recenti, vivi adesso, che alla spada e alla feluca (peraltro abolite) han preferito più remunerate compromissioni. Sicché diventava ridicolo, non aveva neppure la venatura d’un calcolo prestabilito, parlare (come molti in­seriti già facevano, negli anni Cinquanta) di tradimento della Resistenza e simili cose. Era perdita di fiato. Tutto non poteva non essere come era sempre stato. Non si può trasformare una cultura senza far piazza pulita di molte situazioni. Non basta far ritoccare la fotografia dell’avo, sottufficiale piemontese, na­scondendo collo duro, bottoni e medaglie sotto un fazzoletto d’ispirazione garibaldina: fidandosi, per mascherare il falso, che sia soldati regi che truppe irregolari amavano le lunghe barbe.

E allora c’è stata in me una ribellione, in principio incon­scia, di cui mi sto rendendo conto lentamente adesso, per cui anziché fare delle opere che mi illudessero di fare, insomma, un’arte in qualche modo popolare, nel senso gramsciano della parola, faccio delle opere ambigue, quasi per « élite », estremamente difficili c rigorose, in maniera che siano il meno possibile consumabili dalla massa. E resi­stano, il più possibile, alle semplificazioni della massa.

Credo che il nostro sia il solo paese dove anche i discorsi pro­grammatici dell’avanguardia posseggono ormai il tono pedante di tesi di laurea e l’ambiguità filologica delle dichiarazioni di un politico in cerca di voti. Per contrasto, uno tende a pensar con affetto, direi con tenerezza, all’umorismo, alle ingenuità, alla freschezza e alla fondamentale serietà dei primi futuristi. Stiano comunque quieti i turisti stranieri in viaggio di nozze a Posillipo o a Venezia: nella terra del sole, dove tutto si muove solo nell’ombra, nessuno si sognerà mai d’uccidere il chiaro di luna.

Ma ritorniamo a Pasolini: anche se ho l’impressione di non aver parlato che di lui. Dopo Le ceneri lessi gli altri libri, vidi anche i film: in Europa, questi. A poco a poco cominciai a nutrire verso di lui una sincera ammirazione. Per il suo genio del luogo comune, l’impudicizia di elevare presunzione e pro­vincialismo a canoni estetici nazionali, la capacità di sfoderare la più piatta banalità al momento giusto (chi altri avrebbe pen­sato di rispolverare negli anni Sessanta la vieta immagine d’un Cristo populista?), come un figlio unico viziato, che in una prima elementare frequentata solo da bambine voglia imporre la propria virilità alzando il tono di voce. Son qualità abba­stanza tipiche di quell’artista fatto in casa che egli è, in defi­nitiva: pronto a vendere sentimentalismo per indignazione sociale e imprecisione stilistica per intenti rivoluzionari: una specie d’acqua piovana mescolata a polvere Idriz, offerta in bottigliette di gazosa (con la pallina al posto del tappo) agli ignari indigeni. Per far tutto questo, ce ne vuole di immaginazione.

Anche mi divertiva. Con quella scrittura cachettica e per il suo narcisismo entusiasta, da chierico défroqué, sempre esi­tante tra la bestemmia e l’autopunizione e che però richiedeva la medaglia di finecorso ad attestato ufficiale che in ogni caso s’era comportato bene. Pensavo ai miei Puritani, per i quali l’entusiasmo, anche in materia di religione, era condannabile con il confino a vita o l’impiccagione, o al vecchio nella casa dei pazzi, adesso in esilio a casa nostra, e al suo rigore, la sua assoluta dignità d’artista. Pasolini non ha tutto questo, è natu­rale. Ma d’altra parte, siamo in another country, un altro paese: and besides the wench is dead. Marlowe non ci pen­sava ma possiamo farlo noi: interpretare arbitrariamente wencli (ragazza) come sinonimo di «coerenza». La coerenza è morta. E però, nel paese degli artisti «ufficiali», serviva proprio? Mi si dirà che con questo atteggiamento ero forse la persona meno indicata per intervistare Pasolini, ed è possibile. Seppure, quando lo feci, lo feci con molta discrezione, tentando di di­menticare ciò che pensavo di lui. Fu abbastanza facile perché ero in Italia da un mese e mi sentivo un po’ sconvolto dalla realtà della penisola, un po’ depresso. Mi chiedevo se non fossi io ad aver sbagliato tutto, in definitiva, forse chi aveva ragione era proprio Pasolini.

Fu all’EUR, casa sua, un bel giorno ventoso di fine marzo. Nel soggiorno campeggiava un elmo rinascimentale, un ele­mento decorativo mi figuro. Lui stava seduto, rispondendo a do­mande che qualcun altro, un giovane tedesco che parlava ita­liano, incideva su un registratore identico al mio. Era tutto molto comico: l’uno dopo l’altro, il tedesco e io, a confessare una terza persona e portarne via la voce. Come se la testa non ci servisse più. Dopo un poco fu il mio turno. Pasolini stava in profilo, come Antonito el Camborio quando morì. Parlava in tono molto serio, decisamente professorale, mi istruiva. Aveva ragione, ce n’era bisogno: ad ascoltarmi adesso, nel re­gistratore, non sembro tanto brillante. Non lo sono mai stato.

SANAVÌO: Lei ha appena finito un film, Il porcile…

PASOLINI: Pig-pen… pig-pen…

SANAVÌO: D’accordo, pig-pen è «porcile» in inglese. Di che cosa parla?

PASOLINI: È un film che è formato di due storie. Normal­mente, sarebbero due episodi: uno per il primo tempo e un altro per il secondo. Invece questi due episodi sono raccon­tati alternativamente, cioè sono mescolati tra di loro. Una scena dell’uno, poi una scena dell’altro, poi… insomma, si al­ternano.

SANAVÌO: C’è un rapporto tra le due storie?

PASOLINI: Sì, hanno un certo rapporto. C’è un momento che una scena coincide, riguarda tutt’e due. Riscocca la scintilla per cui si uniscono. E c’è un personaggio, un unico personaggio, che è interpretato da uno stesso attore, ed è nell’uno e nel­l’altro episodio. Il primo, diciamo così il primo episodio ma potrebbe essere il secondo, non lo so, uno dei due episodi rac­conta la storia d’un cannibale in un deserto mitico, misterioso, non si sa bene in che epoca, dove sia questo deserto eccetera… Un giovane, che è Pierre Clémenti, vaga in un deserto, mo­rendo di fame. A un certo punto trova un campo di battaglia, di una scaramuccia, dove sono dei morti con delle armi. Si veste di queste armi e gira vagando per il deserto, vestito di queste armi. Vede dei soldati lontani. Uno di questi soldati rimane indietro, lui lo affronta ferocemente come una specie di belva, c’è un lungo duello, e alla fine questo soldato muore. Pierre Clémenti sta morendo di fame e gli viene l’idea di man­giarlo e lo mangia. E prende così l’abitudine di diventare un cannibale. Intorno a lui si forma una specie di piccola tribù di altri sei o sette disperati come lui che insomma hanno que­sta… niente, sono dei cannibali. Le parlo del cannibalismo con questo tono freddo perché non è un cannibalismo realistico, è un cannibalismo simbolico. Rappresenta una specie di pro­ testa violenta, globale come si dice adesso, portata fino all’e­stremo limite dello scandalo, di persone che vivono al di fuori della società. Che si differenziano nettamente dalla società fino all’estremo scandalo. Cioè questo Pierre Clémenti rappresenta il figlio disubbidiente nel modo più assoluto, più totale e più… insomma, più scandaloso. È anche cosciente di questo, tanto è vero che quando viene preso prigioniero e viene condannato a essere divorato da degli animali, per una specie di legge di contrappasso, lui non si pente e ha quasi una forma di or­goglio di questa sua atroce disubbidienza. In conclusione, la so­cietà divora, fa divorare cioè dagli animali, cioè essa stessa divora i figli disubbidienti. L’altra storia invece ha ancora come protagonista un ragazzo. Questo ragazzo è figlio d’un grande industriale della Germania di Bonn. E ha, questo ragazzo, un’anomalia sessuale che è assolutamente al di fuori d’ogni tipicità, infatti è un caso clinico che ho trovato per caso, e credo sia unico nel suo genere, in un libro di psicanalisi. Cioè egli poteva ottenere l’orgasmo avendo dei rapporti con dei maiali.

SANAVÌO: In che libro l’ha trovato? Freud parla d’un caso ana­logo, no, non analogo, molto più semplice : della straordi­naria affezione d’un ragazzino per le galline. Che aveva implicazioni sessuali, beninteso, ma solo implicazioni. Dove…

PASOLINI: …con dei maiali. Anche in questo caso, però, il rap­porto non, è mostrato ed è puramente simbolico. Perché questi maiali rappresentano poi, in conclusione, la società in cui lui vive, cioè suo padre e sua madre. Ora succede questo, che il padre grande industriale è un uomo all’antica, è un paleo­industriale diciamo così. Appartiene al capitalismo classico e quindi ha letto i classici, ha letto Kant, ha letto anche Brecht, ha letto anche Grosz…

SANAVÌO: Ne ha visto i disegni, vuol dire?

PASOLINI: …ecco, Grosz che rappresenta i ricchi come dei grossi maiali. Questo grande industriale di Bonn ha un rivale che invece è neo capitalista e quindi le sue industrie hanno una struttura completamente moderna. Esse rischiano di travolgere questo vecchio capitalista, questa specie di Krupp, così. E al­lora questo vecchio capitalista cerca attraverso un suo detective privato di distruggere il rivale. E infatti sta per distruggerlo venendo a sapere che è un ex criminale nazista che faceva collezione di scheletri per l’Università di Salisburgo. Ma nel momento in cui sta per distruggerlo, questo suo rivale si pre­senta e distrugge lui. Perché anche lui [il rivale] ha fatto la stessa operazione, cioè attraverso un detective: ed è venuto a sapere che il figlio dell’altro ama i maiali. Quindi i due si ricattano a vicenda, stanno per distruggersi a vicenda. Anziché distruggersi, decidono invece di fare la fusione delle due indu­strie. Durante la festa della fusione questo ragazzo va nel por­cile, come al solito, e i maiali Io divorano.

SANAVÌO: È questa la scena comune ai due episodi?

PASOLINI: La scena comune è la scena in cui Pierre Clémenti, il cannibale, viene divorato dalle bestie. Verso la fine. Che rap­presenta. siccome io non mostro questo ragazzo che fa l’amo­re con i maiali, naturalmente, così viene divorato, e allora è quest’altra scena che lo sostituisce. E c’è un ragazzo, che è Davoli, il quale nell’altro episodio assiste, per così dire, agli animali che divorano Pierre Clémenti, e racconta come il mes­saggero delle tragedie greche, racconta insomma come il figlio dell’industriale sia divorato dai porci.

SANAVÌO: Se ho capito bene, all’inizio della nostra conversazione lei definiva i due personaggi centrali del suo film come persone al di fuori della società: e che s’opponevano alla società.

PASOLINI: Ho dimenticato di concludere. Cioè volevo dire che come nel primo episodio si vede come la società divora il figlio disubbidiente, il figlio totalmente disubbidiente, così essa di­vora anche il figlio che non è né disubbidiente né ubbidiente.

SANAVÌO: Quando dice «società» pensa alla società contem­poranea, con tutte le sue complessità, la società in senso lato, oppure alla società come qualsiasi nucleo sociale? alla famiglia, per esempio?

PASOLINI: No. Nella fattispecie mi riferisco alla società capi­talistica, però… cosa che si vede nell’episodio degli industriali tedeschi. Però, l’altro episodio rappresenta una società al di fuori del tempo, cioè la società tout-court. Praticamente, si vuol dire che fino ad oggi la società in quanto tale, in quanto istituzionalizzazione, è sempre repressiva.

SANAVÌO: Sicché questo cannibalismo di cui parla lei lo giustifica.

PASOLINI: Sì, io sono dalla parte delle vittime. Io come autore, anche se naturalmente, oggettivamente senza faziosità, sono dalla parte del figlio disubbidiente, che guardo con simpatia, e dalla parte del figlio né ubbidiente né disubbidiente che guar­do con anche maggior simpatia.

SANAVÌO: Torniamo al primo episodio. Clementi, da quanto m’ha detto, rappresenta una persona che è spinta al can­nibalismo dal bisogno, dalla fame. Vuol dire che lei con­sidera questo cannibalismo come il risultato d’una neces­sità di sopravvivenza?

PASOLINI: S-sì, ma questa necessità di sopravvivenza è prete­stuale, in realtà. È l’avvio di questa specie di parabola. Quello che conta poi è l’atto. È la coscienza perversa dell’atroce si­gnificato di rivolta che questo atto ha.

SANAVÌO: Non capisco molto bene. Dovrò vedere il film, im­magino. Ma forse potrò capire comunque, anche adesso, se mi offre un punto di riferimento. Prendiamo così Ra­gazzi di vita. Questo film, rappresenta un’evoluzione ideo­logica, per rapporto al libro? oppure no? Anche in Ra­gazzi di vita c’è una rivolta contro le strutture della società.

PASOLINI: II problema è abbastanza simile in tutt’e due le opere. Sennonché in Ragazzi di vita la rivolta era diciamo così incosciente, puramente dovuta a questo istinto di conservazione che diceva lei prima. Cioè al livello del sottoproletariato.

SANAVÌO: Che si trattasse di sottoproletariato mi pare un fatto episodico. Forse nel film la struttura della rivolta s’è fatta più precisa, non lo so: ma da quanto racconta mi sembra che il discorso non sia diverso da quello fatto nel libro.

PASOLINI: Be’, sì, rimane sempre la stessa in quanto uno scrit­tore ha dei miti che continuano tutta una vita, è chiaro. Ma allora, forse, la differenza è questa, che il romanzo finisce in fondo con il ritorno, con il rientro in un qualunquistico ordine da parte del prota­gonista. Mentre l’altro finisce proprio… Pausa. Guarda versa le finestre. Val la pena dì chiedergli in che misura il film non è qualunquista?

SANAVÌO: Mi può parlare dei suoi pros­simi film?

PASOLINI: Prima farò una Medea. Poi un film su San Paolo, dove New York pren­derà il posto di Roma e Parigi di Geru­salemme. Presenterò un San Paolo… Io sono abbastanza obiettivo, cioè non ag­giungo nulla, tutto quello che lui dice lo prendo dalle sue lettere c dagli Atti degli Apostoli, non vi aggiungo niente, non gli metto in bocca nessuna parola mia. Come ho fatto con il Vangelo c ho preso il testo di San Matteo e a Cristo ho fatto dire esattamente ciò che dice in San Matteo e non ho aggiunto. Così farò con San Paolo come figura. Lui era lacerato ma non aveva coscienza di questa lace­razione. Lui era diviso profondamente, secondo me, e insanabilmente, ma non aveva coscienza di esserlo. È questo che voglio mostrare. In epoca moderna. Così… Parigi e New York.

SANAVÌO: Perché ha questi interessi verso la religione?

PASOLINI: Secondo me la religione è un rapporto di tipo religioso con la realtà, cioè considerare la realtà non naturale.

SANAVÌO: Un rapporto magico?

PASOLINI: Non magico, sacrale direi. E quindi naturalmente assorbe anche quanto di magico v’è stato nella nostra preistoria. Insemina, gli strati profondi della nostra psicologia.

SANAVÌO: La religione cattolica cos’è, per lei?

PASOLINI: Quando lei aggiunge alla pa­rola religione un aggettivo lei istituziona­lizza, la religione diventa chiesa, diventa istituzione, diventa codificazione, e come tale è in contraddizione con se stessa. Qualche volta questa contraddizione può farsi dialettica e può essere feconda e fer­tile. Per esempio, per dirne una, quasi tutti i santi sono nati da questa contraddi­zione. Per esempio San Francesco è diven­tato santo proprio per questa contraddizio­ne tra chiesa e santità. In altri casi, invece, nei periodi di decadenza, il fatto d’essere una istituzione diventa puramente negativo. Per esempio la chiesa franchista, oppure la chiesa della Controriforma.

SANAVÌO: Ma perché questo interesse nella cultura cattolica?

PASOLINI: Perché io sono nato in una nazione cattolica e quindi il mondo reli­gioso, il mondo sociale che mi si è pre­sentato davanti, storicamente, è un mondo cattolico.

SANAVÌO: Che lei accetta senza discutere, passivamente. O di cui si serve come… convenzione culturale?

PASOLINI: Non dirci convenzione cultu­rale. è un puro fatto di realtà. Io sono nato qui, il mio mondo è questo, e uno scrittore non può parlare che del suo mondo.

SANAVÌO: D’accordo, ma dipende da come ne parla. Comunque ciò che lei dice mi conferma, allora, che se non si tratta d’una accettazione passiva di una realtà specifica, questo suo in­teresse nel cattolicesimo risponde al­l’uso meccanico d’una convenzione culturale. Questa o qualsiasi altra. Senza nessun apporto ideologico personale.

PASOLINI: Lei dice convenzione dove io dico istituzione. Io sono circondato dalle istituzioni. C’è una istituzione statale, c’è la falsa istituzione della democrazia ita­liana parlamentare, c’è l’istituzione dei partiti… Tutto è istituzionalizzato.

SANAVÌO: Certo, e neppure per il meglio. Lei però non ha risposto alla do­manda.

PASOLINI: Nel caso della Chiesa è lo stes­so. La Chiesa è una istituzione e dentro questa istituzione c’è naturalmente una serie di cristallizzazioni che sono conven­zionali. La liturgia è tutta una convenzione.

SANAVÌO: Continua a non rispondere. Con ciò che dice, intende sostenere, come sosteneva Croce, che nell’ambito della cultura italiana tutto è «cristiano» data la presenza della Chiesa?

PASOLINI: Sì. Io sono storicamente ita­liano. Come tale sono vissuto in un am­biente culturalmente provinciale, con ten­denze fasciste e con la Chiesa cattolica, e quindi la mia esperienza è questa, ceco.

SANAVÌO: Mi parli della sua religiosità.

PASOLINI: La mia religiosità, come ap­pare in Accattone ed Edipo, è un rap­porto sacrale con gli oggetti e con gli esseri viventi della realtà. Cioè, non rie­sco a vedere nella natura naturalezza. E quindi tutto mi appare sotto una forma non dico miracolosa nel senso convenzio­nale ma quasi, insomma, sacrale.

SANAVÌO: Per rapporto ad Accattone lei ha subito una evoluzione ideologica? Uso la parola in un senso molto lato, che possa includere anche questa sua «religiosità».

PASOLINI: Per farmi capire devo ricorrere a Gramsci. Gramsci parlava in letteratura come d’un ideale di opere che lui chia­mava nazional-popolari, idealmente dedi­cate a un popolo ideale, in un ambito puramente classista, come se il popolo si staccasse culturalmente dalla borghesia, avesse una sua cultura, una sua menta­lità, eccetera. Ora io, le mie opere, da Accattone a Mamma Roma al Vangelo, le ho composte con questa idea gram­sciana in testa, volendo fare delle grandi opere nazionali e popolari, non dico sem­plificate e volgarizzate, ma in un certo senso mitiche, epiche: e che avessero questo andamento mitico ed epico e fos­sero capaci di entrare in consonanza, di­ciamo in sincronìa, con grandi pubblici popolari. Naturalmente, i tempi sono cam­biati e questo famoso popolo che Gramsci aveva in mente e che io. anch’io, avevo conosciuto… insomma, è andato lentamente cambiando e ora non si può più fare in Italia, neppure in Italia, dal momento che anche l’Italia è diventata una nazione neocapitalistica, questa netta distinzione tra popolo e borghesia. Ma anche l’Italia ha una cultura di massa che non è più né borghese né popolare, è qualcosa di diverso, è una cosa completamente nuova, che Gramsci probabilmente non poteva nemmeno im­maginare. E allora, quando io faccio delle opere semplificate, epiche, cosi, o perlomeno semplici, allora non ho più l’illusione che queste opere vengano lette o capite da un popolo nel senso gramsciano della parola, ma purtroppo, oggettivamente, so che verranno mistificate, alterate, alienate da una massa e dai mezzi di comunicazione di massa. E allora c’è stata in me una ribellione, in principio inconscia, di cui mi sto rendendo conto lentamente adesso, per cui anziché fare delle opere che mi illu­dessero di fare insomma un’arte in qualche modo popolare, nel senso gramsciano della parola, si capisce, faccio delle opere ambigue, quasi per élite, estremamente difficili e rigorose, in maniera che siano il meno possibile consumabili dalla massa. E resistano il più possibile alle semplificazioni della massa.

SANAVÌO: È un discorso molto complesso, il suo, e credo non molto preciso. Non discuto la sua evoluzione ideologica, ma i termini nei quali s’è svolta. Né voglio discutere a fondo le idee di Gramsci circa questa letteratura nazional­popolare, seppure mi sembri giusto dichiarare che in que­sto caso Gramsci faceva un discorso altamente reaziona­rio, borghese: ripetendo mitologie ottocentesche che a me, perlomeno, ricordano il Gioberti. Quando parlava d’un pubblico nazional-popolare. Gramsci si sbagliava. Non ri­cordo, adesso, ciò che pensasse dell’opera, ma credo gli piacesse : come piaceva a Vittorini : che insomma la di­fendesse, come la difendevano molti uomini di sinistra ita­liani, in quanto sarebbe stata nell’Ottocento un’espressione di gusto e ispirazione popolari. Ora, la voga dell’opera nell’Ottocento, anche presso le classi popolari, non è certo una prova della sua validità, ma della coincidenza in un contesto storico specifico dei gusti del « popolo » con quelli della borghesia. Ma più che criticare Gramsci, a pro­posito di questo pubblico nazional-popolare, vorrei criti­care lei: e con lei tutto un segmento della cultura italiana, che con idee di questo genere tagliò la gola alle possibilità espressive di tutta una generazione. Instaurando un vero e proprio terrorismo culturale. Prima di pensare di scri­vere per il popolo, chiunque sia questo popolo, e ammet­tendo inoltre che ciò sia fattibile, io sinceramente non lo so. bisognerebbe chiedersi se il popolo sa «leggere»: e in che modo. Ho l’impressione che i gusti del « popolo » siano sempre, per rapporto all’arte, quelli della classe che gli è immediatamente superiore. In questo contesto, credo di poter affermare che la tragedia della rivoluzione russa non fu tanto la dittatura di Stalin quanto il fatto che i com­missari del popolo avevano l’identico cattivo gusto dei funzionari zaristi: lo stesso tipo di ignoranza culturale. Prima di parlare di letteratura nazional-popolare, bisognerebbe preoccuparsi di insegnare al popolo a leggere : e fargli ca­pire perché un quadro di De Chirico è più bello d’una cro­sta di Cremona. Ma di ciò non può preoccuparsi l’artista: ciò è competenza del Ministero dell’Educazione Nazionale e della stampa, dei mezzi di diffusione. Se per educare il popolo a capire De Chirico occorre far la rivoluzione, ben venga: facciamola subito. Magari è proprio necessaria, che il gusto del « popolo » non dipende da dati innati, ma è il risultato di specifiche strutture sociali, del contesto sociale in cui vive. Anche l’artista può fare la rivoluzione, naturalmente: ma quella vera, allora, con fucile e bombe a mano, da uomo rivoluzionario, non quella da buffone, che scrive per il popolo. L’altra rivoluzione che può fare l’artista è al livello del suo lavoro d’artista: e cioè, espri­mendosi artisticamente, senza preoccuparsi dei gusti del popolo o della borghesia o della nobiltà. In Italia, dal do­poguerra. non v’è stato nulla di meno « popolare » di quel movimento regressivo, «popolare» nelle intenzioni, che fu il neorealismo. In realtà, fu un movimento culturale borghese: con il quale la borghesia, quella reazionaria e anche l’altra, quella «progressista», tentò di salvarsi l’anima e conquistare il potere. Riuscendovi. Ma il neo­realismo, movimento «popolare», fu distrutto in quarantott’ore da un solo libro, altamente «anti-popolare». scritto da un nobile, addirittura: Il Gattopardo. Che si ri­velò molto più « popolare », in effetti, delle tonnellate di carta stampata, prodotta dai nazional-popolari. Mi do­mando a questo punto, e vorrei tirar le somme di quanto ho detto più su, se tutto questo non sia il risultato non solo del provincialismo ma anche dell’ignoranza della borghe­sia italiana, alla quale lei culturalmente appartiene: questa borghesia che non riuscì mai a proiettare un’immagine coerente di se stessa e che ha sempre preferito l’intrallazzo di tipo rurale a una chiara e cosciente presa di potere. Questa borghesia che non ha nessun modello di sé e non ha mai avuto il coraggio di espletare le proprie funzioni, anche quando queste funzioni erano storicamente neces­sarie. Lei ha parlato inoltre di comunicazioni di massa come d’un fattore nuovo, nella cultura occidentale: e dei cambiamenti che ciò avrebbe portato. A me pare che le complicazioni di massa, come fattore condizionante, siano sempre esistite: i veicoli erano diversi, la penetrazione era meno intensa, probabilmente, ma cent’anni fa anche questa penetrazione meno intensa bastava allo scopo. Era necessario condizionare direttamente tutta la popolazione in una società dove solo una parte aveva diritto al voto o comunque aveva la capacità d’esprimersi? E l’ignoranza, poi, non le pare condizionante? Torniamo indietro, al Me­dio Evo: anche allora v’era questa cultura di massa, pro­pagata dai mezzi di comunicazione di quell’epoca, che molto spesso erano controllati dalla Chiesa. Non penso solo ai vetri istoriati, la Bibbia dei poveri in quanto rac­contavano le storie dei santi e spiegavano una certa ideo­logia a coloro che non sapevano leggere; o alle sacre rap­presentazioni. Penso anche alla trasmissione massiccia di una cultura specifica, che vi avveniva. Un individuo poteva essere signore, o servo, e però ambedue erano con­dizionati dalla loro comune cultura. Anche in esilio, e per colpa del Papa, Dante restava nella più schietta ortodossia: e mi pare abbastanza significativo. Sicché, come avvenne nel dopoguerra, ho l’impressione che anche adesso la gente di cultura nazionale faccia discorsi che non corrispondono alla realtà, o per essere incapace, o per non aver voglia di analizzare le cose con un po’ di chiarezza.

PASOLINI: Questo che dice lei… rientriamo nel concetto di istituzionalità, cioè tutto era istituito, e dentro questa istituzione ricco e povero erano convenzionali, al limite. E ne uscivano attraverso le eresie, le invenzioni, l’arte… come dire… dialet­ticamente. Invece la cultura di massa è un fenomeno comple­tamente nuovo, tipico della civiltà moderna in cui i mezzi di comunicazione sono dei prodotti.

SANAVÌO: Le forme di fuga che lei cita sono quelle che sono pos­sibili anche adesso. Non lo dico per implicare che le cose vanno nel miglior modo possibile e tutto deve continuare a essere come è sempre stato. Piuttosto, perché il proble­ma mi pare risieda altrove. Quanto ai mezzi di comuni­cazione come prodotti… credo lo siano sempre stati. Lei noti crede che la stampa, fin dalla sua invenzione, non fosse il prodotto di interessi economici, politici, ideologici ben definiti? e che così non fosse, non sia sempre stato, per tutti i mezzi di comunicazione, inclusa la parola? Lei sta creando dei falsi problemi. E parla da inserito in un sistema, che vuol servirsene e contemporaneamente sal­varsi l’anima.

PASOLINI: Io voglio dire che finché il libro era un libro, era un fatto personale, e finché il teatro era teatro, era fatto in carne e ossa, irriproducibile, i mezzi di comunicazione rima­nevano sempre in qualche modo umani. Al momento in cui intervengono il cinema e la televisione, tanto per dirne una, oppure la stampa, arrivata al livello in cui è arrivata adesso, il mezzo di comunicazione si disumanizza.

SANAVÌO: E allora? Questa disumanizzazione appartiene alla no­stra umanità d’oggi. Come la disumanizzazione ottocen­tesca, basata sullo sfruttamento diretto, schiavistico del­l’uomo, apparteneva all’umanità dell’uomo ottocentesco. Ripeto, il problema è diverso, sta altrove. Sta nell’uso dei mezzi di comunicazione, sta nei rapporti sociali: nella struttura dei rapporti sociali. D’altra parte, anche nel Me­dio Evo mi pare che il mezzo di comunicazione fosse disu­manizzato. Da un lato c’era il formalismo della messa e dall’altro v’erano delle pratiche…

PASOLINI: Be’, va be’, se lei pone sul livello… In che senso?

SANAVÌO: …delle pratiche che insegnavano la storia della chiesa, una ortodossia ben definita, una ideologia precisa, spe­cifica. Quindi in che senso è nuovo, per lei?

PASOLINI: È nuovo nel senso che mentre nel Medio Evo c’era sempre molto spazio, entro questa convenzionalità di fondo – d’altra parte qualsiasi società ha questo fondo di istituzioni e di convenzionalità, questo purtroppo è vero… – il Medio Evo la­sciava però un grande spazio a libertà individuali, a equivoci. Oggi invece questo spazio si riduce sempre di più.

SANAVÌO: Lo spazio non credo si sia ridotto. Non le pare che anche nella società capitalistica vi sia un certo spazio? Per sopravvivere essa ha bisogno di espellere una certa quan­tità di prodotti di scarto. E come una grossa fabbrica di automobili, che riutilizza i frammenti di ferro fino al pos­sibile, li rifonde… Arriva il momento in cui la nuova fu­sione dei pezzi di scarto non è più economicamente utile, costerebbe troppo, sicché devono essere buttati. La distru­zione dei prodotti di scarto è necessaria alla nostra civiltà capitalista, è un fenomeno… sono degli elementi… defe­catoci, per dire. Come un fatto defecatorio è la creazione d’un prodotto per la sua distruzione. Ha mai letto ciò che sta scritto sul vetro delle bottigliette di birra che vendono negli S.U.? « Vietato per legge servirsene una seconda volta». L’economia capitalista vive su questi dati defe­catoti. Ed è questa la libertà che noi possiamo usare: è in queste zone che si può operare. Pulendosi dopo, be­ninteso. È negli interstizi che questo apparente mono­lito della società capitalistica possiede, per restare in piedi, una specie di valvola d’equilibrio, che si può, ci si deve inserire: per portare qualcosa di nuovo. Che probabil­mente farà cadere il monolito in frantumi. Tutto il resto è aria.

PASOLINI: Ma infatti, quando prima le dicevo che anziché ope­rare nell’illusione gramsciana cerco adesso di fare dei film dif­ficili, ambigui, inconsumabili, le dicevo proprio questo. Quan­do ho cominciato a fare del teatro, l’ho cominciato un po’ con questa illusione. Ma però dobbiamo oggettivamente dire che queste operazioni individuali o anche di gruppi sono sempre più irrisorie e irrilevanti, e finiranno con l’essere schiacciate.

SANAVÌO: Ho l’impressione che lei voglia dire altre cose. E che confonda il ruolo dell’artista, che è forzosamente sotterraneo, per definizione, con quello dell’impiegato in una agenzia di pubblicità. Che lei contamini la funzione dell’ar­tista, con il mito capitalistico del successo. Comunque: vuol dire, con la sua ultima affermazione, che l’arte finirà per sparire?

PASOLINI: Ma… queste cose qui non le dico mai.

SANAVÌO: Ma l’ha detto, l’ha implicato.

PASOLINI: Sì, oggettivamente dovrebbe essere così. In una cul­tura di massa, quando non vi sarà più frattura tra Terzo Mondo e mondo neocapitalistico, quando ì paesi del Terzo Mondo saranno industrializzati e tutto il mondo sarà neocapitalistico, e quindi la cultura sarà tutta una cultura di massa, oggettiva­mente, in una ingenua previsione del futuro, si dovrebbe dire allora che l’arte non potrà oggettivamente sussistere. Ma sa, queste qui son sempre definizioni schematiche e fasulle.

SANAVÌO: E cosa può salvare l’arte?

PASOLINI: L’arte può essere salvata da nuovi tipi di eresie. Per esempio, tanto per dirne una, nel mondo neocapitalistico più avanzato che ci sia, cioè l’America, si sono avuti ultimamente dei fenomeni grandiosi di eresia, cioè tutto il fenomeno dei beats. degli hippies, eccetera, questi scioperi contro il consu­mismo che sono di carattere spiritualistico, politicizzati solo fino a un certo punto. Può darsi che nel futuro questi gruppi di umanità che franano fuori della tensione produzione-consu­mo siano fenomeni sempre più imponenti e impongano all’u­manità una forma di autoriflessione su se stessa.

SANAVÌO: Quindi sarebbero dei fenomeni non strutturati, irra­zionali, spiritualistici che…

PASOLINI: …irrazionali di tipo in qualche modo religioso, di fondo, e d’un altro tipo. Da noi finora la religione è stata una religione contadina, preindustriale, no? La religione è un feno­meno da noi preindustriale e contadino e quindi ha certi ele­menti irrazionali che si collegano alle epoche magiche, eccetera. Adesso probabilmente i tipi religiosi avranno altra consistenza. Già sono prefigurati da quanto le dicevo prima. Il Village, a New York, quando ci sono stato quattro anni fa, era un po’ un fenomeno di questo genere. Cera l’idea di fare delle co­munità di pura contestazione.

SANAVÌO: Non le pare che siano fenomeni che appartengono ancora al XIX secolo, e che siano quindi inadeguati a lot­tare veramente contro la società contemporanea? Lei parla del Village. lo penso a tutti i fenomeni di falansteri, Brook Farm nel New England, i trascendentalisti, le co­munità paracomunistiche dei gesuiti, i raggruppamenti mormonici, i quaccheri, tutte quelle società utopistiche della fine del XIX e dei primi del XX secolo, in tutto il mondo. Ma particolarmente in America. Alla comunità creata in Patagonia da Blasco Ibanez— Che n’è restato? Furono tutti fenomeni di contestazione a un capitalismo ancora rozzo, primitivo: e già allora hanno fallito.

PASOLINI: Sì. sì, indubbiamente in America questi fermenti sono più forti perché c’è una tradizione.

SANAVÌO: Ma non le pare, appunto, che dato il fallimento nel passato di fenomeni di questo tipo, dovuto anzitutto ai loro clementi irrazionali e vagamente spiritualistici, sia un po’ irreale sperare che da questi gruppi possa venire un rinnovamento? Sperare in questo tipo di rivolta irrazio­nale, e concedergli un’importanza rivoluzionaria, è un po’ ciò che faceva quel protofascista di D. H. Lawrence, quando protestava contro la società vittoriana perché ro­vinava il paesaggio con le sue miniere, e cercava poi una soluzione al problema invocando una palingenesi del sesso. Cercando di convincersi, e convincerci, che le strutture sociali potevano essere superate grazie a miste­riose affinità elettive, le quali si riducevano al sesso: a una funzione. È questo, in definitiva, il discorso che fa in Lady Chatterley. E lei crede che da movimenti irrazionali, vagamente spiritualistici come i beats, che ripetono Law­rence magari senza saperlo, o gli hippies…

PASOLINI: Be’, questa è una delle più ottimistiche previsioni. Sarebbe più drammatico se queste esclusioni diventassero addi­rittura delle esclusioni vere e proprie, dei lager. Se prevalesse, diciamo così, l’estrema destra, che sarà per forza una forma di nazismo ancora più atroce in quanto ancora più… mate­matico, direi così.

SANAVÌO: Questa è propaganda. Non credo che i lager per que­sti gruppi vi saranno mai. Appena sorgono, infatti, questi gruppi sono strumentalizzati dal sistema di produzione. Costa meno. Ed essi servono il sistema, senza saperlo: o sapendolo, non ha nessuna importanza. Quanto al fa­scismo, mi pare che il mondo sia già in pieno fascismo. Corre verso un fascismo più istituzionalizzato e sperso­nalizzato di quello tradizionale. Si sta avverando una cen­tralizzazione del potere e una sempre più maggiore sper­sonalizzazione. Ma è nella logica delle cose: è il risultato più esatto delle premesse della nostra società. Come di­cevo prima, il problema è diverso, sta altrove: uso dei mezzi di comunicazione, accessibilità del potere in altri termini e suo uso, e struttura dei rapporti sociali. Finché questo non cambia, o non lo si fa cambiare…

PASOLINI: Sì, purtroppo, oggettivamente, in questo momento le cose stanno così, c’è il fascismo dappertutto. Ci sono delle forme che io chiamo di fascismo di sinistra nella contestazione stessa, secondo me.

SANAVÌO: Cos’è questo fascismo di sinistra?

PASOLINI: Ma, il fascismo di sinistra è, perlomeno in Italia, il vecchio provincialismo, il vecchio moralismo, il vecchio amore per le istituzioni, la vecchia abitudine di parlare attra­verso il codice, e la vecchia demagogia.

SANAVÌO: Questo è il fascismo tradizionale, rurale…

PASOLINI: Questo si riproduce nei movimenti di sinistra. C’è cioè un movimento ricattatorio e demagogico, moralistico, nei contestatori, che è oggettivamente simile a quello fascista. Vo­glio dire che il contenuto della demagogia è la demagogia. E il contenuto del moralismo è il moralismo. E quindi una dema­gogia equivale un’altra demagogia, e un moralismo vale un altro moralismo. E loro, i contestatori, hanno queste forme estremistiche che sono oggettivamente simili a quelle fasciste.

SANAVÌO: Lei escluderebbe le cosiddette differenze qualitative?

PASOLINI: Sì perché… Mi ricordo che quand’ero ragazzo io, fino a dieci anni fa, si diceva che anche quello russo era una forma di fascismo. Invece questo era un paragone forzato, sbagliato, storicamente sbagliato. Cioè c’erano delle analogie puramente formali, diciamo così. Nel senso che la dittatura del proletariato, in quanto dittatura, aveva dei punti di analogia, di repressione, con la dittatura fascista. Ma erano somi­glianze puramente esteriori. Invece quel tipo di analogia che propongo io è più interiore, più profonda.

SANAVÌO: Non lo vedo. Non ne sono convinto. Non sono con­vinto della logicità di ciò che dice, voglio dire. Parliamo d’altro. Che cosa ha determinato il suo passaggio dalla scrittura al cinema?

PASOLINI: Ho continuato sempre a scrivere, in realtà. Meno narrativa, ho scritto molto teatro… in versi… ho continuato sempre a scrivere. Ho pubblicato meno e l’ho fatto con meno… Mah, io pensavo che fosse il desiderio di cambiare tecnica. Come lei sa, chiunque è ossessionato da una specie di unicità di essere, irrimediabile, tende a reagire a questa sua unicità ossessiva cercando tecniche diverse, varianti di se stesso. Ora io ho sempre cercato delle tecniche diverse, anche in lettera­tura. C’è il dialetto friulano, il romanzo con inserti di dialetto romanesco, il saggio, la poesia civile, insomma ho sempre cam­biato tecnica. Non sono monolinguista, sono plurilinguista, pluritecnico, anzi, come scrittore. E persino pensavo che anche il cinema fosse una tecnica diversa. Poi mi sono accorto che in realtà il cinema non è una tecnica diversa, è un’altra lingua. A questo sono stato convinto soprattutto dalla lettura d’un libro di semeiotica del professor Morris, e della semiologia in genere fino… E ora, pensando che fosse una lingua diversa, ho pen­sato che fosse una specie di protesta contro la mia nazionalità italiana. Facendo del cinema ho in qualche modo cambiato nazionalità, ho adoperato la lingua di un’altra nazione, o per­lomeno d’una super nazione che non fosse l’Italia.

SANAVÌO: Ciò contraddice quanto diceva prima a proposito della religione e d’una certa inevitabilità d’essere cristiani, se si è italiani. Mi pare. Il che mi porta a un’intervista che lei concesse lo scorso anno a Cancogni. Diceva, lei, che un piccolo paese non può dare un grande artista.

PASOLINI: Non l’ho letta, l’intervista. Citavo una frase di Goldmann, che è un sociologo francese che segue Lukàcs, il quale diceva che uno scrittore è omologo alla sua società. E quindi ciò che la società è, si riproduce nello scrittore. Se la società è complessa, larga, aperta, questo scrittore la rappresenta nella sua stessa misura, attraverso la stessa gerarchia di valori. Se una società è invece piccola, provinciale, ristretta eccetera, uno scrittore non può che esserne… Ecco, dicevo questo. E di­cevo che l’essere italiano in un certo modo condiziona, nel senso che trattandosi d’una società ristretta, meschina, conven­zionale, retrograda, eccetera, uno scrittore non può non ri­sentirne. Con le stesse qualità e lo stesso talento, uno scrittore nato in Italia raggiunge risultati meno alti d’uno scrittore nato negli Stati Uniti o in Inghilterra o in Russia. Nato cioè in na­zioni avanzate, più aperte, più culturalmente al centro della storia. L’Italia è piuttosto marginale.

SANAVÌO: D’accordo, è marginale: e ha i difetti che lei dice. Credo però che ancora una volta lei, come Goldmann d’altra parte, confonda risultato artistico con risultato mon­dano, realizzazione artistica con successo. Resta comun­que un fatto innegabile’, tutte le grandi letterature sono nate dal provincialismo. La letteratura americana ha tro­vato la propria forza nella cultura provinciale, basta pen­sare a Sherwood Anderson o a Mark Twain: o ai Puritani del New England, Hooker e Bradford e Winthrop, che scriveva una bellissima prosa, e Ann Bradstreet, Taylor… Per non fare che qualche nome. Non si può dire che il New England del XVII e XVIII secolo fosse meno perife­rico dell’Italia oggi. O pensiamo alla Russia dell’epoca di Gogol.

PASOLINI: Be’, sa… C’è la provincia d’una nazione piccola e la provincia d’una nazione grande. D’una nazione grossa, con grande respiro, al centro della storia. Quando scriveva Gogol stava già cominciando la rivoluzione russa, tanto per dirne una. Mentre in Italia stava nascendo il fascismo.

SANAVÌO: Ma anche per l’Italia, nazione periferica, v’è sempre la possibilità d’un’altra visione… Italia come provincia eu­ropea. Un grande artista può nascere ed esistere e produrre anche se nessuno se ne accorge quando è vivo, anche se lo scoprono duecento anni dopo la morte, come di sé diceva Stendhal. E, a rigore, nessuna regione è periferica in que­sto senso, perché tutti si possono informare : possono leg­gere. Se si interessano a certe cose.

PASOLINI: Ecco, infatti. Voglio dire che la frase di Goldmann è drastica: e io non sono d’accordo. Ecco, io la citavo come una cosa abbastanza vera ma non sono d’accordo in questo senso, ché secondo me uno scrittore rappresenta sì una società, la società particolare in cui vive, ma… secondo me la cosa è svalutata, la parola « umanità » ha un significato in questo momento quasi spregevole mentre in realtà bisogna ricostituir­ne il significato positivo… C’è una storia dell’umanità svolta come una storia delle varie nazioni… uno scrittore non può non essere anche nel flusso della storia dell’umanità.

SANAVÌO: Sicché lei crede che esista questa storia europea, dato che esiste una storia dell’umanità, una cultura dell’uma­nità… dell’uomo…

PASOLINI: Esiste, è chiaro, una cultura europea, ma vede, se un italiano si fa una cultura europea non può che portar dietro di sé una realtà storica che è quella della sua provincia, e quindi può uscire in qualche modo, ma sempre con una specie di za­vorra. Voglio dire che uno scrittore può essere grande egual­mente anche se nasce in una piccola nazione, per quanto la cosa sia molto più difficile, capisce. È difficile, dirci è casuale, come per un figlio del popolo come Rizzoli, un martinitt, di­ventare un grande industriale. Mentre uno nato da un indu­striale, uno nato da una famiglia di grandi industriali, può facil­mente diventare un grande industriale, un martinitt ce n’è uno su un miliardo che lo diventa. Uno scrittore anche d’una nazione piccola come l’Albania può diventare un grande scrittore. È un caso questo che non è completamente casuale. Se c’è, vuol dire che rappresenta qualcosa, voglio dire. Rappresenta… Rizzoli rappresenta il momento di verità del liberalismo. Un grande scrittore albanese rappresenta il momento di realtà della storia dell’umanità. Cioè è albanese, sì, contingentemente: ma nello stesso tempo appartiene alla storia dell’umanità. Oltre che alla storia dell’Albania.

Per tacitare le loro coscienze, di cui nessuno sa niente, i fascisti di sinistra impongono un rigore che e quasi una san­tità. I deboli hanno ceduto al ricatto e ora è in atto una specie di psicosi per la quale bisogna fare della politica a tutti i costi. Non ci si accorge che così questi fascisti di sinistra propongono una specie di neo-stalinismo, richie­dono una nuova specie di realismo socialista. È chiaro invece che un’opera d’arte dev’essere meditata, pensata, strutturata.

SANAVÌO: C’è molto, in ciò che dice, con cui sono d’accordo; ma non sono d’accordo sul fondo, né lo sono sui nessi. Così prima di passare oltre, mi pare che una precisazione sia necessaria. Mi pare che bisognerebbe distinguere la car­riera dell’artista, la sua realizzazione « come artista », dal­la diffusione della cultura. L’artista può creare un rap­porto tra sé e la cultura mondiale, se vuole: sarà faticoso, in un paese provinciale, ma resta possibile. È la diffusione della cultura, invece, che presenta il vero problema. In un paese provinciale, come l’Italia, la diffusione della cul­tura è problematica, cade fuori contesto. Basterà un esem­pio, che cito perché abbastanza significativo. Nove anni fa, riuscii a ottenere dalla vedova dello scrittore Malcolm Lowry una diecina di poesie inedite del marito, che pro­posi a una rivista culturale italiana. Allora si conosceva Lowry, in Italia e nel mondo, solo come autore di roman­zi, soprattutto di Sotto il vulcano. Le poesie erano così una cosa abbastanza nuova. La rivista le rifiutò. Non per­ché non fossero belle. Perché non le parevano significative. E non si trattava d’una rivista da due soldi, ma d’una ri­vista importante. Qualche anno dopo, quando le poesie uscirono negli Stati Uniti, la rivista si affrettò a parlarne in maniera molto entusiasta. Vede? È questo ciò che in­tendo. Questo che è tipico d’una cultura provinciale. La mancanza d’iniziativa per ciò che è nuovo, e il colonialismo culturale. Non sono il primo a dirlo. Lo diceva anche Pound, parlando di casa sua, una trentina d’anni fa. Lui poteva dirlo, però: voglio dire, i veicoli per dire ciò che voleva gli erano accessibili malgrado tutto. Il che non è vero da noi. Ma tutto questo non mi pare tocchi l’evolu­zione dell’artista. Adesso vorrei porle un’altra domanda. Da Le ceneri di Gramsci ai suoi film ciò che continua a di­sturbarmi nelle sue opere, oltre a incoerenze ideologiche, sono fattori stilistici: la mancanza d’una qualsiasi strut­tura. Potrebbe dire qualcosa in proposito?

PASOLINI: Vede, i fatti stilistici sono la concezione di fatti al­tamente interiori. Allora questa ambiguità, nelle Ceneri, c’era umanamente, cioè politicamente. Cioè questa ambiguità è il contenuto stesso del mio libro. Dico, «Con te nel cuore ma col mondo irrazionale contro cui tu hai combattuto nelle buie viscere». Ecco. Cioè, voglio dire che il tema centrale del libro era proprio una ambiguità soggettiva, oggettivata come contenuto del libro. E ora questa ambiguità non poteva che riprodurre una ambiguità stilistica. Cioè, le «buie viscere», l’irraziona­lismo in cui mi ero formato, cioè la letteratura decadente, da Rimbaud fino a Proust e ai surrealisti eccetera, veniva contrad­detta da un bisogno di razionalità, di discorso politico e ideo­logico a livello razionale. Però sussisteva, e quindi ha prodotto quello stile. Il fondo era ambiguo e decadente, l’intenzione era razionalistica e oggettiva: al di là questa ambiguità stilistica.

SANAVÌO: Per lei la razionalizzazione si fa al livello della scrit­tura, dell’espressione, oppure precedentemente, al livello dell’ideologia?

PASOLINI: Si fa anzitutto a livello politico… politico e ideolo­gico. Da qui passa agli altri livelli. Nel mio caso personale, la razionalità fu ottenuta invece che attraverso il razionalismo borghese, attraverso Croce cioè, attraverso il marxismo.

SANAVÌO: Può dire che cosa è per lei l’irrazionalità?

PASOLINI: Secondo me si è irrazionali quando si opera all’in­terno d’una società… per esempio l’artista borghese che ope­rasse all’interno della borghesia, cioè della classe borghese, sen­za avere coscienza, neanche marginale, della presenza diciamo così d’un’altra cultura di classe, che si oppone alla cultura borghese, è irrazionale. Cioè… tutto il simbolismo è prodotto dalla borghesia, però è chiaro che non accettava la borghesia, era contestatore. Nell’atto stesso in cui scriveva dei versi in­comprensibili, sublimi, Mallarmé faceva un atto di contesta­zione contro il razionalismo borghese perché, intendiamoci, il dio della borghesia è sempre stata la ragione, la ragione come buon senso, come praticità. I simbolisti erano irrazionali in quanto erano antiborghesi restando dentro la borghesia.

SANAVÌO: Questa è una risposta molto bella, molto giusta, anche. Per la prima volta sono d’accordo con lei. Che pensa del nuovo atteggiamento che sta sorgendo in Francia e in Svezia, per rapporto al cinema, all’opera d’arte in genere, anche, questo tentativo di voler includere nell’opera nota­zioni di carattere politico, persino cronachistico, e che ha indirettamente portato all’uso nel cinema della camera por­tatile, una specie di penna a sfera con la quale cogliere più direttamente la realtà?

PASOLINI: Sono contro tutto questo. Ciò significa cedere al ri­catto del fascismo di sinistra, di certe frange della contesta­zione, che essendo demagogiche sono, come tutte le demago­gie, molto influenti. Per tacitare le loro coscienze, di cui nes­suno sa niente, i fascisti di sinistra impongono un rigore che è quasi una santità. I deboli hanno ceduto al ricatto e ora è in atto una specie di psicosi per la quale bisogna far della politica a tutti i costi. Non ci si accorge che così questi fascisti di sinistra propongono una specie di neostalinismo, richiedono una nuova specie di realismo socialista. È chiaro invece che un’opera d’ar­te dev’essere meditata, pensata, strutturata. È puro romanti­cismo credere di poter cogliere la realtà così, con la penna a sfera. Si prendono degli appunti, con la penna a sfera. Dopo di che si lavora.

SANAVÌO: Quali sono i suoi antecedenti culturali, nel cinema?

PASOLINI: Sono arrivato al cinema con una assoluta ignoranza tecnica. Quando ho cominciato a girare Accattone non sapevo che ci sono diversi obbiettivi, per esempio. L’operatore mi chiedeva che obbiettivo volevo usare e io non sapevo. Avevo anche una casuale cultura cinematografica. E però, dopo aver girato le prime scene, mi sono accorto che quelli che consi­deravo i miei maestri erano Charlot e Keaton e Dreyer, quello della Giovanna d’Arco. E poi Misoguchi, il regista giapponese. Questi erano i nomi sotto il cui segno ho cominciato a lavorare.

Fonte: Il Dramma, Anno 45, Numero 12 – Settembre 1969, pp. 81-91

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