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AMICI MIEI (1975) – Recensione di Giovanni Grazzini

Amici miei è un'opera crudelissima e scanzonata, cattiva come una beffa del Lasca e cupa come il racconto d'un filosofo pessimista

di Giovanni Grazzini

“Tu muori e chi ti ricorda più? Certo, sarebbe bello se qualcuno di noi potesse durare. Ma io non ci spero, cioè… ci spero poco”. Così Pietro Germi in una delle sue ultime interviste prima di morire. E l’applauso grande con cui il pubblico di Taormina, chiudendosi il Festival delle Nazioni, ha salutato il film Amici miei, da Germi avviato e da Monicelli condotto in porto, è stata la risposta a quella speranza: Germi durerà. Almeno fin tanto che qualcuno, interrogandosi sulla vita, troverà anche nel cinema, dietro la facciata d’un film burlesco, non dico le ultime risposte, ma nuove amare domande, e cercherà di difendersi dalla paura buttandola in ridere. Amici miei, alla cui sceneggiatura hanno messo mano anche De Bernardi, Benvenuti e Pinelli, è infatti una opera crudelissima e scanzonata, cattiva come una beffa del Lasca e cupa come il racconto d’un filosofo pessimista. È una girandola di baie e una pagina di Masoch, la ghirlanda di un delirante Piovano-Arlotto e il gioco d’un becero Gianni Schicchi. È anche il singhiozzo d’una generazione di empi. E il più bel film sulla maledizione di essere toscani che l’Italia sinora abbia fatto.
Quattro amici, oggi a Firenze, tutti sui cinquanta. Il Perozzi, capocronista, è diviso dalla moglie: vive con un figlio adulto, ma i due non hanno nulla da dirsi. Il Melandri fa l’architetto, e si vanta d’avere una bella voce. Il Necchi fa il barista: gli è morto un bambino ma non ha perso l’allegria. Il più scalcinato è il Mascetti, un nobile decaduto che pur avendo moglie e figlia da sfamare se la fa con una studentessa minorenne, un tipo che vi raccomando. Quattro amici, di scuola e di caserma, che si comportano da ragazzacci, da goliardi, e da fiorentini di buona razza. Dunque da buffoni, ma anche da eredi di Buffalmacco. La loro massima gioia è stare insieme, andar vagabondi fra città e collina, prendere per il bavero la gente e sfottere se stessi. Traguardo estremo: distruggere i minchioni. A qualcuno le loro avventure sembreranno cretine, ma un toscano di sangue sano troverà sublime il correre alla stazione a schiaffeggiare gli indifesi viaggiatori;- in partenza affacciati ai finestrini mentre il treno si muove e non possono reagire, o piombare in un paesotto e spargere il terrore fingendosi mandati a scegliere le case da abbattere subito per una nuova autostrada. Gianburrasca faceva qualcosa del genere. Viviamo in un mondo dove la cattiveria è l’unica forma rimastaci di libertà.
I quattro cavalieri dello scherno, che ridotti malconci da un incidente d’auto hanno messo a soqquadro un ospedale, a un certo momento divengono cinque. È quando, per essersi il Melandri faticosamente liberato d’una signora che gli aveva fatto girare non soltanto la testa, al gruppo si aggiunge il marito di lei, un chirurgo illustre meritatosi fiducia proprio accanendosi contro di loro. Scroccare un pranzo facendosi passare per invitati a un ricevimento di snob, e giocare uno scherzo stercorario ai genitori patrizi d’una bimbetta, sarà il meno: il capolavoro verrà quando, adocchiato il Righi, un poveraccio disposto a tutto pur di arrotondare la pensione, gli fanno credere di essere criminali incalliti, dentro il giro della droga, e il chirurgo il loro boss, e lo coinvolgono in una falsa sparatoria con una supposta banda di marsigliesi. Per liberarsene, gli daranno a intendere che il boss è morto, e lo spediranno a Reggio Calabria camuffato da frate. Ma lo rivedremo, e sarà nel momento che è la chiave del film. Mentre ai funerali del Perozzi (burlatosi anche del prete venuto a benedirlo), i quattro amici superstiti, per un momento smarriti, non sapranno soffocare la risata: felici d’aver preso a gabbo, col povero Righi, anche la morte. L’ultima cosa di cui aver paura, quando nemmeno la vita merita d’essere presa sul serio se non è una continua, disperata e se occorre malvagia sfida dell’intelligenza alla meschinità quotidiana.
Film molto più elaborato di quanto sulle prime possa sembrare, Amici miei è l’analisi di un modo di esistere a cui concorrono opposti elementi: l’oltranza del ferire e la ferocia autodistruttiva; l’elogio della vita come gioco, che quando uno esce di scena gli altri continuano il girotondo, e la condanna dell’infantilismo, socialmente improduttivo e politicamente reazionario; la lode dell’amicizia ma anche la sconsacrazione del suo mito; la gelosia degli intellettuali verso i semplici che si divertono gratis e lo sdegno per il loro disimpegno. In Amici miei c’è tutto questo, un po’ alla rinfusa, senza la compattezza d’ispirazione che avrebbe potuto mettervi uno scrittore alla Malaparte e la coerenza ideologica che aveva per esempio La grande abbuffata (un film cui per molti versi somiglia, mancando invece qualsiasi rapporto con I vitelloni, tanto sognatori quanto i fiorentini si tengono al sodo), e con sbalzi di corrente nella tensione narrativa. Ma con una varietà di prospettive, e un divertito sgomento nella perfidia, che conferiscono mordente a quasi tutte le situazioni. E, anche grazie alla fotografia di Kuveiller, con lividi riflessi nella gran baldoria, che la dilata ad affresco di città.
Chiamato dalla fiducia di Germi a realizzare il progetto, Mario Monicelli deve essere contento di sé. Ha reso un omaggio intelligente alla memoria di un amico, e ampliando gli schemi della commedia all’italiana col custodire la polivalenza di significati del soggetto ha saputo raccogliere intorno al film le simpatie di spettatori molto diversi: dei meno esigenti, che rideranno vedendo quante forme possa prendere la virtù fantastica della canzonatura (il Mascetti, che aggiunge un tocco di follia verbale agli sberleffi degli amici, è col Melandri il personaggio meglio riuscito), e di quelli più pensosi e più colti, che riconosceranno in queste cronache sarcastiche l’eco d’una lunga tradizione letteraria, il piacere del cinema della naturalezza, l’assillo d’una scelta esistenziale. Gli uni e gli altri faranno festa a Tognazzi e a Philippe Noiret, tornati a dire insieme la loro grande ricchezza espressiva, ma saluteranno con simpatia anche Gastone Moschin, Adolfo Celi e Duilio Del Prete (le donne, belle e/o brave, sono Olga Karlatos, Silvia Dionisio, Milena Vukotic e Angela Goodwin). Una partecipazione coi fiocchi dà Bernard Blier. Nel ruolo attonito del Righi egli è il Calandrino d’un film che forse, con una punta in più di tragico, sarebbe piaciuto persino al Boccaccio. Certamente a Germi, che dunque aveva ragione di sperare.

Corriere della Sera, 27/7/1975

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