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IL BUONO, IL BRUTTO, IL CATTIVO di Marcello Garofalo

di Marcello Garofalo

Una località isolata battuta dal vento. Due uomini scendono da cavallo avanzando verso un terzo, loro complice: insieme entrano in un saloon sparando all’impazzata, quando dalla finestra sbuca un messicano, Tuco, tenendo in una mano un cosciotto di bue e nell’altra la pistola. Fermo immagine con la didascalia «il brutto». L’uomo fugge a cavallo, lasciando i sicari nel saloon a terra senza vita.
Nei pressi di un pozzo, un ragazzino osserva l’arrivo di un cava­liere, Sentenza, che, fermatosi, si guarda intorno ed entra in una fattoria. La famiglia che vi abita assiste muta all’ingresso dell’uomo: la madre fa allontanare il ragazzino e il padrone di casa, seduto a tavola, lo scruta mentre si accomoda e si serve da mangiare. Terrorizzato l’uomo chiede a Sentenza se lo manda un certo Becker, anti­cipando che lui ha detto tutto ciò che sapeva, mentre a proposito di una cassa di dollari non ha informazioni da riferire. Sentenza ribatte al suo interlocutore chiedendogli dell’incontro avuto con un indivi­duo di nome Jackson: vuole sapere cosa si sono detti i due, e, siccome ha cambiato identità, come si fa chiamare ora Jackson. È disposto a offrirgli cinquecento dollari per quel nome: l’uomo risponde che adesso si fa chiamare Carson e, a sua volta, alza la posta, esibendo un sacchetto con mille dollari per salvare sé e la sua famiglia. Ma è inutile, perché Sentenza uccide comunque l’uomo, freddando anche uno dei suoi figli venuto a difenderlo.
Becker, il mandante dell’omicidio, è a letto malato: mentre consegna a Sentenza la somma pattuita, si sente rispondere da questi che la vittima gli ha versato una cifra maggiore. Coprendogli il viso con un cuscino per attutire il rumore degli spazi Sentenza fa fuori anche Becker: fermo immagine con la didascalia «il cattivo».
Mentre viaggia a cavallo, Tuco è preso di mira da un gruppo di bounty killer in possesso del bando della sua taglia. In soccorso del messicano si avvicina un uomo, il Biondo, dichiarando agli aggressori che non saranno loro a incassare la taglia, eliminandoli tutti a colpi di pistola. Tuco tira un sospiro di sollievo e ringrazia l’uomo che, a sua volta gli chiede quanto vale: il messicano risponde di valere duemila dollari. Il Biondo allora immediatamente lo immobilizza, trascinan­doselo a cavallo tra urla e strepiti: arrivati in paese, Tuco viene consegnato allo sceriffo che versa al Biondo la somma per la taglia sul messicano, ancora intento a sbraitare.
Ascoltando la lunga lista dei reati di cui si è reso responsabile, Tuco è pronto per essere impiccato: il Biondo osserva da lontano la procedura dell’esecuzione. Un attimo prima che la corda venga tirata, il Biondo spara e la spezza, liberando Tuco che fugge via.
Lontano da occhi indiscreti, i due si dividono la taglia. Il messicano afferma che la prossima volta vuole di più, perché è lui che rischia la vita: il Biondo risponde che è lui a salvarlo e alla prossima occasione potrebbe sbagliare mira.
Si ripete la scena dell’impiccagione: questa volta a osservare l’esecuzione di Tuco c’è anche Sentenza, che riceve inoltre informazioni da un uomo senza gambe a proposito di Carson e della cassa di dollari. Il Biondo spara e salva di nuovo il messicano: scappano insieme a cavallo, ma questa volta la mira non è stata precisa e Tuco ha rischiato la vita. Il Biondo dichiara di sciogliere la società, abban­donando l’altro legato e a piedi. Fermo immagine sul Biondo con la didascalia «il buono».
Di notte, un carro di uomini ubriachi lascia a terra una donna, Maria, compagna di Bill Carson: rientrando in casa, si sente chiamare da qualcuno. Pensando trattarsi di Carson, ha invece la sgradita sorpresa di trovarsi di fronte Sentenza, che non esita a metterle le mani addosso per estorcere notizie sull’uomo: Maria si limita a rife­rire che Carson è partito da diversi giorni, probabilmente diretto a Santa Fe.
Dopo aver attraversato una zona desertica, Tuco giunge in un villaggio dall’aria abbandonata. Si disseta, per poi entrare in una bottega d’armi. Qui con grande competenza controlla il funzionamento di diverse pistole e, con i pezzi di alcune, ne monta una nuova: soddisfatto, si congeda dal negoziante non prima di averlo alleggerito anche di duecento dollari.
Ora è alla ricerca del Biondo: lo trova chiuso in una stanza d’albergo intento a ripulire la sua pistola mentre di sotto le truppe sudiste muovono in ritirata. Tuco manda in avanscoperta un gruppo di sicari, ma il Biondo è più veloce, riuscendo repentinamente a farli fuori tutti: allora il messicano penetra nella stanza tenendo il Biondo sotto tiro e mostrando un cappio, intimandogli di passare la corda a una trave del soffitto e metterci il collo dentro. Un improvviso colpo di cannone, distruggendo l’edificio, salva miracolosamente il Biondo: dopo l’esplo­sione Tuco si guarda intorno, ma l’uomo naturalmente è già sparito.
Sentenza giunge in un rifugio di soldati sudisti dove chiede no­tizie di Bill Carson: secondo qualcuno l’uomo, se non è morto, potrebbe trovarsi prigioniero nel campo nordista di Betterville.
In una zona arida, Tuco trova dei sigari gettati a terra, traccia verosimile del passaggio del Biondo. Quest’ultimo ha inscenato la solita esecuzione seguita dal salvataggio del solito bandito, Shorty, ma Tuco lo sorprende poco prima che il fuorilegge venga impiccato. Shorty muore davvero e il messicano fa prigioniero il Biondo. Avviatisi nel deserto, l’uomo è costretto a procedere a piedi mentre Tuco cavalca comoda­mente, lasciandolo indifeso sotto il sole senza acqua né cappello.
Per il Biondo inizia un lungo e terribile cammino: a cavallo, Tuco si ripara con un ombrellino. Il Biondo è stremato, il volto porta i segni delle sofferenze e del sole implacabile, finché, privo di forze, non resta a giacere a terra. Il messicano lo provoca ulteriormente lavandosi i piedi in un mastello e fingendo di offrirgli da bere l’acqua appena utilizzata, per poi tirare via il recipiente con un calcio.
Il Biondo è gravissimo e Tuco gli punta la pistola per finirlo quando sopraggiunge una diligenza che vaga senza conducente: ap­partiene al terzo reggimento e trasporta cadaveri sudisti. Tuco ne approfitta immediatamente per saccheggiare i soldati dei loro averi, ma qualcuno è ancora vivo: il sopravvissuto dice di chiamarsi Bill Carson e chiede acqua, offrendo in cambio l’indicazione per trovare la famosa cassa di dollari del reggimento, nascosta nel cimitero di Sad Hill. Tuco vuole sapere in corrispondenza di quale tomba si trova la cassa, ma per Carson sembra arrivata l’ora estrema, non riuscendo a pronunciare il nome segnato sulla tomba. Tuco si allontana un mo­mento per andare a prendere l’acqua, ma al suo ritorno vede il Biondo accanto alla diligenza: l’uomo ha ricevuto da Carson il pre­zioso nome sulla tomba un attimo prima che quest’ultimo morisse. Ora Tuco non può più liberarsi del Biondo, anzi viste le sue condi­zioni, è costretto a fare di tutto per salvargli la vita.
Con la stessa diligenza il messicano si mette in viaggio con il Biondo bisognoso di cure immediate: queste gli vengono praticate nella missione di San Antonio, dove Tuco chiede di Padre Ramirez.
A letto il Biondo riconosce a stento il messicano che, mentendo sul suo stato di salute, tenta di farlo cantare e avere così il famoso nome sulla tomba: il Biondo lo fa avvicinare a sé, ma non per dargli la preziosa informazione, quanto per tirargli addosso una tazza di caffè, affermando sardonicamente che ora è tranquillo perché Tuco non può che vegliare su di lui.
Più tardi, il bandito incontra Padre Ramirez, che altri non è se non suo fratello. Tuco chiede notizie dei genitori, suscitando la sdegnata reazione del religioso, che lo accusa di essersene ricordato dopo nove anni: comunque sono morti entrambi, per cui è bene che Tuco taccia e, vista l’impossibilità di ripensare la sua vita di fuorilegge, si allontani scomparendo per sempre.
Ristabilitosi il Biondo e, indossata la divisa grigia dei sudisti, i due lasciano la missione e si mettono in viaggio. Durante la marcia si imbattono in un gruppo di soldati, accolto dall’entusiasmo di Tuco che pensa di avere a che fare con i confederati: errore fatale, in quanto trattasi di un drappello nordista, irriconoscibile per la polvere che copre le loro casacche blu. Tuco e il Biondo sono fatti prigionieri e spediti nel campo nordista di Betterville, il cui comandante è immo­bilizzato da una gamba in cancrena.
Durante l’appello dei prigionieri, quando viene chiamato Bill Carson, nessuno risponde. C’è qualcuno che guarda con attenzione la scena: è Sentenza, cui il militare malato ha demandato il comando a Betterville. A una ennesima chiamata senza esito, il Biondo consi­glia a Tuco di rispondere lui per Carson: fattosi avanti, il messicano riceve immediatamente un pugno allo stomaco dal caporale Wallace, un brutale soldato agli ordini di Sentenza, nonostante il comandante di Betterville abbia criticato gli inumani metodi usati da Sentenza nei confronti dei prigionieri sudisti.
Quest’ultimo ordina a Wallace di portargli Carson, ovvero il messicano Tuco: Sentenza lo invita a mangiare con lui. Il messicano ne approfitta per ingozzarsi: gli viene chiesto come mai adesso si fa chiamare Bill Carson. Messo alle strette, Tuco cerca goffamente di prendere tempo, rispondendo che si tratta di un nome come un altro.
A quanto sembra, le informazioni sul vero Bill Carson non vengono fuori e Sentenza è costretto a usare metodi più spicci: mentre all’esterno una orchestrina di prigionieri suona un motivo, Tuco viene pestato e torturato; per coprire le sue urla di dolore, ai poveretti si ordina di suonare più forte. Tuco è sanguinante e Sentenza gli consiglia di parlare: finalmente esce il nome del cimitero di Sad Hill, ma Tuco aggiunge che solo il Biondo conosce la tomba giusta.
Sentenza lo convoca, con l’intenzione di portarlo con sé nel viaggio verso il cimitero: il Biondo gli chiede perché non ha fatto suonare anche per lui la musica. La risposta è semplice: il fuorilegge sa che il Biondo non canterebbe neanche sotto tortura, per cui è preferibile pervenire a un accordo, accontentandosi della metà della somma.
Il violento caporale Wallace si trascina dietro Tuco: è incaricato di metterlo su un treno e consegnarlo alla giustizia, riscuotendone la taglia.
In viaggio il messicano si accorge che tutti i soldati nordisti nel suo vagone dormono, compreso il caporale; in realtà il suo guardiano è sveglio e blocca il tentativo di Tuco di sfilargli la pistola. Il prigio­niero chiede allora di poter orinare: lo farà fuori dal vagone, durante la marcia del treno, ma con Wallace al fianco al quale è legato al polso dalle manette. Tuco prontamente si getta dal treno in corsa, portandosi dietro il corpulento Wallace e, una volta a terra, ammazza il soldato sbattendogli violentemente la testa su una pietra: è comun­que ancora legato a lui dalle manette. Si stende quindi vicino ai binari insieme al cadavere, in modo che il prossimo treno passando riesca a spezzare la catena: così avviene, il corpo di Wallace è trasci­nato via dal convoglio e Tuco è finalmente libero.
Il Biondo e Sentenza giungono in un paese semidistrutto dai bombardamenti: assistono a una fucilazione effettuata dai nordisti, mentre tutt’intorno tira aria di smobilitazione generale. Anche Tuco si trova sul luogo e osserva la fuga di massa.
In seguito il messicano si introduce in un edificio abbandonato: trova una tinozza e decide di fare un bagno.
Qualcuno lo osserva di nascosto: si tratta di un uomo armato e senza un braccio, un suo rivale del passato intenzionato ad ammaz­zarlo. Tuco è più svelto, e lo uccide con una pistola che nascondeva sotto la schiuma: dall’esterno il Biondo riconosce il tipo di sparo, che appartiene all’arma del messicano.
I due si ritrovano e il Biondo avvisa il suo vecchio socio della presenza nei paraggi di Sentenza e dei suoi complici: muovendosi con circospezione, riescono a neutralizzare tutti, ma di Sentenza non vi è nessuna traccia, se non un pezzo di carta, scritto da quest’ultimo, su cui si legge «ci rivedremo, idioti».
In cammino verso Sad Hill, Tuco e il Biondo si avvicinano a un ponte su un fiume, dove sono catturati da un gruppo di soldati nordisti. Il capitano al comando, un uomo visibilmente alcolizzato e rassegnato agli eventi’ osserva i due e li interroga: Tuco se la cava rispondendo che sono venuti ad arruolarsi. Il nordista si attacca alla bottiglia, che anche Tuco mostra di non disdegnare: per il militare, in preda all’alcol, è questa l’arma più potente della guerra.
Il ponte è quello di Langstone, che subisce due attacchi al giorno. Si sente un’esplosione: è iniziato l’attacco sudista, mentre il capitano, pur concordando con i suoi uomini la loro risposta armata, palesa tutta la sua sfiducia sull’utilità della guerra. Il Biondo, a sua volta, commenta che non ha mai visto morire tanta gente: questa guerra sembra essere davvero una faccenda lunga.
Tuco ricorda che i dollari si trovano dall’altra parte del fiume. I due considerano l’idea di far saltare il ponte: in tal modo gli eserciti andrebbero a scontrarsi altrove.
Il capitano è stato ferito: il Biondo, laconicamente, lo avverte che faranno un po’ di rumore, ricevendo l’assenso del militare.
I due soci si appropriano di una cassa di esplosivi posizionandosi sotto il ponte e vi attaccano dei candelotti di dinamite. Il capitano, morente, prega il medico di farlo resistere ancora un po’: evidente­mente non vuole perdersi l’esplosione che farà saltare il ponte.
Tuco propone al Biondo di confessarsi l’un l’altro le informazioni necessarie al ritrovamento della cassa di dollari: il pistolero accetta e un attimo dopo scappano, all’accendersi della miccia. Lo scoppio è terribile e sconvolge tutta la zona: adesso il capitano può morire in pace.
L’esplosione e i bombardamenti che ne sono seguiti hanno provocato un’ecatombe: Tuco e il Biondo si allontanano dal luogo senza incrociare neanche un sopravvissuto.
Il messicano ha preso un cavallo e scappa via, ma il Biondo riesce a bloccare la sua fuga, facendolo cadere con un cannoncino. Tuco si rialza, ritrovandosi in un’immensa distesa di croci: è il cimitero di Sad Hill. Inizia a correre fra le tombe alla ricerca di quella di Arch Stanton, che dovrebbe custodire la cassa di dollari secondo la notizia fornitagli dal Biondo.
Dopo un esagitato girovagare, finalmente la individua.
Tuco inizia a scavare finché un’ombra non gli si staglia contro: è il
Biondo, che gli lancia una pala dicendogli che così si sbrigherà prima.
Ma ce qualcuno che lancia una seconda pala: sul posto è arrivato anche Sentenza che, pistola alla mano, ordina a entrambi di scavare. Il Biondo rivela che non è quella la tomba giusta, che in fatti custodi­sce solo ossa: secondo lui duecentomila dollari sono tanti, un bottino che i tre si dovranno guadagnare.
Sentenza chiede in che modo: duomo risponde che il nome corrispondente alla tomba giusta lo scriverà su una pietra che andrà a poggiare poco lontano. I tre si dispongono in cerchio: inizia una lunga pausa carica di tensione, di sguardi e di studiati movimenti. Le mani si avvicinano alle pistole: il Biondo è velocissimo e fa fuoco su Sentenza.
Tuco ha la pistola scarica, mentre Sentenza ha bisogno di altri colpi per crepare definitivamente. Il messicano urla contro il Biondo che gli ha scaricato la pistola: duomo indica la tomba che realmente nasconde il denaro, una senza nome accanto a quella di Stanton, ordinando a Tuco di scavare.
Finalmente i sacchi pieni di dollari vengono alla luce: Tuco è in visibilio, ma per lui è pronto un nuovo cappio. Chiede al socio se sta scherzando: il Biondo invece lo obbliga a mettervi dentro il collo, ripetendo la scena delle esecuzioni organizzate dai due ai vecchi tempi. Il Biondo gli dice che faranno come sempre, metà e metà: prende la sua parte e la carica sul cavallo, ma Tuco, con i piedi su una precaria croce di legno, sta per perdere l’equilibrio.
Montato a cavallo, il Biondo lascia il luogo mentre Tuco urla disperato. Una volta lontano, duomo spara alla corda: Tuco è salvo, cadendo con la testa sui dollari. Il Biondo è scomparso e il messicano corre inutilmente verso di lui imprecandogli contro.

* * *

Le «ossessioni d’autore» restano le stesse anche nel capitolo conclusivo della prima trilogia: il desiderio e l’impossibilità di credere al sogno americano dello spazio di conquista, il crollo dell’in­dividuo che non si riconosce più nella insensatezza del mondo, un utilitarismo anarchico di fondo come reazione. Legge e crimine invertono i propri ruoli all’interno della società e il «buono» so­prattutto sfuma la sua qualifica.
E a ben vedere, quest’ultimo è un tema abbastanza consono alla civiltà del cinema. Ford in Ombre rosse creò appositamente la figura del fuorilegge (Wayne) che contribuisce valorosamente a combattere gli indiani, nonostante, nella novella di Maupassant, A boule de suif, a cui si ispirò per il film, questo personaggio non esistesse. E, nella stessa diligenza, però c’è anche il fuorilegge vero, il banchiere che ha trafugato il denaro dalla sua banca e che poi è il principale fuorilegge moralista.
Ma in Il buono, il brutto, il cattivo il riferimento al cinema classico funge anche da indicatore ironico: a Leone, infatti, non sfugge che la regola numero uno per tentare di essere seri è quella di far sorridere.
Il suo modello dichiarato è il Monsieur Verdoux di Chaplin. E le prese in giro (la sequenza dell’esplosione del ponte di Langstone sembra quasi un duplice omaggio a Buster Keaton, The General, e a John Ford, The Horse Soldiers), le sottolineature sardoniche, le battute «a effetto» sono numerose. Lo sguardo è però qui ancora più pessimista, disincantato; Leone sembra quasi condividere una dichiarazione di Lang: «Ho l’abitudine di dire questo: ci sono solamente due categorie di individui, quelli che sono cattivi e quelli che sono molto cattivi. Ma noi siamo giunti a una convenzione e chiamiamo i cattivi i buoni e coloro che sono molto cattivi i cattivi».1
Il destino dell’uomo sembra essere la solitudine, un’angoscia venata di beffa o di sarcasmo, come suggerisce efficacemente anche l’effetto irridente della partitura di Morricone (si pensi per esempio al tema musicale, in cui l’urlo di Tuco diventa quello straziato del vocalist, che a sua volta imita quello del coyote).
C’è molta ironia, sul piano drammatico e psicologico; ne derivano una malizia segreta e una satira che ha a che fare con lo stile più che con lo script. L’ironia con la quale Leone tenta di sottolineare maggiormente il dramma, giocando su una serie di ombre e contrappassi, è come se desse a una realtà cinica quasi la cauzione di una morale «nobile» da rivendicare, sia pure a tratti: si pensi, per esempio, alla scena in cui il «buono» conforta il soldato agonizzante.
La contraddizione che smaschera le qualifiche di «buono», «brutto» e «cattivo» dei tre personaggi è probabilmente la chiave del film.
Il film inizia con tre prologhi, ciascuno a presentare i tre protagonisti e ciascuno chiuso da un fermo immagine con la didascalia del personaggio. Se il «buono» e il «cattivo» sono definiti in ter­mini di giudizio morale, il «brutto» lo è – solo in apparenza – da un punto di vista «estetico», essendo in realtà un «cattivo di necessi­tà», quasi costretto a una vita da fuorilegge per motivi familiari, come ci rivela l’episodio con il fratello frate. Il Biondo e Tuco rappresentano, di fatto, una sola entità (rafforzata proprio dai mo­menti in cui agiscono separatamente) contro Sentenza.
I tre prologhi sembrano confermare questa interpretazione: mentre il secondo e il terzo (quelli del «cattivo» e del «buono») sono di notevole lunghezza, quasi eccessiva, che travalica la necessità di inquadrare il soggetto nel suo contesto, al punto da potersi dimenticare, nel flusso delle immagini, che si tratta di antefatti, il primo (quello del «brutto») si discosta nettamente dagli altri, più che per la minore durata, per l’assenza del protagonista che, nel momento in cui entra in scena (o, meglio, esce, frantumando una finestra) ed è subito congelato nell’attimo fermo di uno stop frame, viene prontamente definito «il brutto», senza che questa «qualità» possa essere apprezzata o semplicemente captata dallo spettatore, al quale è fornito un dato informativo al momento incontrovertibile.
Come già in Per qualche dollaro in più anche in Il buono, il brutto, il cattivo nasce una «società» a due contro un terzo e anche qui l’accordo è preceduto da un episodio rituale ben specifico, che prevede il gesto simbolico dei cappelli fatti volare via (nel caso di specie degli spettatori presenti all’esecuzione di Tuco). Un rituale che in questo caso ha evidentemente una funzione utilitaristica e oggettiva ben maggiore, essendo collegato alla vita di uno dei due «soci».
Ogni personaggio, in una favola tipica, scrive Bettelheim, deve essere «essenzialmente unidimensionale, così da permettere al bambino di comprendere facilmente le proprie azioni e reazioni»: la fiaba così si presenta come un grande specchio vuoto, in cui, attraverso la cornice della comunicazione interpersonale sovrappo­sta a una sorta di canovaccio simile a quello della commedia del­l’arte, il bambino finisce per vedere se stesso. In linea teorica, sembra voler dire Leone.
Proviamo a stabilire una separazione: da un lato i buoni sentimenti cinematografici dove ciò che si produce sullo schermo può essere previsto fin dall’inizio in piena e totale soddisfazione per lo spettatore; dall’altro, il cinismo di ammaliare il pubblico attraverso la seduzione di una finzione, la finta accettazione di uno standard al solo scopo di rendere più inconscientemente credulo lo spettatore, così da colpirlo proditoramente alle spalle e tradirlo. Un esempio: Sentenza, nel prologo a lui dedicato, ha appena ucciso il fattore messicano che conosceva Jackson/Bill Carson, più il figlio di questi accorso col fucile in sua difesa: il «cattivo» si allontana percorrendo il «corridoio» che va dalla cucina dell’abitazione fino all’ingresso della stessa; la moglie del fattore, al suono degli spari, accorre disperata e osserva in soggettiva lo stesso corridoio, che le mostra i suoi cari distesi a terra senza vita: non resistendo allo spettacolo, sviene. Lo spettatore partecipa al mancamento della donna (Chelo Alonso) con la soggettiva «barcollante» che sembra non reggere alla profondità, di campo e di shock emotivo, dell’immagine.
Un effetto simile – che potremmo definire il «trauma della profondità di campo» – si ritroverà molti anni dopo in Shining di Kubrick nella sequenza del corridoio «abissale» dell’hotel con le due gemelline massacrate stese a terra.
Era stato il deep focus alla base stilistica di Per un pugno di dollari; è adesso ancora il deep focus che determina le misure dei personaggi, ne equilibra o ne squilibra il rapporto con lo spazio scenico, mettendone in risalto ruolo, funzione, potere.
Quando Leone non fa uso di inquadrature mobili e deep focus per sottolineare incidenti decisivi e duplici linee d’azione, ricorre al montaggio, a volte persino auditivo, in modo da accentuare l’iro-nico intrecciarsi delle due trame. L’esempio più marcato di questa tecnica è nella sequenza in cui Eli Wallach è nella tinozza, intento a farsi un bagno, ma il senso di rilassamento che la situazione pre­senta viene interrotto dalla percezione di una minaccia: c’è infatti un suo vecchio rivale intenzionato a ucciderlo; dall’esterno, dal rumore dello sparo, il Biondo riesce a localizzare il suo «socio».
Tipica dello stile di Leone è la composizione in profondità, con tre piani d’azione distinti: un personaggio in primissimo piano, qualcuno a una media distanza, un dettaglio significativo sullo sfondo. Invece, uno dei metodi della messa in scena per restituire il progressivo isolamento dei personaggi è l’uso dell’obiettivo a lunga focale sui primi piani, con il conseguente schiacciamento del personaggio inquadrato rispetto allo sfondo che, in questo caso, viene a risultare fuori fuoco.2
Ma Il buono, il brutto, il cattivo, probabilmente per pura necessità, esalta e sublima all’eccesso le caratteristiche di questo stile variegato, mescolandolo a un massimo di anticonvenzionalità nel genere, e in questo senso diventa il film più scatenato e ipercinetico di Leone e, forse, il più amaro e sprezzante, con Giù la testa, nella rappresentazione della violenza. Nei titoli di testa, non a caso, il regista fa esplodere il colpo del cannone esattamente sul suo nome, che così si compone: Shoot, d’altronde, in inglese vuol dire «spa­rare», ma anche «riprendere».
Se i toni del terzo «capitolo» della trilogia sono ancora quelli, improntati al culto dell’individualismo, dell’amicizia e della rivalità fra uomini come cemento della loro esistenza e a un vago romanti­cismo dettato da un disincanto nei confronti del mondo e della vita, il protagonista «buono» nel film non si presenta come un (anti) eroe, piuttosto come un tipo furbo e disorientato dalla guer­ra, che si viene a trovare in una situazione sulla quale, per l’intro­missione «necessaria» del «brutto» e quindi del «cattivo», fatica ad avere il pieno controllo. Ma come Leone tratta raramente i suoi cattivi senza una certa simpatia, così i suoi personaggi onesti e idealistici finiscono per apparire, per la soddisfazione del proprio «utile», maliziosamente contraddittori.
D’altronde, ogni suo film ci mostra come, da un lato, egli sappia far tesoro di certe regole drammaturgiche e spettacolari del cinema americano, dall’altro quanto sappia restare se stesso e guardare all’America con l’occhio di uno «straniero» e non in contrasto con il suo calore emotivo, con il suo umorismo «mediterraneo».
Poi, l’agire dei personaggi, l’azione che spesso surroga il parlare, il valore intrinseco attribuito al mito e che dipende dal fatto che gli avvenimenti di cui parla e che si ritiene debbano svolgersi in un certo momento («tanto tempo fa» nel mito arcaico; «oggi o doma­ni» nel mito moderno) creano una specie di struttura permanente, che attraversa tutta la sua filmografia. E quest’ultima si riferisce simultaneamente al passato, al presente, al futuro (anche se di «futuro remoto» come nel caso del 1968 di C’era una volta in America).
La «trilogia del dollaro» di Leone, come tutte le favole (e i miti), fa un uso frequente del raddoppio, della triplicazione, di una stessa sequenza narrativa, con la precisa funzione di rendere manifesta e comprensibile la struttura della favola (o del mito). Si pensi soltanto all’importanza che Leone affida alla simmetria del gioco e non solo in termini di «equilibrio» geometrico (il «triangolo equilatero» che si delinea all’interno dell’arena per la resa dei conti), ma proprio di «circolarità» narrativa: il film si apre con un’alternanza precisa di piani ravvicinati e campi lunghi, senza campi medi; lo stesso linguaggio viene ripreso nel finale: primi piani di Tuco monologante si alternano al campo lungo del Biondo in fuga dal cimitero di Sad Hill; il Biondo poi rallenta, si volta e, in un primo piano ravvicinato, prende la mira e spara alla corda, che si spezza, facendo cadere Tuco sul sacchetto con i dollari. Il Biondo galoppa lontano, attraversando quasi interamente lo schermo, in un campo lunghissimo che ricorda esattamente la corsa del cavaliere dei titoli di testa in animazione. Un altro esempio di «raddoppio» è dato dall’ingresso della pistola e/o del fucile da destra verso sinistra all’interno del fotogramma, ovvia­mente con finalità variabili.
E stato scritto3 che i personaggi di Leone si dividono in due grandi categorie: i «solitari» e gli «uomini di famiglia», ponendo l’accento sul «familismo», alla base della società cattolica italiana e caro al regista, e sul fatto che coloro che appartengono al nucleo generalmente sono destinati a un ruolo di vittime, mentre quelli che si sono volentieri dissociati da questo nucleo diventano o i salvatori o i nemici del nucleo stesso.
Queste due unità si compongono in una sequenza costante: trasferimento del protagonista in un luogo nuovo – lotta, sconfitta temporanea dell’eroe – intervento di due e poi tre nuovi caratteri che si uniscono al protagonista dell’unità precedente e assieme si tra­sferiscono per ripetere la catena: stasi, movimento, lotta, comparsa del salvatore, movimento ecc. La favola di Leone utilizza ben 17 delle 31 funzioni del catalogo di Vladimir J. Propp,4 per mezzo delle quali sarebbe possibile ricostruire a posteriori i film della trilogia.
Il trasferimento dell’azione su un diverso scenario (ma ripetuto con significato identico sui tre personaggi: le ostilità della guerra per tutti e tre i protagonisti sembrano solo noie da evitare, che si frappongono al conseguimento del loro utile) e la lotta per conquistare con fatica quest’utile sono le due unità strutturali del racconto.
La dimensione metaforica di ciascuno dei personaggi è troppo marcata perché vi si debba insistere. Varrà semmai la pena di sottolineare il modo con cui si perviene a costruire la sintesi.
In sé gli avvenimenti storici della guerra civile sono indipen­denti dalla logica della fiction e non sono mai narrativamente ne­cessari, anche se ancora più che nel precedente capitolo la punti­gliosità della ricerca storica è manifesta (in questo caso le fotografie di Matthew Brady).5
Da qui, una visione della storia come meccanismo non controllabile; è la sovrapposizione fra i diversi ritmi del «tempo storico» vissuto dalle truppe e del tempo «privato» vissuto dal trio che rende illusorio ogni tentativo di controllare la partita mentre è in corso (si pensi solo all’episodio «ingannatore» dei nordisti con le giubbe impolverate); la posta in gioco vera non la si scopre che successivamente.
Molto precisa e indicativa era la frase di lancio che accompagnava il film nei Paesi anglofoni: «Per tre uomini la guerra civile non era un inferno, ma un’abitudine», quasi a voler sottolineare lo scontro fra tre «tempi privati» a confronto con il tempo della Storia: paradossalmente la guerra interviene a salvare e non a distruggere le vite dei tre protagonisti.
Una delle sequenze più memorabili è senz’altro quella della battaglia: se si eccettua quella che Leone realizzò con tanta dovizia di particolari per Sodoma e Gomorra è anche la prima grande «scena di massa e di azione» che il regista inserisce in un western.
E significativo che sia stata girata in buona parte con una serie di inquadrature lunghe. La scena è stata filmata con una gru che cambiava posizione rapidissimamente a livello del terreno, per po­ter seguire l’azione ovunque fosse necessario. La gru mobile era importante non solo perché si riuscivano a includere ampie zone del terreno ma anche, e soprattutto, perché il rapido montaggio di scene originariamente in movimento crea un ritmo completamente diverso da quello che è lo standard delle scene di guerra, in genere affidate a macchine da presa per alternare immagini relativamente statiche. A Leone in realtà non interessa affatto spettacolizzare la guerra (primi piani continui di bocche di cannone che sparano forse per lui risolvono con immediatezza il compito), gli interessa molto di più mostrarne le conseguenze, far riflettere sullo «spirito combattivo» affidato al capitano interpretato da Giuffré, sul per­ché «tanta gente» è costretta «a morire così male».
Il film poi riprende dalla «commedia italiana» il tema, rappresentato da Tuco, del «bisogno individuale», del conflitto scaturito dall’impossibilità di soddisfare i bisogni proprio nel momento in cui sono cresciuti.
Pensiamo all’immagine della società costruita dal contrasto tipico della screwball comedy (contrasto ricorrente anche in molte commedie italiane degli anni Sessanta): per Leone l’antagonismo sociale evocato dal confronto di coppia basato sulla differenza economica, che fonda l’intreccio narrativo, è irrilevante e immediatamente superabile. In Il buono, il brutto, il cattivo gli esponenti delle relative categorie (non classi) sono portatori di reciproche alterità che riescono a superare man mano che la storia procede; ciò che separa i tre protagonisti diventa più forte di ciò che soggettivamente potrebbe poi accomunarli. E il denaro appare ancora una volta, come nei capitoli precedenti della trilogia, come un qualcosa che dev’essere accumulato, una «garanzia» per un futuro sereno. Alcuni anni dopo lo stesso tema sarà alla base del film di Brian Hutton I guerrieri (Kelly’s Heroes, 1970), interpretato fra gli altri anche da Eastwood, che ripropone avventure belliche in chiave semiseria con un quantitativo di oro in attesa di essere rubato e quindi incamerato dal «buono/cattivo» e/o «brutto» di turno.
La corsa di Tuco attraverso il cimitero di Sad Hill alla ricerca della tomba di Arch Stanton è una vera e propria danza dalle movenze contrastate, veloci e trattenute (Tuco deve trovare al più presto i 200.000 dollari, ma se corre troppo non riuscirà mai a leggere il nome sulla tomba). La scena anche tecnicamente (il direttore della fotografia Belli Colli la ricorda come una tra le più complesse e per lui «gratificanti» dell’intero film) è molto partico­lare: nel «crescendo» del movimento non a caso Tuco corre ma resta a fuoco, mentre lo sfondo si altera visivamente nella velocità dello sguardo, significando una quête obnubilata dall’ansia della scoperta. Eppure, la lolle e «incosciente» corsa si fermerà proprio dinanzi alla tomba di Stanton, evidentemente un punto da cui il protagonista è stato, non si sa da quale forza, calamitato (razional­mente, non è possibile pensare che Tuco abbia esaminato a una a una con lo sguardo le iscrizioni sulle tombe di Sad Hill per come il suo agitato sopralluogo si è svolto): Leone ci fa balenare così la possibilità che si tratti di un trucco, di un movimento «estremo» che non porti a nulla, di una messa in scena, appunto.
Ed è singolare come anche altrove il personaggio interpretato da Eli Wallach (a ben ragione Eastwood ne sospettava e ne temeva la priorità) riaffermi per conto di Leone come il tutto sia una «caccia al tesoro» tra «maschere» che si inseguono, si sparano, si beffano e «giocano» per il divertimento dello spettatore. Mi riferisco alla scena – quasi un «omaggio» affettuoso alla celeberrima sequenza di Nemico pubblico – in cui Tuco «si rimette in sesto» dopo ? abbandono del Biondo: egli dimostra, in una bottega di armi, una superlativa perizia balistica, osservando con straordinaria competenza le pistole, ascoltandone il suono degli scatti, fiutando l’odore della polvere da sparo e palpeggiando le armi con una «expertise» che pare coinvolgere tutti i sensi, tranne quello del gusto; Tuco si comporta quasi da consumato gourmet, arrivando a costruire un’arma nuova con parti di pistole in precedenza esaminate e smontate, proprio come un grande chef che conosce l’alchimia degli ingredienti. Da notare che il negozio è provvisto anche di un cortile interno «poligono di tiro», dove Tuco subito si esibisce, lasciando esterrefatto il rassegnato bottegaio e divertito lo spettatore, dinanzi a tanta «improbabile», fanciullesca, buffoneria.
Così come il gunfight finale, il cosiddetto «triello», se recupera con alcuni totali una prospettiva epica cercata e negata per tutto il corso del film, diviene luogo puramente mitico nell’utilizzo di det­tagli alternati e di materiali sonori (musica con voci) in funzione decisamente straniante.
E l’«atmosfera» a contare, in cui lo spazio non raccorda più le parti, i corpi hanno perso il loro centro di equilibrio, la soggettiva e l’oggettiva sono tra loro indiscernibili. Al posto di un’immagine dopo l’altra, c’è un’immagine più l’altra e ogni piano sembra dequadrato in rapporto all’inquadratura del piano seguente: il mon­taggio che crea uno stato di tensione unico nel suo genere, insieme statico e rapidissimo, trova la sua apoteosi nel dettaglio a tutto schermo delle linee degli occhi dei tre pistoleri (può essere inte­ressante ricordare o provare solo a immaginare l’effetto che in una sala cinematografica del 1966 tale primissimo piano era in grado di provocare, uno sguardo totale diretto e minaccioso sullo spettatore che, probabilmente, non ha eguali nel cinema successivo).
La macchina balza in avanti e all’indietro (il direttore della fotografia Delli Colli6 avalla qui l’uso dello zoom nelle sue potenzialità «intermedie»), da una serie di primissimi piani ritratti in una luce tersa a vedute complessive dell’arena. Talvolta le traiettorie degli sguardi degli attori non collimano; in uno scambio di occhiate Van Cleef guarda quasi direttamente in macchina, mentre Eastwood fissa un punto indeterminato a sinistra dello schermo. E proprio nell’aspetto visivo (e sonoro; del resto, secondo Deleuze, il sonoro è una dimensione dell’immagine visiva: «fa vedere», è visibile tanto quanto l’immagine è leggibile) che Leone elabora quello scarto tra storia (intesa come fabula, percorso narrativo di base) e discorso (la narrazione come «effetto» delle immagini) in cui si chiarisce lo sfondo tematico del film, in stretto collegamento con i due western precedenti, a formare una trilogia. Il Biondo, come detto, ritrova il suo poncho e ridiventa lo Straniero che si dirige verso San Miguel.
Il nascondiglio dei soldi è la tomba di uno «sconosciuto», accanto a quella di Arch Stanton, e indirettamente torna l’«Uomo senza nome» che offre molto più di «un pugno di dollari», dimo­strando come il nucleo del western sia un anonimato in grado – magnificamente – di rivestirsi di leggenda, provenendo da un nulla e concludendosi in un nulla, che ha al centro un moto fiabesco di motivazioni e comportamenti basici e auto-significanti, in realtà irriducibili a una concreta analisi psicologica e a una verosimile contestualizzazione storica, anche se qui c’è di mezzo la guerra di Secessione.
Leone sovverte persino la componente «descrittiva» degli sfon­di dei western classici, ove la grandiosità della natura è qualcosa che si respira, che magari non si guarda, ma si vede, come un prolungamento connotativo dei personaggi. Nella «trilogia del dollaro» gli sfondi agiscono come aggiunzione o complemento rispetto alle immagini di primo piano. Soltanto in Cera una volta il West il Nostro ci porrà di fronte a un paesaggio iperbolico – la Monument Valley – che trasforma lo spazio-ambiente in dimensione mitica. L’istanza descrittiva diventa livello di significazione parallelo, me­taforico, vera e propria «marca» di genere.
L’ending necessita ancora di un riepilogo delle didascalie in stop frame: nell’ordine «il brutto», «il cattivo», «il buono». Si può intravedere una logica in questa esigenza di «ri-nomina»: du­rante la lunga storia si è verificato, come detto, uno scollamento fra la sostanza del personaggio e l’aggettivo che lo designa, tanto da doverne ribadire, con una ulteriore didascalia, il precipuo carattere; è più probabile che si tratti semplicemente della volontà di sottolineare una mitologia dell’eroe (o dell’anti-eroe) istantanea, pronta a classicizzarsi con una semplice ripetizione «nominale».
La meta ulteriore è quella di creare un mondo che sia a un tempo riconoscibile eppure «simbolico», personaggi plausibili e pure stra­namente dissonanti, un film costantemente serio persino mentre richiama l’attenzione su di sé come favola. In un certo senso si può affermare che giunti a questo livello di profondità icastica (due occhi che riempiono completamente lo schermo) lo zenit dello «specifico» western è raggiunto: non è possibile andare oltre, se non retrospet­tivamente, non a caso, con un titolo che recita C’era una volta il West.

Notes:

1. Alfred Eibel, Fritz Lang, Présence du Cinema, Paris 1964.
2. Alla domanda rivolta (intervista a me rilasciata in data 30 settembre 1998) al direttore della fotografia Tonino Delli Colli in merito alle pre­ferenze di Leone sui diversi obiettivi, la risposta è stata: «Nessuna pre­ferenza: Sergio usava sempre tutto il “corredo!”»
3. C. Cunbow, Once upon a Time: the Films of Sergio Leone, Scarecrow Press Ine., Metuchen, New Jersey 1987, p. 50.
4. Vladimir J. Propp, Morfologia della fiaba, Einaudi, Torino 1966.
5. Frayling, cit., pp. 170-171, con un puntiglio estremo, si diverte a riconoscere tutti i tipi di armi utilizzati nel film e ne sottolinea anche alcuni anacronismi.
6. Delli Colli, intervista cit.

Tutto il cinema di Sergio Leone, Baldini&Castoldi

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