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A.I. Intelligenza Artificiale: Un Mondo Senza Pietà – Speciale Cineforum

"A.I." delinea l'immagine di un mondo (futuro?) in cui "nascere" robot aiuta forse a capire, ma non a sconfiggere il destino di solitudine e silenzio che incombe sulla specie umana

A.I. Intelligenza artificiale
Titolo originale: AI – Artificial Intelligence.
Regia e sceneggiatura: Steven Spielberg.
Soggetto: Ian Watson, dai racconti di Brian Aldiss «I Supertoys che durano tutta l’estate», «I Supertoys quando arriva l’inverno» e «I Supertoys nella nuova stagione».
Fotografìa: Janusz Kaminski.
Montaggio: Michael Kahn.
Musica: John Williams.
Scenografia: Rick Carter.
Costumi: Bob Ringwood.
Interpreti: Haley Joel Osment (David), Frances O’Connor (Monica Swinton), Sam Robards (Henry Swinton), Jake Thomas (Martin Swinton), Jude Law (Gigolò Joe), William Hurt (il professor Hobby), Ken Leung (Syatyoo-Sama), Sabrina Grdevich (la segretaria), Theo Greenly (Todd), Ashley Scott (Gigolò Jane), John Prosky (Mr. Williamson), Enrico Colantoni (l’assassino), Brendan Gleeson (Lord Johnson-Johnson), Michael Berresse (il manager della “Fiera della carne”), Haley King (Amanda), Clara Bellar (la “mecha” bambinaia), Keith Campbell (il “mecha” lavoratore), Tim Edward Rhoze (il “mecha” tecnico di laboratorio), Jim Jansen (il “mecha” cuoco), Eliza Coleman (General Circuita), R. David Smith (il “mecha” saldatore), Wayne Wilderson (il “mecha” comico), Bobby Harwell (il volto nel monitor tv), Billy Scudder (il “mecha” meccanico); voci nella versione originale: Jack Angel (Teddy), Robin Williams (Dr. Know), Ben Kingsley (il narratore), Meryl Streep (la Fata Turchina).
Produzione: Kathleen Kennedy, Steven Spielberg, Bonnie Curtis per Amblin/Stanley Kubrick.
Distribuzione: Warner Bros.
Durata: 144′.
Origine: Usa, 2001.

In un futuro non troppo lontano, le calotte polari si sono sciolte, causando l’immersione di tutte le città costiere del mondo, tra le quali New York, Amsterdam e Venezia. La razza umana, però, continua a vivere nelle terre interne, avanzando tecnologicamente fino al punto di creare dei robot identici nell’aspetto agli uomini e in grado di servire l’umanità. Una delle più famose compagnie produttrici di robot, la Cybertronics, realizza David, un bambino progettato e programmato per sostituire negli affetti un figlio vero, destinato alle coppie che di figli non ne possono avere o che li hanno perduti. Il prototipo viene affidato a Mr. e Mrs. Swinton, due genitori il cui vero figlio è in coma criostatico per una malattia incurabile. David sviluppa imprevedibili sentimenti vicini all’affetto soprattutto per Monica, la “mamma adottiva”, che a poco a poco ricambia il calore. Dopo un periodo felice di convivenza tra David e la sua nuova famiglia, il vero figlio della coppia sorprendentemente guarisce e torna a casa. Uno spiacevole incidente, di cui David non è tuttavia responsabile, spinge Monica e il marito alla sofferta decisione di abbandonarlo.

Lasciato in mezzo al bosco, David, col piccolo orso di peluche Teddy, un “supergiocattolo” in grado di esprimersi e muoversi autonomamente, intraprende un viaggio in un mondo per lui del tutto sconosciuto. Conosce Gigolò Joe, un robot programmato per amare, in fuga dopo che un marito geloso ha fatto ricadere su di lui la responsabilità dell’omicidio della moglie. I tre fanno amicizia. Dopo essere scampati a una “Fiera della Carne”, un orrendo spettacolo simil-gladiatorio in cui automi in “rottamazione” vengono massacrati nelle maniere più crudeli e fantasiose, i tre giungono a Rouge City, dove esiste un sapiente che secondo Gigolò Joe è in grado di indicare a David la strada per incontrare la Fata Turchina. David, infatti, suggestionato dalla lettura di «Pinocchio», è convinto che la Fata possa indicargli come ritrovare Monica. Il sapiente è Dr. Know, una macchina a gettone dalle conoscenze enciclopediche. Dalle risposte sibilline di Dr. Know, David, Gigolò Joe e Teddy concludono che la destinazione giusta è New York.

Giungono alla città, le cime dei cui grattacieli spuntano dalle onde dell’Oceano Atlantico. Nella parte emersa del palazzo della Cybertronics, David conosce il suo creatore, il professar Hobby. Tale incontro, assieme alla scoperta che la Cybertronics sta mettendo in commercio migliaio di automi identici a lui, gettano David nello sconforto. Dopo che Gigolò Joe è stato catturato dalla polizia, David si immerge con Teddy, a bordo dell’eli-sottomarino con cui sono fuggiti da Rouge City, nella New York sommersa, fino ad arrivare al luna-park di Coney Island. L’eli-sottomarino si ferma davanti a una statua raffigurante proprio la Fata Turchina. David rimane lì, in attesa che la statua si animi e gli possa parlare.

L’attesa dura duemila anni, durante i quali la razza umana si estingue e gli oceani ghiacciano. A New York, adesso, lavora una specie superevoluta di alieni che, novelli archeologi, stanno un po’ alla volta riportando alla luce le vestigio dell’antica civiltà. Questi recuperano David e Teddy. Avendo la possibilità di donare e far rivivere, sia pure per un solo giorno, gli esseri umani, i nuovi abitanti della Terra, con la complicità di Teddy, che ha custodito una ciocca di capelli di Monica, riescono ad esaudire il grande desiderio di David: godersi per un’ultima volta una giornata in compagnia della sua adorata mamma. Poi, David tornerà a essere irrimediabilmente solo.

* * *

Il corpo delle immagini

di Pier Maria Bocchi

A.wesome I.mmortality

La paura che A.I. mette in scena è quella della persistenza delle immagini. Dal Devoto/Oli Le Monnier: «Persistenza delle immagini: la permanenza delle immagini sulla retina oltre il tempo della loro esposizione». Robot o umani, raramente negli ultimi tempi al cinema si è constatato con tale immensità il terrore dell’immortalità delle immagini, del loro connaturato dovere di cittadinanza nella nostra mente e del rispettivo obbligo di questa a registrarle. Nel nostro bisogno di immagini c’è qualcosa di terrificante. Se per vivere abbiamo la necessità di inscatolare il mondo dentro la nostra testa per evitare la cecità, A.I. ci dice che si tratta di un processo a doppio taglio. Come tutto ciò che risulta immortale, anche i coefficienti di realtà che vediamo e immagazziniamo mettono paura. Perché restano dentro, si sommano uno sull’altro ogni minuto, ogni anno, si sistemano in compartimenti stagni, si catalogano, con le loro brave etichettine, e anche se il corso del tempo può arrugginirli, oscurandoli e dando il passo alla dimenticanza e all’oblio, essi vivono tuttavia, perenni e imperituri. L’uomo è un covo di stimoli visivi registrati, di riproduzioni personali, e ciò è unanimamente considerato un bene: per tenere lontano l’ignoranza, per scansare l’imbecillità, per evitare la barbarie, e, dall’altro lato, per coltivare se stessi, per pungolare la curiosità, per innaffiare la consapevolezza. Tutti d’accordo. Eppure si tratta anche di una specie di possessione. Il cervello è occupato da cose da sempre e per sempre vive, che gironzolano stando sempre ferme, che agiscono restando sempre uguali a se stesse (a differenza dei concetti, delle credenze, dei pensieri, che mutano anche quando meno ce lo si aspetta, volenti o no), che conquistano a poco a poco terreno, sempre più, costantemente, senza esaurimento, perché lo spazio è infinito. E questo, a rifletterci, inquieta un po’. È come avere dentro qualcosa che possiede vita propria. Qualcosa, però, di cui abbiamo un bisogno vitale, appunto.

La paura arriva quando ci si accorge che tali pezzi di mondo si impadroniscono attivamente di noi, ovvero entrano in azione, la loro azione, che può essere quella di mutazione dell’ospite. Guarda caso, la pellicola di Spielberg arriva nello stesso anno in cui Stephen King ha consegnato alla carta stampata lo strepitoso «L’acchiappasogni» (Dreamcatcher), un romanzo, rivoluzionario nella scrittura kinghiana, che si concentra in quasi duecento pagine – delle sue quasi settecento complessive – sulla possessione, ai limiti dell’astratto ma paurosamente carnale, del corpo e della mente di un uomo, Jonesy, da parte di un’entità extraterrestre, Mr. Gray, decisa a portare a termine il proprio compito terroristico sulla terra per mezzo del fisico dell’ospite. La prolungata permanenza dentro Jonesy porta Mr. Gray a un graduale desiderio di cambiamento e di trasformazione secondo la natura umana. Più l’occupazione va avanti, più Mr. Gray, essere del tutto privo di qualsiasi impressione, definizione e personalità, neutro anonimo e incolore nel senso di “non formato”, perlomeno non secondo i parametri organico-terrestri, viene ad assaporare l’essenza primitiva e basilare della vita umana: il piacere del cibo (il bacon), la complessità delle emozioni, perfino il godimento dell’omicidio. Mr. Gray, che si pensava impermeabile ai propri ospiti, tradisce invece una debolezza permeabile che, sommata ad altri fattori, lo porterà alla sconfitta.

L’esposizione alle cose – belle o brutte, nel bene e nel male – portano attimi o lunghi momenti di felicità e estasi, ma insieme portano al fallimento. E alla morte. Lo capisce bene Mr. Gray, e fa molta fatica ad ammetterlo a se stesso. Lo capisce bene David, e lo ammette anche a se stesso, ma ciò non toglie che la disperazione della constatazione diminuisca. Anzi, se possibile, è centuplicata, perché a differenza del Mr. Gray delle pagine di King, David alla fine continua a vivere, nella solitudine più totale, per secoli e secoli, fino alla fine del mondo, se mai arriverà.

A.bove I.ntangibility

Gli ultimi quaranta minuti di A.I. mettono la pelle d’oca. E lì che la consapevolezza di David diventa coscienza. Forse non coscienza come la intendiamo noi, ma comunque un meccanismo, pur a grandi linee, di comprensione. Come poi David elabori tale comprensione è opportuno lasciarlo alla fantasia personale. Il robot decide di avere vicino per un’ultima volta la madre, di guardare per un’ultima volta la sua immagine, sapendo che ciò sarebbe fatale, per lei, che in seguito non potrà più ritornare, e per lui, che in quel momento varcherebbe le porte della terra dove nascono i sogni. David, che se ne sta duemila anni rinchiuso nella navicella, sott’acqua, nel ghiaccio, immobile, ad osservare la fata turchina finalmente trovata (idea che rasenta il sublime, da far tremare i polsi), acconsente alla definitiva mutazione, arrivando, appunto, alla coscienza, cioè a capire le cose. La terra dove i sogni nascono è quella della realizzazione del mondo, di sé e delle cose intorno. E il paesaggio finale che si presenta a David è più nero della pece. David capisce chi è e chi sono gli altri, cos’è l’universo e che peso ha l’artificialità, quanto sterminato sia l’infinito e in che misura la solitudine e il silenzio abbiano sconfitto l’uomo.

Quella di David è una consapevolezza di campo di portata sconvolgente, attuata attraverso domande e risposte, concetti elementari e osservazioni perenni, immersa in un corso di eventi che è Storia veloce come la luce. E tutto ciò che si aveva, mamma papa amici, non ci sono più in un batter di ciglio. Ma sembra ieri, perché David è sempre uguale. Se c’è una cosa di cui David non si è reso e non si rende conto alla fine, è proprio il passare del tempo, il passato remotissimo, remoto, prossimo. Altro che duemila anni fa, la Fiera della Carne è come se fosse avvenuta poco prima. Per lui quelle saranno sempre immagini senza tempo, assorbite in un baleno: e lì diventano ricordi, ovvero immagini di cose che non ci sono più. Quando lui invece c’è eccome. Ecco, lo scarto sottile è proprio tra realizzazione del presente e del futuro, e definizione del passato, senza però connotare alcunché secondo cifre temporali precise o anche approssimative. David prende coscienza di ciò che verrà, e riesce finalmente a dare un nome a ciò che è stato. Si tratta di una nascita, certo, di un venire alla luce della comprensione, eppure possiede un carico di tristezza sconfinato. Come è possibile parlare di melensaggine quando è un finale di abisso, di un ragazzine per sempre ragazzine che arriva a capire le cose quando queste sono ormai morte, destinato a vivere in eterno sapendolo e che coglie all’improvviso la profondità dell’amore e del dolore nel momento stesso in cui prende consapevolezza della loro estinzione, ormai ricordi, potremmo dire mai vissuti davvero e vivi solo per un momento, un momento di morte, vicino al letto su cui la madre se ne andrà senza poter più tornare?

A.I. è davvero il film più kinghiano che King non abbia mai scritto. Altrove si è discusso, anche spesso con una pignoleria che non porta a niente se non a dimostrare una certa arroganza, su cosa ci sia di Spielberg e cosa sia rimasto di Kubrick, quante scene siano di derivazione kubrickiana e dove Spielberg abbia citato direttamente o meno il regista di Barry Lyndon. Sono questioni che lasciano il giorno che trovano, da bar, da rotocalco e da signore da salotto in vena di dimostrazioni di cultura. Peccato invece che nessuno abbia scritto quanto la storia di A.I. sembri derivare dalla penna dello scrittore del Maine. David è un personaggio kinghiano, come se fosse venuto fuori dalle pagine di ambientazione piccola cittadina o da quelle, sottovalutatissime, dedicate alle lande deserte e desolate della serie della Torre Nera. I bambini di King raggiungono la consapevolezza, chiamata con più retorica maturità, attraverso vicende di sangue e di morte, scossoni violenti all’ingenuità e all’ignoranza (ma anche gli uomini di King non si sottraggono alla regola). Potrebbe tranquillamente adattarsi ad A.I.

A.waiting I.dentity

Stupisce il nuovo corso carnale del cinema di Spielberg. Se guardiamo bene, tutti i suoi film parlano di carne. O forse sarebbe più corretto dire che parlano di corpi. A.I., insieme alla serie di Indiana Jones, Always – Per sempre, Amistad e Salvate il soldato Ryan (e pure Schindler’s List), è il film più corporale di Spielberg; non anche corporeo come Always, Amistad e Ryan, ma principalmente corporale. E stupisce perché se Amistad e Ryan mettevano in scena il corpo nella sua sanguinosa finitezza attraverso materiali alto-storici, A.I. lo mette a confronto con il suo surrogato tentando anche strade basse come il cinema di genere. Lo fa spesso con metodi che vanno nella stessa direzione di quelli utilizzati per la serie di Jones, ovvero con frizioni tra contesto e narrato che nei casi migliori danno vita a un equilibrio di arte e mercato. Solo che I predatori dell’arca perduta, Indiana Jones e l’ultima crociata e, soprattutto, Indiana Jones e il tempio maledetto (il migliore della serie, checché ne dicano, il più contorto, il meno controllato e per questo più libero), erano nati e restano film di genere e, appunto, di mercato, in cui l’arte di Spielberg trovava conforto e terreno fertile. A.I. invece è nato come film d’arte, a prescindere dalla sua reale paternità, e questo non dovrebbe permettere interventi di genere. Ma A.I. è (anche) uno splendido pezzo di cinema di genere, come pure Ryan, a suo modo, lo era (il war-movie e i suoi topoi). E questo ha fatto storcere il naso. Giù le zampe sudicie del genere da Kubrick, dicono e scrivono gli stolti, evidentemente ignorando che tutte le pellicole di Kubrick sono prima di tutto film di genere.

Spielberg dunque si sporca le mani, e piace non poco, perché al tirar delle somme il senso di tutto è rafforzato. Si getta a capofitto in una lunga scena d’Apocalisse, la Fiera della Carne, che pare venuta fuori da Mad Max – Oltre la sfera del tuono (e non riesco ad esimermi dal pensare a «La mostra delle atrocità» di Ballard, senza una ragione precisa, o forse no), e la fa precedere da un inseguimento in moto tra i boschi che non stonerebbe affatto in un post-atomico italiano degli anni Ottanta, un qualsiasi Sergio Martino o Enzo G. Castellari. Si concede visioni puramente di genere, ipertrofiche e strabordanti, come la città delle luci e il suo casino, a metà strada tra Atto di forza e, perché no, Un sogno lungo un giorno (grande film di genere). Crea sequenze inquietanti come l’omicidio nella camera d’hotel, esplicito e crudo, non propriamente gore ma neanche tanto lontano, da thriller distillato. Se c’è qualcosa di fastidioso, in A.I., è da ricercare altrove (per esempio nelle scenette di David a casa con la madre che gioca a nasconderella, o a tavola coi genitori mentre osserva rapito l’atto del mangiare, mimandolo: queste sì un po’ troppo didascaliche, troppo spielberghiane, ma dello Spielberg peggiore), e non nella generosità di un film che non teme di raccontare tanto, di far vedere molto, di concedere più del novanta per cento della produzione contemporanea. E una generosità non fine a se stessa o dimostrativa, ma con uno scopo ben preciso, che è quello di caratterizzare con enorme forza la voragine di solitudine e di distanza tra David e il suo mondo, che arriverà a punte di insostenibile enormità nell’ultima parte del film. L’isolamento di David è certo anche quello di Gigolò Joe e Teddy, e in questo sembra davvero di leggere le avventure kinghiane di Roland di Gilead e i suoi compagni di viaggio, Eddie, Jake, Susannah e Oy, anch’esse di puro genere – il fantasy – eppure pregne di bellissime riflessioni sull’uomo e l’universo che lo include.

Gli extraterrestri di Incontri ravvicinati del terzo tipo torneranno, ma ad attenderli non ci sarà un popolo, né Gigolò Joe né Teddy, ma uno solo, David, bambino da secoli e secoli, e per secoli e secoli, che in un istante ha perso tutto quello che veramente non è mai riuscito ad avere e a vivere. David: umano.

* * *

Orfani: da E.T. ad A.I.

di Emanuela Martini

Il giochetto autunnale cui si è abbandonata la critica con entusiasmo è stato: quanto c’è di Kubrick e quanto di Spielberg in A.I.? Giungendo abbastanza spesso alla conclusione che quanto c’è di buono (soprattutto il razionale cinismo con cui si osservano gli umani e i loro rapporti con i robot) sia lascito di Kubrick, e quanto c’è di cattivo (l’eccesso di dolcezza e l’indomabile amore di David) venga dall’inguaribile vocazione consolatoria di Spielberg. Ora, a parte il fatto che il giochetto non sarebbe piaciuto, per primo, a Kubrick, che era tanto autore da riconoscere e rispettare l’autorialità degli altri, soprattutto del cineasta al quale aveva destinato la regia del progetto A.I., molto ci sarebbe da discutere sull’effettiva bontà consolatoria di A.I., ma anche su quella di Spielberg in generale, a partire da Duel e da Lo squalo, ma anche da E.T., da Incontri ravvicinati del terzo tipo, da L’impero del sole. Il mondo, che è alquanto malconcio all’inizio di A.I., si spegno completamente, preservato nella morte da una glaciazione; il genere umano procede rapido verso la propria autodistruzione, fisica ed emotiva; e, per scendere nei dettagli, non c’è un umano del quale, alla fine del film, possiamo sentirci tanto fieri quanto del robot Gigolò Joe. Neppure Monica, con le sue comprensibili titubanze e il suo definitivo abbandono al richiamo del sangue; neppure il professor Hobby, con la sua straziante ossessione di ricreare il figlio perduto, ma su larga scala e tale che gli possa rispondere solo con l’amore. Non c’è bontà nel mondo percorso da David, e nessuna possibilità di consolazione se non nel rifugio momentaneo nella favola (una favola che però non può dare risposte, finché non arriva un’entità ancora più fantastica – il cinema? – che consente, almeno per un attimo, per tre ore, per una mezza giornata di veglia, di materializzarla). Ce n’è molta, invece, in quello cui David appartiene, il mondo dei robot creati dagli uomini per corrispondere ai loro desideri: desiderio di essere serviti, desiderio di sesso ad altissimo livello professionale, desiderio di essere amati. I meccanismi emotivi attivati nei robot sono irreversibili: non sono buoni, è che li hanno “disegnati” così (per parafrasare al contrario la celebre frase di Jessica Rabbit). Ma non sono stati né Spielberg né Kubrick a “disegnarli” così; e neppure Brian Aldiss, che pubblicò «I Supertoys che durano tutta l’estate» (e gli altri due racconti che completano il ciclo di David, «I Supertoys quando arriva l’inverno» e «I Supertoys nella nuova stagione») nel 1969, quando erano già famose le tre leggi della robotica inventate e applicate nel 1950 da Isaac Asimov nel ciclo «Io, robot» (che probabilmente resta il testo narrativo fondamentale sui rapporti tra gli esseri umani e le loro creature): «1. Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno; 2. Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non contravvengano alla Prima Legge; 3. Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questa autodifesa non contrasti con la Prima e con la Seconda Legge» (1).

Un robot dell’ultimissima generazione come David, creato per amare senza cedimenti, rimpianti o esitazioni una persona, non potrà mai smettere di amarla, non potrà mai farle del male («Non posso farlo», dice al “fratello” Martin che cerca di convincerlo a tagliare una ciocca di capelli di Monica). David non crescerà mai e continuerà per sempre a tentare di diventare “vero”, perché crede che questa sia la chiave di volta della corrispondenza amorosa di Monica (probabilmente ha ragione, ma chissà: l’amore umano va e viene e uno non è mai uguale all’altro, e David non sarà mai primogenito, non sarà mai dello stesso sangue, sarà sempre nato “altrove”, in un laboratorio, da un grumo di cavi e di chip, come da un pezzo di legno nacque un giorno Pinocchio). La favola del burattino che voleva diventare vero e ci riuscì incrocia la favola spielberghiana per eccellenza, quella del bambino che, invece, rifiutò di crescere, e fece della vita un’eterna avventura tra pellerossa e pirati nell’Isola-che-non-c’è (solo una volta è cresciuto, in Hook). Ma, se andiamo alla radice, alle origini vere della storia di Peter Pan, ci accorgiamo che è una delle fiabe più dolorose del mondo (solo Andersen riesce a battere Barrie in amarezza); e non a caso, si è sempre detto, il mito di Peter Pan è una delle basi dell’opera di Spielberg, e di una generazione che ha vanificato il suo talento nella leggerezza della solitudine. Peter è Richard Dreyfuss in Incontri ravvicinati e in Always (finché non accetta la propria morte), Peter è il giovane Jim, che attraversa la guerra e i campi di prigionia con il cinismo affamato dell’adolescenza, Peter è addirittura Oskar Schindler, che crede di aver ricavato per i suoi prigionieri (e per la sua coscienza) un angolino sicuro nell’orrore dell’Olocausto. E Peter è naturalmente E.T., eterno bambino per le sue forme astratte, per i suoi occhi teneri e per la voracità d’apprendimento, e David che, come il Peter della storia di Barrie, vuole “tornare a casa” ma non ci riesce.

«Alla fine partì in gran fretta, perché aveva sognato che sua mamma stava piangendo e lui sapeva qual era la vera causa del suo pianto», racconta Barrie quando Peter, che si è perduto in fasce nei giardini di Kensington, decide di abbandonare le fate per tornare a casa. «Un abbraccio dal suo magnifico Peter l’avrebbe presto fatta sorridere. Oh! era così sicuro di questo e così ansioso di farsi coccolare fra le sue braccia, che questa volta volò direttamente alla finestra che avrebbe dovuto essere sempre aperta per lui. Ma la finestra era chiusa, e davanti c’erano delle sbarre di ferro. Sbirciando dentro vide sua madre che dormiva pacificamente e fra le braccia teneva un altro bambino piccolo. Peter chiamò, “Mamma! Mamma!”, ma lei non sentì; invano batté le piccole mani contro le sbarre di ferro. Dovette rivolarsene singhiozzando ai Giardini e non rivide mai più la sua cara mamma. Che bambino stupendo aveva pensato di essere per lei! Ah, Peter! Noi che abbiamo commesso il grande errore, quanto diversamente ci comporteremmo in una seconda occasione! Ma il corvo Salomone aveva ragione, non c’è seconda occasione, non c’è per la maggior parte di noi. Quando arriviamo alla finestra è Ora di Chiusura. Le sbarre di ferro sono lì a vita» (2).

David, con le sbarre davanti agli occhi ci è addirittura nato. Perché, come E.T., non è di questo mondo. Gli umani un po’ lo disprezzano, un po’ lo temono, sempre lo, usano come bersaglio, d’amore mediato, di odio, di profitto. E piccolo e, a differenza di Teddy (l’orsacchiotto che ha attraversato milioni di vite e milioni di fiabe), non ha la saggezza e la cautela di E.T. David si da, e viene trattato con sufficienza e sospetto, respinto, abbandonato, tradito, felice comunque di concludere la sua millenaria esistenza di robot con un’unica giornata perfetta tra i fantasmi. Perché la Monica che chiude il film insieme a lui non è la Monica della prima parte; è un ideale impossibile materializzato dagli alieni. La sua “vera” mamma è umana, è quella che, come massimo gesto di affetto, lo abbandona in mezzo al bosco invece di riportarlo alla Cybertronics dove l’avrebbero smembrato. Un bosco dove non c’è la solidarietà dispettosa delle fate di Kensington, ma solo la paura degli altri robot in fuga, braccati dai mercanti della carne.

Se proprio volessimo individuare le affinità tra Spielberg e Kubrick, e l’infelicità profonda di questo film, dovremmo probabilmente cercarla qui, in una madre e due padri diversamente incapaci di restituire amore a un bambino che non è nato da donna. E nella lunga sequenza di padri distruttori o assenti e di madri svagate, angosciate, troppo prese da una femminilità in fuga dei film di entrambi. Per Kubrick: Humbert Humbert e Charlotte, Barry Lyndon, Jack Terrance e tutti gli ufficiali di Full Metal Jacket. Per Spielberg: Goldie Hawn in Sugarland Express, Richard Dreyfuss in Incontri ravvicinati, il babbo e la mamma di Elliott in E.T., Peter Pan in Hook. Con durezza e con tenerezza, tutti e due ci hanno raccontato un mondo primario, dove la paura prevale sempre sulla sicurezza, e la fatica che si fa a superarlo.

(1) Isaac Asimov, «Io, robot», Mondadori, Milano 1973, p. 15.
(2) J.M. Barrie, «Peter Pan nei giardini di Kensington», Rizzoli, Milano 1981, pp.106-107.

Cineforum 409, Novembre 2001

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