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THE RIGHT PLACE: INTERVISTA A MICHAEL CIMINO (1985)

Intervista a Michael Cimino realizzata da Marc Chevrie, Jean Narboni e Vincent Ostria, Cahiers du Cinéma n. 377

Intervista a Michael Cimino realizzata da Marc Chevrie, Jean Narboni e Vincent Ostria, Cahiers du Cinéma n. 377, 1985

Come ha avuto l’idea dell’Anno del dragone?

Ho lavorato a lungo per conto mio ad una specie di Western sul ruolo dei cinesi nella costruzione della ferrovia che collega Panama all’Alaska. Ma il film non ha mai potuto essere realizzato. Da parte sua, a mia insaputa, Dino de Laurentis si era interessato a un progetto su Chinatown di New York già da molti anni e aveva ordinato diverse sceneggiature di cui non era soddisfatto. Quando fu pubblicato L’Anno del Dragone egli prese un’opzione sul libro e mi contattò con una sceneggiatura assai fedele all’originale romanzo. Io ho rifiutato dato che il libro non mi piaceva molto: non credevo al personaggio. Ho accettato di utilizzare il libro solo come punto di partenza, immaginando una storia diversa ed egli ha finito per essere d’accordo. Ho concepito L’Anno del Dragone in un modo molto simile a come avevo fatto con Il Cacciatore. Abbiamo cominciato la preparazione materiale del film nello stesso tempo che scrivevamo la sceneggiatura. Evidentemente è un principio rischioso perché presuppone che si abbia un’idea precisa dell’aspetto visivo del film prima di cominciarlo. Per Il Cacciatore avevo dovuto mandare lo scenografo in Thailandia con una lista di cose che doveva trovare ancora prima di avere una sceneggiatura. Ne avevo mandato un altro nell’Ohio, a Pittsburg, un altro nel Washington, anche lui con una lunga lista. È stata la stessa cosa per L’Anno del Dragone. Il fatto positivo in tutto questo è che essendo in contatto quotidiano con le persone sulle quali si intende fare un film, si ha l’occasione di osservare molti dettagli, di accumulare tante informazioni di quelle che in seguito è possibile integrare nel film. E L’Anno del Dragone è certamente il film che ha più sfruttato questo metodo e che se n’è più arricchito sia nel senso del luogo che nella profusione dei dettagli.

Ma se già aveva un’idea dei problemi della comunità cinese, se aveva tutti i personaggi, perché riferirsi al libro?

È uno dei misteri di Hollywood. La gente decide di fare un film per molte ragioni. Noi dobbiamo sfruttare le opportunità che si presentano e farne quanto più possibile qualcosa di personale. È molto raro che ci venga proposto un soggetto o una sceneggiatura perfetti e che ci sia un’osmosi ideale. La maggior parte delle volte è il contrario. Noi siamo nella situazione di un pittore a cui si domanda: “Ho un soffitto molto sporco, può ridipingerlo e decorarlo di nuovo? Ho una sala da pranzo con un muro orribile, mi aiuti a sistemarla?”. Più spesso ci si confronta col problema della trasformazione di un cattivo materiale di partenza. È una cosa che molti registi europei non capiscono facilmente quando vengono negli Stati Uniti; siamo obbligati dalla forza di volontà a far venire fuori un buon film da una situazione iniziale poco promettente.

Che cosa resta del libro di Robert Daley nel film?

E un libro che è stato scritto da qualcuno che non è un poliziotto di strada e nemmeno un poliziotto di carriera: è qualcuno che lavorava nell’ufficio di un “district attorney” e la maggior parte del libro è stata scritta traendo spunto da degli archivi e dai dossier. Quando abbiamo incominciato a incontrare le persone a Chinatown, ci hanno detto che nessuno aveva mai visto quel tipo laggiù; è senza dubbio perché i personaggi cinesi del libro sono così esili e senza spessore. Nel libro, il personaggio principale è prossimo alla pensione, ha 56 o 57 anni. È un’altra generazione. E c’è anche una giornalista, ma lei è bianca e ha vent’anni più di quella nel film. Dunque credo che non resti gran cosa del libro se non che la storia si svolge a Chinatown, dove si assiste allo svolgersi di varie attività criminose, che c’è un poliziotto e una giornalista. Non c’è altro. Abbiamo letto il libro e poi l’abbiamo dimenticato. Noi abbiamo scritto la storia man mano che incontravamo la gente di Chinatown.

Il soggetto e i personaggi

Anche se Stanley White è il nome di un vero poliziotto, non è un caso se nel film è un immigrato polacco, che ha cambiato nome.

Chinatown, a New York, è una comunità molto autarchica. E dall’altra parte dell’East River c’è una comunità polacca completamente chiusa, dove si parla polacco per la strada e dove la messa, in chiesa, è detta in polacco. C’è un’atmosfera completamente differente da qualsiasi altro luogo di New York. È proprio come il giorno e la notte. In questa città, c’è una varietà di gruppi etnici e tutta questa gente è molto fiera delle proprie origini e della propria eredità: essi festeggiano le loro particolarità con delle processioni, delle cerimonie. E, nello stesso tempo, sono molto fieri di essere americani. Hanno questa doppia nazionalità ambivalente e la sentono come tale. È un fatto unico nel mondo.

Ma per il capo di Stanley, alla polizia, sembra molto importante il fatto di cambiare nome. Egli gli dice ‘‘non ho cambiato nome come te”.

Questo sottolinea ciò che ho appena detto. È fiero del suo nome polacco, Bukowski, e non l’ha dimenticato. Stanley è come molti immigrati, soprattutto della prima generazione, che hanno immediatamente inglesizzato il loro nome. Tra gente che viene dallo stesso quartiere, ce ne sono alcuni che vogliono conservare le caratteristiche europee e altri che cercano di diventare anglosassoni.

Questo film è un po’ il negativo de Il Cacciatore in cui si vedono dei soldati americani andare fuori, in un altro paese, nel Vietnam. Mentre qui, è il contrario, è una sorta di continuazione della guerra del Vietnam all’interno dell’America.

Per molte ragioni, penso che sia utile e necessario stabilire un legame tra i film, mettendo I Cancelli del cielo per primo, Il Cacciatore per secondo e per terzo L’Anno del Dragone si ottiene una specie di trilogia, un trittico. E infatti si può sentire una continuità tra certi temi. Mi è stato utile, a diversi livelli, concepire L’Anno del Dragone come seguito de Il Cacciatore, con il personaggio di Michael Bronski dieci anni dopo. Era un emblema che mi permetteva di andare avanti. Avevo anche in mente questa frase di Don McCullin, il grande fotografo di guerra inglese: “Un film di guerra girato in tempo di pace”. Per Stanley, Chinatown diventa un altro campo di battaglia, la ripetizione di un conflitto che per lui non è stato risolto.

C’è un’altra particolarità dell’Anno del Dragone, è l’opposizione di due civiltà di cui una, la cinese, è molto più antica di quella americana.

Una delle cose che mi interessavano era questo dialogo tra un uomo che è un americano-polacco della prima generazione, che ha combattuto in Vietnam e che si considera come un vero patriota americano, e questa ragazza cinese con la quale entra in conflitto che è della quinta generazione, i cui antenati hanno costruito la ferrovia americana, che in un certo senso è più americana di lui.

Ma al tempo stesso, per Stanley White, i cinesi approfittano dell’America senza integrarsi al suo sistema, mentre egli ha trascorso la sua vita cercando di cancellare le sue origini per inserirsi.

La lingua cinese è così complessa e composta di tanti dialetti che è sempre servita da barriera. La lingua ha sempre protetto la comunità cinese in America facendone un mistero, un mito. Per generazioni, i cinesi sono rimasti in secondo piano, ma essi hanno un ruolo politico evidente, per quanto spesso sostengano in egual misura i due partiti. La presenza visibile dei cinoamericani nella politica locale, nelle città, è molto recente. Penso che questo fenomeno si amplierà se non altro a causa della situazione di Hong Kong e della cultura cinese che è ricca di una tradizione molto antica, di molto anteriore alla nostra cultura e sarà certamente l’influenza culturale dominante negli Stati Uniti nei prossimi 50 anni. Io cerco di dimostrare implicitamente mediante l’abitazione di Tracy, il modo di vestirsi, il suo essere sofisticata, la distanza che la separa da Stanley White, dal suo universo e da Chinatown. Ora, in America, su quasi tutte le reti televisive, c’è una ragazza asiatica molto attraente, molto bella, che presenta le informazioni sia a livello locale che nazionale. È diventata una moda. Queste ragazze, come Tracy, si allontanano da Chinatown. Non hanno questo spirito di comunità. È un po’ quello che fa arrabbiare Stanley. Per lui, se si è cinesi ed altri cinesi sono attaccati, ci si deve indignare. Ma egli non comprende la distanza che separa questo luogo brulicante, quasi sotterraneo di Chinatown e quel luogo elevato dove lei abita, con quella vista spettacolare e romantica di New York, a strapiombo su Chinatown.

Nel film c’è una critica dei mass-media e della televisione.

Questa critica che Stanley fa a Tracy è l’espressione di quello che sentono molti veterani del Vietnam: una mancanza di responsabilità da parte della stampa. È un sentimento che persiste; i mass-media sono stati, in un certo senso, responsabili di quello che è accaduto.

La contraddizione dei punti di vista

Il suo film è stato accolto molto violentemente in America dalla comunità cinese come un film razzista a causa di questo poliziotto violento che vuole “ripulire” Chinatown. Qual’è la sua posizione?

Senza dubbio è stato accolto in questo modo perché è troppo vicino alla verità. Ma la reazione della giovane generazione è positiva. Davanti al cinema c’è spesso il 60 o 70% di cinesi e i giovani ritornano a vedere il film. E la prima volta che qualcuno li mostra in un modo così forte, su un piano di uguaglianza coi “bianchi”, la prima volta che si vede un personaggio cinese, al di fuori di una commedia o di una commedia musicale, sullo stesso piano del personaggio principale. È anche la prima volta che si vede una cinese-americana, ed è lei che rimprovera maggiormente Stanley; è lei che lo accusa di essere razzista e di aver causato la morte della sua donna e di Herbert Kwong, a causa delle sue ossessioni. È lei che trova il coraggio di lanciare queste accuse, cosa che non aveva intenzione di fare all’inizio del film, poiché non sentiva l’appartenenza a questa comunità. Per la prima volta in questo film, si sentono delle persone parlare dell’“Esclusion Act”. Nessuno negli Stati Uniti conosce questa legge, nessuno sa che i Cinesi non possono essere naturalizzati americani, che Chinatown è una società di celibatari e che gli uomini non possono far venire le loro donne negli Stati Uniti. Perfino Joej Tai si esprime a questo proposito e rimanda alla figura della televisione questi stereotipi e questa immagine alla Charlie Chan della comunità cinese. Ho visitato, in Thailandia, un villaggio costruito da Koon San, che pratica il commercio della droga. C’è un ospedale, una scuola, delle installazioni sanitarie. E il benefattore della sua comunità. Nella vita si trova spesso questo genere di contraddizione. Le persone sono delle contraddizioni viventi. E il caso di Joey Tay. Credo che sia importante che ci sia nel film un oscillamento tra l’amore e l’odio, che si cambi forse d’opinione su un personaggio durante il film, che si possa delineare un personaggio per studiarlo sotto diversi aspetti. Dopotutto nessuno di noi conosce né i limiti né la profondità di un’amicizia prima che essa sia messa alla prova. Non si sa fino a che punto qualcuno ci sosterrà, a meno che non accada qualcosa di importante. In questo film io volevo che il pubblico lottasse per amare Stanley, che esitasse ad odiare Joey. E questo non solo emotivamente, ma solamente in funzione della costruzione della sceneggiatura. Non è solo suggerito dalla narrazione, ma visivamente, dalla messa in scena. Lei ha senza dubbio notato che numerose scene sono filmate in un solo piano. Si ha l’impressione che ci siano molti piani, ma non è così, è un’alternanza di primi piani e di campi lunghi in un solo movimento fluido. Spesso i piani sono circolari. Credo che cosi il pubblico non si renda chiaramente conto dei cambiamenti dei punti di vista né delle variazioni della prospettiva. Questo aiuta a nascondere l’aspetto bidimensionale e manicheista dello schermo. Non c’è solamente un primo piano con gli eroi e uno sfondo dove delle persone chiacchierano. Si ha l’impressione di girare attorno ad un personaggio, nello spazio così come intellettivamente.

A questo riguardo, la fine del film è molto forte: è la stessa relazione d’amore e odio, tra Stanley e Joey, dei suoi altri film.

È chiaro che sul ponte, Joey Tay potrebbe scappare: ha abbastanza vantaggio da scomparire. Ma egli è talmente esasperato da Stanley che sceglie di non fuggire ed affrontarlo, rifiuta di essere umiliato da questo continuo inseguimento. In questo confronto finale, vanno entrambi al di là di loro stessi. Stanley emette un suono quasi animalesco quando si mette a correre, un suono strano… non è più cosciente. Sono sotto il dominio di forze arcaiche. Sono come lottatori alla fine di un combattimento, la folla non ha più importanza, sono come due fratelli. Stanley lascia a Joey scegliere la soluzione della sua morte. L’ironia è che lui muore sulle rotaie della ferrovia.

La fine e la ripresa

Il film termina con un funerale identico a quello che lo apre, come un ciclo che si conclude, ma anche come se tutto ricominciasse eternamente, come se tutto quello che era successo dovesse ripetersi.

No, no. Un nuovo inizio è sempre positivo. Stanley ha il merito di avere rivelato il problema. Ha reso visibile il lato nascosto delle cose giungendo allo stesso tempo ad una conoscenza più chiara di se stesso. Lui ritrova questa ragazza Tracy, ed è un po’ l’esemplificazione del fatto che se si fa la guerra troppo a lungo, si finisce per essere molto vicini al nemico. C’è la morte di qualcosa, ma anche l’inizio di qualcosa d’altro. È per questo che mi sono servito della sinfonia “Resurrezione” di Mahler. C’è qualcosa di maestoso nel fiorire di qualcosa che rinasce dalla morte.

Il personaggio di Connie, la donna di Stanley, era già così importante nella prima stesura della sceneggiatura o l’avete sviluppato successivamente?

No. lo filmo soprattutto quello che ho scritto e elimino molto poco durante il montaggio. Mi piace molto la scena della rottura, prima che lei sia uccisa. Lei dà al personaggio un rilievo che generalmente non si trova in questo genere di film polizieschi; rivela veramente l’alienazione di Stanley in rapporto a tale relazione. Egli le dice: “Io tengo a te più che a tutto il mondo”, ma non le dice “ti amo”. Questo mi ricorda un po’ un passaggio di “Christ in Concrete” di Kazantzakis. Il Cristo è crocefisso, inchiodato alla croce e ha una visione, un’allucinazione. Vede cosa sarebbe stata la sua vita se non avesse seguito questa via. Si vede come un uomo con dei nipoti, in un luogo assolato, circondato di vigne. Per un attimo egli arriva quasi ad averne nostalgia, poi si riprende e riassume le sue responsabilità. Spero che questo sia ciò che si vede sul viso di Stanley alla fine del film quando si alza… È venuto in questo luogo volontariamente, si è preso le sue responsabilità e non gli resta che questa realtà.

Quando Stanley White acchiappa la giovane assassina punk e l’abbatte, le domanda cinicamente se ha un’ultima volontà e lei gli risponde di andare a farsi fottere. È una scena poco comune, persino in un film di questo genere…

Normalmente questo momento sarebbe falsamente ‘romanticizzato’. Se mostrassi esattamente quello che avrebbero fatto alcuni poliziotti in quel momento lo troverebbe insopportabile. Il film, con tutta la sua vivacità, la sua crudeltà, la sua violenza, è sbiadito rispetto alla realtà. Mi ha sempre impressionato che persone come il vero Stanley White possano fare il mestiere che fanno per 20 o 30 anni e conservare una certa compassione, restare sensibili, malgrado quello che vedono quotidianamente. Se si va in un obitorio di qualsiasi grande città degli Stati Uniti, a Los Angeles, New York o Houston, si vede cosa devono subire gli uomini da altri uomini, una devastazione che supera ogni immaginazione. In ogni film ci sono degli espedienti nuovi per uccidere in modo più efficace. Durante i titoli di testa ci sono più morti che ne Il Cacciatore, Il Padrino e L’Anno del Dragone messi insieme. Se prendo tutta la pellicola che in questi tre film mostra delle azioni violente, lei potrebbe mettersela in tasca. Se lei fa la stessa cosa con un film di James Bond, le sarà necessario un camion. Ma un omicidio è un omicidio. Ciò significa che delle persone muoiono e credo che se un episodio violento in un film è un prolungamento organico della storia, se non è un mezzo, se è giustificato, bisogna mostrarlo per quello che è: un gesto ripugnante, che fa venir voglia di coprirsi gli occhi.

New York in Studio

Per la prima volta, credo, lei ha lavorato in studio. Ma è impossibile distinguere negli esterni la parte che ha filmato a New York da quella che è stata ricostruita.

La sua reazione mi fa piacere. Riuscire a fare questo è stato molto divertente. Ho avuto la stessa reazione delle persone che sono nate a N.Y. Non arrivano a credere che sono scenografie costruite in studio. La mia idea di partenza era che, naturalmente, sarebbe stato difficile girare a Chinatown, perché ci sono troppi negozi, troppo traffico, un’attività troppo intensa: è come Hong Kong. Non si può chiudere una strada per delle settimane. È impossibile. Ci sono dunque dei motivi pratici. Ma esteticamente, l’idea che le persone si fanno di Chinatown nella loro immaginazione, è molto più sontuosa della realtà. L’architettura di Chinatown non differisce in niente da quella della bassa Manhattan. Ci sono alcuni tetti ricurvi qua e là, quelle strane cabine telefoniche, ma nell’insieme, ci sono le stesse abitazioni, gli stessi impianti industriali, gli stessi edifici moderni in vetro e alluminio. Quello che la differenzia dal resto, è la ricchezza di insegne, l’abbondanza di calligrafia cinese, gli odori, la gente, i suoni, le voci, il rumore, il traffico. Ma quando si guarda queste strade obiettivamente, con uno sguardo freddo, non si vede granché di particolare. Ci si domanda dov’è Chinatown, Chinatown sembra svanire come una chimera. Dunque, quello che io ho cercato di fare è di creare Chinatown tale e quale a quella che esiste nella vostra immaginazione, quale la ricordate. Abbiamo ricreato Mott Street, la strada principale di Chinatown, in modo molto dettagliato, arrivando a riprodurre perfino la sua inclinazione. Gran parte della gente pensa che tutte le strade di N.Y. siano piatte; esse non sono piatte, sono tutto fuorché piatte. Non ci sono quasi linee diritte a N.Y., a parte i grattacieli. Tutto è curvo. Mott Street ha un’inclinazione del 40%, cosa eccezionale. Anche la strada è molto bombata. Non è come la maggior parte delle strade fatte in studio che sono piatte come biliardi. Abbiamo fotografato le irregolarità dei marciapiedi. Ci abbiamo messo molta cura nel riprodurre Mott Street esattamente, con l’acqua dei rigagnoli. Poi abbiamo aggiunto le particolarità più eclatanti di Hong Kong, di Vancouver, di San Francisco, di Toronto. Ad esempio, la porta. Questa porta non esiste a N.Y. Questa favolosa porta del Dragone, viene da altrove. L’insegna del “Horse Lover Night Club”, questo magnifico cavallo, proviene da Hong Kong. Noi abbiamo cercato di creare una super-realtà per mostrare Chinatown tale a quella dell’immaginazione. Quando si tratta di Chinatown la nostra immaginazione si mette in moto. Si crede sempre che questa sia più esotica, più prestigiosa, più colorata… Noi abbiamo girato alcune scene di unione sul posto e poi collegato i veri luoghi con quelli in studio. Questo espediente mi ha permesso un controllo che non avrei mai potuto avere a Chinatown. Non avrei potuto mettere in scena i funerali, o sarebbe stato necessario farlo molto velocemente. Ho preso la maggior parte delle cose possibili a N.Y. Ad esempio, la fanfara italiana che si vede all’inizio è la vera fanfara che suona a Chinatown. Hanno tutti 80 anni; hanno suonato in milioni di funerali cinesi. Noi li abbiamo fatti venire in studio. Ho fatto venire da Chinatown delle persone di quelle che si vedono per la strada. Abbiamo fotografato centinaia di camion, di insegne. Ogni iscrizione su un camion è la copia di una fotografata a N.Y. Per la rifinitura, abbiamo registrato i veri suoni della strada, di Mott Street, quelli del commissariato, sia all’interno che all’esterno. Si ignora fino a che punto Chinatown sia brulicante. Abbiamo registrato delle conversazioni cinesi per la strada, vicino alle fermate degli autobus. Per la scena del caffé-shop in cui Jackie Wong è ucciso, abbiamo fatto venire i cassieri e i camerieri di N.Y. Si sono portati tutto il loro cibo e i piatti nelle scatole. Alcuni di essi che avevamo fatto venire, nati a Chinatown, non credevano ai loro occhi di ritrovare nello studio le loro case, il posto dov’erano nati; si sono presi delle foto.

Al di sopra delle nuvole

L’attico di Tracy è stato ricostruito in studio?

No, a N.Y. il posto è reale. L’idea di girare a N.Y. mi impressionava molto dato che per me era nuovo: amo talmente i grandi spazi, il West… Ero teso a causa dell’atmosfera della città. E d’altra parte sono stati girati così tanti film a N.Y. che, in una certa misura, si è visivamente indifferenti. Quando si sono viste tante immagini della città è molto difficile trovare una nuova immagine, una nuova prospettiva. Bisogna faticare per trovare qualcosa di nuovo. È come se si cercasse di trovare un nuovo aspetto della Torre Eiffel. È molto difficile. Abbiamo quindi cercato per molto tempo, trovando alla fine questo posto, situato tra i due ponti, il Ponte di Brooklyn, una delle più belle costruzioni del mondo, e il ponte di Manhattan. Abbiamo trovato questo edificio, molto alto, completamente rovinato, che stavano per demolire. Ci siamo recati sul tetto. Una vista fantastica di N.Y.: il ponte di Brooklyn, il ponte di Manhattan, la vista di Chinatown, dell’Empire State Building; era là che bisognava girare… Ma nello stesso tempo, si cercava di ridurre le riprese a N.Y. perché costano molto. Sono, andato a trovare Dino de Laurentis e gli ho detto: “Ho trovato l’attico di Tracy. È quello che ci occorre!”. Mi ha chiesto dov’era. “A Brooklyn, a N.Y.” ho risposto. Mi ha detto che ciò sarebbe costato troppo caro e mi ha chiesto di trovare il modo per fare le riprese in studio, a Wilmington (Carolina del Nord). Ho detto “Bene, si farà a Wilmington…”, ma sono andato sul tetto dell’edificio con un fotografo e abbiamo fatto delle foto, per quando avrei preso il caffè con lui il giorno seguente. E la sola persona negli ambienti del cinema che si possa incontrare alle 6 o alle 7 di mattina. Mi ha chiesto cosa stava accadendo. Gli chiesi di attendere e di bere il suo espresso. Poi ho preso le foto ingrandite e gliele ho messe sul tavolo dicendo: “Ecco l’attico di Tracy!”. In un secondo è stato d’accordo… Ha immediatamente compreso l’importanza di questa veduta nel film. Nella mia idea questo luogo doveva rappresentare un regno cinese celeste e leggendario, bagnato da una luce magica, in cui si vive un’eterna giovinezza. È un mondo a parte, completamente diverso da quello di Stanley, di Chinatown. Ciò che si vede è veramente là, reale. Siamo venuti a filmare una scena all’alba. Io sapevo che il solo modo era di filmarla veramente all’alba e che non si sarebbe mai potuto fare con tutta l’equipe; perché nel momento in cui i tecnici fossero stati pronti, sarebbe stato già giorno. Mi sono arrangiato in segreto con Alex Thomson, il direttore della fotografia, e gli ho dato appuntamento alle quattro del mattino, con il macchinista Tony Cridlin – il più grande macchinista del mondo, ha fatto parecchi film con Kubrick – e Ariane. C’erano due o tre altre persone, e il giovanotto che interpreta Rizzo, Leonard Termo, che doveva suonare il piano: volevo che suonasse Chopin per me. Dovevamo arrivare in tutta fretta da punti diversi di N.Y., prima che facesse giorno. Arrivai per primo. Cominciai a dire parolacce perché vedevo il giorno sorgere e non c’era la macchina da presa. Può immaginare la mia frustrazione… La vista diventa sempre più bella e si sa che questo non durerà. Non si ha la macchina da presa, e si ha voglia di uccidere qualcuno.

Dialoghi/Dialetti

Perché alcuni dialoghi cinesi non hanno i sottotitoli?

Era molto difficile decidere quale sequenza in cui compaiono solo i cinesi avrebbe dovuto essere in inglese, quale in cinese, quale con i sottotitoli, quale senza. Noi abbiamo dibattuto parecchio su questo problema. Idealmente, con i sottotitoli, si spera di mettere in risalto alcune parole in inglese. Ma in America il pubblico non tollera molto i sottotitoli. Alcune scene come quelle con Ban Sung, il generale in Thailandia, sembravano rendere meglio in inglese che in cinese. Noi abbiamo ripetuto tutte le scene nelle due lingue, cinese e inglese (ci siamo serviti di tre differenti dialetti, il cantonese, il mandarino e la hakka). Abbiamo trascorso parecchie ore a domandarci quali scene fare in cinese e quali scene in inglese. Quello che si vede nel film è il risultato di quello che ci è parso essere il miglior compromesso globale, considerando il margine di pazienza massimale del più largo pubblico americano. Abbiamo fatto in modo che le scene unicamente tra cinesi siano le più ricche possibili. Non avrei voluto fare queste scene integralmente in inglese. In una scena particolarmente lunga, io ho fatto riparlare Joey in inglese nel mezzo dell’azione, poi, alla fine, si rimette nuovamente a parlare cinese. Questo per sollevare il pubblico dalla lettura dei sottotitoli. Le immagini si muovono molto velocemente nel film, ci sono molte informazioni visive, il ritmo è molto rapido, ci sono anche molti dialoghi. Avevo paura della confusione che l’impiego continuo dei sottotitoli poteva creare. Nel caso dell’incontro tra Ban Sung e Joey Tai, abbiamo pensato che quando parlano inglese danno un aspetto privato alla loro conversazione perché gli altri personaggi non capiscano. Si vede questo genere di cose nei documentari, in particolare quelli di Chris Menges, il direttore della fotografia di “Urla del silenzio”. Egli ha trascorso due anni nel Koo San. Ha realizzato tre documentari. E stato prigioniero per un anno e mezzo: era andato a fare un documentario e l’hanno trattenuto. E ha continuato a filmare. Questi documentari sono straordinari.

Come ha scelto i suoi attori?

Pensavo che dal momento che volevamo mostrare per la prima volta New York con questo ambiente esotico e nessuno in un film importante ha mai mostrato in questo modo Chinatown, era necessario che gli spettatori non vedessero dei visi familiari, da altri film. Ci sono pochi attori americani di origine asiatica, e recitano tutti in ruoli di questo genere. La gente conosce troppo il loro viso. Pensavo che questo avrebbe compromesso la credibilità, l’illusione, dunque. Noi abbiamo fatto un grosso sforzo per trovare dei visi nuovi. Anche dei nuovi attori bianchi, perché si vedono troppi attori di New York nei film ambientati in questa città, soprattutto nei film di Sidney Lumet. Non volevo attori che avevano già recitato in ruoli di ‘poliziotto o di poliziotto di distretto. Abbiamo cercato tra quelli che avevano solo un’esperienza di teatro, non di cinema né di televisione. Delle persone umane. Quanto a Mickey Rourke, aveva già recitato ne I Cancelli del Cielo, fatto che poche persone si ricordano. Fin qua Mickey aveva dimostrato solo un aspetto di se stesso, in film come Rusty il selvaggio o Brivido caldo, dove era fisicamente aitante e pieno di dolcezza. Ho pensato che il suo viso fosse ancora molto conosciuto e che il fatto di vederlo nel ruolo di Stanley White sarebbe stato uno choc. C’era dunque una novità d’insieme.
Finalmente tutti sono arrivati e abbiamo girato senza luce. Non c’era corrente. Avevamo solo le batterie per la macchina da presa. E Lenny suonava il piano per creare l’atmosfera… Ne Il Cacciatore c’era una scena di questo tipo, per la quale abbiamo dovuto correre contro il tempo. Era una scena in cui Bobby (De Niro) è sulla montagna, attraversa le rocce, vede la nebbia alzarsi in fondo e i riflessi sull’acqua. Era in cima a una montagna, vicino a una cascata, nel Washington, tra due picchi. Un luogo straordinario, al di sopra delle nuvole. Negli esterni io cerco sempre di arrivare per primo sul posto, è un’abitudine. Mi recai là molto presto, ho visto quella nebbia che saliva e mi sono detto: “Mio Dio bisogna filmare questo immediatamente”. Gridavo nel walkie-talkie. Chiamavo tutti dicendo loro di correre. L’assistente è arrivato con la macchina e lo zoom in braccio. Bobby è uscito dalla sua carovana correndo. Gli ho detto: “Mettete la camera qui e filmate. Bobby, cammina davanti!”. Abbiamo felicemente filmato la scena e presto questa visione svanì. Queste cose rendono molto nervosi, si sa che non sarà più possibile riprodurle.

Lei ha la sensazione di essere il discendente di una tradizione?

I tre grandi, per me, sono Ford, Kurosawa e Visconti e credo che la grande qualità, in Ford, si situa al di là della tecnica. E l’emozione che importa. Penso che l’opera di Ford resti attuale non a causa di una padronanza formale straordinaria, ma perché questi film sono fatti col cuore. È questo che più conta per me, ed è la sola maniera di lavorare senza mai avere dei rimorsi. Bisogna mettere in un film tutto quello che si ha. Non si è mai sminuiti dallo sforzo. Si è sminuiti solamente quando si tenta, quando si economizza. Quando si dà tutto quello che si ha, non ci si rammarica mai del lavoro che si è compiuto. Le persone mi chiedono “com’è sopravvissuto a I Cancelli del cielo?” C’è una semplice verità: più si dà, più si diventa forti. E credo che Ford sopravviva, Kurosawa sopravviva, Visconti sopravviva, che essi continue¬ranno ad avere un impatto profondo per la qualità del loro cuore, non per un saper fare superiore, ma perché loro hanno il cuore “at the right place (al posto giusto)…”.

(Traduzione italiana di Cesiano Paoloni)

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