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L’ANNO DEL DRAGONE: RECENSIONE DI ‘SEGNO CINEMA’

Cimino fa sollevare le comunità cinesi d’America per la sua ritrattistica di una mafia gialla che tesaurizza tutta l’iconografia hollywoodiana in materia, da Fu Manchu in poi

di Roberto Pugliese

C’è un patto di non aggressione tra la polizia e gli “anziani” della comunità cinese di Chinatown. Ma quando al posto dell’opi­mo William McKenna arriva l’agile Stanley White le cose cambiano. Anche perché contemporaneamente il giovane Joey Tai sta tentando la scalata al potere della mafia cinese. Per questo fa uccidere l’“anziano” Jackie Wong e organizza una spedizione punitiva nel ristorante di un altro “anziano”, nel quale White sta cenando con la giovane giornalista televisiva Tracy Tzu.
White cerca di convincere Tracy ad aiutar­lo contro la mafia cinese, ma la ragazza è indecisa. White che ha già non pochi guai con la moglie decide di trasferirsi da lei e la costringe ad avere una relazione con lui. Ma i guai di White non stanno tutti qui: la sua ostinazione, l’arbitrarietà dei suoi metodi lo mettono immediatamente in contrasto con i suoi superiori, isolandolo.
Quando Tai, che ha compiuto un breve viaggio in Tailandia per contrattare l’acquisto di una partita d’eroina, gli fa uccidere la moglie, la lotta diventa personale e ancora più maniacale. White riesce a infiltrare un poliziotto cinese nel locale di Tai. Il poliziot­to va regolarmente incontro alla morte, ma non senza aver pronunciato in punto di morte il nome della nave che porta il carico. È quindi sui dock del porto che si consuma il duello finale che vede soccombere Tai.

È risaputo che Michael Cimino convive more uxorio con la figura dell’iperbole. Nessun accessoriamento culturale o sposali­zio ideologico inquinano questa scelta; sem­mai l’atteggiamento è quello di un anarchi­smo mortifero che salda insieme il ritmo folle del “nero” Warner Bros con la sontuosità sadomasochista di Coppola o Leone.
Si direbbe, il suo, un approccio fulleriano al cinema: amorale, ironico, esplosivo, denso di virile pietà. E tuttavia già Il cacciatore introduceva, oltre alla imperdonabile “ambi­guità” ideologica, l’elemento epico e memorialistico che dovevano poi esplodere nell’im­menso affresco maledetto di Heaven’s Ga­te, forse il film più grande della storia del cinema. La vocazione all’eccesso diventava necessità biologica, il gusto del racconto spariva dentro una mdp onnipresente e fluttuante, capace di posare lo sguardo laddove nessuno aveva mai osato; la malinco­nia, che è un connotato essenziale di Cimino, diventa nel finale (quello della versione integrale, naturalmente) un grumo insosteni­bile di tragicità.
Non si ritrova tutto questo, a onor del vero, ne L’anno del Dragone, più stilizzato e disteso, meno arroventato di dolore cosmico. Ma la comunanza di alcuni elementi è certa. Intanto quelli extracinematografici: accusato di forsennato antivietnamismo ne Il caccia­tore, poi sull’altro versante di antiamerica­nismo in Heaven’s Gate, ora Cimino fa sollevare le comunità cinesi d’America per la sua ritrattistica di una mafia gialla che tesaurizza tutta l’iconografia hollywoodiana in materia, da Fu Manchu in poi, con moduli rappresentativi che ricordano quasi i tratti grottesco-bestiari con cui Chester Gould dipingeva i cattivi di Dick Tracy. Cimino in realtà è un oggettivista. Spendere energie per l’identificazione con un personaggio o un gruppo significherebbe sottrarle alla messa in scena, il che per lui è improponibile. La lotta sanguinosa fra il capitano White e la Triade di Chinatown è una battaglia astratta di marionette impazzite, cui solo il montaggio restituisce ragion d’essere.
Il poliziotto incarnato senza alcun filtro mentale da Mickey Rourke (strano esempio di attore individualista postdeniriano, da Rumble fish a Nove settimane e mezzo) è un polacco: la predilezione dell’italiano Cimino per le minoranze etniche slave, o comunque mitteleuropee, continua.
L’America esiste solo come immensa quin­ta, non come motore diegetico: “In America nessuno ricorda nulla”, dice il protagonista. La ricostruzione dì Chinatown, già preludiata nella Saigon dantesca de Il cacciatore, è un interminabile parco lampade, un magazzi­no di bric-à-brac, un luogo indeterminato dove non si aggirano gli antieroi dell’esisten­zialismo alla Polanski ma saltellanti folletti armati di 44 Magnum.
“Voglio il caos”, dichiara ancora il poli­ziotto Rourke, e per uno sbirro in odore di razzismo non c’è male. Il caos è la ragione del cinema di Cimino, la sutura fra la cecità della violenza e i lunghi, pazienti tentativi di ricucire un rapporto con gli altri. Lasciamo andare le tirate sui massmedia che avvelena­no l’esistenza o sulla fisionomia reducistica del poliziotto, anche se al capitano White un tipo come Rambo, tutto legge e ordine, certo non deve stare simpatico (per White la violenza è una strategia, per Rambo una tattica). Vale piuttosto la pena di soffermarsi sulle lunghissime pause intimiste, liriche del film: i banali, desolati colloqui fra White e la moglie, infarciti d’incomprensione; il rap­porto con la reporter cinese, sottratto al fotoromanzo dalla propria inattualità e confi­nato all’incredibile appartamento in panavision di lei, uno dei più sbalorditivi set dove abbia mai lavorato Cimino. E ancora il funerale di Connie, accompagnato dal corale finale della Seconda Sinfonia di Mahler, o il gag delle due suorine missionarie che inter­cettano telefonicamente e decodificano per la polizia le conversazioni dei boss cinesi.
Momenti singolari per un’opera che sem­bra devota unicamente al rilancio aggressivo del gangster-film ideologizzato. Compensati, spesso al proprio interno, da rapidi muta­menti prospettici. Il litigio Connie-White si lega all’assassinio di Connie. Il colloquio di White con la reporter allo Shangai Palace termina con una sparatoria montata come una vera e propria sequenza di guerra, cioè senza pietà per i “punti di vista”. E la figura privilegiata del travelling all’indietro, o del carrello semicircolare, ribadiscono quest’as­senza di baricentro. Penetrazione e tentativo di uscita caratterizzano semanticamente L’anno del Dragone: dentro e fuori Chinatown, dentro e fuori un genere, dentro e fuori il cinema.

Segnocinema n. 21 (Gennaio 1986), p. 68

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