Durante la guerra di Spagna la Sardegna svolse un ruolo rilevante come base aerea e navale
di Dino Sanna
Nel luglio 1936 si accende in Spagna la guerra civile. Da una parte i nazionalisti del generale Francisco Franco, dall’altra il Frente Popular repubblicano.
Subito la contesa supera le dimensioni di una pur sanguinosa questione interna e si allarga a coinvolgere le più grandi potenze mondiali. Così, il vero confronto risulterà essere tra fascismo e democrazia, cattolicesimo e libertà religiosa.
Italia e Germania accorrono in aiuto di Franco mentre Inghilterra, Francia, Russia e numerosi altri Paesi sostengono i repubblicani nella lotta alle dittature spagnola, tedesca e italiana. Il conflitto finisce per diventare il tragico prologo della seconda guerra mondiale.
Da quel luglio del 1936 un flusso ininterrotto di navi varca il Mediterraneo verso il porti iberici. I piroscafi trasportano armamenti, idealisti, avventurieri o soltanto mercenari attirati da una paga cospicua. Queste navi sono spesso scortate da unità da guerra.
Fatalmente, la Sardegna viene chiamata a svolgere un ruolo di primo piano per via della sua posizione geografica, proprio davanti alle rotte da est a ovest.
Nelle basi sarde viene trasferita la 7a divisione navale, mentre nuclei di agenti segreti si costituiscono a Madrid, Barcellona e Palma di Maiorca.
Da molto tempo il duce pensa di occupare l’arcipelago spagnolo per neutralizzarne la minacciosa presenza davanti al nostro territorio e creare alle spalle della rocca britannica di Gibilterra come una controporta per consentirci il controllo del traffico nel Mediterraneo.
Le prime navi italiane partono per la Spagna: lo scopo ufficiale della missione è il rimpatrio dei nostri connazionali. Ma all’andata le stive già nascondono i primi consistenti aiuti militari a Franco. Anche la Russia invia le sue navi cariche di armi per il campo avverso. La nostra marina contrasta questo traffico: si apre così una silenziosa aspra contesa costellata di agguati, maschera- menti e inganni. Una guerra segreta della quale all’esterno non traspare nulla ed i cui eventi sono stati seppelliti dalla tragedia del successivo conflitto mondiale: per questo sono ancora pressoché sconosciuti.
Soltanto gli abitudinari del porto scoprono che le banchine, già affollate di cacciatorpediniere, incrociatori e sommergibili, improvvisamente appaiono vuote, come se le unità si fossero dissolte, salvo a ritrovarle qualche giorno dopo a cullarsi placidamente sull’acqua.
Gli equipaggi non parlano, ma nelle strade dietro il porto c’è una improvvisa proliferazione del contrabbando di “caffè vero”, ormai introvabile negli empori, e sigarette estere marcate Tangeri e Malaga. Nei prostiboli, i marò apostrofano le ragazze con una parola nuova appresa nei barrios: chiquita.
I primi a salpare per un’azione militare, cioè con i cannoni pronti a sparare, sono gli incrociatori Attendolo e Montecuccoli. Lasciano La Maddalena la notte sul 25 luglio, diretti a Malaga. I comunisti stanno giustiziando civili innocenti, tra cui 8 italiani, mentre a Barcellona i repubblicani devastano gli uffici della Società di navigazione Italia e quelli della Pirelli.
La reazione italiana è decisa: dietro ai due incrociatori, da Cagliari seguono poche ore dopo i cacciatorpediniere Grecale e Scirocco. Il giorno successivo lascia il molo sabaudo il caccia Maestrale che punta su Maiorca dove si profila uno sbarco. Bisogna impedire che nelle Baleari sorgano basi capaci di minacciare il nostro territorio. Quella di Spagna sarà una guerra aerea. Dai campi della penisola giungono a Elmas numerosi bombardieri pronti a intervenire, mentre Mussolini decide di inviare a Franco 12 trimotori per formare il primo nucleo dell’inesistente aviazione nazionalista.
Il 20 luglio giungono ad Elmas due idrovolanti imbottiti di generali e colonnelli. Le scie degli ammaraggi non sono ancora scomparse sull’acqua quando irrompono in formazione i 12 trimorori. Appena atterrati vengono frettolosamente sospinti negli hangar dove gli avieri prendono a verniciarli totalmente di grigio. La formazione decollerà la mattina dopo, alle 5,30, per Melilla, nel Marocco spagnolo: 750 miglia di volo fuori dalle rotte battute e senza aiutarsi con la radio. Come è noto, la spedizione si risolse in un mezzo disastro, umiliante per l’orgogliosa aviazione italiana. Riescono a farcela solo nove bombardieri. Degli altri tre, uno cade a 50 miglia da Orano: il mare in tempesta spazza via dal relitto l’equipaggio che vi si era aggrappato. Un altro si sfascia atterrando in un aeroporto algerino, tutti morti. Il terzo scende su una spiaggia a soli tre chilometri dal Marocco, e viene catturato. Pochi giorni dopo tutto il mondo sa che l’Italia partecipa alla guerra civile con la sua forza armata: uno smacco.
Con l’estendersi del conflitto si fa quotidiano l’andirivieni di navi civili e militari che dai porti sardi si muovono verso ovest o ne ritornano. Sempre più spesso le unità militari debbono sostare fuori dal porto per ripulire i cannoni imbrattati dal fumo delle bordate in modo da non rivelare la natura della missione compiuta. Tanto più che in quell’agosto 1936 l’Italia ha firmato un accordo internazionale di neutralità (naturalmente, tutti si affrettano a violare). Per mascherare queste infrazioni a La Maddalena si pitturano febbrilmente di nero i sottomarini e se ne cancellano i nominativi. Ben presto l’apparizione dei cupi corsari d’acciaio diffonderà il terrore nelle acque spagnole. La stampa mondiale li additerà all’esecrazione pubblica qualificandoli come gli eredi degli spietati U-boote impiegati dai tedeschi durante la Prima guerra mondiale. Anche perché adottano sempre la stessa tecnica: attacchi a mercantili inermi, siluramenti senza preavviso, abbandono dei naufraghi, fuga davanti ai cacciatorpediniere. In campo internazionale si crede che siano germanici.
Quasi in sordina si comincia ad arruolare volontari. La voce viene fatta circolare nelle sedi cittadine del partito fascista. C’è un ingaggio di 300 lire e un mensile di 600: il doppio della paga percepita da un bracciante. L’offerta è allettante: soldi sicuri, indumenti e pasti caldi garantiti tutti i giorni. Se va male, per la famiglia c’è una bella assicurazione. I volontari affluiscono copiosi. Molti anche gli ufficiali: un sottotenente guadagna 1200 lire al mese, più 800 pesetas.
Le partenze avvengono alla spicciolata con destinazione le fortezze di Napoli o Gaeta, dove viene consegnata la divisa. Per i soldati è quella grigioverde nell’esercito, senza stellette, con la camicia nera e un basco pure nero. Gli ufficiali hanno le insegne del grado come quelle degli spagnoli, con stelle a sei oppure otto punte, a seconda che si tratti di subalterni o superiori. Gli aviatori indossano la divisa cachi del Tercio: camicia verde e “bustina” illeggiadrita da due nappine ricadenti sulla fronte.
I legionari ricevono il passaporto con nome falso. L’imbarco avviene su una delle 40 navi adibite al loro trasporto. La traversata fino a Cadice dura cinque giorni, durante i quali i volontari sono costretti a stare sempre sottocoperta. Contornata la Sardegna orientale le
navi transitano davanti a Cagliari poi risalgono verso le coste sulcitane. Nei pressi dell’isolotto del Toro le raggiungono le unità di scorta che escono da Cagliari: solitamente, Maestrale, Da Noli, Tarigo, Vivaldi, Attendolo, Montecuccoli. Altre arrivano da La Maddalena: Colleoni, Diaz, Bande Nere, Eugenio di Savoia, Da Barbiano, Da Giussano.
Questo schema, seguito per tutto il conflitto, consentirà di trasportare 48 mila uomini in 66 viaggi, oltre materiali per 356 mila tonnellate. Tra questi, 488 cannoni, 706 mortai, 700 aerei e 46 carri armati. I russi non sono da meno e inviano 1400 aerei, 925 cannoni, 312 corazzati.
A questi numeri vanno sommati quelli relativi agli imponenti aiuti inviati ai repubblicani da altri Stati via terra e per mare. Si comprende, pertanto, come nel canale di Sardegna si sfiorassero spesso navi cargo e da guerra di varia bandiera in missione armata.
Queste navi seguivano rotte tortuose, approfittavano dell’oscurità per cambiare nazionalità, nome e aspetto (mutando le sovrastrutture con ponti e fumaioli posticci) e ponevano in atto ogni inganno per sfuggire ai sottomarini italiani. Talvolta denunciavano improvvise avarie per ottenere l’ingresso in porti diversi da quelli dichiarati al fine d’imbarcare quantità d’oro per gli armamenti o sbarcare carburanti, munizioni e pezzi d’artiglieria.
Una prima azione aerea ha luogo il 19 agosto. Tre S55 del 31° stormo di Elmas vengono inviati a Palma di Maiorca: un volo di tre ore al termine del quale piombano sulle navi repubblicane e lanciano numerose bombe da 100 chili. Ma le unità prendono il largo. L’operazione viene ripetuta una settimana dopo. I danni provocati dai due attacchi risultano modesti, ma gli effetti psicologici sono rilevanti perché la flotta da sbarco repubblicana ora sa di essere sotto la reale minaccia dei bombardieri dislocati in Sardegna.
Nell’aeroporto cagliaritano si concentrano altri trimotori provenienti dalla penisola. Riforniti e armati, sono pronti a partire su allarme nel caso di profilassero nuovi sbarchi nelle Baleari. Nella notte sul 4 settembre sembra sia giunto il momento d’intervenire: gli equipaggi vengono tirati giù dalle brande, mentre l’oscurità è rotta dalle fiammate degli scarichi dei motori che scuotono lo stagno. Da Maiorca è arrivata la notizia che si avvicina una flotta con navi da guerra e trasporti.
Tuttavia, proprio mentre i piloti stanno per tirare i motori, arriva il contrordine: spegnere tutto e aspettare. Ore di attesa nel silenzio rotto dal gemere del metallo che si raffredda. Poi, verso l’alba, nuovo ordine di partenza. I trimotori si avviano verso la pista, ma nel cielo sale un razzo rosso. Ferma tutto, il raid è annullato: le navi repubblicane hanno fatto dietro-front.
L’Ebro era una bananiera spagnola che avevamo requisito all’inizio del conflitto. Condotta da un equipaggio spagnolo, in quel primo viaggio trasportava 9 aerei da caccia, 5 carri armati, munizioni e bombe. C’erano anche 6
ufficiali carristi e 9 piloti comandati dall’iglesiente Dante Oliviero. Del gruppo faceva parte anche il sottotenente Adriano Mantelli che col nome di Arrighi diventerà il maggiore asso della guerra di Spagna con 27 vittorie aeree. Ciò che accadde in quel viaggio ce lo raccontò egli stesso nel dicembre del 1991, a Bracciano. «A bordo dell’Ebro avevamo notato comportamenti sospetti da parte dell’equipaggio. Gli spagnoli premevano parecchio per riavere la nave e sospettavamo che volessero dirottarci su un porto repubblicano per consegnarci ai rossi. Decidemmo di osservarli discretamente, armati e pronti a intervenire. La nave rasentava le coste della Sardegna quando li sorprendemmo ad armeggiare con la radio trasmittente. Pistola in pugno ordinammo al comandante di entrare nel porto di Cagliari. L’equipaggio venne sostituito e la nave, ridipinta, assunse il nome di Amene. Qualche giorno dopo riprese il viaggio tallonata in segreto dall’incrociatore Attendolo uscito poco più tardi da Cagliari. Utile precauzione perché, appena passato lo stretto di Gibilterra, venne incontro un incrociatore repubblicano, evidentemente per scortarla in porto: l’equipaggio doveva essere riuscito a comunicare ai rossi le proprie intenzioni. Fu allora che emerse dal buio l’Attendolo coi cannoni in brandeggio. L’avversario abbandonò il campo.»
Si intensifica la guerra di corsa dei sottomarini. A La Maddalena i sommergibili Torricelli, Naiade, Sciesa e Topazio vengono dipinti di nero e inviati, a coppie, davanti alla costa iberica per spargervi il terrore. Dovranno lasciar credere di essere spagnoli: per ogni evenienza a bordo è stato imbarcato un ufficiale franchista addestrato a La Maddalena che, in particolari circostanze, dovrà figurare quale comandante del battello.
Un giorno a La Maddalena viene schierato un imponente servizio di sicurezza. Si attende l’arrivo del caccia Maestrale, che è partito da Cagliari alla volta delle Baleari e ora sta ritornando indietro. Ci si aspetta un grosso personaggio; davanti a un tale apparato nasce la voce che possa trattarsi dello stesso Francisco Franco. Invece, sono forzieri che vengono sbarcati e trasferiti al comando sotto scorta. Contengono una fortuna: oro per milioni di pesetas, raccolto in una sottoscrizione popolare e, in larga misura, offerto dal finanziere Juan March, fieramente anticomunista. Servirà per acquistare armi.
La mattina del 3 settembre una unità da guerra transita tra i moli del porto di Cagliari azionando la sirena. Si vede una torpediniera italiana che incalza un mercantile costringendolo verso terra. Sembra una cattura, anche perché la torpediniera ha tutti gli uomini ai pezzi e le canne rivolte contro la nave. Poco dopo il piroscafo attracca. Si può leggerne il nome, Mar Negro: è “rossa” ed ha disertato mentre navigava al largo di Cagliari. Ma, siccome qualcuno dell’equipaggio potrebbe non essere d’accordo, si è preferito prendere ogni precauzione contro un eventuale colpo di mano.
Il 17 novembre il Torricelli parte da La Maddalena per un’altra missione d’agguato. Cinque giorni più tardi intercetta una formazione di navi da guerra della quale fa parte la corazzata Cervantes. Si porta abilmente a tiro e lancia due siluri, uno fa centro. L’azione viene attribuita una volta di più ai temuti squali tedeschi, anche perché è trapelato che ora operano in Mediterraneo gli U-boote 33 e 34. Nessuno lo sa, ma fanno base a La Maddalena.
Dopo l’azione del Torricelli vengono mobilitati altri sottomarini, tutti accuratamente dipinti di nero. Sette vengono stanziati a Cagliari. Tra questi, Bausan, Menotti e Jantina, quest’ultimo al comando del principe Junio Valerio Borghese. A La Maddalena prendono base Delfino, Toti, Jalea e Manara. Ad essi si aggiungono Galilei e Ferraris, che diventano “spagnoli” coi nomi di General Mola 2° e Sanjurio 2°. A Cagliari,
Onice e Iride sono affidati a marinai franchisti addestrati in Sardegna e ribattezzati Gonzales Lopez e Aguilar Tablada.
Tante precauzioni per non svelare la partecipazione dell’Italia si rivelano inutili quando lo Jalea, lasciata Cagliari, intercetta davanti alla costa iberica la motonave Villa de Madrid. Due siluri: uno va a segno e la nave si inabissa. L’altro finisce la sua corsa sulla riva sabbiosa. Viene recuperato e così si scopre che è italiano: ecco la nazionalità dei corsari neri. La notizia viene pubblicata con grande risalto da tutta la stampa internazionale.
Verso la fine del 1936 il conflitto si inasprisce e le unità navali dislocate in Sardegna ricevono l’ordine di cannoneggiare la costa spagnola. Il 1° gennaio tocca al Calvi: dopo aver silurato due navi, spara 71 colpi contro le installazioni portuali di Valencia. Circa un mese dopo, 2 febbraio, il Topazio si porta davanti alla città repubblicana e tira 34 colpi. L’azione si interrompe per l’esplosione del cannone che si stacca dall’affusto e rotola in acqua. Il Topazio volge subito la prora verso La Maddalena. A mezzanotte del 13 l’Eugenio di Savoia apre il fuoco contro Barcellona coi pezzi da 152. In 5 minuti rovescia 72 colpi, provoca distruzioni e 16 morti. Al mattino è in banchina a Cagliari. Pochi hanno notato la sua assenza.
La prima battaglia aeronavale della storia fu sul punto di accendersi proprio davanti al golfo di Cagliari. Ciò avvenne quando il generale Franco comunicò al duce che un convoglio di cinque navi, scortate da varie unità, era transitato davanti ad Odessa diretto verso un porto repubblicano. A bordo ben 260 carri armati e 300 aerei: con forze così ingenti il caudillo se la vedeva brutta. Rinnova la supplica a Mussolini perché mandi gli aerei di Elmas.
Stavolta il duce accetta. Si levano gli idrovolanti della 146a squadriglia da ricognizione, che pattugliano il canale di Sardegna dove il convoglio dovrà necessariamente passare. Ore di volo avanti e indietro, finché il convoglio viene avvistato a sud di Capo Spartivento. Dal molo Savoia scostano gli esploratori Nullo e Manin, con le macchine a tutta forza. Intanto sul piazzale di Elmas vengono schierati i bombardieri. Ma ecco che una fitta nebbia si leva sul mare e inghiotte ogni cosa. L’azione sfuma. Senza quel contrattempo, navi ed aerei avrebbero dato vita al primo di quegli scontri che caratterizzeranno la Seconda guerra mondiale.
Dopo quell’episodio, il pattugliamento del canale di Sardegna viene intensificato. Sfilano in continuazione davanti alla “mezzaluna”, dandosi il cambio, i sommergibili Euro, Pancaldo, Manin, De Recco, Turbine, Pigafetta, Zeffiro, Ostro. Colgono una preda qualche giorno dopo, allorché intercettano e silurano la nave russa Timiriazev, di 2215 tonnellate. Lungo la rotta sono in agguato anche i sottomarini Iantina, Ondina, Malachite, Iride, Glauco.
Lo jantina di Valerio Borghese corre una brutta avventura: silura per errore, scambiandolo per uno spagnolo, il caccia britannico Havock. L’unità riesce a schivare i siluri e passa all’attacco. Per nove ore, con altre unità inglesi sopraggiunte, cerca di colpire lo scafo italiano con bombe in profondità. «Non abbiamo voluto affondarlo ma solo spaventarlo», dirà poi un ufficiale inglese a un collega italiano, lasciando intendere che ne conosceva la nazionalità.
Le industrie aeronautiche avevano particolare interesse a collaudare operativamente nuovi tipi di aerei. Tra questi, il Breda 65, una macchina allora rivoluzionaria. Concepita per l’attacco a volo radente era infida e non perdonava l’errore. L’arresto del motore, assai frequente, si risolveva quasi sempre in tragedia. Così accadde nel febbraio del ’37 quando i primi tre Breda fecero tappa a Elmas nel volo di trasferimento in Spagna. All’arrivo uno subì la piantata del motore. Cadde presso lo stagno e il pilota restò ucciso. Un mese più tardi toccò ad un SM 79 che durante il tragitto tra Roma e Cadice si sfasciò sui monti della nostra isola; i piloti trovarono la morte.
Nell’estate del 1937 tutte le navi furono richiamate in patria. Rientrarono anche i 48 sottomarini “sardi” che in un anno di agguati avevano affondato 9 unità repubblicane. Tornarono anche i legionari. A Cagliari sfilarono in via Roma con le divise gloriosamente logore e le bandiere a brandelli, camicia nera e garofano nel fucile. Cantavano passando davanti ai moli dove erano ormeggiati il Bande Nere, il Colleoni ed alcuni sommergibili: Torricelli, lalea, Topazio, Iride. Tripudio di bandiere, fiori, fazzoletti. I legionari cantavano il motivo che aveva echeggiato sugli opposti fronti: «Cara al sol con la camisa nueva…».
Presto si sarebbe cantata un’altra più triste canzone, Lilì Marlen. Insomma, la guerra di Spagna era finita, ma un’altra guerra stava per ricominciare. .