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CAMPANE A MORTO

Dopo il dramma dei bombardamenti, l’avvocato cagliaritano Giuseppe Musio annunciò nel quotidiano sassarese “L’Isola” la definitiva scomparsa della sua città

Dopo il dramma dei bombardamenti, l’avvocato cagliaritano Giuseppe Musio annunciò nel quotidiano sassarese “L’Isola” la definitiva scomparsa della sua città

di Paolo Fadda

Nella millenaria storia di Cagliari distruzioni e ricostruzioni si succederanno più volte, tanto da farne una città senza passato (o, se preferite, senza origini certe).
Una città dal difficile albero genealogico, della quale si ignorano i fondatori (non abbiamo, tra le nostre leggende, un Romolo e Remo da ricordare) e che nella sua storia ha conosciuto un’infinità di vicende, più tristi che liete, più drammatiche che festose. Comunque, la città avrebbe sempre saputo trovare le forze e l’orgoglio di rinascere e rimanere, nel cuore e nell’invidia degli altri sardi, capitale dell’isola.
Ricordano gli storici come la più terribile distruzione fu quella del 1015 per opera del principe arabo Mugahid al Amiri (il “Museto” delle leggende), in vena di scorrerie per il Mediterraneo. Per i poveri cagliaritani sembrò un abbandono senza ritorno, con tutto l’establishment civile e religioso cittadino rifugiatosi qualche miglia più ad ovest, in riva allo stagno di Santa Gilla.
Scomparvero allora quasi del tutto, sotto la furia devastatrice dei saraceni, i segni architettonici ed urbanistici di quella che era stata la potente e bella città dei punici, dei romani e dei bizantini. Quei segni che solo oggi, all’inizio di un nuovo millennio, stanno rinvenendo faticosamente alla luce.
Nella rifondazione voluta dalla Repubblica pisana, la città di pianura lascerà il posto alla città sul colle, in quel più sicuro e protetto mont’e castru che domina il bel golfo chiamato “degli angeli”, anche se sarà poi la porta d’ingresso per le tante incursioni dei demoni ricordate dalla storia.
Cagliari fu quindi fatta rinascere e resa nuovamente potente, quasi a dispetto degli altri abitanti della Sardegna. Questa notazione “a dispetto” diverrà poi una costante nei rapporti tra la città ed il resto dell’isola. Comunque il Castellum Castri de Kallari divenne il primo seme di quella “nuova” Cagliari che, nell’ultimo secolo dello stesso millennio, avrebbe subito una seconda, terribile distruzione, che è poi l’oggetto principale di questo scritto.
Era – ricordiamolo – il febbraio del 1943, cinquantasei anni or sono, allorché nuove incursioni demoniache s’abbatterono sulla città. Questa volta avrebbero percorso le vie del cielo, ma vi sarebbero giunte dalla direttrice di quel golfo sempre aperto a tutti i pericoli. «Banditi – definì il cronista del quotidiano locale quei nuovi incursori – degni continuatori delle imprese dei loro barbari padri», rei di avere seminato con le loro bombe morti e distruzioni in una popolazione inerme.
Si temeva, peraltro, che quella pioggia di fuoco fosse il segno premonitore d’una nuova invasione proveniente dalle coste che furono dei cartaginesi e dei saraceni, ed ove in quel momento erano accampate le truppe angloamericane.
L’inferno portato da quei demoni volanti ebbe per la città un effetto devastante. Quei giorni (da metà febbraio a metà maggio) entrarono nel ricordo dei cagliaritani come quelli d’una terribile e drammatica apocalisse.
In fondo agli occhi dei testimoni del tempo c’è ancora l’immagine d’una città ridotta a cumuli di macerie, sinistra nei suoi palpiti d’agonia, dominio di fantasmi, sciacalli e ricordi. Era il dramma d’una città in fin di vita, ferita a morte dagli uomini d’un nuovo Museto, giunti sulle ali, e con le devastanti bombe delle “fortezze volanti”.
Michelangelo Pira, l’intellettuale bittese molto “interno” ad una cagliaritanità di sentimenti ed amori, così avrebbe descritto poeticamente quel dramma cagliaritano: «Della mia città popolosa / mi dissero al fronte / che ormai restava solo la cenere / mulinata da un vento nero. /… I morti restavano / sui cigli delle strade, / con le teste allineate, / ancora caldi e già così soli. / Poi gli uccelli / roteavano neri, / planavano lenti. / Gli occhi vuoti delle case distrutte / – le imposte pendevano / sbattute dal vento a brandelli – / svelavano interni di cielo / con mobili giocattoli e mantelli / appesi alle galassie impietose…».
Era un quadro di desolazione e morte, e su quel grande cimitero di case e uomini volteggiavano avidi gli avvoltoi ma vi s’aggiravano anche i corvi, annunciatori di maggiori sventure. Ci fu infatti chi ne volle scrivere, nel pieno dell’agonia, un anticipato epitaffio, anziché praticarle tecniche di rianimazione. L’autore ne era stato Giuseppe Musio, un avvocato cagliaritano che sul quotidiano sassarese “L’isola” ne aveva voluto certificare, anche con l’uso dei verbi al passato, l’avvenuta definitiva distruzione.
«Questa nostra città, che volle tenacemente essere e fu la capitale dell’isola, ma senza sciocche presunzioni, e senza torbide istanze, è morta. Morta per noi e per i nostri figli, e dispersi e piagati i suoi uomini migliori, e sconvolte le sue ricchezze.» Pur convinto di aver dovuto affermare «cosa atroce e dolorosa», aveva aggiunto che «l’eredità lasciata dalla nostra città distrutta venga raccolta e realizzata dall’altra città isolana che oggi ha il diritto ed il dovere di affermare una sua volontà di potenza e di ricchezza», divenendo così la nuova capitale dell’isola.
Vi è da supporre che quell’infelice indicazione non fosse stata letta dai tanti sfollati i quali s’erano dispersi per i piccoli villaggi dell’interno, in una fuga che somigliava molto ad una diaspora biblica. I giornali erano merce assai rara in quei giorni, ed è quindi probabile che quel necrologio-testamento avesse trovato pochi lettori tra i cagliaritani.
Le reazioni furono quindi molto pacate e sottotono. Solo l’architetto Raffaello Delogu rispose, con garbo, alla provocazione con una lettera al quotidiano sassarese in cui auspicava, al contrario, una rapida, integrale resurrezione della città distrutta perché rimanesse capitale dei sardi.
Neppure a Sassari quell’improvvida uscita di Musio fu ben accolta, anche se il primato su Cagliari fosse da sempre un’aspirazione dei cittadini turritani. Thattari manna e Cagliari minore, era il detto che testimoniava quella rivendicazione.
Per la verità tra le due città isolane non c’erano mai stati buoni rapporti, dato che una storica rivalità le aveva sempre divise. Era un antagonismo che affondava le sue origini nei secoli passati, allorché, nella disputa tra Repubbliche marinare, la prima tifava per Pisa e l’altra per Genova. Esso divenne ancora più aspro allorché nel 1355 Pietro IV d’Aragona scelse Cagliari come sede del primo parlamento del Regnum Sardiniae, eleggendola quindi ufficialmente a capitale dell’isola.
Ambientato in quella rivalità, quello di Musio parve un vero peccato d’apostasia, per l’essere passato tra le fila dei rivali sassaresi, rinnegando quello che era il più forte attributo della cagliaritanità: l’amore quasi sciovinistico per la propria città. Certo, nella storica disunione dei sardi, casi d’apostasia ve ne erano stati anche altri, ma quasi tutti di segno contrario. Infatti, erano il potere ed il fascino regale di Cagliari a sollecitare le conversioni.
Per essere chiari, quelle affermazioni avevano anche una loro logica. Giacché Cagliari appariva, in quei giorni, distrutta e priva di vita (coventryzzata, si diceva allora, alludendo ai devastanti esiti dei massicci bombardamenti tedeschi sulla città inglese), del tutto neutralizzata, secondo il cinico termine utilizzato dai dispacci degli incursori angloamericani.
Rimaneva infatti assai difficile prevedere, in quei giorni di disperazione e lutto, con una nazione moribonda ed una guerra perduta, quali sarebbero stati i tempi ed i modi per una rapida ricostruzione di quella che era stata la città incantata, melanconica e fascinosa che aveva conquistato tanti visitatori stranieri.
Lo sfollamento, seguito ai bombardamenti, era stata una vera diaspora, spezzando o allentando legami e complicando ogni solidale impegno per rifondare la città. Né andrebbe dimenticato che su quei polverosi ed immondi cumuli di macerie s’era anche aggiunto il crollo d’un regime politico che aveva fino ad allora espresso l’intera classe dirigente della città. Infatti, i giorni successivi al 25 luglio del 1943, quelli definiti badogliani, furono sotto questo aspetto giorni di grandi incertezze e confusioni. Le stesse sostituzioni delle autorità cittadine erano state disposte all’insegna dell’improvvisazione o, talvolta, per soddisfare piccole e misere vendette.
Le parole di Musio (la città è morta!) erano cadute dunque all’interno di un milieu cagliaritano forse più invisibile che inesistente, certamente privo di guida e riferimenti certi. S’era trattato invero di parole pesanti, dure al di là della loro eleganza formale, che avevano ferito l’orgoglio della città quasi quanto le bombe dei liberators.
La storia dirà che la risposta trovò ragione in quell’orgoglio ferito, “a dispetto” dei presagi e delle speranze degli altri. Cagliari vivrà! divenne lo slogan di risposta, perché intende rimanere, ancor più tenacemente, la capitale dell’isola.
Ed allo slogan fecero seguito, come è nella tradizione cagliaritana, i fatti. La fuga forzata, lo sfollamento, dovevano rimanere una breve parentesi. Il ricordo personale consente d’avere ben chiara la volontà di tutti – uomini, donne, anziani, giovani, operai, studenti, professionisti – di ritornare il prima possibile a Cagliari per rianimarla e ricostruirla.
Ma da dove scaturiva quell’apostasia di Musio? Per ordinare una risposta occorre rifarsi all’atmosfera di quei giorni che avevano visto disperdersi e depotenziarsi quella società cagliaritana che era stata da sempre il perno e la guida dell’intera vita regionale. Senza la presenza di Cagliari, poteva essere giunto per la città rivale il momento dell’attesa rivincita.
Forse era stato questo l’intendimento che Giuseppe Musio aveva inteso affidare a quel suo scritto del 22 agosto 1943. Con la sua proposta riteneva di poter acquisire il titolo utile per entrare in quel nuovo establishment antifascista regionale che, per forza di cose, si sarebbe formato attorno a Sassari.
Certo, per essere fedeli cronisti, l’apostasia pro Thattari dell’avvocato risultò assai breve. Dopo poco più di ottanta giorni sarebbe divenuto, per incarico della Concentrazione antifascista, redattore capo e, dal marzo 1944, direttore de “L’Unione Sarda”, lo storico quotidiano di Cagliari. Ed al suo primo editoriale (il 22 marzo 1944) volle dare il titolo All’opera!, quasi ad indicare che nella ricostruzione del Paese e della città non ci dovessero essere né pause né disertori. E che di quel peccato agostano doveva ritenersi dimentico o pentito. Ma, per quel che se ne sa, del suo scritto infelice non fece mai menzione, né ritrattazione. Sperò solo nella dimenticanza altrui. Può esser utile notare che, per crearsi meriti cagliaritani e cancellare la breve apostasia, sarebbe divenuto tra i più ferventi (ed anche polemici) difensori del primato di Cagliari, come reale capitale e vera guida dell’isola.
A favorire la ritrovata ortodossia erano stati sicuramente i rapidissimi cambiamenti avvenuti dopo quell’agosto del 1943. L’armistizio dell’8 settembre, l’uscita della Sardegna dal quadro delle operazioni belliche e l’arrivo dei primi contingenti angloamericani qualche settimana dopo, erano stati avvenimenti tali da consentire un immediato avvio all’epopea della ricostruzione di Cagliari. Ed anche l’opportunità (o l’esigenza) di dover cambiare il suono delle campane a morto in quello della resurrezione.
Cagliari, infatti, aveva aveva dato via alla sua rifondazione con entusiasmante celerità, un impegno, un decisionismo ed una volontà che, agli occhi di oggi, sembrano più che opera degli uomini, un affascinante miracolo zavattiniano. Più favola che realtà. Ed i segni di quel miracolo cagliaritano li avrebbe colti con raffinata sensibilità Michelangelo Pira, nella chiusa della sua ballata: «Gli uomini cominciarono a ritornare / nella città distrutta, a costruire / con la polvere delle case distrutte. / … E di nuovo i piazzali / delle scuole si popolarono / di corse e di trilli. / E noi dicemmo: / tornano le stagioni».
Il lugubre presagio di Musio non s’era affatto avverato, né la ricostruzione era stata «lenta e faticosa» come voleva quell’interessata predizione. Cagliari in pochi mesi avrebbe riconquistato sul campo la sua leadership di capitale.
Ora, nel riportare alla memoria quanto accadde in quei giorni del 1943- ’44, e quanto fu duro e difficile viverli, il ricordo di quello scritto dell’avvocato Giuseppe Musio è certamente una piccola cosa. Ma contiene, ad essere buoni osservatori, una grande lezione che non dovrebbe mai essere disattesa. Infatti, il destino, anche quello più duro ed amaro, può essere condotto verso più tranquilli e confortevoli approdi, solo che ci sia la volontà e l’impegno per dominarlo, anziché accettarne supinamente il dominio.
Ricordando che è sempre più proficuo essere indomiti combattenti contro le avversità anziché dimostrarsi pavidi ed imbelli disertori.

Almanacco di Cagliari 2000

Aerei americani bombardano il porto di Cagliari nel 1943 (foto scattata da un velivolo partecipante all’azione) Devastazione a Stampace: la parte iniziale del Corso Vittorio Emanuele sfigurata dalle bombe

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