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APOCALYPSE NOW – Speciale della rivista “Duel”

Speciale pubblicato dalla rivista "Duel" nel 2001 in occasione dell'uscita di "Apocalypse Now Redux"
Apocalypse Now - Dennis Hopper

L’ordinaria follia della Storia

di Morando Morandini

Non c’è dubbio che quando, la mattina del 19 maggio 1979, vidi a Cannes Apocalypse Now, ne rimasi soggiogato. È un verbo che uso raramente, ma lo si legge nell’articolo che il giorno dopo uscì sul «Giorno»: «La sua forza di invenzione visionaria – non soltanto in termini di spettacolo – mi ha soggiogato persino nei suoi eccessi». Per il Tommaseo soggiogare è «adoprar la vittoria e mantenerla». Aggiungi: «Ma si può soggiogare anche senza vincere», E viceversa. Coppola, insomma, mi aveva vinto e soggiogato. Non gli risparmiai le lodi: «Il cacciatore di Cimino è un viaggio all’inferno e ritorno. Apocalisse ora di Coppola è un viaggio al termine della notte sotto il segno della follia. Le tappe del viaggio sono capitoli, terribili e spettacolari, di un cinema americano d’azione ad alto livello, come sa farlo il Coppola di II Padrino-Parte II. Non lesinai le lodi (a Storaro, ovviamente, agli attori di contorno, alla musica) né le definizioni: amara, lucida e, forse, disperata riflessione sul colonialismo, sugli orrori dell’imperialismo occidentale nella conquista del Terzo Mondo, sulla follia omicida della nostra civiltà; tragica parabola sulla presenza del male nelle cadenze di un incubo. Sui venti ultimi minuti della presenza di Kurtz, idolo e figura mitica, immersa nelle tenebre, illuminata a tratti dalle luci rosse e gialle delle fiaccole scrissi: «Si esce dal film, e di Brando si ha nella memoria soltanto il balenante candore della calvizie, e la tetra, malsana profondità della voce».
Mi permisi soltanto una riserva esplicita: «Ho l’impressione, però, che nell’ultima parte l’ambizione di far passare la narrazione da un piano all’altro sia programmaticamente e strenuamente voluta più che risolta nell’espressione. Nella fase in cui affronta il nucleo dei romanzo di Conrad, il film scade nell’artificio. Proprio come dicono gli americani, lì diventa “arty”, ai limiti dei kitsch». Oggi eviterei di mettere in fila due avverbi cosi lunghi in “ente”.
Quando ne scrissi per la seconda volta, dopo averlo rivisto a Milano sotto Natale, diedi spazio alle citazioni e alle notizie di cronaca. Citai l’enfatica frase detta a Cannes dal regista, «il più audace degli italiani di Holliwood»: «Questo non è un film sul Vietnam. È il Vietnam!» Ricordai che, a causa della lunghezza della lavorazione, era stato con malignità soprannominato nell’ambiente del cinema: Apocalisse, quando?. Dissi della sostituzione di Harvey Keitel con Martin Sheen e dell’attacco cardiaco che colpì il secondo durante una marcia di trasferimento a 37° all’ombra.
Accennai a un problema etico di fondo: nel film la guerra – con tutto il suo carico di morte e distruzione – è bella, di una bellezza delirante e barocca. (Coppola: «Siamo sinceri: è il primo film surrealista di 30 milioni di dollari».) Si potrebbe oggi aggiungere: il primo e l’ultimo. La battuta del colonnello Kilgore/Robert Duvall non era ancora diventata famosa: «Mi piace l’odore del napalm di mattina… odore di vittoria». Potrei scommettere: è di John Milius. Raccontai che per Coppola, come per il suo protagonista, il vero tema del film è la follia ordinaria degli americani per i quali una guerra è soltanto la variante di una partita di baseball, citando quel che scrisse Michael Herr nel suo libro sul Vietnam Dispatches: «C’è una tale concentrazione di energia americana, americana ed essenzialmente adolescenziale, che se avesse potuto essere incanalata in qualcosa di più che strepito, devastazione e dolore, avrebbe illuminato l’Indocina per un migliaio di anni».
È un film enfatico che contagia di enfasi molti che gli si avvicinano. Contagiò anche me. Mi sono sempre rifiutato di vederlo in videocassetta, ma oggi, più di vent’anni dopo, sono pronto a rivederlo. Al cinema, però.

* * *

Apocalypse, mon amour

Il crepuscolo di un’epoca e il bruciare inestinguibile di una passione (per il cinema).

di Luciano Barisone

Avevo trent’anni, quell’età della vita in cui la vaghezza del futuro e le aspirazioni diffuse ai piacere e alla conoscenza lasciano il posto alle responsabilità e alla consapevolezza dei limiti. Vidi dunque Apocalypse Now come l’estremo tentativo di un viaggio che riportava a se stessi, come, undici anni prima, lo era stato 2001 Odissea nello spazio, ma questa volta verso la parte oscura del l’essere. Lo vidi a Genova, nella mia città di sangue e d’anagrafe, alla sua uscita, durante le feste natalizie. Lo vidi e lo rividi, con la sensazione di essere testimone di un’inquieta coincidenza. Man mano che si avvicinava la fine di una convenzionale unità di tempo – l’anno 1979 – sentivo confusamente che ciò segnava anche la fine di un’epoca, quella delle nouvelle vague, dei movimenti libertari, della giovinezza.
Era ancora il tempo in cui la cinefilia, moderno animismo, sostituiva le persone con le immagini e l’idea si scontrava col pragmatismo della realtà. lo avevo appena incominciato a scrivere di cinema su una rivista che mi avrebbe segnato, «Filmcritica», diretta da Edoardo Bruno alla maniera di Socrate, ovvero tutta dialoghi maieutici e oggetti d’amore.
Buttai giù il pezzo in due riprese, la prima mentre sul treno traballante facevo ritorno ad Aosta, mia città di lavoro e d’adozione, la seconda nei caos di una festa di Capodanno, mentre tutti si abbracciavano, la musica usciva a flotti dalle casse acustiche e la televisione diceva le solite idiozie. Sarebbe risultato un testo frammentato, faticoso e baluginante, ma anche percorso da una lucida energia: ricco di ingenuità, intuizioni; e di quella generosità un po’ autolesionista di cui faceva prova anche il film di cui scrivevo. Oggi lo rivedo con la nostalgia dell’età e con il dolore che provoca il rievocare un’illusione perduta.

da «Filmcritica» n.301, gennaio 1980, pag.21-23

Per un’anatomia della conoscenza

A priori

Questa visione non ha avuto pre-testi.
Ostinatamente mi sono tenuto lontano da ogni anticipazione. Fra me e il film solo cifre, tempi di lavorazione, speranze, attese. Ho lasciato sola la mia curiosità a vagheggiare il “fantastico”.
Non ho letto Cuore di Tenebra, né ho avuto desiderio di leggerlo. Intanto l’universo diegetico di un film non ha che rari debiti di riconoscenza verso il “testo” originario. Poi volevo immergermi nella condizione di innocente attesa che comporta il ruolo dello spettatore… Sarebbe stato un duello leale.

Prima visione

Innanzitutto in medias res. Ma dentro e fuori. Una storia dentro la storia. Una STORIA intorno alla storia. L’incubo iniziale è già alla fine. Il sogno è realtà, la realtà è sogno. Malefico. Le due storie sono già evidenti. La terza, che le comprende entrambe ed è da esse conglobata, è quella della rappresentazione, della messa-in-scena. Man mano che il filo si dipana, appare come l’oggetto stesso della produzione: la produzione di una rappresentazione sulla rappresentazione di una produzione (di senso). Una messa-in-scena che è già un sacrificio.
La morte, esibizione della perfezione, è al centro dello spazio, la morte come orrore, la morte come spettacolo.
Fra un interno/esterno alternativamente emergenti l’iter prosegue.
Il cinema era in forse. La morte (negata) era in forse. Perché mancavano i rituali di morte. Perché mancavano i rituali di cinema. Ma la pellicola conclude la sua corsa con una morte, con una distruzione, questo sacrificio che afferma la vita in gioco. Ed è la vita del cinema. Mettere in dubbio per affermare. Distruggere per creare. Adeguarsi ai flusso naturale delle cose. Nulla più della morte produce la vita. In questa operazione vampirizzante Coppola uccide Marion Brando, distrugge lo scenario, uccide se stesso (dissanguandosi economicamente).
Tutto questo per rinascere.
Come l’araba fenice sarà ancora pronto a riprendere il volo? Sarà ancora pronto a distruggere e/o a distruggersi per dare nuova vita all’immaginario?
Coppola, come Kurtz, è ormai un uomo di conoscenza. Passato attraverso i gradi dell’esperienza scenica così come Kurtz passava attraverso quelli della rappresentazione bellica.
Può mettere in scena la propria vecchiaia, la propria fine. Ma esiste una verità? Dopo si è subito morti.

Seconda visione

Per me esiste solo il cammino lungo sentieri che hanno un cuore, lungo qualsiasi sentiero che abbia un cuore. Lungo questo io cammino, e la sola prova che vale è attraversarlo in tutta la sua lunghezza. E qui io cammino guardando, guardando, senza fiato.
Don Juan1

Frutto di un lungo delirio di onnipotenza, l’ultima messe di Coppola si disperde mentre si raccoglie, si consuma mentre appare, il film esce dalla distruzione dei materiali. Quanto più la pellicola procede, ridondante di suoni e di colori, verso il suo esaurimento, tanto più cresce il film negli occhi e nella mente. Quanto più la scena è disintegrata, tanto più il film si afferma come essenza. Nasce.
Questo è già il primo momento di un incrocio fra due strade che si incontrano solo per escludersi. Vanno apparentemente in direzioni opposte: in realtà il loro obiettivo è lo stesso. Ma non è l’unico incrocio: ad esso ne corrispondono altri: quello delle dissolvenze visive e sonore; e quello per cui nella dinamica degli avvenimenti della finzione l’inizio è già una “fine” e la fine un inizio.
In questo senso il film è in fieri, una realtà in divenire. Il suo oggetto è una strada senza fine. In questo senso il film è un inizio, l’inizio della maturità di Coppola: dopo l’incertezza dei film sulla compiutezza, la piena conoscenza della permanenza del dubbio. Ed è anche il momento in cui il suo discorso si fa più rivoluzionario all’interno della struttura hollywoodiana. Egli non è certo il primo: altri prima di lui hanno fatto coincidere la fine della pellicola con la non-fine della storia. Si pensi a M. Hellman in Two-line black-top. Ma con tutto ciò dimostra dopo tante incertezze il raggiungimento di un punto fermo: un’immoralità e un’ambiguità a lungo cercate e volute ed ora finalmente esibite.
Il combattimento fra il drago e il cavaliere, secondo l’iconografia medievale, ha uno svolgimento coatto. Prevede una fine: o muore il drago o muore il cavaliere. L’indifferenza non è prevista. Coppola obbedisce alla tirannia della tradizione, ma solo in parte: infatti egli vi gioca all’interno innestandovi altre strutture. Così se il cavaliere forzatamente vince, la testa del mostro ricresce ogni volta in forma di “orrore” manifesto.
Per arrivare a questo finale senza fine egli aveva da percorrere molte strade. Esse, apparentemente divergenti, corrono tutte nella stessa direzione: come in un deserto, talvolta convergono, talvolta corrono parallele per lunghi tratti senza mai incontrarsi, talvolta si incrociano: allontanamenti/riavvicinamenti che percorrono itinerari desiderabili.
Su ogni strada si svolge un viaggio. Un viaggio attraverso un corpo. Un viaggio verso una deflagrazione. Un viaggio verso una chiarezza, verso la certezza di un’esistenza.
I corpi sono molti: quello dell’America (schizoide), quello dello spettacolo (cinema), quello della psiche (verso il nome del padre), quello delle cose (la conoscenza è una forma di follia), quello stesso di Coppola (corpo economico/corpo d’amore). Quando Willard/Ercole raggiunge Kurtz/Prometeo (incatenato alla sua condizione in attesa della liberazione), ogni corpo è già stato attraversato.
L’America ha già mostrato i segni della sua disperazione e della sua confusione2: una guerra in cui l’altro non esiste, se non fuori campo; l’efficientismo mostruoso; la macchina bellica messa in moto per gioco; l’odore de! napalm; le ambizioni private travolte dal dovere pubblico; la moralità ufficiale/l’ìmmoralità ufficiosa; la registrazione di parole vuote; le conigliette di «Playboy», il surf, gli acidi, l’erba, il linguaggio. Let’s go America.
Quando si entra nel regno di Kurtz, l’America è “out”. Si è entrati in pieno nel regno dello spettacolo.
L’America è “in”. Nel regno di Kurtz c’è tutta la cultura dello spettacolo underground americano degli anni 70.
Anche il corpo dello spettacolo è stato percorso a lungo. Una cinefilia pluristratificata informa di sé tutto il film: di essa è possibile cogliere una traccia, molte tracce ogni tanto.
Intanto il “road-movie”, poi il “western” (i cavalieri dell’aria sono quelli di Fort Apache), il film bellico-picaresco (la musica usata in azioni di guerra ricorda I guerrieri di B. Hutton), la citazione hitchockiana (Coppola in mezzo al film), il film drammatico- avventuroso (la tigre nella foresta, l’incontro col sampan sul fiume). Poi, man mano che ci si avvicina a Kurtz, le anteprime del grande spettacolo: le conigliette sul fiume; il ponte illuminato dai razzi, i soldati nel buio della trincea-underground. Poi i razzi che uccidono il ragazzo mentre intorno è «meglio di Disneyland». Come in un avanspettacolo gli indigeni dipinti di bianco si aprono per far passare la prima-donna. Il giornalista-giullare evoca Kurtz nella penombra.
E prima della deflagrazione finale che riconduce al “Kolossal”, l’emersione della testa di Willard dall’acqua in mezzo a luci totalmente innaturali e lo scanno del bue visto/scanno di Kurtz intravisto sono Il fantasma del palcoscenico, mentre Willard che esce con la “spada” in una mano e il gran libro nell’altra si propone come una figura biblica (Mosé nei Dieci comandamenti). Quando Willard uccide Kurtz il viaggio all’interno della psiche è giunto al superamento dell’ultima barriera.
Il padre che si era vieppiù ampliato dal momento della sua nominazione (lungo il corso del fiume Willard mitizza Kurtz) è distrutto. Ora egli sa. Conosce che al di là della ragione c’è la follia, il puro istinto di piacere che il padre castrava con la sua legge. Ora è lui il padre: il fuoco purificatore cancellerà tutto e se il fuoco darà un’apparente chiarezza, nasconderà col suo bagliore ciò che lo alimenta.
Willard come Kurtz hanno entrambi salito i gradini di una scala verso la conoscenza (orrore/evidenza). Anche noi li seguiamo in questo. Anche il film acquista coscienza. Come nell’iniziazione di Don Juan a Castaneda, Willard-Kurtz-Coppola capisce che dopo aver sconfitto la paura e il potere si trova ad avere a che fare con la saggezza, con una lucidità che è già la vecchiaia.
Ma «quel momento di lucidità, di potere e di conoscenza è sufficiente».

Per me esiste solo il cammino lungo i sentieri che hanno un cuore, lungo qualsiasi sentiero che abbia un cuore. Lungo questo io cammino, e la sola prova che vale è attraversarlo in tutta la sua lunghezza. Equi io cammino guardando, guardando, senza fiato.
Don Juan

1 V. Castaneda, A scuola dallo stregone, Ed. Astrolabio
2 Pur non potendo definirsi a pieno titolo un film sul Vietnam, alla base del testo immaginario vi è un referente reale, ed è questo che appare in dettagli apparentemente marginali.

* * *

Apocalypse New

Cosa contengono i 54 minuti inediti di Apocalypse Now? Molto, troppo. Quasi un nuovo film. Tagliato dallo stesso Coppola per dare più forza al principale filone narrativo che diviene chiaro quando i marines scendono dalla barca e incocciano in una tigre. Da questo momento in base all’urlo «Never get out of the boat», il film procede spedito fino alla conclusione. Senza deviazioni. Senza più incontri e distrazioni. Fra le sequenza scomparse c’è quella in cui Martin Sheen trova una famiglia francese che vive in una piantagione. Interpretati da Aurore Clement e Christian Marquand i francesi sono lì a “testimoniare” la politica coloniale di Parigi: l’idea è quella di miscelare (a partire dalla luce) atmosfere europee e giungla vietnamita. Poi si rivedono le conigliette di Playboy che se la passano non troppo bene. Rimaste con l’elicottero senza carburante, sono finite in prima linea dove i soldati per farle ripartire pretendono in cambio prestazioni sessuali. Vertiginosa e devastante dovrebbe poi essere la scena ambientata in un campo medico avanzato, oltretutto girata dopo che un tifone aveva colpito il set. Non manca nemmeno un lungo monologo di Laurence Fishburne che dà tutto un altro spessore al suo personaggio. Infine durante il confronto Sheen-Brando, c’è un momento di tregua in cui quest’ultimo legge il «New York Times», mentre l’altro se ne sta in una gabbia e aspetta. La fine.

Massimo Rota

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Grande è la confusione sotto il cielo

Il capolavoro di Coppola dentro (o fuori da) Cinema e Storia.

di Lorenzo Pellizzari

La mia “apocalisse” la ricordo come l’evento di un venerdì sera, ultimo spettacolo, al Cinema Corso di Milano (testé defunto e forse destinato, non a caso, a ospitare una banca). La definisco tale perché al film di Coppola (anzi, di Ford Coppola, così si diceva allora), con conseguente mal di schiena, ho assistito in piedi, parzialmente appoggiato a un muro, in una sala da 1521 posti talmente affollata e rumorosa che la Cavalcata delle Valchirie, per di più in monofonìa, pareva nulla al confronto. Ne uscii talmente affranto e stordito che scambiai appena poche parole con l’amico (Fabio Carlini) che aveva condiviso l’esperienza, e ne parlammo insieme solo qualche giorno dopo, quando avevamo già letto le recensioni (apparse sulla stampa attorno al 19 dicembre 1979 e non proprio favorevoli). Può importare meno al lettore?
Gli importerà poco di più il fatto che qualche mese dopo, con altri, indussi l’équipe di «Cinema e cinema» (che allora simulavo di dirigere) a dedicare un intero fascicolo – il n. 24, qualcosa come 96 pagine – ad Apocalypse Now, che diventava L’Apocalisse a poi. Forse era la prima volta che una rivista, sia pur trimestrale sia pur monografica sia pur vagamente clandestina, dedicava tanto spazio a un film recente, senza intenti promozionali (anche se la Titanus mi inondò di fotografie, naturalmente in bianco e nero), senza volontà apologetiche, senza referenti di pubblico, ma semplicemente come «oggetto di studio e di analisi», preferendolo a La corazzata Potëmkin o a Sentieri selvaggi o a Lola Montès, applicandogli un duplice obiettivo (la riconquista della spettacolarità, o – meglio – «l’esemplificazione della spettacolarità del reale») e tentando di sostituire alla “metodologia” i metodi, gli approcci, gli accostamenti più o meno giudiziosi che l’occasione suggeriva e provocava.
Potrebbe importare oggi, al lettore, sapere quale sia il mio rapporto con i! film? (E poi con quale film? Quello della memoria, visto in piedi? Quello analizzato, nei giorni successivi, con qualche preconcetto per poterne comunque scrivere? Quello recuperato molti anni dopo su una precaria e straniante cassetta? Quello oggi reintegrato nella sua postuma visibilità?) Di fronte a un’opera così assoluta e così paradossale, così megalomaniaca e così (auto)introspettiva, così irritante e così seduttiva, si possono solo sostenere affermazioni eccessive: il più bel film di Coppola, il suo film più ambiguo, il suo film (comunque la si giri e io si integri) più incompiuto.
Al momento della “prima” erano trascorsi appena quattro anni dalla fine, a sorpresa, di un interminabile conflitto, con gli americani costretti ad abbandonare ingloriosamente Saigon (prontamente ribattezzata Città Ho Chi Minh), ma anche con il Vietnam unificato che nutriva mire espansioniste sulla Cambogia ed era in guerra aperta contro la ben più potente Repubblica popolare cinese, mentre un nuovo presidente Usa, il democratico Jimmy Carter, falliva il blitz su Teheran volto a liberare decine di ostaggi statunitensi. Importa ancora? Allora importava, e come, ed era impossibile separare un’interpretazione “politica” del film dalla sua straordinaria visionarietà (che ci rendeva visionari – e forse preveggenti – a nostra volta, affascinati da un repulsivo orrore quanto respinti da quelle immagini da supermercato bellico, da spettacolo circense, da consumismo vs. comunismo). Oggi, fatti più saggi non dall’età ma dalle passioni spente (indifferenti, mai), Apocalypse Now appare come l’epicedio di un’epoca, non foss’altro di quella in cui era ancora possibile concepire e vivere un film come una sfida, multimiliardaria quanto perniciosa, ragionatissima quanto incontrollabile, determinata quanto inconcludente. La ricomparsa di interi episodi volutamente omessi (e perfino di attori che non abbiamo mai visto all’opera: gli sfortunati Aurore Clementi e Christian Marquand) estende l’ampiezza della fisarmonica ma non influisce sulle strazianti note finali, ove è il napalm ad avere la meglio su tutto, spunti letterari, contrasti individuali e questioni morali comprese.
Fa impressione scrivere queste cose dopo aver appena visto l’ultima puntata di Survivor, con la sua giungletta, il suo elicotterino, il suo tropicuzzo, perfino la fiaccolata notturna dove un redivivo colonnello Kurtz giudica i sopravvissuti. Pare la brutta replica dei corsi di sopravvivenza, già sbeffeggiati nel mitico Noi uomini duri (1987, di Maurizio Ponzi, con Enrico Montesano e Renato Pozzetto). Ma anche Apocalypse Now oggi rischia di grosso: passare per un film d’avventura un po’ confuso, per una sorta di antenato “povero” di Mission Impossible, per un delirio che non riesce più a trasformarsi in incubo. Ed è forse un segno dei tempi, di quello che ci meritiamo: un Vietnam da villaggi turistici, la Coca-Cola ad Hanoi, le vittime e i carnefici che si stringono la mano in nome della globalizzazione. E poi?

* * *

Quei meravigliosi anni 80

Nella Milano inizio anni 80, per un sedicenne, The End e i Doors significavano molto poco. Era già finita la mia, di generazione, che cosa me fregava di quella dei fratelli maggiori e della loro musicaccia. Satisfaction, se non altro, l’avevano rifatta i Devo. L’icona immediatamente riconoscibile era Robert Duvall: il surf, Wagner, gli elicotteri e l’odore del napalm. L’esercito di Kurtz sembrava una gang dei Guerrieri della notte. E anche in questo senso, il Vietnam era contemporaneo. Si era disposti a sorbirsi tutte le chiacchiere di Brando (di cui era ancora cancellato Ultimo tango) per arrivare all’apocalisse finale. C’era ancora la guerra fredda, anche se la guerra stava diventando un videogame (l’abominevole Firefox del 1982). Rambo (sempre 1982) era roba da tamarri. Mentre Coppola pensava in grande e faceva le cose in grande. Era meglio di Cimino. Era l’Iliade e l’Odissea. Ti inchiodava sulla poltrona e uscivi fuori che non avevi capito bene tutto, ma ti sembrava di avere partecipato a qualcosa di importante. E poi il mito dei diversi finali. Era Arte. Più di Blade Runner (1982). Quando il cinema poteva ancora, se non cambiare, segnare la vita. Gli anni 80 li ho passati a venerare Coppola, quando quasi tutti ci sputavano sopra (Rusty il selvaggio, Cotton Club, Tucker). Poi, anche lui, ha segnato un po’ il passo. Pochi anni dopo avrei imparato che Martin Sheen era quello di La rabbia giovane. La versione lunga del film la attendevo da quando ne aveva parlato «Film Threat» una decina d’anni fa. Il film, forse, non lo rivedo da molto di più.

Alberto Achille Pezzotta

* * *

La conversazione

Sì, pronto?
1979 e 2001: credo di non averti mai chiesto cosa pensi di Apocalypse Now.
Le date epocali non sono mai, come tutti dicono, una convenzione. Come gli anniversari: prima e dopo le cose non sono più le stesse.
E ora sono meglio o peggio?
Prova a chiederti come sarà il mondo dopo l’apocalisse; l’apocalisse non ha un dopo, o si è dentro o si è fuori.
Vuoi continuare a parlare d’altro?
Ebbene sì, lo ammetto: Apocalypse Now non è il mio film. Soffre di gigantismo, di pedanteria e di noia. Non è intelligente, è geniale, nel senso più notturno e più tedesco di questo brutto termine.
Ti dà fastidio solo perché è un film che fa tornare tutto, come un cruciverba: il viaggio nelle tenebre del cuore e dell’Occidente, l’Edipo e Buddha, Lazzaro e Lancillotto, Wagner e Morrison, il cowboy e la Valchiria, la messa e lo strip-tease, il circo e la quête; l’enigma e le sue soluzioni.
Mi dà fastidio perché ciò che in questo film è bilancio di una fine, fa presto a diventare una retorica e un alibi: l’alibi del postmoderno. Questo significa almeno che è un film che fa punto e a capo.
Fa punto e basta, secondo me.
E che ne dici allora del lavoro sull’immagine: la rete di fotografie che apre squarci di verità, le sovrimpressioni che fondono ogni cosa, il sonoro che racconta tutta un’altra storia… insomma, quella sospensione del mondo che ha molto a che fare con la guerra e con il cinema?
Va bene, ma oggi non è più la stessa cosa.
Non siamo più la stessa cosa.
Andiamo a rivederlo.
Andiamo pure.

Vincenzo Buccheri e Barbara Grespi

* * *

Fuoco, cammina con me

L’irriducibile fascinazione di Apocalypse Now.

di Silvia Colombo

Era il 1979 quando Apocalypse Now uscì sugli schermi del mondo e io avevo sette anni. Probabilmente lo vidi per la prima volta quattro o cinque anni dopo, in occasione di un suo passaggio televisivo, obbligatoriamente contagiata dalla fascinazione di un adulto. Così la leggenda di Apocalypse Now mi si svelò come tutte le vere leggende: racconto passato di bocca in bocca, raccolto dopo essere passato su altre esperienze, riflesso di un innamoramento; e i motivi dell’amore di un altro sfuggono sempre.
Non sapevo niente di cinema, niente di Coppola, quasi niente del Vietnam. E niente di un film, il cui solo appeal per una undicenne (o giù di lì) era il titolo. Cera quel now; che ti faceva sentire al centro del gorgo, protagonista di un evento rivelato nel medesimo istante in cui tu respiravi: l’apocalisse accadeva nel cuore del momento. Suonava come un ordine – l’apocalisse, ora, per dio! – urlato da un entità furibonda (allora i film non erano per me la creazione di un regista, di una personalità concreta, ma oggetti che fluttuavano senza una paternità, con una genesi confusa situata da qualche parte al di là dell’oceano) che si faceva in quell’istante tiranno dei destini del mondo, artefice del disastro. Un comandante che ordinava l’affondamento della nave su cui tutti eravamo imbarcati. Erano i primi anni 80 e il clima da guerra fredda – che permeava anche il film di Coppola – aveva dato origine negli stessi anni all’inqualificabile The Day After (1983) di cui invece ho un ricordo molto più violento: dopo l’apocalisse non ci sarebbe stato nessun giorno dopo. Così, la paura ricordava per noi. Apocalypse Now era un grande oggetto che sembrava venire da un passato sideralmente lontano, rimpicciolito dallo schermo tv, mentre il modesto terrore a poco prezzo di The Day After, metteva ordine alla paranoia tranquillamente a suo agio nel salotto di casa. Così di Apocalypse Now rimase solo un nome che batteva sotto le palpebre mentre arrivava il sonno. E qualche immagine: le pale di un ventilatore, una barca, un fiume, una tigre.
Nello stesso periodo anche Alien passò in televisione e nel ricordo la fobia di un nemico e di un invasione coagularono l’immagine storica e quella fantascientifica in un isteria di incroci: evidentemente c’erano dei mostri acquattati alla fine del viaggio e la nuca di carne di Brando – il cui corpo arrivava alla fine degli anni settanta gravido di una metamorfosi devastante – nasceva alla luce con gli stessi scintillii del muso di metallo e bave del mostro polimorfo.
La visione completa di molti anni dopo ha fatto sì che le immagini slacciate, lasciate lì quiete in attesa di una seconda visione, trovassero collocamento: visto al cinema per la prima volta all’alba del 2000, non c’è più molto da dire. Il capolavoro di Coppola («Questo film è un disastro da 20 milioni di dollari. Perché nessuno vuole credermi? lo sto pensando seriamente di uccidermi».) si sgancia dai furori dei settanta, dalla nevrosi strisciante degli ottanta e, incurante di ogni condizionamento storico, il fuoco dello spettacolo si eleva sopra tutte le acque, e fa quello che solo un grande show sa fare: fregarsene dei legami di terra e di tempo, rinnegare l’asse orizzontale dei mortali per impiegare la sua spropositata energia per ascese e cadute vertiginose.

Pubblicato in Duel, Maggio/Giugno 2001, pp. 20-27

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