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DOSSIER EYES WIDE SHUT – SegnoCinema

Speciale Eyes Wide Shut pubblicato dalla rivista italiana SegnoCinema, Gennaio-Febbraio 2000

Eyes Wide Shut e la “relazione di coppia

Il (bi)sogno dell’”altro”

Il film di Kubrick è lo sfaldamento di ogni confine tra corpo e mente, realtà e sogno, conscio e inconscio, maschera e volto, fedeltà e tradimento

di Eliana Elia

Qual è colui che sognando vede,
che do­po il sogno la passione impressa
rimane, e l’altro alla mente non riede,
cotal son io, che quasi tutto cessa
mia visione, ed ancor mi di­stilla
nel core il dolce che nacque da essa
(D. Alighieri, Paradiso, XXXIII, 58-63)

Tremendo è scri(vi)vere il sogno. E co­me guardare attraverso un caleidoscopio: le architetture perfette e luccicanti delle forme incantano e inquietano, ma non appena si tenta di raccontarle, mutano e ritornano uguali e diverse solo dopo che altre, altrettanto cariche di terribile fascino, si sono costituite, in un processo senza fine. Perché senza fine è il viaggio all’interno della conoscenza di se stessi; e Eyes Wide Shut è un viaggio, un’altra odissea kubrickiana nello spazio del no­stro essere ontologicamente indeterminato, continuamente in bilico fra due mondi, fra la possibilità di elevarsi e porsi sul piano della pura intelligenza e la possibilità di abbassarsi fino alla bruta ferinità. Eyes Wide Shut è la sospensione di ogni logica disgiuntiva (lo stesso titolo è scelta di una realtà ossimorica), è lo sfaldamento di ogni confine fra cor­po e mente, realtà e sogno, conscio e inconscio, maschera e volto, fedeltà e tradimento.
L’uomo è restituito alla sua ambivalenza, al­la sua illimitata possibilità di plasmarsi, di trasformarsi nella relazione con l’altro da sé, sia questo “altro” un individuo, un sogno, una visione.

Corpo e mente
Il corpo è l’oggetto psichico per eccellenza (J.P. Sartre, L’essere e il nulla)

Un corpo ignudo apre il film. Il corpo esile e slanciato della Kidman che rimanda alle raffinate creature cranachiane, la cui gra­zia gracile e inquieta rivela la tensione non solo del corpo, ma anche della mente, ver­so il desiderio; una scultura di Eros e Psi­che è uno degli elementi profilmici nel sa­lone di casa Ziegler. Alice rinuncia all’avventura galante con il seducente uomo un­gherese e quando questi cita l’Ars Amatoria di Ovidio quale inno all’amore come gioco e capriccio passeggero dei sensi, Alice, con deliziosa arguzia, preferisce ricordare del poeta dell’inganno in amore la solitudine dell’esilio. Alice si impone di allontanare la caeca voluptas: ma la sua voluttà non è “cie­ca” e il suo corpo è sguardo.
Nell’immagine allo specchio la m.d.p., dopo essersi avvicinata progressivamente ai corpi di Alice e di Bill, quasi a monitorarne il crescere del desiderio, si fissa sull’occhio di lei in primo piano (un altro occhio-icona si aggiunge all’oftalmica antologia kubrickiana) che guarda allo specchio e “riflette”, “specu­la”, costituisce lacaniamente il suo io imma­ginario in relazione all’altro e, scoprendone la fallacia, si propone di andare al di là, sul­l’altra scena non specularizzabile dell’in­conscio (e la dissolvenza incrociata, che è un andare attraverso lo specchio – come l’Alice del fotografo e giocatore di scacchi Lewis Carroll – diventa nel film una marca dell’e­nunciazione che traduce il dissolversi dell’i­dentità e di ogni idea di confine).
Alice prende atto dei suoi demoni not­turni: la Venere di Cranach, come in una metamorfosi ovidiana, si trasmuta nella pertur­bante Sposa di Max Ernst, ove il gentile Cu­pido alato è sostituito dal temibile uomo-uc­cello con in mano una lancia fallicamente orientata verso il sesso della donna che, con la maschera animale e il mantello sotto il cor­po nudo, rimanda alle figure femminili che nel film partecipano all’orgia. Alice scopre di poter essere altro – una potenziale Belle de jour – e di poter scardinare l’ordine razionale della propria vita. Un ordine di cui la ricca ca­sa borghese è l’immagine alla quale fanno da controcanto le figurazioni naïf alle pareti (pra­ti smaltati di fiori, foglie e frutti giganti, un gatto con grandi occhi belluini) che, nell’as­senza di relazioni prospettiche, nella sempli­ficazione iterativa degli elementi decorativi, diventano simbolo di una realtà istintuale più profonda e incontenibile. Sono i quadri dipinti dalla moglie di Kubrick, sua compagna di vi­ta per più di quarant’anni: è il gioco degli in­croci continui fra realtà e finzione – le coppie Kidman-Cruise, Alice-Bill – come il vero e finto Lee Ermey in Full Metal Jacket.
Anche il valzer di Sostakovich (e non di Strauss, perché non siamo più a Vienna), timbricamente esuberante, estroso nel ritmo, ve­latamente caricaturale, fa da controcanto alla rigorosa simmetria del montaggio alternato che scandisce prima i rituali dei preparativi alla fe­sta, poi il dipanarsi secondo prestabilite linee-guida di una giornata-tipo di Alice (donna, mo­glie e madre premurosa) e Bill (medico scrupoloso legato al lavoro, alla famiglia, ai dove­ri sociali). Alice avverte il disagio, sente di non corrispondere più all’immagine che il marito ha di lei; vuole essere (ri)conosciuta. Nel ba­gno, prima della festa, chiede al marito di es­sere guardata ma egli, continuando a spec­chiarsi, afferma di non averne bisogno, di sapere già com’è. Il bagno è lo spazio simbolico dove all’intimità dei corpi – Alice sta orinando – non corrisponde l’intesa delle menti. In un’a­naloga scena ne La notte di Antonioni, Jeanne Moreau, nuda nella vasca da bagno – anche qui un marito e una moglie si apprestano ad anda­re a una festa alto-borghese nel corso della qua­le entrambi avranno incontri galanti – cerca in­vano lo sguardo (in)differente del marito (Mastroianni). Ma Eyes Wide Shut non è un film sulla crisi della coppia in senso antonioniano. La crisi, che deriva dalla rottura dello stato fusionale – uno stato che inconsciamente nasce dal bisogno di restaurare l’originario rapporto simbiotico fra madre e figlio, espresso nel mi­to della condizione paradisiaca dell’essere nel Tutto senza divisione fra sé e il mondo, fra l’Io cosciente e il non-Io inconscio – non porta all’estraneità, alla lontananza siderale o ad una strind-bergmaniana distruttività, ma alla tra­sformazione della coppia.
Il tradimento di Alice – non necessa­riamente un’altra relazione, reale o solo immaginata, ma anche un’autonomia di giudi­zio, un interesse, una qualsiasi diversità dal­l’altro può assumere i connotati del tradi­mento – rompe l’immobilismo simbiotico che rischia di compromettere l’identità di ciascuno. Bill, guardandosi narcisisticamente allo specchio, crede di vedere anche Alice. L’infedeltà della donna – che nella mente di Bill prende ossessivamente le forme stereo­tipate del tradimento sessuale (gli inserti in bianco e nero), ma che nel sogno di Alice ri­sulta ancora più complessa, ambigua e o-scena (e infatti rimane fuori-scena, affidata solo al racconto e non alle immagini) – è il punto di partenza per entrambi di un pro­cesso di individuazione e di una conoscen­za di sé attraverso il confronto con la di­versità dell’altro. Lo sviluppo della coscienza di Bill che Alice ha suscitato – non fu già Eva a infrangere il paralizzante stato fissio­nale dell’essere nel Tutto e a spingere Adamo verso la conoscenza? – prende le forme di un simbolico rituale iniziatico (che rimanda anche al Flauto magico mozartiano) con prove da superare, parole-chiave da conoscere: Danimarca, che nella Traumnovelle rimandava all’ufficiale danese incontrato da Alice, è sostituita da Fidelio, titolo in­completo della Rettungsoper beethoveniana, Fidelio, o dell’amore co­niugale, che esalta il rapporto co­niugale e la pervicacia di una don­na pronta a tutto pur di liberare il marito dalle catene.
Un processo di individuazio­ne difficile, non privo di pericoli, dal quale entrambi riescono a uscir­ne “senza danno” (come dice Ali­ce nell’epilogo) e “lucky to be ali­ve” (come è scritto sulla prima pa­gina del New York Post che Bill compra nel suo vagare notturno), grazie al loro parlarsi e affidarsi a un reciproco racconto. Siamo distanti dalla antonioniana inaffidabilità del linguaggio come strumento di comunicazione e vicini -in un’epoca che ha sancito la fine delle Grandi Narrazioni e nella qua­le la comunicazione comunica so­lo a se stessa – a una valorizzazio­ne delle micro-narrazioni. Dopo una notte di racconti, i due si ritrovano an­cora a parlare pur nel frastuono e nel kitsch di un enorme negozio di giocattoli. Hanno compreso di essere “intessuti della stoffa di cui son fatti i sogni” (W. Shakespeare), che “la vita è una maniera del sogno o che il so­gno è una maniera della vita” (J.L. Borges); hanno rinunciato alla speranza di sfuggire all’incertezza del vivere, a un legame tanto idealizzato quanto illusorio nella sua morti­fera fedeltà; hanno rinunciato al “per sem­pre”, ma non a una vita insieme come acca­dimento continuo, conoscenza reciproca, racconto interminabile di parole e di corpi. Il fuck, parola finale del film – volutamente an­ti-romantica per meglio prendere le distan­ze da ogni “ortodossa”, conclusiva, conce­zione dogmatica dell’amore coniugale alla Denis de Rougemont – non è né un volgare sberleffo, né un prosaico ritorno alla mera corporeità (semmai è La notte a concluder­si con un improvviso quanto disperante amplesso); è una proposta, è il pensiero del desiderio, è Eros e Psiche, Logos ed Eros, scel­ta consapevole di un modo (stra)ordinario per celebrare il rapporto con l’altro, la vita e la possibilità di generarla.
Il nudo femminile con il grembo gravi­do in un quadro del bagno di casa Ziegler è messo in contrasto con il corpo nudo della donna devastato dall’eroina: il corpo e la mor­te (come nella scena all’obitorio), il corpo che genera la vita. Non si può non accennare al ruolo della figlia di Alice e Bill, Helena (e ai quadri della figlia di Kubrick, presenti nel film), il cui ruolo è importante tanto nella novella di Schnitzler quanto nel film. La Traumnovelle si apre con la voce della bimba che legge una fiaba ispirata a Le mille e una not­te. In Eyes Wide Shut Helena legge lo Schiac­cianoci, non a caso la storia di un sogno (il sogno inquietante di Clara che deve salvare il suo principe/schiaccianoci da topi e pipistrel­li) e di una notte di Natale, la festa che cele­bra al tempo stesso una nascita e la morte di un anno presente in quasi ogni scena del film con il sublime kitsch delle sue luci colorate e dorate. La Traumnovelle si conclude con il “chiaro riso” della bimba che apre “il nuovo giorno”. Nel film è il pensiero di Helena, che sta per svegliarsi, a spingere Alice e Bill, do­po una notte di pianto e smarrimento, a cominciare “il nuovo giorno”. E se la responsa­bilità parentale è alla base di ogni cura per l’al­tro come afferma Hans Jonas, l’autore de Il principio di responsabilità, l’ineludibile bi­sogno del bimbo è il “paradigma ontico” del non poter essere se non in relazione all’altro.

Maschera e volto
“La maschera è un istrumento misterio­so, terribile. A me ha sempre dato e continua a dare un senso di sgomento. Con la masche­ra siamo alle soglie di un mistero teatrale, riaf­fiorano i demoni, i visi immutabili estatici che stanno alle radici del teatro”
(G. Strehler, in D. Sartori, Maschere e Mascheramenti)

In Eyes Wide Shut la maschera è segno e strumento dell’eclissi dell’identità, dell’addentrarsi dell’Io nel labirinto notturno, dove l’inconscio è l’incontrastato signore dei sogni. Le maschere nella scena dell’or­gia – per varietà di forme, di colori e di in­tarsi degne di un carnevale veneziano – rin­viano all”incipit de Il Casanova di Federico Fellini, un film in cui le visioni di sesso ri­dotto a performance meccanica non sono lontane da quelle dell’orgia kubrickiana e dove le movenze di Casanova con la donna-manichino – immagine estrema della nega­zione della possibilità di relazione con l’al­tro – sono simili al ballo in maschera fra “sconosciuti”, sulle ironiche note di Strangers in the night. La maschera è presente in tutte le tappe del viaggio di Bill nelle stanze più in­time e oscure del suo essere; ma il percorso non è leggibile inequivocabilmente in. chia­ve onirica (come in alcune sequenze bunueliane, chiaramente ascrivibili alla dimensio­ne del sogno/allucinazione), in quanto il re­gistro narrativo usato è fortemente realisti­co: basti pensare all’attenta ricostruzione di New York, notturna ed equivoca, assai simi­le a quella di Fuori orario di Scorsese. Oni­riche e/o reali, le scene traggono forza dal­la loro ambiguità, simile all'”incertezza” o “esitazione” fra fantasia e realtà che Todo­rov riteneva propria del genere fantastico.
La maschera si frappone fra pulsioni di vita e pulsioni di morte. Il livido pallo­re, l’immobilità, la fissità dei tratti e l’as­senza di sguardo della morte sono anche caratteristiche della maschera. Una maschera è nella stanza dove giace il cadave­re del padre della figlia che dichiara il suo folle amore all’incredulo Bill. Maschere primitive sono appese al muro della stanza da letto della prostituta disposta a offrire sesso e un probabile contagio mortale. Di maschere e inquietanti manichini è affolla­to il negozio nel quale Bill prende in affit­to il suo costume e dove assiste a una stra­na quanto perversa ronde fra due uomini e la ‘Politissima” figlia del proprietario. Du­rante l’orgia è Bill a indossare la masche­ra e più che mai potrà vedere l’anima ani­male sullo schermo notturno della scena onirica. Se nell’orgia felliniana de La dol­ce vita la brutalizzazione raggiunge il suo acme nel momento in cui una donna, co­sparsa di vino, viene ricoperta di piume per essere resa simile a una gallina, nell’orgia di Eyes Wide Shut lo scardinamento delle più elementari leggi morali della convivenza è ancora più marcato per poter meglio al­ludere agli abissi sconosciuti, ai demoni e alle pulsioni inconfessate dell’inconscio. Il mascheramento, la danza, i passi ritmici, i comportamenti osceni di coppie simboli­che, la segretezza – Bill come Penteo viola i sacri riti e deve essere punito – rimanda­no ai riti dionisiaci dai quali il teatro, an­tenato del cinema, ha tratto la sua origine.
L’orgia kubrickiana non è solo sogno, discesa nel mondo infero; è una “sciarada”, una “fìnta”, una “messa in scena”: con que­ste parole la definisce Ziegler nell’episodio estraneo alla Traumnovelle, che Kubrick ag­giunge con l’intento di proporre metafilmicamente una riflessione sulla “messa in sce­na”, sulla “finzione”, sul cinema. Il pensie­ro corre alla “mescolanza di affinità e di scarti”, individuata da Christian Metz, fra “stato filmico” e “stato onirico” e alle riflessioni di Melanie Klein sul sogno come “teatro privato”, come “messa in scena” di una rappresentazione – riguardante le figu­re interne al sognatore e la loro relazione con il mondo – che diventa conoscibile so­lo attraverso la sua narrazione. Il racconto di Ziegler è la narrazione dell’avventura (onirica), è lo spazio dove si teatralizza il sogno già sognato, è il tentativo di “smascherarlo”, di decodificarlo, volutamente non riuscito nella sua interezza perché co­munque un film (un sogno) non può mai es­sere esaustivamente svelato; può tuttavia “esistere” e diventare strumento di conoscenza attraverso il racconto che lo spetta­tore/critico, dopo la visione a occhi aperti, narra a se stesso con eyes wide shut (come sul lettino con le spalle rivolte all’analista, e pertanto a occhi chiusi, si racconta il so­gno già sognato).
E come se Kubrick avesse voluto spo­stare l’accento sul racconto che nasce dal­la creatività della “relazione di coppia” fra il film e chi lo fruisce. Un racconto che, se da un lato non esaurisce i significati del film – sconcertanti in Eyes Wide Shut nel loro continuare ad abitare il sogno schnitzleriano e al contempo a scaturire da un nuovo atto creativo – dall’altro continua­mente trasforma chi il film lo avvicina, lo legge, lo ascolta. Un racconto intermina­bile, che si smarrisce nelle continue pos­sibilità di dire, nelle infinite impossibilità di significare, nei vuoti… nei punti di si­lenzio… nel senso ritrovato e poi perduto… nel desiderio e nella paura del-non-anco-ra-pensato… del-non-ancora-scritto… con gli occhi chiusi.

*  *  *

La logica dell’inconscio in Eyes Wide Shut

Kubrick contro Eros

Il desiderio e l’impossibile in una riscrittura del racconto di Amore e Psiche

Di Giovanni Bottiroli

“Bambino!, sì, siete un bambino – ella disse reprimendo qualche lacrima; – voi sareste capace di amare sinceramente, voi!”
(H. de Balzac, Papà Goriot)

1. La psicoanalisi aiuta a comprendere e a riconoscere le opere d’arte, le opere d’arte aiutano a comprendere la psicoanalisi. Le ope­re d’arte – anche quelle imperfette (ma quan­te di esse, diceva Proust, sono cattedrali in­compiute?) – le opere d’arte offrono alla psi­coanalisi l’occasione per allontanarsi dalla pro­pria versione stereotipata, e per riproporre il carattere problematico della ricerca inaugura­ta da Freud. Eyes Wide Shut ha certamente que­sto merito: ci costringe a chiederci “che cos’è la psicoanalisi?”, e quali siano gli strumenti che essa può offrirci per un tentativo di interpretazione che non pretende di sostituire l’in­tera valutazione estetica. Un’analisi stilistica dell’ultimo film di Kubrick richiederebbe più tempo, e altri strumenti: tuttavia molti dubbi sulla necessità delle scelte compiute da Ku­brick possono essere affrontati, credo, solo immergendo questo film nel campo teorico del­la psicoanalisi.

2. Da Vienna a New York: realtà e verosi­miglianza
La trasposizione del racconto di Schnitzler nella metropoli contemporanea potreb­be essere un errore estetico: nel corso degli ul­timi decenni i sentimenti di colpa rispetto al tradimento coniugale, e in genere rispetto al­la sfera del sesso, si sono fortemente indebo­liti; la definizione della nostra identità è diventata assai più elastica; ci accontentiamo di assemblare le nostre esperienze, rinunciando volentieri alla coerenza e alla ricerca del significato. Se questa è la realtà di fine secolo, è certamente lo è in misura maggiore a New York rispetto alla provincia, e quando i prota­gonisti riflettono una condizione sociale privilegiata, la ripresa di un testo come la Traum­novelle, con le sue curiosità per il sesso e i tor­menti del Super-io, può suscitare molti dubbi.
Quella borghesia non esiste più. Il sog­getto borghese postmoderno vive sempre più serenamente la propria “disidentità”: siamo tutti molteplici, si dice, siamo tutti nomadi. Lo siamo, lo diventeremo; nel postmoderno la dilatazione del presente fa incombere qualunque utopia, giornalisticamente credibile. Se la nuova, o l’imminente condizione femminile, è rappresentata dalle donne descritte da Rosi Braidotti, da Judith Butler, da Tere­sa De Lauretis, o dal Manifesto cyborg della Haraway1, allora le lacrime di Alice nel film di Kubrick, le sue lacerate fantasie di adulte­rio possono apparire davvero anacronistiche.
Lungi dall’offrirci “la verità sul sesso”, così come ci avrebbe dato la verità sulla violenza in Arancia meccanica o il film definitivo sul Vietnam in Full Metal Jacket, Kubrick sa­rebbe incorso in un clamoroso infortunio. Queste obiezioni devono venire discusse preliminarmente.
Nel suo libro su Dostoevskij, Bachtin osservava che “non ogni uomo è un materia­le egualmente favorevole per la raffigurazio­ne artistica”. Perciò Dostoevskij avrebbe rapidamente abbandonato l’impiegato gogoliano, che forniva troppo limitate possibilità, a favore di personaggi più ricchi di autoco­scienza2. Credo che queste considerazioni sia­no del tutto pertinenti per giudicare il lavoro di Kubrick. Egli avrebbe potuto scegliere personaggi “più contemporanei”, più nomadici e più euforicamente perversi. Bisogna chiedersi tuttavia se la disidentità di questi per­sonaggi possibili, la loro adesione a una mol­teplicità che rifiuta ogni presenza del Super-io come paterno, patriarcale, repressivo e veteroborghese, non offra “troppo limitate pos­sibilità” sul piano artistico. Come gli impiegati di Gogol, i soggetti nomadi e perversi (con tutte le varianti cibernetiche) dell’immaginario contemporaneo sono troppo sem­plici in quanto mancano di quel “gradino” all’interno della psiche che è precisamente l’I­deale dell’Io (Freud), e che non è semplicemente un’istanza di repressione, ma un fat­tore di complessità3; esso aumenta le intera­zioni nella psiche, e fa dell’Io non un banale esecutore dei capricci pulsionali, bensì lo sfor­tunato “servo di tre padroni”. Sfortunato e mi­nacciato dalla bêtise – di fronte alle doman­de della libido, perfino l’uomo più intelligente rischia sempre di apparire stupido.
Kubrick avrebbe dunque individuato nel racconto di Schnitzler dei personaggi favorevoli alla raffigurazione artistica. Poco im­porta che, sul piano meramente statistico, es­si possano risultare scarsamente rappresen­tativi dell’attualità. Ciò che vediamo è la realtà di due personaggi per cui il legame di coppia non è desueto e privo di motivazioni (non convenzione o ipocrisia, come per Ziegler): tut­tavia questo legame appare, inizialmente, co­me assopito. L’impossibilità di “fare Uno” è un’utopia dimenticata, al sogno di una fusione reciproca è subentrata un’intimità dove prevalgono i momenti banali o volgari (Ali­ce che fa pipì in presenza del marito). La festa li espone nuovamente al desiderio, e ciò che conta è che i protagonisti siano tali da es­sere realmente esposti alla “tentazione”: in effetti essi sono estremamente desiderabili (e non solo desideranti, come può esserlo cia­scuno di noi). Inizia così la loro storia. Sto­ria doppia, e asimmetrica in quanto le rela­zioni erotiche di Alice sono soltanto fantasti­cate, mentre quelle di Bill sono reali (sia pu­re, ovviamente, nella finzione narrativa).
Perché questa asimmetria? Dice Goethe che non al “perché”, ma al “poiché” si deve cercare una risposta4. Poiché Schnitzler e Ku­brick ci presentano una storia asimmetrica, bi­sognerà cercarne le ragioni all’interno della narrazione o magari all’esterno, cioè nell’ombra che l’opera d’arte proietta come se fosse un corpo. Non l’ombra verticale e spezzettata di eventuali metafore o simboli, bensì l’ombra orizzontale e globale di una possibile allegoria. Il film di Kubrick non è né onirico né sim­bolico, ma non può fare a meno, come molte narrazioni perfettamente conchiuse in se stes­se, di proiettare un’ombra mitica o allegorica.
Eyes Wide Shut potrebbe essere il rove­scio, o comunque una riscrittura, della favola di Amore e Psiche. Nel romanzo di Apuleio, Eros fugge da Psiche dopo che lei lo ha scot­tato con alcune gocce d’olio bollente cadute dalla lampada; anche qui Eros fugge, e stavolta a causare la sua ferita è la confessione di un adulterio mancato. Ma mentre Apuleio ci racconta le disavventure e le prove a cui vie­ne sottoposta Psiche, Kubrick (tramite Schnitzler) ci mostra le umiliazioni di Eros.

3. Poiché non esiste rapporto sessuale
Che il dottor William Harford vada in­contro a una serie di frustrazioni e di insuc­cessi erotici, è del tutto evidente. Dopo la sua fuga dal letto coniugale, Eros (Bill) rinuncia a un’affascinante prostituta, subisce una di­chiarazione d’amore non realizzabile, almeno nell’immediato, viene introdotto a un’or­gia dalla quale viene ignominiosamente scac­ciato. Torna a cercare la prostituta, Domino, e viene a sapere che essa è sieropositiva. Quan­to alla donna che lo ha salvato, in uno slan­cio di abnegazione che sembra presupporre un’infatuazione misteriosa e irresistibile, Bill ne ritrova il corpo in un obitorio, irrigidito e reso inaccessibile dalla morte.
Alle frustrazioni di Bill sembra con­trapporsi il godimento di un’élite neanche troppo misteriosa. Esiste un paradiso del pia­cere – “non ho mai visto tante donne così stu­pende” racconta Nick Nightingale – ed è que­sto paradiso, con i suoi iniziati, a scatenare il desiderio mimetico del protagonista. Alla men­zogna romantica dell’amore coniugale subentra dunque la verità romanzesca del desi­derio suscitato da un mediatore5. Si desidera solo tramite un altro, e nella convinzione che l’altro abbia accesso al godimento. Ma l’al­tro gode davvero? O il paradiso resta per tut­ti inaccessibile?
La famosa tesi di Lacan “non esiste rap­porto sessuale” è indispensabile per inter­pretare ciò che vediamo nella scena dell’orgia. Tutto l’episodio è dominato da una straordinaria ambiguità: niente di più affascinante, niente di più assurdo, del rito a cui il dr. Harford riesce ad assistere. Il grottesco minaccia ad ogni istante di irrompere nella serietà della cerimonia, e l’aspetto spudoratamente falli­co della maschera che trascina via la donna che ha deciso di immolarsi va ad aggiunger­si, suscitando un sorriso, ai movimenti mec­canici dei corpi impegnati in copulazioni in­sensate. Ma passare al riso non è possibile. Quando si ride, si ride sempre di un indivi­duo o di un gruppo di individui, e qui non ci sono più individui. I volti sono diventati ma­schere, i corpi mantelli. A questa condizione il rito trasmette il proprio fascino ipnotico. Esso rivela e nello stesso tempo nega il vuo­to, il niente, a cui tenta di aggrapparsi il pia­cere sessuale.

4. “Puer” e “senex”: l’individuo e il branco
Chi sono gli happy few? E lecito avere delle forti perplessità sulla lunga scena che si svolge a casa di Ziegler, nel salone con il biliardo, scena poco intensa e, si direbbe, non propriamente necessaria. Si tratta, fra l’altro, della sola scena che Kubrick ha aggiunto al­la storia di Schnitzler. Pur condividendo mol­te di queste perplessità, credo ci sia un moti­vo che può giustificarne la presenza (non fac­cio ipotesi sulle intenzioni di Kubrick, mi li­mito a giudicare il testo, il film): essa ci offre un’indicazione inequivocabile – anticipata dal personaggio che consegna silenziosamente una lettera a Bill6 – dell’identità del branco.
Il branco, l’orda. In quello che Lacan considera l’unico, e comunque il più sugge­stivo mito creato nel nostro secolo, cioè il racconto di Totem e tabù, Freud immagina (ispirandosi a Darwin) che nei tempi pri­mordiali la vita sociale consistesse in grup­pi guidati e dominati da un maschio maturo. Questo padre geloso teneva per sé tutte le femmine e scacciava i figli man mano che crescevano. Un giorno i figli si ribellarono e lo uccisero. Questo il mito che Freud ci ha consegnato (con tanta fede nel suo racconto da crederlo forse il rispecchiamento di even­ti reali). Per noi si tratta in ogni caso di un mito: e poiché un mito non è un testo stati­co, poiché vive – come ci ha insegnato Lévi-Strauss – nella serie delle sue trasformazio­ni, siamo autorizzati a pensare che la coppia Schnitzler-Kubrick ne abbia elaborata una. In questa variante, le identità numeriche so­no rovesciate: non un solo padre e numero­si figli, bensì il branco dei padri e il figlio.
Ecco uno dei contributi che il film di Ku­brick offre per una comprensione non stereotipata della psicoanalisi: ci ricorda che in Freud la figura del padre non è soltanto quella del racconto di Edipo, dove il padre viene ucciso dal figlio (ma il mito comprende un episodio che Freud sembra aver dimenticato: l’infanticidio tentato da Laio)7; l’immagine freudiana del pa­dre viene completata in Totem e tabù, con il ri­torno sulla scena del padre geloso, detentore esclusivo delle donne.
Anche la scena primaria ci viene dun­que presentata da Kubrick in una variante collettiva: il bambino che penetra abusivamente nella camera dei genitori e osserva il rappor­to sessuale viene sostituito dal giovane che, grazie a una parola d’ordine ironica (Fidelio: sottotitolo “L’amor coniugale”) entra nella ca­sa dell’orgia, dove il branco gode di donne stupende. Gode, o tenta di godere. I mantelli e le maschere conferiscono una dignità supe­riore, ma nascondono corpi invecchiati, inde­centi, l’impotenza vergognosa di chi preferi­sce o è costretto a guardare. Almeno in un cer­to numero di casi; e per quanto riguarda co­loro che realizzano l’orgia, l’unico aspetto ca­pace di suscitare invidia e desiderio mimeti­co è la possibilità di fare ciò che fanno. “Io (le) scoperei meglio” è il pensiero che ac­compagnerà il puer scacciato dal paradiso, la spina nella carne che lo indurrà a tornare.
Perché i padri sono molti? Perché la fi­gura del padre è stata moltiplicata nel bran­co? Ancora una volta dobbiamo intendere la domanda “perché?” non come la richiesta di nessi causa-effetto – la psicanalisi è sovente tentata dalla spiegazione causale, ma il suo vero oggetto “ha un’essenza differente, una densità psicologica concreta”, è il senso (La­can)8 – e piuttosto come l’invito a non trascu­rare nessuno degli effetti testuali. Se, ad esem­pio, ci chiediamo perché Kubrick abbia scel­to un attore dalla recitazione non sempre per­suasiva come Tom Cruise, troveremo forse una risposta, sul piano testuale, nella bellezza dei suoi lineamenti un po’ adolescenzia­li esposti allo sguardo aggressivo del branco: Tom Cruise non è un cattivo interprete nel ruolo del puer.
La nozione di “puer” è stata introdotta da Jung ed è stata approfondita dalla scuola junghiana; la ripropongo qui in un’accezio­ne prevalentemente freudiana, in relazione al mito dell’orda primitiva. Ciò che non dob­biamo mai perdere di vista, per evitare di ca­dere in un’applicazione meccanica di concetti psicoanalitici, sono i tratti semantici dei per­sonaggi. Quali sono i tratti principali di Bill Harford? Seducente, immaturo, bambino. Immaturo perché infantile, serioso, troppo sicu­ro di sé – così sicuro della fedeltà di sua mo­glie da indurla a una rivelazione shoccante -e bambino, sempre di più: quando torna a ca­sa dopo la prima notte, Alice lo fa coricare accanto a lei e gli accarezza i capelli, più si­mile a una madre che a una moglie; quando rientra nella camera da letto, durante la seconda notte, la vista della maschera accanto ad Alice addormentata lo fa scoppiare in singhiozzi. In uno stato di prostrata confusione, • Eros si rifugia piangendo presso il corpo di Afrodite.
Quanto all’orda, al branco: Bill non ap­partiene al branco dei senex, benché ambisca appartenervi, e neppure al branco dei giova­ni che egli incontra per strada, e dai quali vie­ne oscenamente insultato. In effetti egli non appartiene a nessuno dei due gruppi: troppo “maturo”, troppo definito e riuscito per po­tersi mescolare ai più giovani – maschi, aggressivi, in preda al furore, capaci di intuire in Bill qualcuno che aspira al monopolio del­le donne – e troppo puer per poter essere ac­colto nel branco dei senex. Eros si conferma un essere intermedio, vanitoso, volubile, in­trigante, bugiardo, sciocco – nella realtà e nel sogno, Alice ride di lui, di un riso sguaiato e cattivo – tenero, smarrito.

5. Il terzo termine, il Fallo
Preferisco parlare di “branco dei senex” e non di “orda paterna” per evitare ogni riduzionismo edipico. E vero che i tratti paterni non sono del tutto assenti: nel già citato dia­logo tra Bill e Victor Ziegler, quest’ultimo as­sume un atteggiamento almeno in parte protettivo e affettuoso – l’atteggiamento di un pa­dre, costretto peraltro a confermare al figlio la proibizione della donna più desiderata. Così come non mancano tratti materni; oltre a quel­li già indicati in Alice, come non giudicare “materno” il gesto di sacrificio che consente a Bill di uscire indenne dalla sua avventura?
Una versione della psicoanalisi con for­te impronta edipica utilizzerebbe ancora un argomento a proprio favore: non è impossi­bile, e non è neanche difficile, vedere nella molteplicità dei senex la scissione dell’Uno, la proliferazione dell’unica figura paterna. Tuttavia è proprio questo genere di operazioni riduttive ad avere suscitato la stizza di Deleuze e Guattari nell’Anti-Edipo: non senza delle buone ragioni. Abbandoniamo dunque la dialettica dell’uno e del molteplice. Ma non per enfatizzare il molteplice nella sua pie­nezza desiderante, come in Deleuze-Guatta­ri: con la loro battaglia contro il manque lacaniano, gli autori dell’Anti-Edipo hanno fa­vorito molti errori e confusioni sulla “natu­ra” del desiderio.
In breve: la psicoanalisi afferma che il desiderio è legato a un oggetto impossibile, e perciò deve scivolare lungo una catena di og­getti sostitutivi. Il desiderio sarebbe dunque vincolato a una mancanza; esiste inoltre un’a­simmetria o uno squilibrio tra i sessi, perché le femmine sono “più mancanti” dei maschi. La nozione di “invidia del pene” ha suscitato le ben note ire da parte delle femministe, e a queste ire non è sfuggita neanche la distinzio­ne lacaniana tra pene e fallo. Il fallo non è l’or­gano sessuale maschile, bensì un significante: un significante “eletto e problematico”, dice Lacan9. Ma, è stato obiettato, se il Fallo resta pur sempre il significante del desiderio, e se il desiderio è fomentato dalla mancanza, come non vedere in tutto ciò un semplice travestimento terminologico della freudiana invidia del pene? Il fallo sarebbe un pene duplicato.
La questione è più complessa. Il Fallo è il significante dell’impossibile, non perché (e comunque: non solo perché) il desiderio desi­dera un oggetto “impossibile” (vietato dal tabù dell’incesto), ma perché esso entra come ter­zo termine anche nella relazione duale, la più confusiva e osmotica. Il Fallo è la scissione del desiderio. Torniamo alla scena dell’orgia: che cosa desiderano, che cosa cercano i maschi nelle puttane? (Il termine è usato da Ziegler per designare e per degradare l’oggetto del desiderio di Bill, oggetto sublime per lui, e ver­so il quale poco prima, nell’obitorio, Bill si era piegato per posarvi devotamente le labbra). Ciò che si cerca nella prostituta, dice Lacan “è il fallo anonimo, quello di tutti gli altri uomini”10. Ciò che si cerca nell’orgia è dunque l’identi­ficazione con il Fallo.
Comprendiamo meglio, ora, la funzio­ne e la necessità delle maschere, e il loro ef­fetto di fascinazione. Se la cerimonia a cui Bill assiste non è soltanto grottesca e insen­sata, è perché gli individui sono come assor­biti nella maschera del Fallo – il quale si dà, per l’appunto, solo come velo, come maschera. Esso è il terzo che scinde il desiderio. Non è un oggetto, benché possa venir simboleggia­to da un oggetto: ad esempio, nel romanzo di Tristano e Isotta, il fallo è la spada che giace tra i corpi dei due amanti addormentati, è il segno di una divisione che sembra ipnotizza­re il re Marco, e lo induce a rinunciare alla vendetta. Il Fallo non può coincidere con una persona, neanche la più desiderata, ed è perciò che il desiderio è infedele. L’ufficiale che avrebbe potuto introdursi come terzo devastante nel matrimonio di Bill e Alice rivela la sua “identità” nel sogno in cui egli è solo il primo dei molti uomini che possiedono la mo­glie del dr. Harford. Dice Alice (ignorando quanta verità ci sia nelle sue parole): “non so nemmeno con quanti uomini ho scopato”11.

6. Doppio inconscio
I sogni manifestano l’inconscio. Il lin­guaggio onirico ha una logica. “Tra le rela­zioni logiche – dice Freud – una sola si av­vantaggia straordinariamente del meccani­smo di formazione del sogno. E la relazione della somiglianza, della concordanza, della connessione…”. Nel sogno l’inconscio fa dun­que prevalere la propria logica confusiva.
Se il racconto di Schnitzler e il film di Kubrick hanno un carattere onirico, non è perché confondano sogno e veglia, fantasia e realtà. Kubrick ha evidentemente giudica­to questo tipo di confusione come troppo ba­nale, e ha evitato l’insidia di troppo facili ambiguità sul piano narrativo. Il carattere onirico va riferito piuttosto al primato di una logica confusiva, alle relazioni di somiglianza e di sovrapposizioni che si creano irresisti­bilmente in uno spettatore, il quale guardi il film con occhi ben aperti.
Non vi è dubbio: basta osservare l’età media dei partecipanti alla festa di Ziegler per capire che questo rito mondano anticipa, ed è già, il rito che si svolgerà nella casa del­l’orgia; che il maturo bellimbusto, da cui Ali­ce viene quasi sedotta, rappresenta (al meglio) il branco dei senex; che Bill vorrebbe possedere tutte le donne, e che Alice è e non è una puttana. A collegare la festa e l’orgia ci sono elementi di connessione non me­taforici (in qualche modo paragonabili a re­sti diurni non elaborati): il pianista, Nick, che compare in entrambi i luoghi, e la ex-miss, che viene soccorsa da Bill a casa di Ziegler, e che ricambierà il gesto salvifico nel momento in cui Bill si vedrà perduto.
Non possiamo avere dubbi: il racconto di Schnitzler-Kubrick diventa comprensibile solo tramite la logica dell’inconscio. Nella versione più divulgata – anche grazie al cine­ma – l’inconscio viene tuttavia considerato un serbatoio di rappresentazioni, che sono state rimosse, cioè allontanate dalla coscienza sen­za che la coscienza stessa sia stata resa partecipe di quest’operazione. Si pensi a Io ti sal­verò (Spellbound) oppure a Marnie di Hitchcock: la coscienza non ha più accesso alla sce­na del trauma (in Spellbound la morte del fra­tello minore del falso dr. Edwardes (Gregory Peck), avvenuta mentre i due giocavano quan­do erano bambini), ma solo a immagini sosti­tutive (le righe nere della vestaglia, le rotaie del treno, le tracce degli sci sulla neve, ecc). Il processo di guarigione consiste nel recupero delle rappresentazioni rimosse. Secondo questa prospettiva, l’esistenza dell’inconscio si­gnifica che il soggetto è diviso – tra sapere e non-sapere. Ed è in questa prospettiva che va intesa la celebre affermazione di Freud: “Dov’era Es, deve diventare Io”. Ma la scissione del soggetto nella teoria psicoanalitica non si ri­duce a questo: e l’inconscio non è soltanto un insieme di immagini appartenenti alla storia di un individuo. E anche una logica, un modo di pensare, che rende vertiginose le somiglianze e assimila tutti gli oggetti del desiderio.
Torniamo a Eyes Wide Shut. La passio­ne per il giovane ufficiale appartiene alla memoria cosciente, o tutt’al più preconscia di Ali­ce, e non al suo inconscio. Al suo inconscio appartiene invece il desiderio di essere posse­duta da un numero illimitato di uomini, con il marito nel ruolo di spettatore. Svegliandosi dal sogno che realizza allucinatoriamente questo desiderio, la donna viene sopraffatta dal sen­so di colpa e si abbandona alle lacrime. Dun­que nel sogno di Alice la logica del desiderio cancella i tratti individuali dell’oggetto, e li rende anonimi: è il Fallo anonimo, quello di tutti gli altri uomini, che Alice vorrebbe ave­re. Dovrebbe essere evidente che quest’oggetto di desiderio non è un oggetto: esso può pre­sentarsi solamente celato in una maschera12.

7. Kubrick e Kleist
La maschera posata sul guanciale, ac­canto a Alice immersa nel sonno, vale come ammonimento a non sfidare il potere dei senex13, ma è anche il punto di congiunzione tra le avventure notturne di un marito e di una moglie. Che Bill e Alice si ritrovino uniti ac­canto alla maschera – il terzo termine, il Fal­lo – è una formidabile conferma dell’idea che ispira la psicanalisi lacaniana: l’incontro ses­suale è sempre un incontro mancato.
Nell’Anfitrione (1807) di Kleist il ter­zo termine è Zeus, che scende sulla terra assumendo le sembianze del marito di Alcmena. Benché lo guardi con occhi bene aper­ti, Alcmena non riesce a capire se la perso­na che le sta di fronte, e che l’ha posseduta per una notte interminabile, sia o non sia suo marito. Ma non sono unicamente gli effetti confusivi che sovvertono l’amore coniuga­le a suggerire un rapporto tra l’opera di Ku­brick e quella di Kleist. In entrambi i casi dobbiamo ammirare l’audacia delle battute conclusive. “Ahimé” dice Alcmena; “Dobbiamo scopare” (Let’s fuck) conclude Alice. In entrambi i casi, al di là dell’apparente di­vergenza, si ha la sensazione di una ferita che non potrà rimarginarsi. Vi è inoltre una somiglianza stilistica, che riguarda la tecni­ca del dialogo. Nella meravigliosa Scena quinta del Secondo atto, che Thomas Mann ha commentato quasi “alla moviola”, Klei­st fa ripetere alla sua eroina le domande che Zeus le ha rivolto. “Ella ripete le sue parole, pensa”14. La necessità di questo raddop­piamento risiede nella densità enigmatica del significato. Che cosa viene chiesto esattamente in ciò che viene chiesto? Kubrick usa questa tecnica più diffusamente, e non sempre riesce a trasmettere la percezione della sua necessità. E anche per questo mo­tivo che nella parte finale si riscontra una certa lentezza: uno dei difetti che, se avesse avuto ancora tempo, Kubrick avrebbe potu­to correggere, e che danno al suo grande film il carattere dell’incompiuto.

NOTE

1 Cfr. R. Braidotti, Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità, 1994 (trad. it. Donzelli, Roma 1995; J. Butler, Corpi che contano, 1993 (trad. it. Feltrinelli, Milano 1996); T. De Lauretis, Pratica d’amore. Percorsi del desiderio perverso, La Tartaruga, Milano 1997; D. Haraway, Manifesto cyborg, 1985 (trad. it. Feltrinelli, Milano).

2 Bachtin, Dostoevskij. Poetica e stilistica, 1963 (trad. it. Einaudi, Torino 1968, p. 68).

3 Non nego che un perverso possa raggiun­gere un’identità complessa, ma la perversità non è condizione sufficiente. Non è facile uscire dagli stereotipi – lo dimostra l’ultimo film di Almodóvar, in cui i ruoli previsti per il transessule restano quelli del maudit e del clown. Nella dinamica stessa della perversio­ne – se è possibile, perché non farlo? – sono presenti la tentazione della semplicità e il disinteresse per il ridicolo.

4 “Come? Quando? E dove? Muti gli dei devono restare! // Tu attienti al poiché, e perché? non domandare” (Wie? Wann? und Wo?Die Götter bleiben stumm! // Du halte dich ans Weil und frage nicht Warum?).

5 Per la nozione di “desiderio mimetico” si rinvia naturalmente a R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, 1961 (trad. it. Bompiani, Milano).

6 Si tratta verosimilmente di un servo (così è in Schnitzler). Ma il suo volto incartapecorito non mi sembra casuale.

7 Cfr. J Hillman, Variazioni su Edipo, 1987 (trad. it. Cortina, Milano 1992).

8 J. Lacan, Gli scritti tecnici di Freud. Il seminario, libro I (1953-1954), trad. it. Einaudi, Torino 1978, p. 3.

9 J. Lacan, Seminari 1956-1959 (raccolti e redatti da J.B. Pontalis), trad. it. Pratiche, Parma 1978, p. 90.

10 Ibidem.

11 Sono costretto a far riferimento alla ver­sione italiana. In ogni caso, il “quanti” potrebbe avere anche il valore di “quali”.

12 Il Fallo è maschera perché nasconde-rivela una logica, la dimensione logica e modale del desiderio, non perché cela qualcosa o qualcu­no.

13 E non solo come lapsus. Al testo di Schnitzler è stato infatti aggiunto il minac­cioso pedinamento, ordinato da Ziegler.

14 Th. Mann, L”‘Anfitrione” di Kleist. Una riconquista, 1926 (trad. it. in Nobiltà dello spirito, Mondadori, Milano, p. 572).

*  *  *

Il tema dei soldi e del potere in Eyes Wide Shut

Doppi sogni che il denaro può comprare

L’ultimo film di Kubrick si rivela come il suo più politico, un complicato gioco sul circuito denaro/merce/denaro

“Cara, hai visto il mio portafoglio?”: questa domanda rivolta dal dottor Harford al­la moglie nel loro appartamento in Central Park West, mentre si preparano per uscire, è la prima frase che si sente in Eyes Wide Shut. Se ogni titolo è una chiave di lettura per il te­sto, ogni incipit è la spia di un sottotesto: a partire da questa prima scena, in cui il piano-sequenza in steadycam sembra puntualizza­re gli spazi abitativi e il loro corrispondente valore in denaro e in status symbol, il tema della ricchezza ritorna puntuale, ossessivo.
L’arrivo a palazzo Ziegler chiarisce il livello architettonico dei rapporti di potere: il lussuoso appartamento degli Harford non è comunque paragonabile con questa minireg­gia nel pieno centro di New York; un luogo in cui, come c’informerà il corteggiatore ungherese della signora Harford, al piano di so­pra c’è un vero e proprio museo di bronzi del Rinascimento. “Conosci qualcuno qui?” chie­de Alice, che non riesce a capacitarsi dell’in­vito a una festa così elitaria; e il marito am­mette di non conoscere nessuno, di essere un estraneo in quell’ambiente di vera borghesia finanziaria, di veri ricchi. O meglio, l’unica persona conosciuta è il vecchio collega universitario Nick Nightingale, che dopo l’abbandono degli studi di medicina si è ridotto a fare il pianista, lavorando dove capita (e co­munque lontano da Seattle, dove abitano la moglie e i figli): questo incontro stabilisce una scala nella gerarchia economica (Vélite finanziaria, la classe media dei young urban professionals, il neo-lumpen metropolitano dei cosiddetti working poors) che resterà co­stante in tutte le triangolazioni della storia.
Il lungo ballo fra Alice e l’ungherese, che ha per tema principale il rapporto fra il matrimonio e il libertinaggio sessuale, intro­duce comunque sottilmente l’equazione fra capacità seduttiva e possibilità economica: quando la signora Harford ammette che sta cercando lavoro nel settore del mercato del­l’arte (è il caso di sottolineare che la moglie di Kubrick, Christiane Harlan, è una pittri­ce?), l’elegante straniero non manca d’infor­marla che egli ha buone conoscenze in quel settore. È il lato oscuro del mito di Don Gio­vanni: la fascinazione del potere è una pro­messa di magico problem solving, uno spira­glio sul mondo della libertà. Del resto, anche le due ragazze che stanno corteggiando Bill vogliono portarlo “dove finisce l’arcobale­no”; ovvero dove, secondo la favolistica po­polare, si trova la pentola dell’oro.
Non è un caso che tutta la storia si svol­ga in periodo natalizio: il natale è esattamente la festa che maggiormente evidenzia la contraddizione fra gli originari contenuti religiosi (la nascita del Cristo come “buona novella”, annuncio che tutti gli esseri umani sono ugua­li) e la rilettura merceologica (le festività di fine anno come obbligo al regalo e dunque compulsione all’acquisto). Vediamo mamma e figlia incartare il regalo per il papà: un costoso volume sull’opera di Van Gogh, artista morto povero e le cui opere hanno adesso un valore feticistico valutabile in miliardi di li­re. La modernità e la povertà di Van Gogh, il cui acceso cromatismo sembra affiorare nel­le immagini del film (anche attraverso le te­le firmate da Christiane Kubrick), entrano in antitesi con la classicità e la ricchezza dei bronzi rinascimentali: anche se, ovviamente, la vera questione è che gli Ziegler possono permettersi di collezionare delle opere origi­nali, mentre gli Harford si limitano a guar­dare delle riproduzioni.
Che si accorra nel bagno del proprio amico miliardario (e che ha tele appese an­che in bagno), o che si accorra al capezzale del proprio paziente senatore appena morto, la disponibilità del medico è connaturata all’etica professionale ma anche al legame economico che intercorre fra il lavoratore e il suo cliente pagante: tutte le relazioni diadiche del film, eccetto la relazione matrimoniale fra i due protagonisti, sono relazioni economiche (a cominciare da quella che inizialmente lega la piccola Helena alla babysitter – per finire con quella che lega la piccola Helena alla bam­bola Barbie). “E adesso che dobbiamo parla­re di denaro?” chiede Bill alla giovane pro­stituta che l’ha introdotto nel proprio appartamentino (da studentessa di sociologia – con un de­stino parallelo a quello del medico mancato Nightingale) al Village: mentre l’a­more non si può comprare (ed è forse questa la trage­dia della totale inaffidabi­lità dei sentimenti come ba­se dei rapporti sociali), il sesso in quanto servizio pro­fessionale è valutabile sia in termini di tipologia del­la prestazione sia in termi­ni d’impegno temporale. Bill non ha pagato per en­trare alla festa Ziegler e, in cambio, non si fa pagare per la sua “consulenza” riguar­do la ragazza in overdose; il dottor Harford si fa pa­gare per palpare il seno del­le proprie clienti e, in base al paradosso del matrimo­nio, non paga per stringere il seno della mo­glie (l’immagine di sesso allo specchio è, giu­stappunto, speculare rispetto alla scena della visita in ambulatorio) ma paga la “seduta” con la prostituta, il cui appartamento ad uso professionale è il controcampo dello studio medico del suo cliente.
Pagare per entrare: in questa metafora sessuale è racchiuso il segreto dell’ossessione architettonica di Eyes Wide Shut, il cui prota­gonista è sempre ripreso nella sua difficoltà o facilità rispetto al superare una soglia. Gli Harford entrano a casa Ziegler su invito uffi­ciale dei padroni di casa (e poi Bill viene chia­mato ad entrare nella sala da bagno, dove si trovano due donne nude, una reale e l’altra di­pinta); Bill entra a casa del senatore chiamato telefonicamente per dovere professionale (do­po averlo visto nell’androne, lo seguiremo fi­no alla penetrazione nel sancta sanctorum, do­ve lo attendono un uomo morto e una ragazza che lo bacerà – Eros e Thanatos nella stessa stanza, ovviamente da letto); dopo l’obbligo mondano e l’obbligo professionale, l’invito della prostituta Domino (“Vuole venire dentro con me?”) si configura come un primo passo in questa sorta di viaggio nel libero mercato. Invece di tornare a casa dalla moglie, il dottor Harford s’infila (sempre dopo essersi fermato sulla soglia) nel Sonata Cafè, controcampo del tetto coniugale: un luogo contraddistinto dal nomadismo tanto degli artisti quanto dei fruitori; libera circolazione mediata dal denaro.
La scena più emblematica di questa sim­bologia della soglia è quella all’esterno del negozio di costumi Rainbow: Bill chiacchie­ra con il padrone del negozio attraverso una grata, e (dopo aver tirato fuori il portafoglio per mostrare il proprio tesserino di riconoscimento) deve concordare una cifra supple­mentare per l’entrata; un altro cancello car­cerario introduce nel negozio vero e proprio (luogo dei manichini e delle maschere, luo­go delle identità o disidentità a pagamento) e, infine, un’altra vetrata introduce nell’en­nesimo sancta sanctorum, dove si consuma una scena sessuale nient’affatto gratuita (in nessun senso). C’è un rapporto direttamente proporzionale fra il grado di estraneità della Donna (una componente della quale è l’età anagrafica) e la sua appartenenza alla sfera economica: il percorso Alice-Marion-Domi-no-figlia di Milich è davvero un allontana­mento dalla casa intesa come famiglia (luo­go della familiarità, della conoscenza perso­nale) e un avvicinamento a “dove finisce l’ar­cobaleno” e si trova solo la logica del dena­ro (non per niente il Rainbow è un negozio, e la ragazza – al contrario della Barbie del ne­gozio di giocattoli del finale – non ha un no­me, essendo la sua identità inessenziale ri­spetto alla funzione merceologica).
Bill, nome del protagonista di Eyes Wi­de Shut, è un sostantivo che ha molti signifi­cati, alcuni dei quali ce lo fanno qualificare come un nomen-omen (un nome che designa il destino di colui che lo porta): bill è la lista degl’invitati alla festa, è il conto che viene pagato al Sonata Cafè o al Rainbow, è l’e­lenco dei degenti ospedalieri che il dottore consulta prima di andare all’obitorio; bills so­no i cartelloni che arredano la scena metro­politana e, soprattutto, le banconote che il dot­tor Harford tira fuori per pagare la prostituta Domino o il taxista che lo porta alla reggia di Somerton e lo attende fino alla conclusione dell’orgia. Bill è l’iniziale di “billionaire” (mi­liardario) e anche dell’espressione “bill and coo” (il tubare degl’innamorati): insomma, ancora una volta, un significante in cui si so­vrappongono la semantica degli affetti e quel­la del denaro. Se nella Traumnovelle di Schnitzler l’estraneità di Fridolin rispetto alla set­ta orgiastica allude alla questione ebraica, nel film scritto da Kubrick e Raphael l’estraneità del dottor Harford è surdeterminata dal suo status economico: com’è possibile arrivare in taxi ad una festa (gratuita – dunque, paradossalmente, fuori dalla portata economica dell’ acqui­rente medio) a cui tutti si presentano in limousine? La gratuità dell’orgia non implica la sua democrati­cità, al contrario: il costu­me cardinalizio del ceri­moniere, così come il suo incensiere e il suo trono pa­palino, alludono ad un po­tere così elitario da non corrispondere al normale po­tere d’acquisto. Proprio in quanto gratuita, la festa dio­nisiaca – anche questa de­scritta attraverso la pene­trazione della macchina da presa nello spazio del ca­stello, spazio “orgiastico” proprio in quanto multiplo, “spettacolare” proprio in quanto sovrannumerario -ha un costo altissimo: la perdita d’identità personale (il potere maschera­to è contemporaneamente occulto e disuma­no, ingiudicabile e immorale); la perdita di conoscenza sui meccanismi reali dello sfruttamento (il pianista che suona bendato, metafora dell’artista come buffone di corte del­l’alta borghesia annoiata); il rischio della vi­ta (la ragazza che si propone come vittima sa­crificale). D’altra parte, il sogno orgiastico di Alice – che vive la stessa esperienza del ma­rito, ma dal lato della vittima consenziente – è assolutamente gratuito, ma non per questo privo degli stessi rischi.
Il giorno dopo, alla luce del sole, la vi­sita alle varie stazioni della via crucis rivela l’inaccessibilità diurna degli spazi disponibili durante la notte: il Sonata Cafè è rigorosamente chiuso e sprangato; il vialetto che por­ta alla reggia è bloccato da un cancello spia­to da una telecamera a circuito chiuso. La li­bertà che apparteneva all’ordine della notte, sotto forma di possibilità di penetrazione negli spazi (previo pagamento della “consuma­zione” o semplicemente per esibizione della parola segreta), non è più all’ordine del giorno. E così il dottor Harford va in giro a mostrare il proprio portafoglio con tesserino in luoghi come la hall di un albergo (estrema rappresentazione architettonica dell’abitazione provvisoria a pagamento, l’esatto contrario di una casa – così come il portiere gay è l’esatto contrario di un angelo del focolare) e, dopo l’ennesima sosta in un bar (altro ambiente provvisorio a pagamento, luogo di flusso e di transito), nella hall di un ospedale e poi – ultima penetrazione – nell’obitorio, rappresentazione istituzionale di quel luogo finale non provvisorio che rappresenta la democratizzazione di ogni corpo e di ogni stato sociale.
Il lungo colloquio Harford/Ziegler, che a molti è sembrato inutile e noioso, è la puntigliosa esplicitazione della questione gerarchica: il billionaire è colui che può permettersi una stanza in cui giocare a biliardo (su un tavolo color rosso sangue) mentre sorseggia un whisky raro invecchiato un quarto di secolo (“Se vuoi te ne faccio mandare una cassa”); il suo medico ha diritto ad essere in­vitato alla festa “pubblica”, dove il pianista suona senza benda e la ragazza nuda ha un nome (Mandy) e un volto, ma non alla festa dell’élite, dove ogni pretesa identità scompare a favore del semplice gioco (anonimo e, per così dire, “attanziale”) del ruolo economico della domanda e dell’offerta, dell’acquisto e della vendita. La ragazza morta era solo una puttana; “È questo che era” si scusa Ziegler, come a dire: inutile preoccuparsi per chi, nel gioco del libero mercato, fa la parte della merce a completa disposizione di chi detiene il potere d’acquisto. In un mon­do luhmanniano che si rivela diviso fra l’élite che può permettersi di soddisfare il pro­prio desiderio comprando l’oggetto corrispondente, e la massa di non-garantiti la cui identità si riduce a ciò che hanno da vendere (il corpo in quanto forza-lavoro, il corpo in quanto supporto di zone erogene e organi sessuali), il piccolo-borghese alla William Harford si ritrova sospeso in questo limbo ideologico: desiderare ciò che il ricco desidera per il semplice motivo che può permet­terselo (era in fondo il tema di 8mm, l’apologo fallito di Andrew Kevin Walker e Joel Schumacher) oppure rinunciare al soddisfacimento del desiderio laddove questo pre­suppone la disumanizzazione del proprio og­getto (la reificazione di un soggetto)?
Ecco allora che Eyes Wide Shut si rivela il film più politico di Kubrick, quello in cui la connivenza fra le ideologie del potere (qui il liberalismo della globalizzazione economica, altrove il militarismo nazionalistico) e le istituzioni totali (la famiglia, l’esercito) viene saggiata sul terreno più contemporaneo: quello del sogno di libertà sessuale assoluta e di equazione fra piacere fisico e felicità. Non è dunque un caso che, in un quadretto familiare in cui mamma Alice fa fare i com­piti alla piccola Helena, il problema di mate­matica verta su una differenza fra cifre di denaro (conoscibile attraverso un’operazione di sottrazione): la scuola, in quanto agenzia di socializzazione che nasconde un apparato ideologico di Stato, tende già a formare una capacità di ragionamento che sconfina nella razionalizzazione economica del mondo.
Eyes Wide Shut è un complicato gioco sul circuito denaro/merce/denaro: la festa co­me forma di scambio simbolico, il silenzio come prezzo del rapporto professionale, il destino come conseguenza delle possibilità di studio e lavoro, il matrimonio come gratuità del sesso, il desiderio come costituzione di un oggetto impagabile, il possesso come costituzione di un oggetto pagabile, il corpo co­me merce transazionale, il sentimento come domanda (e la risposta affettiva dell’altro co­me offerta sempre inadeguata all’eccedenza della domanda), la relazione parentale come diritto di sfruttamento del capitale sessuale, l’attesa come relazione col tempo quantificabile con un tassametro, lo stile come disponibilità di simboli di status, la salute come bene monetarizzabile, il corpo come proprietà vendibile in prima persona (in forma anonima perché il sesso, come il denaro, è un equivalente generale astratto di qualunque ti­po di merce); e così via, in una litania di relazioni la cui mediazione è costituita dal de­naro per vivere, cosa che fa del corpo (e del sesso) la perversa sintesi dell’essenza vitale (il sé-bios come distinzione primaria vita/morte) e dell’essenza mortale (la mortificazione dell’individuo anonimo come riduzione del­l’anima a pura identificabilità anagrafica).
Alla fine di questa discesa agli inferi della globalizzazione, la sacra famiglia natalizia si trova riunita nel labirinto caldo di un negozio di giocattoli: e mentre nel freddo labirinto di Shining il figlio uccide edipicamente il padre, in questo ultimo spazio kubrickiano la coppia parentale ancora resiste. Lo shopping non è il male: è giusto che la piccola Helena voglia l’orsacchiotto o la Barbie. Non è giusto che Ziegler voglia Nightingale o Mandy: è il sostanziale acquisto di esseri umani il lato immorale del capitalismo finanziario. Ciò che classifica il matrimonio come luogo dell’amore è, fin dai tempi di Spartacus, la vera libertà sessuale, quella che sconnette la relazione fisica dalla relazione economica di compravendita del corpo. La prima cosa da fare subito è scopare, sì, ma scopare gratis et amore Dei.

SegnoCinema, Gennaio-Febbraio 2000, Anno XX n.101, pp. 2-12

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