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C’ERA UNA VOLTA IN AMERICA – di Francesco Mininni [Il Castoro Cinema]

Francesco Mininni analizza il film «C'era una volta in America» nel volume monografico de «Il Castoro Cinema» dedicato a Sergio Leone
Foto di gruppo alla cena per C'era una volta in America: Sergio Leone, James Woods, Joe Pesci, Robert De Niro, Danny Aiello

di Francesco Mininni

Sergio Leone: sogni dentro un sogno

…ma se la speranza è svanita
in un giorno oppure in una notte,
in una visione, o in nessuna visione,
è forse perciò meno fuggita?
Tutto ciò che siamo o sembriamo
non è che un sogno dentro un sogno.
(Edgar Allan Poe)

Ouverture: C’era una volta in America

Quello di Sergio Leone è cinema della memoria. Ma si tratta di una memoria particolare, che difficilmente potrebbe rientrare in una lineare ricostruzione del passato, in una puntigliosa rievocazione di avvenimenti, realmente accaduti. Leone non è uno storico, anche se fa della Storia il suo tema abituale, così come non è un narratore di fiabe sospese in un tempo e in luoghi indeterminati. Il suo cinema è alimentato da una contraddizione vitale: troppo realistico per essere una favola, troppo fiabesco per essere reale. Siamo dalle parti del mito.

Leone racconta la memoria mitica dell’uomo, quella terra dai confini indistinti, perennemente avvolti dalla nebbia in cui si sposano il reale e l’immaginario, confusi al punto da divenire una sola cosa. Al punto che fatti veri e invenzioni che la tradizione ha reso reali si amalgamano in un unicum credibile sia come realtà che come finzione. Il principio del cinema come menzogna dai contorni reali trova in Leone uno dei suoi interpreti più ispirati, che raggiunge la compiutezza e la complessità che andava inseguendo da anni proprio nel suo ultimo film. C’era una volta in America (1984).

* * *

Nella semioscurità del teatro cinese, due ombre combattono sullo schermo bianco: sono Rama e Ravana, il Bene e il Male in eterno conflitto. Il pubblico assiste in silenzio. Qualcuno dorme, qualcuno sogna, qualcun altro (come Noodles) insegue le sue fantasie tra i fiumi dell’oppio, alla ricerca di un’esistenza priva di brutti ricordi e di recenti dolori. È il sogno del cinema, e soprattutto del cinema di Sergio Leone: un universo in cui i confini tra Bene e Male si fanno sempre più labili e confusi, lasciando al gioco delle ombre la suddivisione manichea dei ruoli. È un sogno, e come tutti i sogni può cominciare anche dalla fine.

Sinossi

New York, 1933. Alcuni killer danno la caccia a un gangster ebreo, Noodles. Uccidono la sua donna, Eve, e picchiano a sangue un suo amico, Moe, per sapere dove si nasconde. Moe rivela che Noodles si trova in un teatro cinese dove, in preda all’oppio, cerca di dimenticare che i suoi migliori amici, Max, Patsy e Cockeye, sono stati uccisi dalla polizia in seguito a una sua soffiata. Noodles sfugge ai killer e, ucciso quello che era rimasto ad aspettarlo da Moe, si prepara a lasciare la città facendo assegnamento su una valigia piena di dollari che rappresentano il fondo comune della banda. Ma alla stazione, nel deposito bagagli, la valigia è piena di fogli di giornale. Noodles acquista un biglietto di sola andata per il primo treno.
1968: Noodles, anziano, torna a New York, nel vecchio quartiere, richiamato da una lettera che lo informa dello spostamento del cimitero ebraico in altra sede. Al bar di Moe, Noodles rivela all’amico che la lettera è un falso, e che evidentemente qualcuno ha voluto richiamarlo per un motivo ancora sconosciuto. La notte, ritrovandosi nei luoghi della sua infanzia, Noodles ricorda.
1922: nel Lower East Side quattro ragazzi — Noodles, Patsy, Cockeye e Dominic — si arrangiano facendo qualche lavoretto per Bugsy, un piccolo boss. Un giorno, mentre stanno per rapinare un ubriaco, vengono preceduti da un ragazzo appena arrivato nel quartiere, Max. Noodles fa la corte a Deborah, sorella di Moe, che lo respinge. E lui si consola con Peggy, una ragazza più disponibile che si può avere a prezzo di un dolce con la panna. Poco dopo, in strada, Noodles ritrova Max e, dopo uno screzio, i due fanno fronte comune contro il poliziotto del quartiere. Max entra a far parte della banda con l’idea di rendersi indipendente da Bugsy. L’occasione è offerta dal poliziotto, che i cinque amici sorprendono sui tetti con Peggy: per evitare guai, l’uomo accetta di chiudere un occhio sulle loro malefatte come prima faceva con Bugsy. Un giorno che Deborah è sola nel locale, Noodles ne approfitta per parlarle dei suoi sentimenti: lei gli legge il Cantico dei Cantici, ma gli dice che non potrà mai essere sua. Max li interrompe; è venuto per dividere con Noodles i proventi dell’ultimo colpo. Bugsy li sorprende e, con i suoi uomini, li picchia brutalmente per convincerli a non tentare più la strada del lavoro in proprio. Ma i cinque ragazzi non intendono cedere alle minacce. Anzi, intensificano l’attività studiando un sistema per recuperare i carichi che i contrabbandieri affondano nella baia. L’invenzione ha successo, e gli amici fanno fortuna; decidono così di creare una cassa comune, nascosta in una valigia nel deposito bagagli della stazione. Bugsy, infuriato per l’iniziativa che gli ha fatto perdere un buon giro d’affari, uccide Dominic ed è a sua volta colpito a morte da Noodles, che accoltella anche un poliziotto ed è arrestato. Uscirà solo dopo undici anni.
1968: Noodles visita la tomba di Max, Patsy e Cockeye. Una targa dice che è stato lui a far costruire la cappella. Appesa alla targa c’è una chiave. Noodles la prende, torna al deposito bagagli della stazione e apre il vecchio sportello. Questa volta la valigia è piena di dollari, e c’è anche un messaggio; « Questo in pagamento del tuo prossimo contratto ».
1933: Noodles esce dal carcere. Ad attenderlo trova Max con un carro funebre, la loro attività di copertura. È l’epoca del proibizionismo. Il locale di Moe è diventato un elegante spaccio clandestino di liquori. Noodles ritrova gli amici di una volta, e Max gliene fa conoscere di nuovi. C’è anche Deborah, cui Noodles non ha mai smesso di pensare, ma la donna gli dimostra lo stesso distacco che aveva da ragazza. Max introduce subito l’amico nel nuovo giro d’affari, presentandogli Frankie Monaldi, il nuovo datore di lavoro. Con lui c’è Joe, il committente: il colpo riguarda una partita di diamanti da rubare a Detroit (l’informazione è venuta da Carol, la moglie del gioielliere). I quattro amici eseguono il “lavoro”, durante il quale Noodles violenta Carol. Ma al momento di consegnare la merce, Patsy, secondo un piano prestabilito, uccide Joe. Max informa Noodles che si trattava di accordi presi con Frankie, e che queste sono le nuove regole della malavita.
1968: nel locale di Moe, Noodles guarda la televisione. Si parla del senatore Bailey, implicato in uno scandalo edilizio, e del sindacato dei trasporti, guidato da Jimmy O’Donnell, un personaggio con cui in passato Noodles aveva avuto rapporti.
1933: Max e i suoi salvano O’Donnell dall’aggressione di una banda rivale, anche se il sindacalista insiste nel non voler avere niente a che fare con  la malavita. Intanto, il comandante della polizia Aiello ha guidato un’azione contro una fabbrica in sciopero, occupandola. Per convincerlo a desistere, Max e Noodles vanno nella clinica dove la moglie di Aiello ha appena partorito il suo primo maschio, e scambiano le targhette con i numeri di tutti i bambini: rimetteranno le cose a posto se la fabbrica verrà sgombrata. Gli affari prosperano anche per Peggy, la ragazza dei dolci alla panna, che ha aperto un bordello di lusso: lì i quattro amici ritrovano Carol, che diventa l’amante di Max. Noodles, invece, pensa sempre a Deborah. Ma, dopo una romantica cena in riva al mare, la ragazza gli dice che partirà per Hollywood e che per nessun motivo intende rinunciare alla carriera di attrice. Sulla via del ritorno, in macchina, Noodles la violenta. Cosi la perde per sempre. O’Donnell è ferito in un attentato, ma i responsabili sono individuati e uccisi da Max. Nell’ospedale dove il sindacalista è ricoverato, un politicante offre ai quattro amici di entrare in affari, facendo capire loro che i tempi della piccola delinquenza sono finiti. Ma Noodles è dubbioso, al contrario di Max che lo accusa di essere rimasto ancorato al passato. Ciò nonostante i due amici vanno in vacanza in Florida, e qui ricevono la notizia che la legge sul proibizionismo sta per essere abrogata; ora sono disoccupati. Max, allora, parla di un colpo alla Federal Reserve Bank, che li sistemerebbe per tutta la vita. Ma è una rapina quasi impossibile, e Carol, che teme per l’incolumità di Max, cerca di convincere Noodles a tradire l’amico in occasione dell’ultimo trasporto di alcoolici: finirebbe in prigione, ma per poco, e senza correre il rischio di essere ucciso. Durante la festa di addio al proibizionismo, Noodles si decide, e telefona alla polizia. Dovrebbe far parte anche lui della spedizione, ma Max, in un eccesso d’ira per futili motivi, lo colpisce stordendolo.
1968: Noodles ricorda Max con Carol, che vive in una casa di riposo. Deborah è diventata un’attrice famosa: Noodles la incontra nel camerino di un teatro dopo una rappresentazione di Antonio e Cleopatra, e le dice di aver ricevuto un invito per una festa alla villa del senatore Bailey, che afferma di non conoscere. Deborah, che vive con Bailey, prega inutilmente Noodles di non andare. Fuori del camerino, il figlio del senatore aspetta Deborah; nel vederlo Noodles si trova davanti l’immagine di Max com’era quarantasei anni prima, e capisce. Max non è morto: è lui che si è impossessato dei dollari della valigia per cominciare una nuova vita con il nome di Bailey. Adesso che si trova nei guai e rischia di essere assassinato a causa dello scandalo edilizio e di tutte le personalità che vi sono coinvolte, preferisce che sia un amico a ucciderlo. Ma la sera della festa, Noodles finge di non riconoscerlo, rifiuta l’incarico e se ne va. Fuori dal cancello, un camion della nettezza urbana è fermo, come in attesa. Qualcuno esce dalla villa: Noodles non lo distingue bene, ma potrebbe essere Bailey. Il camion si muove e dopo il suo passaggio sulla strada non c’è più nessuno.
1933: nella fumeria d’oppio Noodles cerca di dimenticare. E sorride.

C’era una volta in America è una serie di avvenimenti reali o il sogno   di un uomo in preda alla droga, che immobilizza in un attimo interminabile il ricordo del passato e l’invenzione del futuro? Ha un senso parlare di avvenimenti reali quando appare evidente che il mondo evocato dall’autore, pur crudamente realistico, vive di finzione, di trasgressione poetica, di ricordi inventati? Cos’altro rappresenta la frammentazione temporale del film, se non l’immagine della memoria mitica, di qualcosa che appartiene a un uomo solo e all’umanità intera, di qualcosa che non è mai cominciato e che pure potrebbe non avere mai fine?
Questo è un film dalle molte domande e dalle poche risposte; non perché Leone non sia in grado di darne, ma perché rendere troppo esplicita una vicenda come questa avrebbe significato banalizzarla, impoverirla. Così il film vive di allusioni e di accenni che creano una atmosfera di mistero, impalpabile e sospesa, alimentata dai vuoti della storia.
Il sogno americano di Leone si conclude tra i gangster ebrei del Lower East Side di New York. Ma l’avventura era iniziata molti anni prima, con il “presagio” della Statua della Libertà rappresentato dal Colosso di Rodi, ed aveva percorso un lungo tragitto fatto di individualismo, vendette, dollari, amicizie tradite o concluse tragicamente, duelli, piccoli uomini sullo sfondo della Storia, mondi vecchi e nuovi a confronto, nostalgia e progresso. Tutto questo ritorna puntuale in C’era una volta in America, che dunque racchiude in sé tutti i temi del cinema di Leone. Anzi, ne rappresenta la sintesi più completa e lo sviluppo più ricco e approfondito.
Noodles (Robert De Niro), Max (James Woods) e Deborah (Elizabeth McGovern) sono i tre personaggi in cui converge tutto il lavoro dell’autore e che riassumono la storia del suo cinema e di un intero paese. Tuttavia, non si tratta di freddi simboli, ma di caratteri originali. Noodles è un uomo del passato, caparbio, rigido nel suo attaccamento ai vecchi valori. È un gangster, eppure crede profondamente nell’amicizia, nella lealtà e nell’amore: valori — ecco la sua contraddizione — che passano attraverso il filtro della violenza, l’unico stile di vita possibile per gente come lui, cresciuta in quegli anni e in quell’ambiente (nella parte che si svolge nel 1922 si comprende come il Lower East Side di New York fosse un quartiere dove ci si abituava più facilmente alla delinquenza che al lavoro onesto, soprattutto per ragazzi lasciati a se stessi, e senza un solido nucleo familiare). Cosi, l’amicizia diventa complicità, la lealtà si applica agli “affari” e l’amore non può che identificarsi con il sesso. Ma Noodles, che anche da ragazzo pensava come un vecchio (mentre gli amici perdono tempo per la strada, lui si chiude nel gabinetto a leggere Martin Eden), ha idee precise su ciò che vuole dalla vita, e pur comprendendo che si tratta solo di illusioni, vorrà ugualmente mantenersi coerente.
L’amore per Deborah, la più grande illusione della sua vita, è la ricerca di qualcosa di cui Noodles avverte l’esigenza ma che non conosce: la bellezza nello squallore, forse un ideale di purezza che lo affascina e lo attrae. Mentre Peggy e Carol sono semplici oggetti, Dehorah è una protagonista fin da bambina. Come dirà lo stesso Noodles a Moe nel 1968, si capiva subito che sarebbe arrivata dove voleva. Per lei, una sola volta nella vita, Noodles getta la maschera del gangster e si rivela in tutta la sua disperata umanità di essere vulnerabile: sulla spiaggia, dopo la cena al ristorante, Noodles confessa di aver vissuto soltanto per lei, e di aver superato momenti difficili o dolorosi (i lunghi anni in prigione) nella consapevolezza che “fuori” c’era lei. Non serve a nulla, Deborah ha già deciso. Umiliato, impotente, rabbioso, Noodles reagisce ai baci di Deborah (un’autentica provocazione) violentandola brutalmente e pentendosene un attimo dopo: è stata la sua ultima dichiarazione d’amore, un amore che Deborah, nel suo freddo calcolo d’interesse, non sarà forse mai in grado di capire. I ruoli si capovolgono: è Noodles che subisce la violenza più grave, come gli accadrà in fondo per tutta la vita. A Deborah (come diceva Jill in C’era una volta il West) basterà una tinozza d’acqua bollente per tornare come prima. A Noodles non sarà sufficiente una vita intera per dimenticare.
Noodles è l’ultimo dei “giustizieri” del cinema di Leone: è il pistolero senza nome di Per un pugno di dollari, è il colonnello Mortimer di Per qualche dollaro in più, è Armonica di C’era una volta il West. È individualista come loro e, soprattutto come Mortimer e Armonica, è un uomo del vecchio mondo che non riesce a trovare un posto nel nuovo (ma forse neanche lo vuole). Ha un codice personale cui si attiene rigorosamente anche a rischio di sembrare ottuso e patetico ma, a differenza dei giustizieri del West che portano sempre a compimento la loro opera, si è tormentato nel rimorso per trentacinque anni, e quando finalmente ha capito e ha avuto l’occasione di uccidere chi l’aveva tradito, finge di non riconoscerlo. Noodles è stato sconfitto dal tempo, che già aveva fatto giustizia degli uomini del West.
Max, invece, è un discendente di Ramon e di Frank. Il primo, in Per un pugno di dollari, è stupidamente convinto che chi spara con il fucile sia sempre avvantaggiato su chi usa la pistola. Il secondo, in C’era una volta il West, viene dal passato ma si corrompe scendendo a patti con la ferrovia, e cioè con il futuro. In entrambi i casi i loro calcoli, come quelli di Max su Noodles, si rivelano sbagliati. Ramon incontra una pistola più abile del suo fucile, e Frank ritrova un fantasma del passato a sbarrargli la strada. Cosi accade a Max, che rappresenta fin da ragazzo l’altra faccia di Noodles. Cinico e calcolatore, crede di poter pilotare Noodles sempre e comunque nella direzione che lui ha scelto, e così gli organizza il futuro, lo costringe a tradirlo e a vivere credendo di averlo veramente tradito. Gli ruba tutto: la donna, il denaro, la vita stessa. Ma quando, a coronamento del suo meticoloso lavoro, pensa di ritrovarsi davanti il Noodles di una volta, si accorge di aver commesso un errore fondamentale: Max vorrebbe rubargli anche il ricordo, e questo Noodles non può accettarlo. Quando si trovò davanti a quello che credeva il cadavere di Max, anche Noodles morì alla vecchia vita. Il rifiuto di uccidere il senatore Bailey, cioè Max, non è una vendetta ma, e lo dice lui stesso, soltanto il suo modo di vedere le cose. Il vecchio Noodles è morto, e anche se volesse non potrebbe riprendere la pistola e comportarsi come allora: per quanto lo riguarda, sarebbe come sparare a un fantasma. Stavolta non si commuove, perché se lo facesse sparerebbe, e dovrebbe ammettere che l’amico creduto morto è ancora vivo, lo ha tradito e vuole servirsi di lui per l’ultima volta. Cosi, il ricordo di quei tre cadaveri sotto la pioggia (dapprima sconvolgente, poi sempre più confuso dalla nebbia della memoria fino a stemperarsi nella dolcezza del passato) non avrebbe più senso. Noodles è un perdente, un fallito, ma ha una dignità e una saggezza che gli derivano da trentacinque anni di sommessa vita in provincia: sa che Max è morto, e che quel simulacro che gli sta davanti non può essere l’amico di allora, lo stesso che, presentendo la morte, volle salvarlo impedendogli di seguirlo nell’ultimo viaggio.
Il confronto tra Max e Noodles ormai vecchi è rivelatore del rapporto che li ha legati al tempo dell’amicizia. Max sempre sicuro di sé, sfrontato, attento ai pensieri dell’amico; Noodles istintivo, violento ma senza crudeltà, pronto a darsi per intero senza pensare alle conseguenze. Quando Dominic cadde sotto i colpi di Bugsy, fu Noodles a vendicarlo subito, senza pensarci due volte, senza pensare che quelle coltellate lo avrebbero condannato a undici lunghi anni di galera. Max, invece, restò fuori e prese le redini della banda, realizzando così la sua vocazione a essere un leader.
Il tempo ha fatto giustizia dell’irruenza di Noodles, e sta per farla anche con la sicurezza di Max, che diventa a sua volta un fallito. Noodles ha perso perché ha scelto di vivere nell’ombra e non ha voluto accorgersi di ciò che realmente gli accadeva intorno; Max ha perso perché, arrivato in alto vendendosi sempre al miglior offerente, capisce di aver rinunciato all’unica cosa autentica della sua vita, l’amicizia di Noodles. Alla resa dei conti, entrambi sono vecchi e soli. Forse Noodles è sempre stato solo, e il suo carattere individualista in ciò lo ha favorito. Max, invece, lo è divenuto nel corso degli anni, e se ne rende conto proprio nel momento in cui ha raggiunto la vetta.
Noodles si accontentava, Max voleva sempre di più. A Noodles piaceva l’odore della strada, Max non lo sopportava più. Noodles voleva vivere libero e senza padroni, Max aveva bisogno di scendere a patti con i potenti per arrivare dove voleva. Insomma, Noodles era un indipendente e un anarchico, mentre Max si avviava a diventare un integrato. La battuta di Juan in Giù la testa a proposito di Pancho Villa, che aveva cominciato come bandito ed era finito generale (cioè niente, secondo Juan), si adatta anche a Max: non è detto che la strada che porta da gangster a senatore debba andare verso l’alto. D’altronde, che l’amicizia tra Max e Noodles non sarebbe durata lo si intuiva anche da qualche episodio del passato. Quando, da ragazzi, recuperavano il carico dei contrabbandieri affondato nella baia, Noodles pensò che Max fosse annegato. Questi invece, già sulla barca, rideva assistendo agli sforzi dell’amico per ripescarlo. È un presagio: Noodles pensava che Max fosse morto, e invece era vivo. Ma, nel 1968, oltre a ritrovare Max, Noodles scopre che Deborah è diventata la sua amante. Spesso Max lo aveva separato da Deborah con pretesti differenti: una volta per dividere i proventi di un colpo, un’altra per presentargli qualche nuovo amico. Tra Noodles e il suo sogno c’è sempre stato Max.
Come Max è l’altra faccia di Noodles, Deborah è l’alter-ego di Max. Ambiziosa, Deborah prova per Noodles qualcosa di molto simile all’amore, ma non al punto di legarsi a lui per sempre rinunciando alla sua carriera di attrice. Da bambina, mentre il padre e il fratello si affaccendavano nel locale, lei studiava danza e dizione rifiutando di aiutarli. Cosi come rifiuterà di aiutare Noodles pestato da Bugsy: gli chiude la porta in faccia, quasi a volerlo rimproverare di averla trascurata per rispondere al richiamo di Max. Al momento di partire per Hollywood, Deborah ripeterà quel gesto abbassando la tendina dello scompartimento ferroviario: Noodles l’ha violentata, e lei lo fa uscire per sempre dalla sua vita. Quando si incontreranno nuovamente, nel camerino del teatro, Deborah sarà radiosa come sempre, neanche il tempo ha osato toccarla (Deborah vive un’eterna giovinezza di faustiana memoria, e come Faust ha venduto l’anima, ma Faust amava Margherita, mentre Deborah ama solo se stessa. «Siamo due vecchi, Noodles. L’unica cosa che ci resta è qualche ricordo», dice, e mente. Parla al plurale, ma si riferisce soltanto a Noodles. A lui restano solo i ricordi, mentre Deborah ha esattamente ciò che voleva: fama, ricchezza e, anche per lei, solitudine. Quando la incontra. Noodles si immerge nel passato, e in quel momento capisce tutto. Simbolicamente, mentre rivela a Noodles la verità, Deborah si toglie il trucco dal viso. Alla fine, uscendo dal camerino, Noodles si trova davanti al fantasma di Max adolescente: il cerchio si è chiuso, e non importa che Max abbia chiamato suo figlio come Noodles (David) in omaggio all’unica persona che gli sia mai stata veramente a cuore nella vita.
Max e Deborah sono accomunati dal medesimo destino di morte. Una morte ulteriore; la peggiore delle morti. Max è morto nel tradire l’amico, Deborah è morta nel rifiutare il suo amore. Noodles invece, per quanto abbandonato da entrambi e in un certo senso morto anche egli, mantiene una profonda dignità che gli impedisce di mettersi al loro livello (non accetta la proposta del senatore Bailey: «Sarebbe un peccato che il lavoro della sua vita andasse sprecato». Una frase che, adattata a Noodles, potrebbe suonare così: «Sarebbe un peccato che il dolore della mia vita andasse sprecato»).
Il senso di morte che accompagna i protagonisti si materializza in alcuni episodi emblematici. Uscendo dal carcere, Noodles trova Max che lo attende alla guida di un carro funebre (la loro nuova attività si svolge dietro il paravento di un’agenzia funeraria, un elegante locale dove si spacciano liquori con camera ardente annessa, proprio come in Some Like It Hot, A qualcuno piace caldo, 1959, di Billy Wilder). Nella bara che Max trasporta, però, c’è una donna nuda, un “regalo” per Noodles dopo undici anni di astinenza: e dopo tutto quel tempo, Noodles fa l’amore in una cassa da morto a bordo di un carro funebre. È ancora un segno di morte ad accogliere Noodles anziano al ritorno nel vecchio quartiere: dietro il muro di cinta del cimitero ebraico, una ruspa solleva una lapide intitolata a un certo Samuel. È il Destino, da lungo tempo in attesa, che dà il benvenuto a Noodles, avvertendolo che ciò che vedrà potrebbe anche non piacergli.
Il pellegrinaggio di Noodles sui luoghi del passato si trasforma rapidamente in un autentico balzo a ritroso nel tempo. II bar di Moe è sempre là, con tutte le cose di una volta: le fotografie, la vecchia pendola, il gabinetto con la feritoia da cui Noodles spiava Deborah. Ma al cimitero, qualcuno ha costruito una sontuosa cripta per Max, Patsy e Cockeye. Qualcuno che conosceva Noodles molto bene, al punto di essere certo della sua visita e da lasciargli un messaggio: una chiave. È, simbolicamente, la chiave del passato, la chiave del tempo. Con questa chiave Noodles torna al deposito bagagli della stazione e, dentro la valigia, ritrova i soldi che nel 1933 qualcuno aveva fatto sparire. Tutto può ricominciare: il tempo ha spalancato le sue porte, e passato e presente si confondono in un quadro dai colori indistinti.
Il tempo è il grande protagonista di C’era una volta in America; il tempo storico e il tempo cinematografico. Noodles, Deborah e Max (il buono, la bella e il cattivo, verrebbe da pensare) si muovono, come tutti i personaggi del cinema di Leone, sullo sfondo della Storia. Ma, a differenza del West dove con un po’ di fortuna si poteva evitare di incrociarla, l’epoca moderna non concede questa possibilità. Max e Noodles vanno d’accordo finché giocano, finché sono ragazzi. Ma quando crescono e diventano autentici gangster, entrano in contatto con gli “altri”, con i potenti: vedono le cose in maniera diversa, le loro strade divergono. Ecco ora, in un rapido excursus, l’evoluzione sociale dell’America. Se ne conclude (una conclusione valida anche al di fuori della realtà americana) che tutto passa attraverso il crimine organizzato. La polizia, il sindacato, i grandi industriali, gli uomini politici, sono categorie che vivono di compromessi quotidiani e che usano la malavita per risolvere le questioni più spinose. Max accetta di farsi sfruttare, Noodles no. Quando, dopo la consegna dei diamanti, Joe e i suoi vengono uccisi, Noodles non si tira indietro e partecipa all’azione, ma poi chiede spiegazioni. Cosi viene a sapere da Max le regole stabilite dai nuovi amici, e intuisce che un sistema del genere non pone limiti al tradimento e al doppio gioco. Un uomo con le sue convinzioni non può accettare tutto questo. Mentre la Storia va avanti, Noodles rimane quello di sempre: il progresso non lo riguarda, visto che esige un prezzo tanto alto da pagare. Non è un reazionario o un nostalgico, ma soltanto un patetico idealista destinato a non lasciar traccia del suo passaggio nella Storia.
Il concetto del tempo che, con il suo inarrestabile fluire cambia tutto e tutti (rendendo meno dolorose le ferite del passato), è sintetizzato in un dialogo-chiave tra Moe e Noodles quando si ritrovano ormai anziani. «Che hai fatto in tutti questi anni, Noodles?» gli chiede Moe un attimo prima di lasciarlo solo per la notte. E Noodles risponde: «Sono andato a letto presto». È una risposta dolcissima e disperata che racchiude il senso di tutta una vita: quando c’erano gli amici, le donne, il proibizionismo, era naturale godersi la vita sino in fondo, lasciando al sonno il minor tempo possibile. Ma il giorno che tutto questo è finito, è stato altrettanto naturale adeguarsi alla nuova solitudine e adattarsi alla vita degli “altri”: andare a letto presto significa morire alla vecchia esistenza, rigenerarsi nel dolore e guardare al passato attraverso il filtro della saggezza, senza però che questo corrisponda a una scelta morale. Noodles ci è stato costretto e lo ha fatto. A conferma di ciò, quando Noodles entra nel bar di Moe e rivede l’amico, non lo abbraccia, non gli stringe la mano, non sorride, ma gli dice semplicemente:
«Ti ho riportato la chiave della pendola». Il tempo, che per Noodles si era fermato trentacinque anni prima con la morte di Max, ha ripreso a correre.
È una strana cosa, il tempo. Quando i quattro amici erano ragazzi, si comportavano come adulti per dare un’immagine di sé il più possibile diversa dalla realtà; con qualche “ricaduta”, come quando Patsy mangia avidamente il dolce alla panna che aveva comprato per guadagnarsi i favori di Peggy (un episodio poetico per ricordare che, nonostante tutto, i bambini non perdono mai completamente l’innocenza dell’età). Quando invece sono diventati adulti, hanno cercato di recuperare quella dimensione ludica che l’infanzia aveva loro negato; ma lo hanno fatto nell’unico modo che conoscevano, applicandola cioè alla loro attività di fuorilegge. L’episodio dello scambio dei neonati nel reparto maternità, ritmato dalle note giocose della Gazza ladra di Rossini, è una variante del nascondino (o della caccia al tesoro) applicata al crimine organizzato; per ribadire lo spirito del gioco, Cockeye beve il latte da un biberon. Ma, mentre i bambini potevano fingersi adulti, gli adulti non possono tornare bambini: è una dimensione che hanno irrimediabilmente perduto.
Le considerazioni sul tempo cinematografico muovono da una constatazione perfino ovvia: C’era una volta in America è un film dalla durata eccezionale (tre ore e quaranta minuti), che addirittura prevedeva cinquanta minuti in più dopo il primo montaggio. Nacque qualche problema di distribuzione (due soli spettacoli al giorno con il conseguente ritocco del prezzo del biglietto), immotivato dopo tutto se pensiamo che il film di Leone dura cinque minuti in meno di Gone with the Wind (Via col vento, 1939). D’altronde, la complessità del film è tale che uno svolgimento più sintetico l’avrebbe certamente danneggiato. Anche cosi, nei suoi continui salti temporali, il film mostra qualche lacuna, qualche raccordo poco chiaro. Ma tutto ciò favorisce il racconto, immergendolo in una atmosfera indefinita e misteriosa (le caratteristiche del sogno, insomma) che ne accresce il fascino e ne esalta la particolare costruzione a incastro. Con un montaggio frammentato Leone ha inteso giocare con il tempo, proprio come il tempo gioca con i personaggi. È un film della memoria, ma potrebbe essere anche un’immaginazione o un incubo; un montaggio rigorosamente “temporale” lo avrebbe privato di questa fondamentale ambiguità.
Nonostante la durata, C’era una volta in America è stato uno dei grandi successi della stagione 1984/85. Dovunque, fuorché in America. Il “merito” dell’insuccesso è da attribuire al produttore Amen Milchan, che, pensando al pubblico americano e ai suoi gusti abituali, ha rimontato C’era una volta in America eliminando gli episodi dell’infanzia e ricostruendo la storia secondo la successione temporale. Ne è uscito un film di neanche due ore, banale come una qualsiasi storia di gangster e soprattutto incomprensibile. Il tempo, signore e padrone del film, si è vendicato delle manipolazioni condannando il produttore all’insuccesso. La nota diffidenza di Leone verso i produttori ha così trovato nuova esca, come chiarisce un gustoso aneddoto. Milchan ha l’abitudine di fare una apparizione in ogni film che produce: qui è l’autista della vettura in cui Noodles violenta Deborah. Al termine della scena, Noodles gli allunga qualche dollaro, ma lui rifiuta sdegnosamente. Trattandosi di un produttore, è un rifiuto inconcepibile, dice Leone.
Oltre che dal tempo, C’era una volta in America è scandito dalla violenza, che si manifesta sin dalle prime inquadrature: la donna di Noodles è uccisa freddamente dagli uomini dell’organizzazione, che poi picchiano a sangue Moe per fargli rivelare dove si nasconde Noodles. C’è una precisa continuità storica tra la violenza del West e quella dei gangster di New York: una nazione nata dalla violenza non può che proseguire sulla stessa strada. Leone non ha però considerato un fattore specificamente cinematografico: mentre la violenza dei suoi western è un elemento di rottura verso la tradizione romantica, all’intemo di un genere che non aveva mai mostrato il sangue e la morte con tanta evidenza fisica, il genere gangster viene da precedenti molto diversi. Il cowboy era una figura mitica in un contesto mitico, mentre il gangster agisce su uno sfondo storico particolarmente realistico: di conseguenza, le storie di gangster giustificavano, agli occhi degli autori, un diverso uso della violenza. Ciò che nel western era spesso soltanto suggerito, nel gangster movie era mostrato senza mezzi termini: il codice Hays (le norme di autocensura in vigore tra il 1930 e i primi anni Sessanta) stabiliva che un criminale fosse sempre punito per i suoi delitti, ma non che questi non fossero rappresentati in tutta la loro crudeltà. White Heat (La furia umana, 1949) di Raoul Walsh o, dello stesso autore, The Enforcer (La città è salva, 1951), sono solo due dei numerosi possibili esempi di film in cui la violenza era mostrata con grande realismo. Quindi Leone, che nel western aveva innovato affrontando una storia di gangster non può che esasperare un realismo già esistente. Che si traduce, in pratica, nella scoperta del sesso.
In C’era una volta in America gli uomini si picchiano, si sparano, si uccidono con crudo realismo, ma soprattutto usano violenza alla donna. La donna, che in C’era una volta il West si stava affacciando alla ribalta sociale, è ora protagonista dello Storia. L’uomo, sentendosi emarginato, cerca di rallentare l’inevitabile processo. La violenza sessuale richiede un attimo di riflessione. Si concreta in due episodi: la sodomizzazione di Carol (la donna-oggetto) durante la rapina, e lo stupro di Deborah (la donna-soggetto) nell’automobile. In entrambi i casi è Noodles l’autore. Dove conducono questi fatti?
Lo stupro di Deborah è l’inevitabile conseguenza di anni di frustrazioni e di devozione silenziosa: è un rivelatore di sentimenti e, comunque, la conclusione drammatica di un rapporto. La violenza a Carol, invece, è una esasperazione gratuita, forse compiaciuta. La violenza durante la rapina porta al “riconoscimento” nel bordello, quando i quattro amici si bendano il viso e si sbottonano i pantaloni per vedere se Carol individua l’autore dello stupro. E questa scena non porta a niente: è soltanto uno scherzo goliardico che, inserito prima della cena di Noodles con Deborah, dovrebbe ribadire la differenza tra i due tipi di donna (una differenza che conoscevamo già). Carol diviene l’amante di Max, e prega Noodles di impedirgli di compiere la rapina alla banca; è lei a fargli balenare l’idea del tradimento. Ha dunque una duplice funzione. Da una parte rappresenta l’oggetto del piacere di Max — che a differenza di Noodles non coltiva alcun ideale di donna e si accontenta anche dell’avanzo di un bordello — e dall’altra è lo strumento inconsapevole della macchinazione di Max ai danni degli amici. In entrambi i casi, il suo ruolo avrebbe potuto essere definito anche senza i dettagli dello stupro e del ”riconoscimento”. Tanto più che Leone è perfettamente in grado di far “sentire” la violenza senza bisogno di mostrarla: come quando, dopo lo stupro di Deborah, Noodles toma al quartier generale e, con il semplice gesto di girare un cucchiaino in una tazzina di caffè, esprime una tensione che nessuna rappresentazione esplicita di violenza avrebbe potuto rendere altrettanto bene. È il momento in cui i rapporti tra Noodles e Max cominciano a incrinarsi, e il rumore del cucchiaino che sembra non avere mai fine crea un’atmosfera carica di elettricità e di presagi: è il solco che si scava tra i due amici nell’attesa dell’inevitabile tradimento.
La capacità evocativa riguarda anche la tecnica di Leone. C’era una volta in America è un film molto complesso, soprattutto perché, rispetto al western, presenta esigenze narrative diverse. Limitiamoci ad esaminare l’uso del dolly, per cogliere con esattezza l’evoluzione della tecnica. Nei western il dolly si muoveva di preferenza verso l’alto, alla ricerca di nuove praterie o di un paese da inquadrare nella sua totalità. Adesso, invece, il dolly scende in basso, proprio come una ghigliottina, a recidere i legami affettivi di Noodles (i cadaveri degli amici allineati in strada sotto una pioggia battente) e le sue ultime illusioni (il piano-sequenza che lo scopre nella cabina telefonica mentre annuncia a Moe il suo ritomo). Anche quando va verso l’alto, il dolly interrompe sempre bruscamente il suo movimento: New York non è il Far West, gli orizzonti prima sconfinati sono ora delimitati da una cortina di cemento oltre la quale ci sono soltanto altre città.

C’era una volta in America si conclude con il sorriso di Noodles nella fumeria d’oppio. È un primo piano a picco dall’alto, che racchiude in sé tutto il fascino e il mistero del film. Perché sorride Noodles? Potrebbe essere un sorriso del presente (cioè di Noodles anziano) proiettato sul passato, nel momento in cui credeva Max morto e aveva tutta la vita davanti a sé per dimenticare. Potrebbe essere il sorriso di un drogato che, dopo aver immaginato una storia cosi complessa e triste, si accorge che si è trattato di un’allucinazione. Potrebbe essere il sorriso di uno spettatore, che ha visto un bel film e si è divertito. Potrebbe anche essere il sorriso della Gioconda, un enigma insolubile. Ma se mettiamo Leone al posto di Noodles, il sorriso è del regista, che è finalmente riuscito a condurre in porto un’impresa pensata per anni. È quindi un sorriso non specifico del personaggio-Noodles. È già fuori della storia, fuori dallo schermo. È rivolto a chi quella storia l’ha vissuta e sognata insieme a lui. È un sorriso complice, perché anche quella storia sognata può essere realtà: lo è stata, anzi, anche se solo per poche ore.

C’era una volta in America è il film della maturità di Sergio Leone, la sintesi più completa del suo cinema. Mentre i pistoleri del western erano simboli di un’epoca perduta, simulacri di uomini morti, i gangster di New York, e soprattutto Noodles, sono uomini che hanno attraversato la Storia e sono arrivati chissà come fino ai nostri giorni. Il sogno del West era soltanto del regista, ma quello dell’America è anche un sogno di Noodles: non ci sono più personaggi che alla fine di un’epoca spariscono per far posto ai successivi in un ricambio automatico e interminabile. Il teatro delle marionette ha preso vita, e Pinocchio ancora una volta è diventato uomo. E se la realtà si rivela troppo opprimente, possiamo aprire la porta del sogno. Quando Noodles è in preda alla disperazione fuma oppio per dimenticare. Quando Leone si stanca della vita quotidiana, la reinventa in un film. C’era una volta in America segna la fine delle illusioni e il perpetuarsi del sogno.

Fonte: Francesco Mininni, Sergio Leone, L’Unità/Il Castoro; pp. 17-32

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