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C’ERA UNA VOLTA IN AMERICA – Analisi di Marcello Garofalo

Marcello Garofalo analizza il film di Sergio Leone "C'era una volta in America" nel suo libro "Tutto il cinema di Sergio Leone"

di Marcello Garofalo

Riassunto:

Anni Trenta, alcuni passi nell’oscurità. Rientrando nel suo appartamento, una giovane donna ha la sorpresa di trovarvi tre gangster in cerca di informazioni. Con il calcio di una pistola uno dei tre individui rompe il vetro di una cornice al cui interno c’è la fotografia di un uomo. Il gangster vuol sapere da costei l’uomo dove si trovi. La donna afferma di non saperlo, ma non ha neanche il tempo di spiegare perché immediatamente viene ammazzata con due colpi di pistola.

All’interno di uno speakeasy i gangster torturano, picchiandolo a sangue e con una pistola infilata in bocca, un uomo corpulento, il quale finisce per parlare, rivelando loro che Noodles – questo è il soprannome del ricercato – si trova al teatro cinese. Noodles sta fumando oppio in una fumeria sopra il teatro, ha tra le mani un giornale ove si legge che tre uomini, contrabbandieri di whisky, sono stati presi in trappola dalla polizia: i loro nomi sono Maximilian Bercovicz, Philip Stein e Patrick Goldberg. Nello stordimento dell’oppio, Noodles rivede la scena dell’agguato con il camion tra le fiamme, il carico rovesciato e i tre corpi (di cui uno con il volto carbonizzato), distesi sull’asfalto sotto la pioggia battente, e rivede anche il momento in cui, durante una festa di addio al Proibizionismo, telefona al sergente Halloran della polizia.

Avvertito da un cinese della fumeria della presenza in teatro dei gangster, riesce a fuggire e, intuendo le loro precedenti mosse, si reca allo speakeasy dove, con un astuto stratagemma, elimina il gangster rimasto di guardia e apprende dall’uomo picchiato a sangue dai gangster, Fat Moe, che la sua donna ha già «incontrato» i killer. Decide di continuare la sua fuga, non prima di aver preso dall’orologio a pendolo del locale una chiave, quella di una valigia, collocata nel deposito della stazione ferroviaria. Giunto in stazione e aperta la valigia, ha la sorpresa di trovarvi solo fogli di giornale. Senza una risposta, acquista un biglietto per il primo treno in partenza, sperando di sfuggire agli uomini della Combinazione mafiosa che lo stanno braccando.

Anni Sessanta: la stessa stazione di Coney Island accoglie Noodles, visibilmente invecchiato; l’uomo, presa un auto a noleggio, sosta nei pressi di un cimitero israelitico in demolizione e in seguito raggiunge lo speakeasy di un tempo, ora diventato uno squallido «Delicatessen», gestito ancora da Fat Moe. Avverte l’amico del suo arrivo con una telefonata e si ripresenta al locale. Avuta la certezza che l’artefice dell’inganno non è stato il vecchio Moe, Noodles gli confida che il giorno della sua fuga, i dollari nella valigia del fondo comune non li ha mai trovati e che ora qualcuno è riuscito a rintracciarlo nel posto dove si era nascosto, nonostante il falso nome con il quale si è protetto per trentacinque anni: una lettera anonima lo ha informato dello spostamento del cimitero ebraico, ma lui ha intuito che il motivo reale è un altro ed è ritornato a New York per conoscerlo.

Fat Moe gli offre da dormire nel vecchio locale; Noodles, rimasto solo, osserva le foto alle pareti che lo ritraggono ragazzo insieme agli amici di un tempo; tra queste, rivede anche la fotografia di Deborah, la bellissima sorella di Moe. Si reca quindi nel gabinetto, dal quale osserva l’interno di un magazzino, posto sul retro del locale. I ricordi si affacciano reali alla sua memoria.

Anni Venti: Deborah è un’adolescente. Noodles, ragazzo, la spia attraverso una feritoia, mentre lei balla tra i sacchi di farina al suono della musica di Amapola diffusa da un grammofono; pur consapevole di essere spiata, Deborah si lascia vedere nuda, cambiandosi d’abito per recarsi a scuola di dizione.

Noodles la rincorre per le affollate vie del ghetto, ma la ragazza, con superbia, lo snobba; in strada incontra i suoi compagni di banda, Patsy, Cockeye e Dominic e partecipa con loro a un’azione intimidatoria nei confronti di un edicolante, per poi tentare di depredare un ubriaco: Monkey, il proprietario di uno speakeasy, infatti, li lascia scegliere il cliente migliore da «ripulire». Individuata la «preda», al momento di aggredirlo per sottrargli un prezioso orologio, da un carro di masserizie salta giù un adolescente allampanato e rossiccio, il quale fa salire l’ubriaco sul suo carro alleggerendolo dell’orologio e lasciando di stucco i quattro monelli. Noodles tenta il recupero della refurtiva, ma l’intervento di Whitey, il poliziotto di zona, impedisce l’azione.

Rientrato a casa, Noodles ritrova la miseria nella quale vive e si rifugia nel gabinetto comune, luogo che ha eletto «ideale» anche per le sue letture; qui viene sorpreso da Peggy, una formosa quattordicenne che abita nello stesso caseggiato: i due scherzano, esibiscono i loro sessi e Noodles tenta un approccio con la ragazza, la quale però per concedere i suoi favori pretende in cambio una charlotte russa alla panna. Pomato in strada, ha modo di imbattersi nuovamente in quel ragazzo rossiccio, Max, che sta scaricando insieme alla madre le sue masserizie dal carro; l’occasione è favorevole per sottrargli l’orologio, ma interviene ancora una volta il poliziotto Whitey che «confisca» l’oggetto a entrambi. Max e Noodles però hanno modo di confrontare la loro prontezza di spirito e iniziano da questo momento, anche per far fronte comune contro Whitey, il loro rapporto di amicizia.

Intanto Patsy acquista una charlotte russa con l’intenzione di portarla a Peggy per ottenerne i favori, ma mentre attende che la ragazza finisca il bagno non resiste alla tentazione della gola e divora il dolce alla panna. Patsy dal caseggiato vede l’arrivo in terrazza di Whitey, anch’egli desideroso di un incontro con la procace e disponibile Peggy, e avverte con prontezza i compagni di banda, i quali riescono a immortalare con una fotografia il poliziotto in una posa indiscutibilmente compromettente – Peggy è ancora minorenne – per usarla come arma di ricatto: riappropriatisi dell’orologio, ottengono da Whitey la promessa di non ostacolare le loro iniziative fuorilegge e di beneficiare delle grazie di Peggy a sue spese.

Il giorno del Pesach, Noodles e Deborah si ritrovano insieme nel retrobottega del «Delicatessen» di proprietà della famiglia della fanciulla: qui quest’ultima gli legge un brano tratto dal Cantico dei Cantici, ma gli dice anche che non potrà mai stare accanto a un «teppista da due soldi».

Max è in strada e chiama Noodles invitandolo a uscire con lui. Giunti in un vicolo vengono sorpresi da Bugsy, un giovane boss del quartiere, e dal suo gruppo: Max e Noodles vengono pestati a sangue e minacciati, affinché non intraprendano mai più la strada del lavoro in proprio.

Tumefatto e dolorante, Noodles picchia alla porta di Deborah che, irremovibile, decide di non aprire.

I cinque ragazzi, per nulla intimoriti dalle minacce di Bugsy, presentano ai fratelli Capuano, titolari di una distilleria, un sistema di loro invenzione per recuperare i carichi di whisky che i contrabbandieri sono costretti a gettare in mare all’arrivo della polizia. Il sistema è ingegnoso: si tratta di legare i carichi a dei galleggianti e di aggiungere a essi dei sacchi di sale, in modo che quando il sale si scioglie, la merce andata a fondo ritorna a galla e può essere recuperata. Una dimostrazione convince i contrabbandieri che l’idea è realizzabile e così la banda si accorda per ricevere il dieci per cento dei materiali recuperati. L’invenzione ha successo e i ragazzi fanno fortuna: decidono di depositare tutti i loro averi in una valigia collocata nel deposito bagagli della stazione ferroviaria. La chiave della cassetta sarà data in custodia al loro amico Fat Moe. Ma Bugsy, infuriato con questi neofiti che hanno ostacolato il suo giro d’affari, è pronto a vendicarsi e a uccidere. I cinque, appena usciti dalla stazione, si imbattono nel criminale, che spara e colpisce a morte Dominic. Accecato dal dolore per la morte del suo piccolo amico, Noodles in un raptus omicida uccide Bugsy e accoltella anche uno dei due poliziotti sopraggiunti sul luogo. Tramortito dall’altro con uno sfollagente, viene condotto nella prigione di Stato.

I suoi compagni lo salutano da lontano.

1968: Noodles si reca al Riverdale, il cimitero di New York, per visitare la tomba di Max, Patsy, Cockeye. All’interno del mausoleo legge una targa sulla quale c’è scritto: «Eretto alla loro eterna memoria dal loro amico e fratello David Aaronson <(Noodles”, 1967», ma non è stato lui a far costruire la cappella. Sulla targa c’è anche una chiave: l’uomo la prende e torna alla stazione ferroviaria; apre con quella chiave la cassetta di sicurezza trovandovi una valigia piena di banconote accompagnata da un messaggio: «Questi in pagamento del tuo prossimo contratto».

Noodles si allontana e cammina con apprensione di notte sotto le sopraelevate della città, quando all’improvviso un fresbee svetta sulla sua testa e una mano gli prende la valigia.

1922: la mano è quella di Max. Noodles è appena uscito dal carcere e trova ad attenderlo il suo vecchio amico con un carro funebre. Max lo informa dei loro successi e della loro attività di copertura. Salito in vettura, l’ex carcerato viene accolto da una bella ragazza nuda che giace in una bara e che subito dopo si rianima per concedersi a lui in allegria. E l’era del Proibizionismo e il gruppo, durante la permanenza di Noodles in carcere, ha lavorato parecchio, anche per lui, allestendo una rivendita clandestina di alcolici nello scantinato di un locale adiacente al «Fat Moe’s». Qui, dopo undici anni, Noodles rivede gli amici di un tempo: Patsy, Cockeye, Moe e Peggy, che ora è diventata una grassa prostituta d’alto bordo, e ancora Deborah, alla quale Noodles non ha mai smesso di pensare e che ora è una danzatrice di successo; la donna, pur amandolo, lo congeda con lo stesso distacco che aveva da ragazza.

Max introduce immediatamente l’amico nel nuovo giro di affari, presentandogli Frankie Monaldi, il loro datore di lavoro. Costui è in compagnia di un gretto individuo di nome Joe, che commissiona alla gang un colpo – furto di una partita di diamanti – a una gioielleria di Detroit.

L’informazione è venuta proprio dalla moglie del gioielliere, una ninfomane di nome Carvi. I quattro eseguono il «lavoro» durante il quale Noodles percuote e violenta Carol, mentre i suoi compagni concludono la rapina dinanzi al terrorizzato gioielliere. Si recano quindi alla periferia di Detroit dove ad attenderli per ricevere la refurtiva c’è Joe, ma al momento di consegnare la merce, secondo un piano prestabilito, Patsy uccide Joe con un colpo di pistola in un occhio. Segue una sparatoria in cui le automobili vengono crivellate di colpi e muoiono anche gli uomini di Joe, l’ultimo dei quali freddato da Noodles in un cascinale adibito allo spennamento dei polli. Conclusa l’operazione, Noodles si mette alla guida della loro automobile e rivela ai suoi compagni tutto il disappunto per la variazione di programma, comprensivo di strage a lui ignota, e per il fatto di aver accettato di lavorare «conto terzi»; in un impulso di lucida follia preme sull’acceleratore in direzione della baia, facendo precipitare tutti, auto compresa, in acqua.

1968: nel locale di Moe, Noodles guarda la televisione e riconosce l’uomo che compare in un servizio giornalistico: nel reportage si parla del caso di un certo senatore Bailey inquisito per corruzione; l’uomo che Noodles riconosce tra gli intervistati è James «Jimmy» Conway O’Donnell, oggi presidente del sindacato trasporti, un tempo attivista sindacale.

1933: Jimmy Conway in un mattatoio deserto viene innaffiato di benzina da due gangster, che minacciano di dargli fuoco se non farà sospendere uno sciopero. Sopraggiunge la banda di Noodles che, avendo preso in ostaggio Crowning, il rappresentante dei padroni, ottiene lo scambio dei due uomini, nonostante le rimostranze di Conway che sostiene di non voler aver niente a che fare con la malavita.

Intanto, il capo della polizia Aiello ha guidato un’azione contro una fabbrica in sciopero, occupandola; l’uomo è molto felice perché la moglie, dopo quattro bambine, ha partorito il suo primo figlio maschio. In clinica, la banda di Noodles e Max sostituisce il neonato con una femminuccia, scambiando di posto tutti i neonati e le targhette di identificazione; Aiello è disperato: Noodles gli telefona dicendogli che dovrà intervenire per lo sgombero della fabbrica se vorrà conoscere suo figlio. Il poliziotto accetta, ma avendo Patsy smarrito il foglio con i numeri degli spostamenti effettuati, sarà il destino a sceglierlo per loro. La telefonata di Noodles è avvenuta dal «cat-house» di Peggy, una lussuosa casa di piacere ove i quattro amici ritrovano Carol, la ex moglie del gioielliere di Detroit, ben felice del nuovo lavoro e di rivedere la banda al completo. Carol scherza con loro in un gioco di «riconoscimento» attraverso i loro sessi esibiti e i loro volti bendati.

Noodles ottiene da Deborah un appuntamento al teatro dove l’attrice si esibisce: ha prenotato solo per loro un ristorante sul mare; danzano nel salone sulle note di Amapola suonata dall’orchestra. Quando su un tappeto disteso sulla sabbia Noodles le dichiara il suo amore, Deborah, pur a malincuore, gli fa capire che per nessun motivo rinuncerà alla sua carriera e che l’indomani è in partenza per Hollywood. Sulla via del ritorno, in macchina, l’uomo la violenta. Alla stazione il giorno successivo cerca di rintracciarla, ma non appena la donna lo scorge chiude la tenda del finestrino del treno.

Noodles ritorna nell’ufficio del «Fat Moe’s» ove l’attendono i suoi compagni, visibilmente irritati – soprattutto Max – dal suo comportamento, concretatosi in una prolungata assenza. Max è seduto su un trono del XVII secolo, ostentando la sua crescente megalomania e la sua nuova compagna: Carol. La banda riceve una telefonata da Jimmy il sindacalista, il quale, subito dopo, viene mitragliato e colpito alle gambe da alcuni gangster. La risposta della banda è immediata; all’uscita di un circolo esclusivo, Crowning e la sua scorta vengono aggrediti da Max e Noodles: Crowning terrorizzato assiste al massacro, a colpi di mitra, della sua scorta.

In una stanza di ospedale, accanto al letto di ]immy Conway, ricoverato per le ferite riportate alla gamba, Noodles e i suoi compagni festeggiano la vittoria del sindacato; un politicante propone loro l’ingresso nel mondo degli affari, pronosticando l’imminente fine del Proibizionismo e suscitando l’interesse di Max. Noodles invece si mostra contrario.

Max e Noodles decidono di prendersi una vacanza a Miami.

Max è accompagnato da Carol, Noodles da Ève, la donna che all’inizio della storia viene uccisa dai gangster. Sulla spiaggia leggono la notizia della fine del Proibizionismo: per loro si profila la disoccupazione, sia pure confortata dal milione di dollari che la banda ha accumulato come fondo comune. Max, in realtà, ha in mente di rapinare la Lederai Reserve Bank, un progetto che secondo Noodles non ha alcuna possibilità di riuscita.

Noodles e Carol in auto riflettono sull’opportunità di denunciare Max per evitare che l’intera banda venga trucidata.

Durante la festa di addio al Proibizionismo, Noodles si decide e telefona alla polizia, avvertendo che dei gangster stanno per scortare un ultimo carico di whisky di contrabbando. Prevede che saranno tutti arrestati, lui compreso, ma considera questo l’unico modo per evitare l’impresa suicida di Max.

Max lo raggiunge nella sala della telefonata e lo dispensa dall’unirsi a loro; Noodles gli dà del pazzo, provocando in lui un accesso d’ira: Max con violenza lo tramortisce con un colpo alla testa.

1968: Noodles è in una casa di riposo per anziani; dinanzi a lui c’è Carol che gli parla della pazzia di Max, del fatto che sia stato lui a sparare per primo alla polizia la notte della scorta al carico di whisky, di aver lui stesso insinuato nei suoi amici l’idea di denunciarlo, preferendo finire con le armi in pugno anziché in una clinica psichiatrica.

Nella casa di riposo c’è, incorniciata, una grande fotografia di gruppo con al centro un’attrice, che è stata la madrina dell’ospizio: è Deborah.

Noodles apre la porta del camerino di un teatro: Deborah è davanti allo specchio e si sta struccando, ha appena finito di recitare il ruolo di Cleopatra nel dramma di Shakespeare. Noodles ha saputo che Deborah è diventata la compagna del senatore Bailey, un grande finanziere, dal quale ha ricevuto l’invito per un party, ha donna gli dice di non recarsi a quell’appuntamento e di uscire dal camerino dalla porta laterale, se vuole ancora mantenere in vita qualche ricordo. Noodles non ubbidisce e si trova dinanzi un ragazzo, l’esatta copia di Max da giovane: Deborah gli rivela che si tratta del figlio del senatore e che si chiama David, proprio come Noodles.

La sera del party la villa è affollata. Noodles viene ricevuto dal senatore nel suo studio e quando si trova dinanzi a lui, scopre – ha la conferma – trattarsi di Max; l’amico di un tempo dichiara di avergli rubato tutto: la donna e i soldi, di aver provocato lui la morte di Patsy e Cockeye e di avergli lasciato solo trentacinque anni di rimorsi. Ora dice di trovarsi nei guai, perché una commissione di inchiesta indaga su di lui ed è certo di essere assassinato a causa di uno scandalo edilizio e di tutte le persone coinvolte. I soldi che ha fatto trovare a Noodles sono per il pagamento «di un ultimo incarico», quello del suo assassinio. Sul tavolo Max porge a Noodles una pistola: vuole essere ucciso per mano del suo amico.

Noodles finge di non riconoscerlo, rifiuta l’incarico e se ne va.

Fuori dal cancello, sosta un camion della nettezza urbana. Un uomo – forse il senatore – esce dalla villa e sparisce nell’oscurità: il camion trita alcuni rifiuti e avanza con i fari accesi che di fronte a un attonito Noodles si mutano in quelli di una macchina d’epoca. Alcune automobili stile 1933 cariche di giovani festeggiatiti passano lungo la strada sulle note di God Bless America.

1933: Noodles entra nella fumeria d’oppio. Si stende sul lettino, assistito da un cinese che gli prepara una pipa. Sotto l’effetto della droga, assume un’espressione di serena beatitudine. Sorride.

* * *

«Cerca di immaginare di avere tre amici, di avere diviso tutto con loro, anche queste (togliendosi una pulce da dosso), immagina un giorno di ripulire una banca e, mentre si prende il largo con mezza città alle costole, uno di loro tira fuori la pistola e ti fa secco il cavallo gridandoti dietro: “Cerca di trattenerli, mentre noi prendiamo fiato!…” Quindici anni ho aspettato ai lavori forzati e il bello era che non si erano dimenticati di me, oh, no… Stavano aspettando che io uscissi di prigione per poter mettere una bella pietra sul passato, con me sotto, naturalmente!…»

Eli Wallach pronuncia questo monologo dinanzi a un attonito Bud Spencer in I quattro dell’Ave Maria, il film che Giuseppe Colizzi diresse nel 1968 e che in qualche modo contiene lo spunto iniziale di C’era una volta in America. Come noto, è lo stesso Colizzi a suggerire a Leone la lettura di The Hoods (Mano armata) ed è prima di Leone colui che in qualche modo pensa di sfruttare sullo schermo la vicenda di un delinquente di mezza tacca tradito dagli amici, spostandola nel contesto di una rivoluzione messicana dipinta con toni picareschi. In più riprende dal romanzo l’idea della casa da gioco «truccata».

Anche Leone e il suo team di sceneggiatori considerano il romanzo di Grey soltanto una buona base su cui lavorare, un corpus dal quale attingere nomi, figure, luoghi, episodi per poi rielaborarli autonomamente. Nel romanzo i personaggi sono poco approfonditi, protagonisti di azioni ripetitive e anche banali all’insegna, oltre che ovviamente della delinquenza, per lo più solo del cibo e del sesso. Fat Moe non fa altro che arrivare con «vassoi di doppi», Max schioccare le dita e lanciare sigari Corona, Cockeye guidare spericolatamente la «Caddy», Noodles essere un po’ brillo per le pipatine d’oppio o compiacersi del suo grado di «acculturato», Patsy non viene quasi mai descritto.

La narrazione inizia sui banchi di scuola e termina con la fuga di Noodles; nel mezzo ci sono tutti gli episodi che il film considera, dall’adolescenza del «piccolo gangster» nel Lower East Side, tra le letture di Horatio Alger e le prime esperienze sessuali (Peggy è la ninfomane figlia del portinaio, a cui si affianca Fanny la ragazza del pianerottolo), gli ubriachi da depredare e le prime azioni criminali.

Il vero amore è Dolores (che Leone ribattezzerà Deborah), la sorella di Moe, il vero amico è Big Maxie, per il quale Noodles arriverà a tradire. Ci sono gli amplessi «ricattabili» (ma nel sottoscala) tra il poliziotto Whitey e Peggy, c’è la fumeria d’oppio con Joey il cinese, c’è la morte di Dominic e la rieducazione di Noodles alla «Casa ebraica», c’è Max pronto ad aspettarlo per vivere con lui e soci l’era del Proibizionismo all’insegna del crimine organizzato, c’è la rapina alla gioielleria, c’è la moglie sado-masochista dell’informatore (si chiama Betty, non Carol), c’è Cockeye che suona l’armonica, ci sono spesso le charlotte russe citate come «pietre di paragone» («Si può comperare chiunque con una charlotte russa1), c’è l’Amore di tutta una vita che sceglie Hollywood, c’è lo stupro in limousine, c’è il treno, c’è Ève, c’è il sindacato, ci sono Crowning, Jimmy, Willie the Ape, il trono di Max, c’è la Florida, la pazzia di Max, la Banca Federale, la fine di una vecchia amicizia, la valigia, il carico di whisky, l’informazione agli agenti, i corpi degli amici bruciati, la ricerca di una chiave…

Il fatto singolare è che tutti i link di collegamento presenti nel film non ci sono nel romanzo, costruito come una sorta di «diario» e, soprattutto, non c’è traccia del «futuro sovradimensionato» di Noodles, che chiude la sua narrazione dicendo: «Ma come sono fuggito, dove mi sono nascosto… questa è un’altra storia. E capirete perché non posso raccontarla».2

Ciò che stimola enormemente Leone è invece proprio trovare il modo di inventare il futuro di questo loser, di raccontare la sua storia come se fosse il «compendio» di tante, di offrirgli in qualche maniera un «riscatto» sia pure nella forma di un sogno. Eliminati quindi dal plot tutti gli episodi meno attraenti o già sfruttati (il bagno turco, il casinò, l’incontro di Noodles con il fratello – peraltro curiosamente assai simile a quello presente in Il buono, il brutto, il cattivo fra Tuco e suo fratello – e l’ispezione alla banca), modificati altri (la piccola clinica, il «cat-house» di Peggy con il molestatore, l’«avventura» con il sindacato), resi drammaturgicamente più forti altri ancora (la morte di Dominic, su tutti), il team di sceneggiatori ha incontrato come prima difficoltà quella di offrire a Leone un sistema narrativo che potesse efficacemente sia collegare i passaggi temporali sia alimentare una sorta di «mistero» sul futuro del protagonista, richiamato da qualcuno dopo tanti anni per un incarico. Sparizione e morte hanno a che fare con lo scorrere del tempo.

C’è già nel romanzo una frase che può aver fatto scattare in Leone l’idea che il protagonista del suo film fosse il Tempo: «”Il Tempo è…” balbettò uno dei tre. “Il tempo è infinito”, dissi. “Cosa?” “Si sì, giusto caro Noodles…”»3 La crisi della realtà, l’idea che il cinema possa reiterare «all’infinito» il sogno di un protagonista, così come del suo spettatore, è il primo dei temi che Leone desidera affrontare.

Forse il senso più profondo della trasposizione cinematografica risiede proprio nel quest che il film, ponendosi in dialettica aperta contro il romanzo da cui deriva, compie richiudendo, con un tocco struggente, il finale sul delirio dei sensi, perennemente sovreccitati, di Noodles.

Negli anni Settanta la crisi della realtà fu vissuta dai nuovi autori (molti dei quali provenienti da scuole di cinema o, comunque, appassionati cinefili) spesso attraverso il riferimento al cinema del passato. Questo spiega il revival dei Thirties, anni di depressione sociale ma di splendore cinematografico; o la rilettura – avvenuta parallelamente anche nel romanzo – di alcuni generi tradizionali come il western o il film nero. Losers titanici sono la sostanza stessa di cui è fatto il noir. Troppo ne è stato detto perché sia necessario diffondervisi: se non per anteporre al gangster, «tragic hero» delle origini, vinti sublimi e quasi metafisici come il Roy Earle di Una pallottola per Roy (High Sierra, 1941) di Raoul Walsh, o il Dix Handley di Giungla d’asfalto (The Asphalt Giungle, 1950) di John Huston, oppure quella versione solitaria e profanizzata di cavaliere del Graal che è l’eroe della «detective story» anni Quaranta.

Leone sviluppa il suo discorso intorno a molte tematiche incrociate fra loro, riflettendo sul cinema stesso come processo onirico e immaginario, in cui convergono la violenza come distruzione delle immagini e la nostalgia come loro impossibile recupero nel mito edenico di un passato mai esistito altrove che nell’immaginario cinematografico. Nella convinzione che «tutti i film possibili sono già stati fatti, si fanno dei remake»; in questa poetica della riscrittura è stata la vera «novità» del «nuovo cinema americano» e alla luce di questa è anche nato e si è evoluto C’era una volta in America.

Ma C’era una volta in America è davvero un gangster film? Del modulo-noir è sopravvissuto solo l’involucro visibile. Ha ragione Enzo Ungari quando scrive che il film noir, evoluzione moderna del gangster film, è una perversione metropolitana del western: «Non è stato soltanto il genere che, più di tutti, ha attratto, come una Circe irresistibile, gli emigrati di ieri e di oggi (Edgar G. Ulmer, Jacques Tourneur, Robert Siodmak, Fritz Lang, Alfred Hitchcock, Roman Polanski, Wim Wenders): si è offerto, nella sua plasticità criminale e perversa, come doppio del western e della sua rigidità puritana (è impossibile immaginare un film noir di John Ford, o un western di Hitchcock)».4

Il noir estremizza alcuni temi del western: più ancora dell’eroe epico dopo la caduta, il suo leading hero ha con l’ambiente un rapporto di natura squisitamente conflittuale: «In modo molto schematico si potrebbe comunque istituire una differenza tra i due generi, dal punto di vista del loser. Se l’eroe del western diventa un perdente quando il suo ruolo storico si esaurisce e viene negato, quello del noir nasce, in pratica, come loser».5 Un individuo solitario, taciturno, apparentemente cinico, ma che si ostina a lottare contro un mondo sporco, pieno di agguati e di pericoli, dove le donne sono destinate a tradirlo e gli amici a perderlo, diventa per Leone quasi un aggiornamento della figura del suo pistolero, maggiormente perseguitato da un sistema misterioso e spietato e magari vittima di un incubo paranoide. Non a caso Eastwood svilupperà il personaggio del suo Straniero senza nome (High Plains Drifter, 1973) in tal senso, tenendo conto di questo accentuato disagio.

L’impossibilità di sfuggire a se stessi e al proprio destino, caricata di un oscuro fatalismo, è un tema non estraneo neanche alla tradizione del cinema francese del decennio 1930-1940. C’era una volta in America non possiede – sia pure nella sua costruzione eminentemente «tecnica» di effetti e congegni, lunghissimi addii e mitologie criminali, cambi di marcia e salti di tensione – una solutio, elemento indispensabile del film noir. Leone in realtà ha disegnato una mappa di piccole «variabili impazzite» all’interno dei generi cinematografici, che raccontano la storia, non ufficiale, delle paure e dei desideri del cinema americano. Dopo un prologo sanguinoso che potrebbe rimandare a una situazione da Padrino coppoliano, lo spettatore si aspetta di immergersi vorticosamente nell’immaginario di un crime movie americano, salvo subito dopo rendersi conto che questo «inganno» non è che il primo dei molti, narrativi e sostanziali, che costelleranno il film intero. Caratteristico è il suo antirealismo, che si rivela nell’evasione fantastica del suo stile, sovente sovraccarico di preziosismi (si pensi ancora una volta all’importanza del décor nella costruzione stessa dell’inquadratura di Leone), a volte invece risolto in una composizione dell’immagine apertamente simbolica, con un uso del sonoro, della luce, dell’angolazione e del montaggio volti a creare un’atmosfera quasi surreale e magica (valgano per tutti due raccordi: il primo dalla fumeria alla strada della strage; il secondo dal 1968 al 1933 tramite il fresbee e la valigia).

Leone, come tutti i registi veramente moderni, ha la virtù di usare sempre, che lo voglia o no, una sorta di metalinguaggio, che gli consente di raccontare una storia e simultaneamente di riflettere sui modi e sui sensi del racconto, non solo per la forma del «C’era una volta»; l’America è da lui intesa nel significato sviluppato da Baudrillard: c’è chi parla di pragmatismo, chi di superficialità, in ogni caso un altro mondo, in cui la realtà è «costituita in funzione dello schermo», i cui idoli «non fanno sognare, sono il sogno».

All’epoca della sua uscita (1975), Leone apprezzò molto il film di Peter Weir Picnic ad Hanging Rock; restò colpito non solo dalla musica intensa e suggestiva del flauto di Pan – al punto da chiedere esplicitamente a Ennio Morricone l’uso di questo strumento all’interno della partitura di C’era una volta in America – ma soprattutto dal modo in cui Weir riesce a concretizzare un mistero. E la voce fuori campo di Miranda che dice: «What we are and what we seem are but a dream, a dream within a dream» («Ciò che siamo e che sembriamo non è che sogno, un sogno in un sogno») può forse aver ispirato anche il «doppio sogno» di Noodles, un sogno che «è realtà contro la vita che è apparenza», proponendosi fortemente autonomo – autonomia che la cosiddetta realtà sembra non possedere – e che rivendica all’esistenza ciò che essa crede di aver ripudiato. Non più scindibile da Noodles attraverso il risveglio, piuttosto è lui a muoversi in esso: per questo è un «sogno in un sogno».

Non c’è da stupirsi che col suo film più sofferto abbia voluto raccontare, magari credendo di parlare d’altro, quest’avventura così comune e insieme straordinaria che consiste nell’entrare in una sala dove, insieme alla luce che si spegne e alle ombre che iniziano a muoversi sullo schermo, viene a mancare la coscienza di se stessi. E come se mettendo in scena l’allucinazione, il dormiveglia, l’estasi di Noodles avesse voluto raccontare prima di tutto la nostra avventura di spettatori, di visionari fanatici, di folli sognatori. E ancora nel giusto Enzo Ungari quando scrive che «tutti i protagonisti di “sogni, incubi e risvegli” hanno in comune il fatto di assomigliarci, perché possiedono, prima ancora di una psicologia e di un comportamento, la tendenza a vedere sempre troppo o troppo poco, a essere vittima di abbagli e di visioni, fino a non distinguere più ciò che è vero da ciò che è falso».6

Quel che importa è che il film cerca di rendere ininfluente questo scarto facendo di questa «ambiguità» l’unica strada possibile per arrivare all’happy end, divaricandola fino a darle lo spessore di una voragine in cui farci sprofondare. In questo modo la nostra avventura di spettatori è raddoppiata, perché abbiamo assistito a uno spettacolo in cui l’«eroe» ha consumato, come noi, le infinite peripezie dello sguardo. E come se le cellule cerebrali del protagonista, nel letargo ovattato della fumeria, avessero elaborato un sistema di segni differenziale, nel quale lo spettatore può smarrirsi emotivamente o collegare razionalmente i fili.

C’era una volta in America è a tutti gli effetti un film fuori-tempo: pensato negli anni Settanta, realizzato negli Ottanta e apparso nelle sale cinematografiche nel periodo forse di maggior crisi del nostro cinema, proprio quando il cinema rivive nella televisione, come certe salme imbellettate di Il caro estinto. E forse proprio una specie di «last picture show» apparso in un’epoca in cui il pubblico del cinema non riusciva più a sognare, lontano dal punto nevralgico del passato consumo onirico collettivo e irretito da scarti visuali e mentali offerti in grande copia dalla televisione, da spettacoli tristemente videografati per un pubblico «brain-washed» proprio da questo mezzo.

Pietro Pintus non a caso scriveva (a proposito di una lista di «film dell’anno» proposta da «Paese Sera»): «Metterei da parte per il momento C’era una volta in America, film-monstre, la lunga rincorsa di un sogno alfine concretizzatosi: Leone avrebbe potuto farlo cinque anni fa, o aspettare altri dieci, è un unicum non rapportabile a niente».7 Molto prima di commemorare con un ultimo valzer (ma Amapola suonata dall’orchestra a Long Island è esattamente un valzer?) la danza delle ombre a ventiquattro fotogrammi al secondo, Leone ha parteggiato (e, considerata la sua formazione, non poteva essere altrimenti) per lo spettatore classico, ovvero quello spettatore che si abbandona al sogno del cinema, sapendo che alla fine avrà un dolce risveglio. L’azione del guardare, che nella vita gli dà la distanza del protagonista, qui lo avvicina fino a farlo diventare il protagonista. Il sorriso finale di Noodles ha con evidenza un valore anche speculativo, riflettente: l’abbandono a questo sguardo, il movimento con cui diventa il nostro, non sono ancora il sogno, ma già il distacco dalla veglia, la preparazione a uscire da noi stessi. Il piacere che ha disposto anche la nostra bocca al sorriso è quello di essersi persi, di ritrovare alfine la coscienza di essere entrati nel sogno di un altro grazie a un movimento collettivo. Sublimazione del punto di vista in quanto, come è evidente, l’occhio del protagonista coincide con (o guida) l’occhio dello spettatore… Ma andiamo oltre.

Quello che possiamo considerare un flashback, cioè un segmento della narrazione «sempre dotato di un valore di verità certa»8 in quanto attribuibile all’istanza narrante, all’autore, perde in C’era una volta in America gran parte della sua credibilità, perché «un personaggio può nascondere qualcosa a un altro personaggio»:9 Noodles potrebbe ricordare, mentire a se stesso, come allo spettatore, essere preda di allucinazioni da fumo. Ecco perché in questo film il flashback è affidato al potere «realizzante» delle immagini: ponendoci di fronte a un fatto di cui immediatamente non possiamo dubitare (narrativamente s’intende), esso prima impone l’ottica attraverso la quale osservare, vivere e interpretare gli eventi dell’intera vicenda e poi, grazie a un flashforward finale incrociato, la ribalta. Questo giocare con il senso differenziato dello spettatore (più o meno smaliziato, più o meno colto), questo sollecitare la sua funzione fruitiva è in C’era una volta in America un invito a interpretare (arbitrariamente) segni e simboli (persino numerici: alcuni hanno visto nel numero 35 leggibile sul camion della spazzatura che appare nel viale di villa Bailey un’allusione all’età di Noodles, fermo nel 1933), a completare i suggerimenti delle immagini. Il film ha di fatto un andamento ellittico di una serie di sequenze che pare non si avvicinino mai, volutamente, a un centro, presentando e sconfessando immediatamente dopo persino il mitico momento della rivelazione.

Molti, fra critici e spettatori, hanno trovato «inverosimile» il fatto che Noodles rivedesse Deborah giovane quasi come l’abbiamo lasciata negli anni Trenta, che lei nel frattempo avesse avuto un figlio da Max, che detto figlio avesse le stesse sembianze di Max ragazzo, che nel camion della spazzatura all’esterno di villa Bailey non ci fossero tracce di sangue. Tutti motivi questi per non alimentare le tesi «realiste», che fra l’altro lo stesso Leone maliziosamente ha tentato di mantenere «possibili», salvo poi sconfessarle con le sue successive dichiarazioni sul film. Ma come spiegare in termini diegetici la sequenza in cui Noodles, uscendo da villa Bailey, incontra macchine d’epoca e riascolta nel buio le note di God Bless America, prima di ritrovarsi ancora nella fumeria d’oppio? Come giustificare il fatto che il camion tritarifiuti macina soltanto verdure e non anche il corpo del senatore? Tutto qui ha la logica del sogno.

Non tanto le scansioni narrative, quanto ciò che imposta l’intera avventura del protagonista: il rimorso traumatico di aver tradito. Il futuro di Noodles non è altro che la sua proiezione di desideri sotto l’effetto dell’oppio: la valigia, il nuovo incarico, il rifiuto dell’«ultimo contratto» non sono mai esistiti. Noodles si addormenta narrando a se stesso il futuro sovradimensionato che egli stesso si è creato: quasi una nenia cantata in tralice a un io in procinto di abbandonarsi al vortice dell’oppio. Nonostante tutto, egli non è mai uscito dal 1933; nonostante tutto, deve accettare le leggi del melò. In omaggio alla convenzione più vieta del caramelloso cine-romanzo sentimentale della sua epoca, rivede la sua donna, ritrova il suo più caro amico/nemico per alimentare il desiderio della sua nemesi, viene invischiato in una sorta di mystery che egli stesso paradossalmente ha il compito di creare e risolvere.

Ed è proprio attraverso gli stessi personaggi «invecchiati» in modo più o meno credibile dall’immaginazione del protagonista che ci giungono, talora come accidentalmente, gli sviluppi della storia, con sorprese e coup de théâtre. Un uso spregiudicato e anticonvenzionale cui Leone sottopone il materiale da feuilleton, supporto indispensabile da aggiungere alla saga descritta da Grey: un «futuro» melodrammatico in linea con l’adolescenza, l’affermazione e il crollo di un piccolo gangster, sedotto dalla letteratura e dal cinema di genere.

La dimensione onirica è fortemente marcata sin dall’inizio con una procedura per sottrazione che è totalmente diversa da quella di solito in uso. Nulla è irreale, ma al contempo tutto lo è: la voce, probabilmente proveniente da una radio, di Kate Smith che intona God Bless America, il rumore di passi nel buio, la luce di una lampada che accende anche lo schermo, la brusca irruzione di segni di violenza… L’attesa è costruita.

Fin dall’inizio «ciò che sembra non è», la fumeria d’oppio nel teatro delle ombre è una rivelazione dell’illusione, un balzo in una specie di «interzona». C’era una volta in America è quasi una messa in scena della Rappresentazione filmica, un’oscillazione tematizzata nella sua portata dialettica tra illusione e «realtà». Pensiamo, per esempio, alla scena madre dell’incontro fra Noodles e Deborah nel camerino del teatro. Nulla è «credibile» in quell’incontro, dal volto dell’attrice all’apparizione, quasi spettrale (o shakespeariana, si licet), di un figlio con il nome del protagonista e le sembianze dell’antagonista. E notorio: i teatranti vivono nell’illusione e per l’illusione, la loro realtà è quella del palcoscenico, unico luogo in cui sono «veri». Leone, con un coup de théâtre ulteriore, rafforza la suggestione e fa «resuscitare» addirittura il personaggio che garantisce il redde rationem al protagonista, quasi come Louis Malle in Viva Maria mediante l’illusionista prestigiatore fa risuscitare la colomba colpita dal peone durante lo spettacolo; questo momento è una chiara affermazione del potere dell’illusione, una tematizzazione del luogo in cui rappresentazione e vita si incontrano (lo studio del senatore Bailey è manifestamente una ricostruzione in teatro).

Il film non segue affatto il romanzo, neanche nello spirito e nel tono.

Il romanzo mescola alla quotidianità ripetitiva alcune tracce di cattiva letteratura (che esalta la virtù macho della sottocultura gangster) e memorie di cinema.

Il film disinnesca repentinamente l’effetto «autobiografico» e preferisce puntare su un tempo sospeso, laddove quello del romanzo è invece ciclico. L’informazione narrativa sembra così risucchiata dentro un vortice, assorbita, senza che si possa tirarne le somme.

C’era una volta in America è un continuo riferimento ai film del passato. Le citazioni sono molte: c’è la vita dei bassifondi americani ispirata al noir fastoso erotico spietato dei boy-hood conspirators (The salvation Hunters, Underworld/Sternberg), l’esaltazione dell’amicizia virile (A Girl in Every Port, The Big Sky/Hawks), il mito di un’attrice (Lola Montès/Ophuls)… Finanche la ballerina che prova da sola i suoi passi può essere un personaggio chapliniano mentre, come in Quarto potere, l’amicizia si rivela un inganno, l’adolescenza un sogno.

Ma non è soltanto un gesto di adesione e di omaggio al grande cinema americano quello di Leone; vorrei vederci, senza esagerare, persino allusioni indirette, ma importanti, alla struttura e all’impianto metacinematografico dell’insieme. Quale esperienza, infatti, può considerarsi più forte di quella di sognare, di inverare l’amore o il cinema stesso, dai primordi delle ombre cinesi all’epos essenzializzato dei generi?

Il film comincia con l’immagine del protagonista fissata in uno spazio fotografico (una cornice il cui vetro è destinato a infrangersi) e finisce con una sua immagine (velata) in stop frame a significare un tempo «immobilizzato» di cui non si ha piena coscienza. Da una parte, quindi, c’è il tempo «presente» rappresentato dal 1933, dall’altra un tempo «passato-futuro» (rimesso in moto simbolicamente anche da Fat Moe che ricarica la pendola, quasi a voler «ricaricare» una memoria, già peraltro attivata) che, al protagonista e allo spettatore, non appare meno «reale». Per segnalare questi scarti di memoria, di finzioni mnemoniche del soggetto, l’ingresso di sequenze oniriche, il cinema tradizionale è ricorso a mezzi piuttosto rozzi, quali il flou, l’immagine traballante o saturata da un solo colore. Lo stesso Leone in Per qualche dollaro in più li ha adoperati. Il fatto più affascinante (e forse anche quello che ha determinato il maggiore sconcerto nelle sneak previews americane e tra gli spettatori «realisti») è che in C’era una volta in America l’«immagine menzognera» non differisce in nulla dall’immagine «assertiva»: sarà soltanto il contesto dell’ultima scena a segnalarla allo spettatore come tale e a escluderla dalla verità della finzione. Leone avrebbe voluto che fosse lo spettatore a stabilire il livello di «verità» dell’immagine, a decidere di dare il proprio assenso sulla base di indizi raccolti in un modo piuttosto che in un altro, come a dire: «Dovrebb’essere sempre e solo un patto con lo spettatore a stabilire la veridicità delle immagini».

Riprendendo una celebre frase di Duchamp, il rigore nella composizione non impedisce allo spettatore di fare il quadro. E uno dei modi che il film ha di essere aperto. C’era una volta in America profila una «terza visione»: quella delle parentesi mai chiuse, visione utopica, generosa, che presuppone uno spettatore mobile, plurale, che mette e leva le virgolette in maniera svelta: che si mette a pensare con il regista.

Forse nessun cineasta con ambizioni di comunicazioni popolari ha mantenuto un tale numero di livelli stratificati l’uno sull’altro.
Motion (movimento) ed Emotion (emozione) e il loro rapporto sono così un altro tema di C’era una volta in America.

Nel primo montaggio l’inizio del film era ancora il teatro delle ombre: la figura di un sinistro e gigantesco pipistrello oscurava lo schermo e poi compariva il titolo. Leone ritenne troppo esplicito il rimando alla circolarità dell’insieme e decise di cambiare l’incipit, innestando la sequenza della morte di Ève: dove c’è mistero ci deve essere una rimessa in discussione della realtà; se non si procede in questo modo non si potrà avere spiegazione. Il teatro cinese delle ombre appare subito dopo ed è evidentemente uno spazio nascosto, spazio interiorizzato, intuito, spazio tabù, il luogo sacro che rappresenta cose che esistono ed esisteranno al di fuori di quello spazio e di quel tempo, il luogo dove Noodles ricerca se stesso e i gangster ricercano lui: lì si assiste a una rappresentazione, anzi a una re-présentation (che può significare «rappresentazione», ma anche «ri-presentazione»).

Non è un caso che la prima immagine che lo spettatore vedrà di Noodles anziano è un riflesso allo specchio, un’immagine di conseguenza «non vera». Il tempo nella concezione leoniana è insomma rovesciabile, artificiale, aperto, duttile alla volontà del soggetto. Noodles vuole rivedere Deborah, vuole che il figlio del suo amico porti il suo nome, vuole che in quella valigia non ci siano giornali, che Max non sia morto e gli offra il confronto definitivo: non è un caso neanche che al «Fat Moe’s» la prima porta dei ricordi sia murata. La vera sfida di Leone è stata quella di mostrare che non solo la successione degli avvenimenti poteva essere sovvertita, ma anche la irreversibilità di questi: non è certamente vero che Max sia morto bruciato sulla strada, non è certamente vero che Deborah viva con il senatore Bailey e così via… In fondo Leone (è un’osservazione che devo a un’analisi acuta sul film di Enrico Ghezzi10) non ha fatto altro che «mettere in scena la “grande truffa” che è il cinema, cioè l’apparire quando si crede di vivere». Noodles/De Niro torna indietro «dove già è» per sognare il futuro del suo desiderio, rivivere, con la volontà dei suoi desideri, nuovi incontri, nuove opportunità, nuove rivalse.

L’apparenza nasconde una forma diversa, ciò che a un primo sguardo è semplice, risulta in realtà complesso. In C’era una volta in America, al contrario, il sogno – ciò che normalmente consideriamo di difficile decifrazione e oscuro frammentario – è penetrabile e comprensibile: è in questo «miraggio» che si rivela la realtà, salvo poi nuovamente sconfessarla e farla apparire come un’invenzione fantasiosa del protagonista.

Così, alla magia del tempo dimenticato si contrappone quella di un tempo «esteso», un tempo che invece di essere flusso è compresenza e tende a configurarsi come tempo mitico.

Le ultime battute sparate fra Max e Noodles sono, e diventano di fatto, l’ultimo dialogo possibile che Leone può concepire sul tema del confronto tra uomini di «una razza antica», dialogo che riapre per l’ultima volta il teatro delle ombre, ove si è materializzata da sempre una sola rappresentazione: la lotta simbolica tra Rama e Ravana, tra il Bene e il Male. Il gesto e la sua negazione – a questo punto «sognati» da Noodles – di respingere una vendetta «fisica» divengono sinonimi del mezzo tecnico che si rifiuta di inquadrarne l’assenza, come il compiersi. Perché? Perché sia l’una che l’altra tesi conclusiva hanno ormai perso qualunque correlato di ipotesi, si è tentati di rispondere. Non esistendo più motivazioni in contrasto anche l’artificio della conclusione aperta è destinato a cadere nel «gorgo fisso» di una memoria «satisfattiva» capace di inventarsi il più giusto tra i finali possibili di una vita e, di riflesso, di un film. Se ha ragione Todorov riguardo al fatto che «il fantastico dura soltanto il tempo di una esitazione»,11 occorre uno sforzo considerevole, da parte del soggetto, per attivare le sue «zone di non consapevolezza», praticando una sorta di «persuasione» verso se stesso.

Lo sforzo frustrante di protrarre il tempo dell’infanzia attraverso la sua proiezione, di lottare contro la sua fine, si è già manifestato nel primo atto (C’era una volta il West) della seconda trilogia, come lotta ossessiva contro la fine di tutto, ma la morte, la fine della fine, per Leone significa innanzitutto fine dell’infanzia.

La ribellione di Noodles alla fine dell’infanzia sfocia nella completa alterazione della realtà, nella sua dimensione più provvisoria.

Contro l’ineluttabile trascorrere del tempo non gli rimane che una vita fatta di provvisorietà, caso, azzardo, rimorso, memoria, premonizione. E un ottundimento freddo e regressivo degli slanci vitali caratterizza la vecchiaia di tutti i personaggi che sopravvivono (Noodles stesso, Deborah, Max, Fat Moe, Carol, Jimmy Conway…) e li richiama dall’oblio, ricoprendoli di minacciosa e insinuante polvere del tempo che, come neve acida, li incipria e li ricopre silenziosamente, quasi a cancellare loro il passato, la capacità di sentirsi vivi. La macchina da presa nel finale inquadra Noodles ormai fermo, si avvicina sino a riprenderlo in primo piano. Sul primo piano attonito, poi estatico dell’uomo si arresta, fissando a lungo il suo sorriso beato che invade lo schermo per interrogare gli spettatori. Giunto finalmente nel luogo in cui il suo sogno utopico di libertà (l’America) avrebbe dovuto realizzarsi, Noodles si rende conto della sua illusorietà e lo dimostra. La ricerca della libertà si trasforma ancora una volta nel suo contrario, lo spazio chiuso della coercizione, in una dialettica infinita.

Da un punto di vista tecnico C’era una volta in America offre una gamma vastissima di movimenti: sono frequenti i piani che funzionano come agganciamento di volumi-colori-materiali sonori (si pensi soltanto alla scena della telefonata di cui non sappiamo nulla, che irrompe con i suoi interminabili squilli e che, soltanto alla fine, capiremo essere il «motore» del film) e anche le inquadrature brevi, in un montaggio che diviene improvvisamente da montaggio delle attrazioni a montaggio costruttivo, in un’instancabilità di visione che ingloba, che arriva quasi a soffocare, mettere in crisi il piano dell’azione. Si verifica a un certo punto (quando Noodles si reca alla stazione di Coney Island) un’ulteriore «perdita di orizzonte» e linea di fuga, che contrae lo spazio in un nuovo luogo simbolico (tra le diverse iscrizioni si staglia in nero quella di una «Fatalist Supreme»…), «alternativo» al teatro delle ombre, in cui la dialettica esterno/in terno, passato/futuro ritorna ancora su se stessa, come il movimento del protagonista.

A eccezione della sequenza del Pesach ebraico, della ripresa notturna accanto allo speakeasy o di quella a Long Island, il film non conosce quasi campi totali o inquadrature di respiro, se non subito negate da movimenti di macchina che «chiudono l’orizzonte» (si pensi solo al dolly sulla cabina telefonica accanto al «Fat Moe’s») e cercano di dimostrare anche mediante la meccanicità del mezzo che «la narrazione, nel cinema, è come l’immaginario: una conseguenza molto indiretta che discende dal movimento e dal tempo, non l’inverso».12

C’era una volta in America è certo, ancora, un film sulla nostalgia, ma senza il sapore agrodolce di tutti gli altri e, pur non rinunciando mai a restituire direttamente allo spettatore attraverso espedienti consolidati (ritorni musicali, uso del ralenti..) le emozioni vissute dal protagonista (per esempio, le scene dell’incontro fra Noodles e Deborah a Long Island, oppure della morte di Dominic) riesce, proprio grazie alla sua logica di rappresentazione di per sé scissa, molteplice, «falsificante» a chiuderle come «scene madri» senza trascinarne oltre il pathos; inoltre, l’oscillare dei due personaggi Noodles e Max nei ruoli di «protagonista-antagonista», il loro essere intercambiabilmente positivi/negativi, simpatici/antipatici è come se desse di continuo allo spettatore la sensazione di uno sbandamento programmato.

Leone trascina così lo spettatore nel suo wonderland personale e lo fa specchiare nelle immagini di uno schermo perduto, come a dire: «Una pellicola non è mai “sola”, ma sempre e comunque collegata alla memoria centrale del cinema». E c’è un certo iniziale distacco in questo «tour» attraverso il cinema dove il regista gioca con le ombre del crime movie. Ovvero: cosa c’è in quella valigia misteriosa di cui Noodles recupera la chiave: giornali, dollari?… C’è un «MacGuffin»,13 ovvero non c’è niente, è il pretesto per trascinare nei sotterranei dell’immaginazione l’occhio dello spettatore. Leone sottopone i suoi eroi e il pubblico a torture impreviste. Li copre di sangue e di malinconie. E non consola nessuno dei due, regalando a entrambi un enigmatico finale. Niente lacrime, sembra dire il regista, ma intensa perquisizione nelle illusioni del «sogno americano»: «C’era un sogno trent’anni fa, ma purtroppo non era quello giusto».

Si è tanto scritto a proposito della sequenza dello «stupro»: mi sorprende che mai nessuno abbia colto il valore simbolico di «stupro» nei confronti del «sogno americano», peraltro paradossalmente ribaltato dalla stessa America nei confronti del film stesso e di Leone.

Verso la fine degli anni Settanta e anche nei primi anni Ottanta la rivisitazione di generi cinematografici era tutta in funzione di una nuova demistificazione del «mito americano»: una rivisitazione resa più esplicita proprio dalla differenza generazionale dei protagonisti che la misero in scena, determinando la compresenza dell’ieri e dell’oggi, del mito e della sua distruzione, dell’eroismo e della sua inutilità. Si potrebbe addirittura parlare di un genere (anti-eroi come protagonisti, dialogo sintetico e allusivo, ironia amara, frammentazione del linguaggio ecc.) e, soprattutto, della frequente presenza di una doppia fila di rimandi al nuovo e al vecchio genere; si arriva cioè a Scarface passando attraverso The Godfather. Diverso è il caso di Leone, che anche anagraficamente appartiene a una generazione che ha realmente vissuto quel tipo di approccio «idealizzato» verso il cinema statunitense e che nel realizzare un film sul genere dei generi, ossia il «metacinema», non cerca la demistificazione, ma la rivisitazione personale sotto forma di compendio del «mito americano» pur adoperando, in maniera «giovanile», modelli narrativi tipici della tendenza in auge negli anni Settanta e pur giungendo a conclusioni non troppo dissimili in quanto a «disillusione». Infatti in Leone (e questo fin da Per un pugno di dollari) la nostalgia per il mito non si trasforma mai in credenza, in una reale, anche se passata, corrispondenza tra questo e la re. alta americana, anzi, il suo sguardo al cinema del passato (e all’America) è sempre finalizzato alla negazione di tale illusoria corrispondenza.

Negli anni Ottanta si afferma un cinema manierista e ossessivo, i cui registi-cardine sono De Palma, Jarmusch, Coppola, Cimino, Lynch, Wenders (Paris, Texas, soprattutto, riconosciuto come grande film sulla «crisi dello sguardo»): è un’epoca in cui l’autoriflessività è una riprova d’autore. Accanto a questo si propaga un’onda di infantilismo senza barriere, che Leone, proprio in un’intervista televisiva raccolta in occasione dei «novant’anni del cinema», dichiara di non amare molto: Goonies, Cocoons, Explorers, Gremlins, Extraterrestri, figure tutte che per lui riducono il cinema a un grande giocattolo privo di senso, una macchina per alimentare l’industria dei popcorn.
C’era una volta in America è un film che paradossalmente non ha avuto e non ha un suo tempo storico ed è anche un esempio ideale di «opera aperta».14 Per questo appare emblematica l’azione di «rimontaggio» americana.

A differenza di ciò che accadde al Gattopardo di Visconti, ove i tagli (richiesti dalla Fox) per la versione destinata al mercato statunitense avvennero sulla convinzione che «le scene che più contavano mancavano di significato»,15 per C’era una volta in America il problema non era relativo a rallentamenti dell’azione, ma all’azione stessa considerata diacronicamente dal regista; per cui, l’intervento di forbici poteva riguardare una sequenza piuttosto che un’altra: l’importante era per la Ladd Company ridare un ordine, un senso «logico», «realistico», alla vita di Noodles, dall’adolescenza sino alla vecchiaia. Fra l’estetica dello Studio (o meglio fra la sua esigenza di rendere il film «fruibile» per le masse americane) e quella di Leone, fra queste due diverse concezioni del cinema, non c’era possibilità d’intesa.

La Ladd Company, dopo l’accoglienza di Cannes, non era convinta di fare un film migliore di quello che Leone aveva girato, ma almeno uno con cui il pubblico americano avrebbe potuto sentirsi più a proprio agio. Per costoro il significato stava nella successione logica degli eventi, il cui progredire è di per sé una spiegazione, perché si presenta come una catena di cause e di effetti. Ciò avrebbe fatto capire agli spettatori il perché delle azioni e questo li avrebbe tranquillizzati. Sbagliavano.
Forse, all’epoca, anche la versione integrale del regista sarebbe stata in America un insuccesso nelle sale: la struttura dell’industria e i gusti degli spettatori non erano ancora sufficientemente pronti a intendere la «Recherche» di Leone come un sogno «d’autore e d’amore» per il loro cinema. Il cinema europeo per gli americani è restato un cinema d’elite: tre anni dopo, nonostante i nove Oscar, neanche L’ultimo imperatore di Bernardo Bertolucci ha riscosso il grande successo di pubblico che detti premi istituzionali avrebbero dovuto garantire.

Il secondo paradosso è che il film di Leone, nonostante tutto, si è rivelato nella realtà delle cose un’opera fondamentale nel disegnare, nell’anticipare, la linea entro la quale il cinema postmoderno e «neo-barocco» del decennio successivo ha poi trovato una sua identità.

La logica dominante del racconto cinematografico degli anni Novanta è stata quella del frammento o, meglio, dell’accumulazione di frammenti in cui sarebbe inutile ricercare un principio ordinatore. L’idea dominante del postmoderno è che esistono infiniti ordini possibili e ciò che possiamo raccontare non è la realtà o la verità, ma solo dei frammenti di verità che si contraddicono e si negano reciprocamente.

E le caratteristiche salienti del cinema postmoderno sono state proprio l’autorefenzialità, il gusto della citazione, l’evidente contaminazione tra i generi, così come quelle del «neobarocco» l’ambiguità dell’io narrante – con conseguenziale inaffidabilità delle informazioni prodotte -, il decentramento del senso e la proliferazione di punti di vista parziali (I soliti sospetti di Bryan Singer è il titolo più emblematico di questa tendenza), l’ipertrofia dell’intreccio, la tendenza alla destrutturazione del racconto (Pulp Fiction su tutti), la commistione di generi, l’ostentazione del «meraviglioso» e/o del «poetico» (ossia costringere lo spettatore a una reazione emotiva mediante l’uso di un accorgimento «tecnico»; es.: un ralenti, uno «spostamento» del sonoro ecc.). Nel cinema Usa degli anni Novanta c’è stata una vera e propria svolta neobarocca: si pensi a titoli quali Dracula di Coppola, Casinò di Scorsese, Natural Born Killers di Stone… Questa svolta ha avuto due conseguenze: da una parte un’evoluzione della figura dello spettatore, non più collegato a un ruolo meramente passivo e infantile; dall’altra, una «deriva del racconto» verso forme più complesse e ipertrofiche, in cui non si teme di rivelare l’artificiosità della narrazione cinematografica.

Il cinema costruisce prima le apparenze e poi le svela. C’era una volta in America ha sviluppato questa contraddizione, ponendosi nel segno della contestazione delle convenzioni del racconto, mettendo continuamente in rapporto inquadrature d’insieme a serrati primi piani, la luce alla notte, gli interni agli esterni, insomma ancora l’artificiale a un reale comunque rigorosamente «truccato»: Noodles ha elaborato e vissuto, con l’aiuto dell’oppio, il percorso iniziatico dell’excessus mentis, ma l’aspetto «mistico», in grado di rivelare (nel senso di scoprire) l’essenza delle cose, è sparito per la frapposizione di uno schermo/velo capace di coprire tanto il nulla, quanto la perfetta pienezza.

C’era una volta in America ci ha mostrato il cinema non più «luogo dello spettacolo», ma spettacolo del luogo, proprio come in un quadro di Edward Hopper. Per questo è un film d’una maturità intellettuale e di una maestria tecnica esemplari. Un film da cui si esce commossi, turbati. In breve, un capolavoro, parola avvilente, ma per una volta esatta. E il ritratto frantumato di un mito che parla di distruzioni e future ricomposizioni, della «verità vera» di Leone più «falsa del falso», una storia irreale che ha narrato di sogni inquieti, di cinema come rifrazione del mondo e sua interpretazione, è forse la nostra storia, fatta di memorie e premonizioni, proiettata nel buio di una piccola sala con le sedie di legno. E tutto ciò a costo di far apparire il risultato come «inverosimile ed eccessivo», proprio quello che Leone voleva ottenere: la messa in scena (certo, eccessiva) senza analizzarla, senza disperderla, del cinema stesso come mitologia d’immagini.

Note:

1. H. Grey, cit., p. 162.

2. Ibid., p. 413.

3. Ibid, p. 144.

4. E. Ungari, Proiezioni private, cit., p. 162.

5. Roberto Nepoti, in «Segnocinema», n. 36, gennaio 1989, pp. 17-18.

6. E. Ungari, cit., p. 116.

7. P. Pintus, in «Cinemasessanta», n. 1, anno XXVI, gennaio-febbraio 1985, p. 21.

8. M. Vernet, Flash-back, in AA.VV., Lectures du film, Albatros, Paris, 1975, ed. it. a cura di A. Costa, Attraverso il cinema, Longanesi, Milano 1978, p. 78.

9. Ibid, p. 78.

10. E. Ghezzi in occasione di un convegno sul film, tenutosi a Roma il 30 novembre 1988.

11. S. Todorov, La letteratura fantastica, Garzanti, Milano 1977, p. 170.

12. G. Deleuze, intervista di G. Cabasso e F. Revault d’Alonnes, tr. it. Di Michele Canosa, in «Cinema&Cinema», n. 45, Edizioni Intrapresa, Milano 1986, p. 2.

13. Il «MacGuffin», termine che Hitchcock prese in prestito da Kipling, è qualcosa di fondamentale per i protagonisti della storia, ma abbastanza irrilevante per il narratore e lo spettatore: un documento segreto, una scorta di uranio, cose che in sé per sé non ci interessano, ma che sono catalizzatrici dell’azione.

14. Cfr. U. Eco, Opera aperta, Bompiani, Milano 1976, p. 16: «Un messaggio fondamentalmente ambiguo, una pluralità di significati che convivono in un solo significante».

15. Cfr. Il Gattopardo, a cura di L. Micciché, Electa Napoli, Napoli 1996, p. 218: «Per la Fox non era una perdita tagliare ciò che considerava insignificante dal punto di vista narrativo. Anzi le sembrò probabilmente che il film ne guadagnasse considerevolmente».

FONTE: Marcello Garofalo, Tutto il cinema di Sergio Leone, pp. 386-414

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