Un film americano sulla guerra del Vietnam
di Aggeo Savioli
Un fantasma si aggira sugli schermi cinematografici italiani: il fantasma dell’anticomunismo viscerale, del razzismo più bieco — quello che accomunava interi popoli e grandi civiltà sotto lo sprezzante appellativo di «musi gialli» — dell’odio zoologico per i «diversi». È il fantasma di un’America orgogliosa e paga di se stessa, incapace d’un briciolo di autocritica, chiusa a ogni apertura e comprensione verso quanti non abbiano l’inaudita fortuna d’esser cittadini della Repubblica stellata.
Parliamo del Cacciatore (Il cacciatore di cervi, nell’originale), il film di Michael Cimino che ora comincia a circolare Ha noi dopo esser stato al centro, prima a Belgrado e poi a Berlino ovest, delle note polemiche, cui è seguito, in particolare, l’abbandono del Festival cinematografico, in corso nel settore occidentale della città tedesca, da parte delle delegazioni di cinque paesi socialisti, a cominciare dall’URSS. Si può discutere dell’opportunità di un tale gesto. Ciò non toglie che Il cacciatore possa far trasecolare — usiamo di proposito un eufemismo — chiunque abbia memoria degli spaventosi lutti e sofferenze provocati dall’aggressione americana al Vietnam.
Il cuore del lungometraggio di Michael Cimino (tre ore di proiezione) è costituito, invero, dallo spettacolo di atrocità senza nome: donne e bambini massacrati a colpi di bombe nel sotterraneo dove hanno trovato rifugio, prigionieri tenuti dentro gabbie per animali, immersi in acque putride percorse da topi feroci, seviziati moralmente e materialmente, obbligati a uccidersi con le loro stesse mani. C’è persino, ricalcata quasi al millimetro, la celebre tremenda foto del capo della polizia di Saigon che punta la pistola alla tempia della sua vittima inerme e spara.
Solo che tutto questo è mostrato a ruoli rovesciati: a commettere quelle infamie non sono, come tanto a lungo ed esaurientemente si documentò all’epoca, gli invasori e i loro manutengoli, ma i partigiani del Fronte di liberazione vietnamita. Si aggiunga che costoro praticano sulla pelle dei nemici catturati, sotto il benevolo sguardo d’un ritratto di Ho Chi Minh, il sadico sport della roulette russa, maneggiando bigliettoni di banca come gangster in una qualche bisca di Chicago.
Del resto, non è che i sud-vietnamiti di Van Thieu siano visti con molta maggior simpatia: sono brutti e torvi e Saigon è una città perversa, dove i poveri «berretti verdi» vengono intrappolati da gente sinistra e costretti ancora a sanguinosi giochi d’azzardo. E chi sono i loro sfruttatori? Di nuovo vietnamiti, e cinesi, e — unico «bianco» — un anziano residente francese…
Potremmo continuare, ma pensiamo che l’esemplificazione sia bastevole. Eppure, ciò che forse impressiona di più non è tanto la spudorata mistificazione degli eventi della guerra americana nel Sud Est asiatico, quanto il pesante velo steso sul dramma vissuto, allora, all’interno stesso degli Stati Uniti. Tutto si riduce a una sbrigativa allusione finale a uno «scontro di opinioni». All’anima dello scontro. Ci furono manifestazioni di massa, e forme esasperate di protesta, e repressioni cruente, e giovani trucidati dentro le Università, e diserzioni: una crisi profonda che scosse gli USA, e la cui eco pensavamo non si fosse del tutto spenta.
Qui è il punto: il successo che Il cacciatore ha già ottenuto in patria, i consensi e i premi della critica, le nove candidature agli Oscar (gli Oscar sono quel che sono, però esprimono in qualche modo gli orientamenti non solo dell’industria, ma anche degli intellettuali che lavorano a Hollywood) costituiscono un sintomo grave. Chi non ricorda il proprio passato è costretto a riviverlo, ha scritto qualcuno. Certo, il confronto bellico in atto tra Cina e Vietnam offre un’occasione cupamente propizia alla sortita del Cacciatore. Ma, se sappiamo quanto complesso e arduo sia l’intreccio dei problemi in quella zona decisiva della comunità umana, ci rendiamo ben conto di come gli aggressori di ieri non possano, oggi, che fregarsi le mani e soffiare sul fuoco.
l’Unità, 28/02/1979